Il fine allegorico della Commedia [Anna Faramia]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Anna Faramia

Tratto da: Il fine allegorico della Commedia

Editore: Tip. Mevio Washington e C., Sondrio

Anno: 1921

Pagine: 5-31

1. Gli antichi e i moderni commentatori

Comincio senz’altro la storia della questione e naturalmente prendo dapprima in esame gli antichi commentatori. Jacopo, figliuolo di Dante, nelle «Chiose sopra la Commedia» a lui attribuite, ritiene che il Poema è «una meditazione sui tre stati morali dell’uomo in questa vita: stato vizioso, stato di passaggio dal vizio alla virtù, stato virtuoso».
Con lui s’accorda anche Ser Graziolo de' Bambagliuoli nel suo «Commento sopra l'inferno». Jacopo della Lana si esprime così sulla cagione finale della Commedia: «Si può considerare in tre modi. Lo primo per manifestare polita parladura, secondo per narrare molte novelle le quali tornano molto a destro ad udire, per esempio, alcuna fiaba. Terzo ed ultimo per rimuovere le persone che sono al mondo dal vivere misero e in peccato e produrle al virtuoso e grazioso stato».
Anche l’Ottimo non si allontana molto da Jacopo della Lana nello stabilire l’allegoria generale del Poema; e Pietro Alighieri afferma che la visione del padre suo è «una descrizione dei diversi stati morali dell’uomo su questa terra».
Gli antichi commentatori, adunque, con maggiore o minore chiarezza ammettono che fine della Commedia è «il raggiungimento della somma felicità a cui l’uomo può aspirare quaggiù». Ed ora, senza occuparmi degli studiosi di Dante che diedero alla Commedia un senso puramente politico, volgo uno sguardo agli studi dei dantisti più vicini a noi.
Per il Giuliani «scopo tanto nel tutto della Commedia come nelle parti, è di strappare i viventi dalla loro miseria e condurli alla felicità ». Anche in questo commentatore, adunque, non spunta l’idea delle due felicità che oggi si vogliono vedere adombrate allegoricamente nella Commedia. Essa sorgerà più tardi, ma poiché sarebbe impresa disperata raccogliere il pensiero di quanti si occuparono del Sacro Poema in questi ultimi tempi, riassumerò soltanto l’opinione dei più valenti.
Lo Scartazzini così si esprime: «In altra sua opera ‘ il Poeta dice che il Paradiso terrestre adombra la felicità di questa vita; il celeste, la beatitudine di vita eterna, che per pervenire alla prima è necessario la guida dell'Imperatore, per pervenire alla seconda quella del Pontefice.
Ora nella Commedia abbiamo l’uno e l'altro paradiso, il terrestre e il celeste, vi abbiamo due guide una delle quali scorge l’uomo al paradiso terrestre, al celeste l’altra. Dunque ragion vuole che applichiamo il sistema dantesco alla Commedia spiegando Dante con Dante. Ne risulta che l’uomo sotto la direzione dell'autorità imperiale che lo guida secondo gli ammaestramenti filosofici perviene alla beatudine di questa vita che consiste nell'operazione della propria virtù, e sotto la direzione dell’autorità ecclesiastica che lo dirizza secondo le rivelazioni, perviene alla beatitudine di vita eterna, la quale consiste nella fruizione dell'aspetto divino».
Per il Flamini il «viaggio che costituisce la favola del poema intorno alla quale i varî episodî si raggruppano è – secondo l’ascosa verità o allegoria — un trapasso realmente avvenuto dall’infelicità della vita viziosa, prima alla felicità dell’operazione della propria virtù in cui la massima felicità terrena consiste e poi alla beatitudine della fruizione del divino aspetto in cui consiste la beatitudine eterna».
Pure lo Zingarelli, in più pagine della sua poderosa opera , afferma che «il poema deve rappresentare a edificazione degli uomini un graduale progresso verso la verità, essere un insegnamento. Vi è una verità che basta al nostro mondo, una scienza che ci rende felici in esso e una che lo trascende e ci porge l’aspetto delle cause prime ed eterne».
Il Torraca, nella prima pagina del suo commento, ammette anche le due felicità: «Dante professava la dottrina esposta nell’ Etica di Aristotele avvicinandola, come prima di lui avevano fatto i Dottori della Chiesa, in principal modo S. Tommaso d'Aquino, con i dogmi della religione. La Provvidenza propose all'uomo due fini, la beatitudine o felicità di questa vita, raffigurata nel Paradiso terrestre, e la beatitudine della vita eterna, raffigurata nel Paradiso celeste».
Con questi studiosi di Dante s’accordano il Poletto e il Pascoli per i quali il Paradiso terrestre significa la beatitudine della vita presente e il Paradiso celeste è simbolo della perfetta beatitudine eterna.
Dalla rapida corsa attraverso i commentatori della Commedia deduco, e credo con sicurezza, che come gli antichi non conoscevano le due felicità come fine della Commedia, così i moderni non vi scorgono più come fine l'unica e somma felicità terrena.
E deduco ancora che sul principio esegetico: «Dante va spiegato con Dante» maturò la nuova teoria.

