La filosofia di Dante [Giovanni Gentile]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Giovanni Gentile

Tratto da: Dante e Manzoni

Editore: Vallecchi, Firenze

Anno: 1923

Pagine: 73-93

1. Sezione III

Dante, assoggettato a quell’analisi che distingue il contenuto dalla forma, ha una filosofia, della quale tante volte si è discorso, discusso e dissertato: quel sistema di pensiero. che rinverga nelle sue linee principali con la dottrina scolastica, quale si costituì nella seconda metà del secolo XIII, per opera principalmente di Tommaso d'Aquino : quantunque Dante, con l’anima aperta a tutti i motivi spirituali e a tutti gli interessi umani e speculativi, con l'intelletto, potente non meno dell’ alta fantasia, pronto a raccogliere e conciliare tutte le voci dei pensatori diversi, che parimenti gli facessero vibrare il cuore nell’ansia della ricerca d'una verità assoluta, non sia propriamente un tomista ortodosso, e accetti, — come gli studi recenti intorno ai particolari e agli accenni incidentali del suo pensiero speculativo vengono sempre più dimostrando 1 — dottrine e concetti d’altri indirizzi filosofici, e in alcune parti del suo pensiero, segnatamente nelle opinioni politiche, originalmente si spinga più in là della linea entro la quale s’era chiusa la filosofia scolastica. In una parola, Dante filosofo, interpretato e giudicato col metodo classico, è uno scolastico, il cui posto nella storia della filosofia è assai umile, se in lui non si guardi piuttosto allo scrittore sommo che primo trattò in volgare di filosofia traendola dalle scuole umbratili dei chierici, nel campo aperto della cultura laica e dentro al pensiero della nuova letteratura nazionale, da lui d’un tratto sollevata ad altissimo grado. Ma la scolastica di Dante, come or ora vedremo sommariamente, cercata nel suo poema, dove Dante è veramente Dante, è, come tutti vedono, lo sfondo solo del quadro: materia di cui la fantasia del Poeta si serve per costruire il suo mondo, gettarvi dentro le sue creature, e dentro ad esse il suo animo, che ogni lettore vede presente dal primo all'ultimo verso dei cento canti. La sua filosofia, come ogni altro elemento del mondo intorno a cui la mente di Dante lavora, è tutta una visione, un sogno. Com’ è del resto la materia di ogni opera d’arte; ma, al pari d’ogni sogno, non ha verità né realtà fuori della fantasia, che nel sogno spiega la sua attività e spazia nel mondo che essa si finge; né può intendersi perciò fuori di quell’essere subbiettivo che è la personalità di chi sogna obbiettivando se stesso in quella realtà che appartiene al comune dominio dell’esperienza e del pensiero umano.
Dante, quando compie nell’ Empireo la sua visione onde un mondo è stato creato dalla possa della sua fantasia, un mondo che egli ha contemplato attraversandolo e scrutandolo con occhio inquieto e animo bramoso di luce, eterno pellegrino in cerca di Dio, al conchiudersi del suo singolare pellegrinaggio vede questo mondo ormai completo e vivo di vita autonoma distaccarsi dalla matrice, che gli ha comunicato la vita: sente rompersi quell’unità per cui egli ha vissuto nella sua visione, e la sua visione è vissuta in lui. Tutto un mondo, sì, mirabilmente saldo, obbiettivo, e pure svolgentesi punto per punto nella stessa vita operosa e incessante del suo spirito creatore, ormai gli è divenuto estraneo. Ed egli allora esprime splendidamente, come nessun altro poeta mai, i due elementi dal cui indissolubile nodo trae vita e alimento ogni opera d’arte:

Qual è colui che somniando vede,
E dopo il sogno la passione impressa
Rimane, e l’altro alla mente non riede;

Cotal son io; chè quasi tutta cessa
Mia visione, ed ancor mi distilla
Nel cuor lo dolce che nacque da essa:

Così la neve al sol si disigilla;
Così al vento delle foglie lievi
Si perdea la sentenza di Sibilla.
(Parad., XXXIII, 58-66).

