Il poema sacro [Luigi Pietrobono]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Luigi Pietrobono

Tratto da: Il poema sacro

Editore: Zanichelli, Bologna

Anno: 1925

Pagine: 3-11

1. Sezione I

Posto che il Messia non fosse venuto, o, come qualcuno ritiene, fosse sempre di là da venire, che valore si darebbe alle profezie che lo annunziavano vicino? Non ci può cader dubbio: quelle che godessero per se medesime un titolo alla nostra ammirazione, come opera d’arte, si seguiterebbe a leggerle, qualche importanza attribuendo al loro contenuto e nessuna al fine per il quale furono scritte; delle altre si lascerebbe volentieri lo studio ai ricercatori di quel fenomeno storico che, originato dall’idea messianica, qual faro, ora più e ora meno luminoso, riapparve lungo le età più grame a risollevare le speranze di questa o di quella generazione. Orbene, il medesimo, no, chè non sarebbe stato possibile, data la intonazione apertamente allegorica e la grandezza straordinaria dell’opera; ma qualcosa di simile è accaduto rispetto alla Divina Commedia.
Nella sua intelaiatura essa non è che una grande profezia, e il pensiero che la domina da un capo all’ altro si assomma in un essere misterioso, il Veltro, che, non essendosi risoluto mai a diventar persona, è rimasto lì, in un cantuccio del prologo, come un nome vano senza soggetto, residuo d’ un sogno, nato vissuto e morto nel pensiero di Dante. Faremo una colpa agli interpreti, se non se ne sono occupati, non dirò quanto bisognava, perché la letteratura accumulata su quel semplice accenno è veramente strabocchevole, ma se non se ne sono occupati, come si richiedeva? Con quell’ annunzio Dante professava la sua fede incrollabile in un prossimo rinnovamento della società, e a questo consacrava tutto l’ardore del suo sentimento e tutta la potenza dell’ingegno miracoloso. Ma l’ideale che per lui costituiva la parte più importante ed era l’anima dell’opera, per la forza stessa degli avvenimenti passò in seconda linea, e l'interesse dei chiosatori si volse a rintracciare chi mai si nascondesse sotto quel nome; e chi credette di ravvisarvi un papa, chi un imperatore, chi Cangrande e chi Uguccione della Faggiuola, chi un eretico e chi Dante stesso, chi perfino Garibaldi o Vittorio Emanuele II. Quel Veltro, che per lui significava liberazione e risorgimento da ogni schiavitù morale politica e religiosa, si tramutò per molti in una curiosità, in un indovinello. E così, tra il pullulare di tante ipotesi, destinate l’una a far dimenticar l’altra, via via che la speranza di giungere alla scoperta veniva a mancare e il ridicolo cresceva sullo sconsigliato, cui fosse incolta la malinconia di ritentarne la prova, il Veltro, senza sua colpa, usciva dal pensiero dei critici più autorevoli per appartarsi nel mondo delle utopie. Insistere su di esso, ingegnarsi di ritoglierlo dall’ ombra grave, in cui i fatti lo avevano oramai relegato, equivaleva a sciupare tempo e ingegno nel dar rilievo a un’idea, che non aveva mai accennato seriamente a tradursi nella realtà. Il significato bello grande e generoso che Dante gli aveva dato, nessuno lo avvertiva più; onde bi- sogna convenire che gli studiosi più seri avevano ragioni da vendere a non occuparsene. Molto me- glio, se adoratori della bellezza, lasciarsi trasportare dal canto del Poeta in mezzo a quel mondo così vario, così ricco e potente; e se curiosi di significati reconditi, aggirarsi a loro talento per un campo, a cui nessuno ancora sembra sia riuscito a segnare i confini. Moralisti e teologi, poeti e filologi, politicanti e mistici, a tutti era offerta materia per secondare le loro inclinazioni e appagare i loro gusti, senza impacciarsi più oltre del Veltro. Di lui pareva si potesse e dovesse far a meno: nessuno più l’aspettava. Se altri aveva in animo di diventar migliore e ripetere con Dante il processo della vita «di malo in bono e di bono in ottimo»,1 costui conveniva si rassegnasse a contar solo sulle proprie forze. La lupa bisognava ricacciarla nell’ Inferno ognuno da sè.