2. Esame dell’opinione vulgata

Logicamente si presenta alla mente la domanda: «La nuova interpretazione è saldamente fondata nella Commedia? ed è fornita di tali ragioni da essere preferita all’altra?

2.1. Una figurazione poetica falsa

I dantisti moderni sostengono che nel Paradiso terrestre si adombri la felicità terrena, ma.si può veramente dire che questa sia simboleggiata nell’ Eden dantesco e che quindi il Poeta, quando entra ed è nella «selva spessa e viva» gusti il dolce frutto della felicità di quaggiù? Dante e la donna giovane e bella che «soletta si gìa cantando e iscegliendo fior da fiore » avanzano lungo una delle rive del Lete quando, preceduta da un vivo splendore e da un dolcissimo canto, si presenta ai loro occhi la mistica processione. Con essa, circonfusa da una nuvola di fiori, vestita con i colori della fede, della speranza e della carità, coronata dell'ulivo, simbolo di pace e di sapienza, appare sopra il «trionfal veicolo» Beatrice la quale serba verso Dante un atteggiamento di severa alterezza e lo fa subito ammutolire con le sue acerbe rampogne:

Guardami ben: ben son, ben son Beatrice!
Come degnasti d’accedere al monte?
Non sapei tu che qui è l’uom felice?
Purg. c. XXX, v. 73 e sgg.

Dante, punto dalle severe parole della sua donna, ab- bassa gli occhi e guarda le nitide acque del Lete, ma si scorge in esse specchiato e tosto rivolge lo sguardo vergognoso sulla verde pianura.
A difesa del Poeta e quasi per rispondere a nome suo, gli angeli che già prima avevano salutato Beatrice e spargevano fiori sul carro di lei, impietositi, intonano un canto di perdono che fa piangere il tormentato Poeta. Ma la donna divina non si commuove, anzi, santamente sdegnata e «nell’atto ancor proterva» espone loro in forma più particolareggiata le colpe di Dante.
Ricorda che il Poeta nella sua giovinezza per le disposizioni naturali e per le grazie divine fu tale che

…ogni abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.

Ma non appena Ella passò dalla vita della carne a quella dello spirito, Dante l’ebbe meno cara e s’incamminò per una via non vera

imagini di ben seguendo false
che nulla promission rendono intera.