Visione, dunque, e passione: l’una materia, l’altra forma. Quella cessa, e non riede più alla mente; questa rimane impressa, come la dolcezza del cuore in cui subbiettivamente si trasmutò quel che si vide in sogno. Da una parte il mondo del poeta, ma dall’altra il poeta stesso, il quale finché quel mondo non cessi, non si sente diviso da esso, poiché la loro vita è una vita comune, unica. Finché la visione dura, essa è bensì un mondo, ma dentro al quale c’è una passione, un cuore, un uomo: e in quel mondo c’è una filosofia, ma una filosofia non definibile in astratto, bensì conoscibile e soltanto come vita di questo uomo, del suo cuore, della passione del suo cuore.
In certo senso, tutto quel mondo può dirsi non sia altro che una filosofia, esposta bensì in forma allegorica, ma non men manifesta, poiché appunto una filosofia attraverso questa forma la mente di Dante, data la sua educazione e la sua coltura mistico-religiosa, vagheggia e accarezza. Giacché, si badi bene, a proposito di allegoria, a non confondere ciò che si deve assolutamente distinguere se non si vuol lasciare che ci sfugga tanta parte della poesia dantesca : l’allegoria posticcia e meccanica e l’allegoria costitutiva, organica e vivente, la quale non cade sotto la condanna a cui è fatta segno la prima, e rende infatti possibile a Dante, malgrado tutti i veli allegorici onde sono avvolte le sue creature, di librarsi alto in un cielo luminoso, egli e le sue creature splendide di verità. L’allegoria, come ogni altra forma o figura onde la fantasia si rappresenti il suo obbietto, è legittima pur che osservi la legge essenziale della forma, di non restare fuori del suo obbietto, quasi veste estrinsecamente aderente, che copra e non sveli. Ma il pericolo di ogni allegoria che, raffreddando la fantasia, le impedisca di raggiungere la realtà che si vorrebbe raffigurare, è pure il pericolo che incombe sopra la più semplice e schietta parola in quanto essa venga trattata meccanicamente quale mezzo d'espressione che sia da accostare alla cosa, anzi che la stessa forma viva della cosa nella vita di questa attraverso lo spirito umano. L’allegoria in verità non vuol essere altro che una parola: una parola espressiva, corpulenta, che s’apprenda alla fantasia e vi si scolpisca in alto rilievo. E se non piaccia dire «parola», dicasi simbolo: del quale pure in arte si abusa senza che l’abuso possa autorizzare ogni divieto, almeno finché non siasi dimostrato che ci sia o possa pensarsi qualcosa di cui l’uso è legittimo e desiderabile, e non sia possibile pure il più deplorevole abuso.
Intendere il pensiero o intendere la poesia di Dante rifiutandone ogni elemento simbolico o allegorico è impossibile, poiché a Dante tante cose di quelle che più lo appassionarono e gli stettero innanzi, anzi gli riempirono l’anima e la vita, raffigurate così come a lui veniva naturalmente fatto di vederle in conseguenza delle sue abitudini mentali e dei consueti modi di esprimersi e però di raffigurare a se medesimo gli obbietti del suo pensiero, gli si presentarono in forma allegorica, Non fu arbitrio suo — tanto per addurre un esempio che qui particolarmente c’interessa — l’ interpretazione della poesia virgiliana come adombramento di una dottrina morale ; e spontanea nello sviluppo della sua personale cultura fu la genesi del concetto di Virgilio, simbolo della ragione naturale non rischiarata da lume di rivelazione divina ; per modo che quando dal lento segreto processo di formazione del nucleo primitivo del Poema sorse nel quadro che prese a spiegarsi innanzi al Poeta, questa figura viva e parlante del suo Virgilio, egli già incarnava la ragione quale Dante la vide dentro se medesimo accamparsi laboriosamente in un sistema di concetti, noti agli antichi, al tempo degli stessi dei falsi e bugiardi. E tanto per lui Virgilio s' immedesimò con questa realtà da lui stesso sperimentata, della speculazione naturale o razionale, e cioè della filosofia, che i dotti medievali avevano ereditata dai grandi maestri dell’antichità, quanto riesce impossibile a un chirurgo pensare al ferro metallo quando pensa ai suoi ferri. Orbene, tutta la poesia che trema nel Poema intorno a Virgilio, cesserebbe se al simbolismo di questa figura noi, contro l’intenzion del Poeta, non volessimo badare.
Il «duol senza martiri» del limbo dove

Non avea pianto ma’ che di sospiri
Che l’aura eterna facevan tremare;

il «difetto» di quella «gente di molto valore» che non adorò debitamente Dio, e per ciò solo è perduta, e vive «in desìo sensa speme», sottratta quasi nel limbo a ogni giudizio divino, mercè la grazia acquistata a. lei dalla sua umana grandezza («l’onrata nominanza Che di lor suona su nella tua vita»), l’aspetto stesso di quelle grandi ombre:

Sembianza avevan nè trista nè lieta...