2. Sezione II

Ma il fallimento completo della profezia del Veltro non è la sola ragione per la quale il pensiero ultimo della Commedia ha indugiato tanto a rivelarsi. Gli anni non sono passati invano su essa, come, per certo riguardo, è lecito affermare dell’Iliade, per esempio, e dell’Odissea. Il lettore che si ponesse in mente di scoprire ne’ poemi omerici un pensiero nascosto, un senso morale o religioso, diverso da quello che scaturisce immediato dalla parola pura e semplice, provocherebbe le risa. L’antico aedo non sapeva nulla dei significati molteplici secondo i quali le scritture «si possono intendere e debbonsi sporre»;2 ma ben se n’intendeva Dante. Dante n’era maestro. E chi si proponga d’ illustrare il suo poema, contento al senso letterale, che pure «dee andare innanzi, siccome quello nella cui sentenza gli altri sono inchiusi»,3 certo può far opera lodevole, ma non darsi a credere d’ aver fatto opera compiuta. Il pensiero allegorico penetra, si ramifica e si diffonde nella Commedia, come i filamenti nervosi nel corpo umano. Si può non vederlo e magari trascurarlo dove esso si attenua, o dove corre isolato e fa mestieri aguzzare molto lo sguardo per scoprirlo; ma quando le fila sparse si raccolgono a formare un ganglio, da cui altre muovono per annodarsi in un ganglio più grande, e così via, non è possibile passar oltre in silenzio. Bisogna necessariamente fermarsi a mirare la dottrina nascosta sotto il velame dei versi e darne una qualche spiegazione. Dante, proprio lui, lo vuole; e l’idea poco riverente di non obbedirgli, concepibile oggi, non poteva nemmeno affacciarsi alla mente dei primi chiosatori, i quali, come avrebbero osato affermare che, in fin dei conti, l’apprendimento del pensiero simbolico della Commedia non compensava lo studio impiegato a scoprirlo e a descriverlo? Quegli antichi consentivano intieramente nel concetto dell’ arte, che si fa maestra di moralità celata sotto bella menzogna, e con Dante stimavano che la bontà delle scritture fosse cosa assai più considerevole della loro bellezza; né, d’altra parte, avevano visto riuscire a vuoto i mille tentativi, fatti per rischiarare la faccia della «oscura Minerva», cagione in molti dei moderni di sprezzante scetticismo. Però tutte le volte che, procedendo nella lettura del poema, s'imbatterono in parole e versi, immagini e figure manifestamente simboliche, si videro come invitati a esprimere il loro avviso, e lo espressero. Ma n’è seguito quello che doveva seguirne. La loro interpretazione, di mano in mano che diventava più antica, acquistava un’autorità, che, francamente, non meritava; sia perché que’ nostri vecchi Dante non valevano a intenderlo meglio di noi altro che nei particolari storici e linguistici, sia perché il loro consenso non so se apparisca unanime in una sola questione. Che aiuto ci possono dare, a chiarire un fatto, testimoni, che nei punti più scabrosi lo raccontano ciascuno a modo suo? Invece di risolverli, è più giusto dire che gli antichi, con le loro illustrazioni morali, preoccupando le menti degli studiosi venuti dopo, hanno moltiplicati e resi più difficili i problemi danteschi. E non poteva essere altrimenti. L’allegoria di Dante è cosiffatta che a pezzi diventa impossibile intenderla; mentre l’opera dei primi chiosatori risultava necessariamente frammentaria, come quella che si occupava del senso allegorico volta per volta, secondo l’occasione richiedeva. Così, senza addarsene, s’introdusse l’anarchia dove regnava un ordine ammirevole, e si credette di aver provveduto nel migliore dei modi alla intelligenza del poema, quando s’ebbe data la più verosimile spiegazione dei passi apertamente allegorici, punto o poco curandosi di studiare se, e in qual misura, stessero in relazione tra loro e con il tutto.
L’interesse che ciascun canto è capace di suscitare da sè, la sufficiente armonia che deriva all’ opera intiera dal trattare ordinatamente dei tre regni dell’oltretomba, e il naturale passaggio non solo dall’Inferno al Purgatorio e da questo al Paradiso, ma da cerchio a cerchio, da balzo a balzo, da cielo a cielo, appagando qualunque più scrupoloso amatore di unità, tolse di ricercare se per avventura il Poeta non avesse provveduto a improntar la Commedia di una unità, per così dire, più interiore e comprensiva. E fu come un trasandare la legge della gravitazione.
Inoltre, a rimpiccolire il significato del Veltro e a porlo addirittura da canto, è doveroso riconoscere che molto concorse lo svolgersi della storia nostra. «Papato e impero, e la discordia e la potenza loro, trascorrevano, quando Dante nacque: Dante che non passa».4 Così il Carducci; e se s’intenda di quelle due autorità supreme, quali furono nel medioevo, nulla di più giusto. Se non che Dante non avverti il loro tramutare e venir meno, impedito dall’idea che s'era fatto di quelle due grandi istituzioni, da cui si informa l'arte, la cultura e tutta la civiltà precedente. Come tutti sanno, egli le credette ambedue divine, ambedue indefettibili; onde riferì a colpa degli uomini, chiamati a rappresentarle, quanto ravvisò in esse di guasto e di corrotto, e, sicuro che prima o poi sarebbero risorte dall’abiezione in cui erano cadute, non si peritò di riporre su di esse l’edificio della società e del suo poema. Ma il vero si è che egli non era morto, e il fine della Commedia non s’era ancora capito, che le menti accennavano già a prendere una nuova orientazione, alla quale, tanto è vero, neppur lui era rimasto del tutto estraneo. Quelli che soli potevano essere gli eredi e i degni continuatori del suo pensiero, il Petrarca e il Boccaccio, respirano già un’ altra aria, provano altri bisogni, vivono in un mondo quasi mutato: non a tal segno tuttavia che a un attento osservatore possa sfuggire il legame, per quanto tenue, onde, l'uno qualche volta e l’ altro più spesso, son condotti a riguardare in lui, domandandogli qualcosa più che non sieno le parole e i motivi dell’arte. Anche in essi il pensiero di Dante, nei momenti più gravi, dà qualche lampo, manda qualche guizzo. Ma quello per cui Dante sperava e soffriva, lo scopo a cui aveva dedicato tutto se stesso, l’ideale che faceva, come nessun altro, palpitare il suo gran cuore di credente e di cittadino, si può dire tramontasse con lui. Di contemporanei consenzienti alle sue idee n° ebbe pochissimi e in tutto forse nessuno. Ma nel deserto, sebbene solo, si sentì sicuro di sè, si sentì grande e gli fu bello l’aversi «fatta parte per se stesso»,5 e morire, portando nella tomba il suo sogno più caro, cui aveva fino all’ ultimo tenuto volto lo sguardo, per offrirlo coll’opera immortale al desiderio degli amatori di pace e di giustizia.
Ma di tanto quel suo ideale di Monarchia era oramai lontano dalle menti, che la generazione, alla quale lo affidava perché fosse compiuto, se pure mirò dov’ egli additava, non lo scorse più e, se lo scorse, certo non se ne curò. La stagione, come il Sacchetti cantava, era rivolta. Per accertarsene basta guardare al Boccaccio, nato in quell’ anno medesimo che insieme con una delle speranze più vive del suo sommo concittadino, vide cadere il periodo storico iniziato da Leone III e da Carlo Magno. Pieno di ammirazione verso lui, lo studia, lo commenta, lo imita e, perfino, lo copia; ma compone il Decameron, grande commedia umana svolgentesi con spiriti e intendimenti affatto diversi. Data una società qual è dipinta dal novelliere toscano, a chi mai poteva passar per la mente d’invocare la redenzione d’ Italia da un papa o da un imperatore? L’altissimo ufficio, a cui Dante li credette destinati dalla Provvidenza, bisogna riconoscere che questi lo tennero solo nella sua fantasia. I papi per conto loro non aspirarono mai a esercitarlo, anzi condannarono quella Monarchia, nella quale il Poeta li invitava a prendere il dominio puramente spirituale del mondo; e gl’imperatori, trattenuti da necessità di governo nei loro paesi, non potevano pensare sul serio a ridiventare i supremi reggitori delle genti. Quei pochi che di tratto in tratto provarono a calar di nuovo in Italia, divennero oggetto di riso e di dispregio. L’ideale di Dante non trovò da rifugiarsi neppure nel cervello dei letterati che, o si gittarono allo studio delle lingue classiche e non badarono alla Cont media, o se pur ci badarono, qualche ammirazione tributarono al Poeta, ma nessunissima importanza dettero al profeta.

Notes
1
Conv. I. ii. 106.
2
Conv. II. i. 18.
3
Conv. II. i. 68.
4
Carducci. L'opera di Dante Op. Vol. I. pag. 206, Bologna, Zanichelli, 1889.
5
Paradiso, XVII, 69.
Date: 2023-02-13