Genti v’eran con occhi tardi e gravi
Di grande autorità ne’ lor sembianti:
Parlavan rado, con voci soavi;
(Inf. IV, 112 4).

tutto questo misto di reverente simpatia e di indicibile tristezza che spira da ogni parola di Dante per gli spiriti magni, dai quali è venuto a lui Virgilio; — e l'intimità di affetto espressa verso di lui «dolce padre» e «più che padre», la quale prorompe dopo che l’opera di Virgilio è compiuta, e Dante non ha più bisogno della sua guida poiché «libero, dritto e sano è suo arbitrio» (Purg. XXVII, 140), e sopraggiunge, guida superiore a più alta meta, Beatrice, e Virgilio sparisce dal fianco di Dante:

Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
Di sè; Virgilio, dolcissimo padre;
Virgilio a cui per mia salute die’ mi;
(Purg. XXX, 49-51).

la commozione che vibra nelle parole di Virgilio stesso quando accenna al contrasto tra la propria e la sorte di Beatrice:

Tu la vedrai di sopra, in su la vetta
Di questo monte, ridere e felice;
(Purg. VI, 47-8).

dove lo stesso contenuto e dignitoso affanno del desio senza speme si risolve e rasserena nella trionfante luce di questo riso sulla vetta del monte della purificazione; tutto ciò — per accennare ad alcuni dei tratti della ricchissima rappresentazione virgiliana —, evidente- è mente, non avrebbe nessun significato, se Virgilio non fosse agli occhi di Dante una persona sì, ma rappresentante, come «savio gentil che tutto seppe», quella ragione (Purg. XV, 76) che, secondo egli stesso dice, non può disfamare Dante, cui soltanto Beatrice potrà togliere ogni altra brama: o in altri termini, quella filosofia, che aveva saputo tutto ciò che l’uomo può sapere senza la fede: la filosofia degli antichi.
In verità, il disperato desiderio di Virgilio non è altro che il pessimismo platonico a cui si è di sopra accennato: quella conclusione, a cui pervenne prima dell’avvento del Cristianesimo non pure la dottrina di Platone, che di tutto il pensiero antico si può veramente considerare l’espressione più caratteristica, ma ogni dottrina, la quale movesse dal punto di vista proprio, in generale, a tutta la speculazione greca.
Noi oggi vediamo chiaramente quello che Dante e i filosofi del suo tempo scorgevano pure sicuramente per quanto in confuso: che cioè la stessa posizione propria di tutta la filosofia pagana non consentiva la debita adorazione di Dio, il riconoscimento dell’identità di natura tra Dio adorato e l’uomo che l’adora, ossia della sua spiritualità. Quella filosofia si sforza tutta di concepire intellettualisticamente la realtà, come oggetto assoluto della conoscenza umana; e la realtà, quale si rappresenta all’ intelletto che la presuppone come suo oggetto, concepita come molteplicità atomica o come cosmo intelligibile, come estensione o come pensiero, rimane sempre qualche cosa di chiuso in sé, che l’uomo non può riconoscere senza sentirsene fuori; che è come dire, senza svalutare se stesso, e annientare idealmente nella realtà assoluta la propria personalità, la propria libertà, la coscienza della propria creatività. Se il mondo è tutto quello che dev’essere quando noi prendiamo a conoscerlo, questa vita che comincia a realizzarsi mercè l’attività del nostro spirito, non può non apparire illusoria, poiché rimane esclusa dalla totalità dell’essere concepibile; e non può quindi non svanire nel nulla. Donde quel travaglio disperato d'Amore, in cui Platone simboleggia non pur la vita del pensiero umano aspirante alla immortalità. delle idee, ma della natura universale, tutta corrente, immensa fiumana, dal monte a una foce irraggiungibile. Da Parmenide, per cui la realtà è quell’Unità, in cui il pensiero deve immedesimarsi per essere, a Plotino che ripone l’apice supremo della vita spirituale nell’estasi in cui lo spirito deve uscir da sé per assorbirsi nell’ Uno, il savio gentile s’affisa per otto secoli, anzi per tutto lo sviluppo della civiltà pagana, in una realtà esterna che è tutto, e non contiene in sé la stessa sapienza del savio: non ha posto per quella realtà, entro la quale l’uomo vive pensando e volendo. Il suo Dio è semplice natura. Quindi il pessimismo profondo radicale che è in Platone, e che non può ritrovarsi in Leopardi.
Per restituire la speranza all'uomo che naturalmente desidera, occorre che la posizione dell’uomo di fronte al mondo muti, e sia diverso perciò il suo atteggiamento verso Dio, principio assoluto dell’essere che costituisce il mondo. La conoscenza intellettuale deve cedere il luogo all’amore: a quell’atto spirituale che non presuppone, ma esso fa essere il termine reale, a cui s’ indirizza; lo fa essere, s'intende, nell'ambito stesso della vita spirituale, nella coscienza. Occorre cioè che la realtà a cui ci si rivolge non sia; questa natura, a cui noi pure naturalmente apparteniamo; ma quello spirito, in cui a noi non è dato penetrare se non in virtù di un’attività che non è istinto, né, comunque, legge naturale, ma libertà: l’opposto, la negazione della natura. La divina realtà dev'essere intesa dunque come Spirito: spirito in sé (monotriade), spirito rispetto all'uomo (mediatore). Ecco una nuova sapienza, ecco, come dice Dante di Beatrice, la «loda di Dio vera» (Inf., II, 103): ecco quella «che lume fia tra il vero e l’intelletto» (Purg., VI, 45). Sapienza che, per Dante e per la filosofia cristiana come tutti al suo tempo l’intesero, non è opera di ragione; e non può infatti incontrarsi sulla stessa via per cui me: tutta procede la filosofia greca. Virgilio quando lì, b sulla balza degli accidiosi, espone a Dante la scolastica dottrina del libero arbitrio — che è in vero uno dei punti critici, in cui la filosofia cristiana doveva sentire il suo profondo distacco dalla pagana — premette:

Quanto ragion qui vede
Dirti poss’ io; da indi in là t’aspetta
Pure a Beatrice, ch’ è opra di fede.
(Purg. XVIII, 46-8).

2. Sezione IV

Tra questi due termini, riassuntivi di tutta la filosofia per cui spazia il pensiero e il cuore di Dante — Virgilio e Beatrice — si svolge l’allegoria filosofica del Poema. I! divario tra questi due termini per Dante è un abisso: come si sente nella energica protesta, tutta dantesca, messa in bocca a Virgilio nell’Antipurgatorio; protesta che si smorza infine e trapassa nel solito sospiro profondo dell'umanità consapevole de’ propri confini :

Matto è chi spera che nostra ragione
Possa trascorrer la infinita via
Che tiene una sustanzia in tre persone.

State contenti, umana gente, al quia;
Chè, se potuto aveste veder tutto,
Mestier non era partorir Maria;

E disiar vedeste senza frutto
Tai, che sarebbe lor disìo quetati,
Ch’eternalmente è dato lor per lutto:

Io dico d’Aristotile e di Plato,
E di molt’altri. — E qui chinò la fronte,
E più non disse, e rimase turbato.
(Purg. III 34-45).

Si tratta di una dottrina comune a tutta la speculazione cristiana; e rispetto alla quale si può ben dire che Dante ripeta quello che s’insegnava in tutte le scuole. Ma in lui assume certi accenti ingenui, che mi paiono manifesti indizi d’una disposizione di mente personale. Quando a san Pietro, che nel Cielo stellato, lo esamina sulla sua fede, egli dice:

La larga ploia
Dello Spirito Santo, ch’è diffusa
In su le vecchie e in su le nuove cuoia,

È sillogismo che la m’ha conchiusa
Acutamente sì, che, inverso d’ella,
Ogni dimostrazion mi pare ottusa;

quando nella stessa prova d’esame, ribadisce che il suo credere non deriva da prove fisiche e metafisiche, ma glielo dà «la verità che quinci piove» nei due testamenti divinamente ispirati (Parad., XXIV, 91-6, 135-8); Dante, senza dubbio, non fa che attenersi al comune insegnamento. Ma, quando nel Cielo di Saturno, si fa dire da Pier Damiani, a proposito del disperato problema della predestinazione:

sì s’inoltra nell’abisso
dell’eterno statuto quel che chiedi
che da ogni creata vista è scisso;

nonché affermare, senz’altro che

La mente che qui luce, in terra fuma;
Onde riguarda come può laggiue
Quel che non puote, perché il ciel l’assuma,

che cioè non pure in terra, ma neanche in cielo la mente umana può giungere alla risoluzione de’ suoi più assillanti problemi; allora Dante, o io m’inganno, accentua a modo suo lo scetticismo proprio della filosofia cristiana circa i poteri della ragione umana. Di che un altro segno pare di scorgere nel commento che lo stesso Poeta fa seguire alla ragione messa in bocca ai dottori, i quali nel Cielo del Sole gli parlano della resurrezione dei corpi:

Come la carne gloriosa e santa
Fia rivestita, la nostra persona
Più grata fia per esser tutta quanta;

che non è certo la più forte e speculativa ragione che si possa trarre dall’ insegnamento di Tommaso d'Aquino. Comunque, innanzi alla gioia dei beati che pregustano la maggior letizia a cui saranno abilitati dal corpo onde torneranno a vestirsi, Dante mette da parte gli arzigogoli della scienza teologica, e si rinchiude nel suo vigoroso senso d’umanità; restio a barattarlo col concetto della vita dedotta speculativamente a forza di sottilissimi raziocinii:

...Che ben mostràr disio dei corpi morti;

Forse non pur per lor, ma per le mamme,
Per li padri e per gli altri che fur cari
Anzi che fosser sempiterne fiamme:
(Parad., XIV, 43-5 e 74-7).

dove si direbbe che l’uomo si scuota di dosso il peso inerte d'una dottrina accettata sì, ma non sentita.
Ma c’è di più. Guardate nel nobile castello, dove sopra il verde smalto s’adunano gli spiriti magni, e in alto attorno ad Aristotele, maestro, si vede riunita la famiglia dei filosofi, termine d’ammirazione e di alto rispetto pel Poeta, vi sono non solo i rappresentanti di tutte le scuole antiche, che tutte Dante accoglie nel suo concetto della grande sapienza antica; ma c'è Avicenna, arabo; c’è perfino «Averroìs, che il gran commento feo»; e anche lui, nonostante la fosca leggenda che già l’avvolgeva nelle fantasie cristiane, nonostante le forti e giuste polemiche contro di lui e dei suoi seguaci che la scolastica ortodossa, a capo di essa l’Aquinate, combatteva nell’ interesse della fede cristiana e degli alti interessi morali umani, a cui dalla nuova fede veniva conforto, anche lui grandeggia nell'animo di Dante, perché anch’egli è tra quei maestri, a cui gli uomini debbono quanto ragion vede. Guardate nel Cielo del Sole, dove si accolgono i dottori cristiani, e parla Tommaso d’Aquino, il più grande che fra essi Dante conobbe. Tommaso fra le luci che gli brillano accanto, si compiace non pur di nominare un Riccardo di San Vittore, antesignano d’una filosofia divergente dalla sua, ma di celebrare altresì in modo particolare quello spirito «che in pensieri gravi a morir gli parve venir tardo»: la luce eterna di Sigieri che era stato addirittura processato per eresia, e la cui fama non pervenne di sicuro a Dante netta d’ogni macchia dottrinale. Ancora, alle «scuole dei religiosi» non potè egli non apprendere come tomisti e scotisti, domenicani e francescani, si contrastassero il campo; ma le lodi di san Francesco egli fa dire al maggiore di quelli, e dal maggiore di questi le lodi di san Domenico. Egli insomma non mette, non impegna tanto l’animo suo nell’ insegnamento di una scuola, da partecipare alle passioni particolari ed esclusive di essa: in filosofia, non conosce intolleranza, egli che ferocemente nel Convivio si mostra pronto a brandire e usare il coltello contro i detrattori del volgare. E in verità, non si schiera né con questa né con quella scuola; e non pare che sia attratto verso quelle questioni (a cui nella sua ricca e completa personalità pur s’interessa) per le quali gl’ indirizzi filosofici divergono e pugnano tra loro.
Consideriamo più attentamente il processo entro il quale si svolge nella visione dantesca, l’itinerario della mente a Dio della selva delle passioni, «tanto amara che poco più è morte» fino a «l’Amor, che muove il sole e l’altre stelle», e con cui la volontà dell’uomo, al termine dell’itinerario, s’immedesima. Questo processo, a rigore, non ha il suo primo principio nella selva. Dalla quale il poeta non uscirebbe senza Virgilio. Ma Virgilio stesso non si moverebbe al suo soccorso, se non fosse chiamato da donna beata e bella, mossa da Amore, dalla Grazia (da Lucia, anzi da Maria). Il primo principio dunque è Dio, la cui grazia invia al soccorso dell’uomo la beatrice teologia, di cui è mezzo la ragione. La quale perciò non si sveglia da sé, e se naturalmente è possente a quella sapienza, che già tu in terra prima di Cristo, non è senza divino consiglio, che prepara di lunga mano l’avvento dello Spirito. Guidato da Virgilio, Dante vede il temporal foco e l’eterno; questo prima, e poi quello, fino al paradiso terrestre, dove Virgilio non ha più nulla da insegnargli, e gli dice: «Non aspettar mio dir più, né mio cenno». E aggiunge anche: «Libero, dritto e sano è tuo arbitrio» (Purg., XXVII, 139-40). Ma è l’arbitrio dell’uomo razionale, non ancora rifatto e trasfigurato dalla grazia: non è tuttavia la vera libertà, che ricrea l’uomo nell'amore, e riferendosi alla quale, Dante a colei che «all’alto volo gli vestì le piume», e gl’ imparadisò la mente (Parad., XV, 54 e XXVIII, 3), dovrà dire infine, nel separarsi nell’Empireo:

Tu m’hai di servo tratto a libertate,
(Purg. XXXI. 65).

battendo con l’accento sul tu.
Dunque la vera libertà, a cui Dante aspira, e che è infatti il termine d'ogni umana aspirazione, non è opera di Virgilio se non in parte. Vi occorre anche Beatrice. La quale non è per altro semplice scienza speculativa che possa simboleggiare p. e. la Somma teologica di san Tommaso: giacché san Tommaso è un razionalista, che s’argomenta di raggiungere Dio per mezzo della filosofia, movendo dalla natura, oggetto del- l’esperienza sensibile; e sdegna così le argomentazioni a priori, proprie dei platonizzanti, esposte al rischio di confondere in uno la creatura e il creatore, come la mistica contemplazione, che s’affida unicamente all'amore. Dante, che apprezza tutti i motivi di vero espressi dalle varie tendenze e non si chiude in nessun sistema, non crede sufficiente né anche Beatrice:

A terminar lo tuo disiro
Mosse Beatrice me del loco mio,
(Parad. XXXI, 65-6).

gli dice san Bernardo, che ripone, a sua volta, la sua fede nella Regina del cielo, ond’egli «arde tutto d'amor»: in quella stessa Donna Gentile, che già aveva interceduto per Dante movendo Lucia, e per suo mezzo Beatrice. E sono «gli occhi da Dio diletti e venerati» (Parad., XXXIII, 40) a operare il supremo miracolo, proprio per mezzo di quell'amore mistico, che una filosofia ben diversa dalla tomista raccomandava come metodo della cognizione di Dio.
Anche per Dante, in conclusione, l’uomo torna a Dio in quanto proviene da lui; e l’amore supremo onde l’uomo conosce e ama insieme Dio, non è se non lo stesso amore onde Dio ama e conosce se stesso. E l’universo è un circolo, per cui l’azione divina scende per risalire, si moltiplica, come luce che piove di cosa in cosa, per raccogliersi nella sua unità eterna ed infinita.
Questa, come quadro armonico in cui si compongono a unità gl’ insegnamenti antichi e nuovi del sapere umano e divino, la visione, che Dante vagheggia come contenuto del sacro poema «al quale ha posto mano e cielo e terra». Visione che, così sommariamente descritta, è, come ognun vede, ima filosofia, ben diversa certamente dalla pagana, poiché dentro vi si muovono elementi nuovi, alla dottrina intellettualistica degli antichi affatto estranei: e nel suo complesso si riduce alla concezione del ‘mondo propria della scolastica, pur tenendo conto dei diversi elementi che Dante vi concilia. I quali per altro non modificano le idee fondamentali di quella filosofia, in cui cercò il suo assetto, per diverse vie, il pensiero cristiano dopo i Padri, che fissarono i dommi della nuova fede, e prima dell’Umanesimo, che segnerà l’inizio d’un’èra nuova d’indagine speculativa sulla stessa base dell’intuizione cristiana.

Notes
1
Cfr. i miei Problemi della Scolastica, 2.a ed., Bari, Laterza, 1922.
Date: 2023-02-06