Né giovò invocare da Dio sante ispirazioni e richiamarlo in altro modo sulla buona via; Dante già troppo si era ingolfato nel vizio e avrebbe potuto redimersi solo considerando i tristi effetti del. peccato. Così termina il canto XXX del Purgatorio.
Dante fino ad ora non appare certo simbolo della felicità terrena; direi piuttosto con Giovanni Bertacchi che per il Poeta «si svolge e si compie il vero purgatorio: e il purgatorio per lui non è solo nel sentirsi rinfacciare tutto il male commesso, ma anche nel sentirselo rinfacciare dalla donna tanto anelata, nel veder piena di sdegno colei che sulle vie della vita, solo col negargli un saluto, lo rendeva infelice».
Ma seguo il Poeta in tutto quello a cui prende parte nel Paradiso terrestre.
Beatrice, dopo aver fatto noto agli angeli i traviamenti di Dante, si rivolge a lui stesso, lo incalza, lo induce al pianto e poi, con opportune domande, a una esplicita confessione. Il Poeta, ancora confuso e spaventato, sta con il viso basso come un fanciullo vergognoso, e a malincuore, facendo a se stesso violenza, ubbidisce a Beatrice che gli ordina di levar su la faccia.
Un’ultima trafittura, l'«ortica del pentimento», penetra nel cuore di Dante e tanto profonda che egli cade a terra privo di sensi.

Quale allora femmi
salsi colei che la cagion mi porse.
(Purg. c. XXXI v. 89-90).

Matelda lo immerge nel mistico Lete «insino a gola» dapprima, poi sino al punto che egli è costretto a inghiottirne l’acqua; dopo, quattro donne gentili – le virtù cardinali, lo coprono delle loro braccia, lo confortano, lo accolgono nella loro danza e, pietose, lo presentano ad altre donne, le virtù teologali. Si sente un canto in cui si prega Beatrice di svelarsi al Poeta, ed ella si manifesta a Dante e gli sorride.
Nel c. XXXIII si dà al Poeta l'alta missione di riferire ai mortali le scene liete e paurose che ha vedute, le tristi e liete vicende del mistico carro e della mistica pianta, ed è immerso in un altro fiume dal quale il penitente uscirà «puro e disposto a salire alle stelle».
Ora domando: È possibile trovare qui adombrata la felicità terrena, comunque la s’intenda, e vedere nel Poeta il simbolo di un'anima che gusta questa felicità? S. Tommaso passa in rassegna le varie opinioni sulla felicità terrena e afferma che per alcuni questa era riposta nei piaceri mondani, per altri negli onori o nella gloria umana o nelle ricchezze; per altri ancora nella potenza, nei beni del corpo, nella buona salute, nella bellezza, nella forza delle membra. È facile vedere che nessuna di queste teorie è raffigurata nel Paradiso terrestre. Infatti, di quali soddisfazioni o di quali onori gode Dante nella verde selva?
Ma si può dire che il Poeta abbia voluto adombrare la felicità quale egli l’intendeva e la definì nel De Monarchia, (libro III, c. XV) ove dice che la felicità di questa terra consiste «in operatione propriae virtutis… ad quam per philosophica documenta venimus… secundum virtutes morales et intellectuales operando».
Ma nel Paradiso terrestre Dante opera secondo virtù morali o intellettuali? Fa nulla, o se fa qualche cosa, è di riconoscersi in colpa, di ascoltare Beatrice che «regalmente proterva» gli rimprovera le colpe, di sentire l’ortica del pentimento, di lasciarsi tuffare nel Lete e nell’Eunoè, di vedere mistiche visioni.
Mi domando: «Dove sono qui i simboli “dell’operare secondo la perfezione naturale,,? E i “documenta philosophica,, si possono vedere adombrati nei rimproveri di Beatrice? E che stanno a fare le misteriose visioni le quali sono una mistica storia delle vicende della Chiesa? E, sopratutto, Beatrice è «opra di fede» e non è un ingombro, un ostacolo invincibile per chi vuol vedervi la felicità umana descritta da Dante nel De Monarchia?
Adunque, da quanto si è detto, posso formulare questo dilemma: o Dante ci dà una figurazione falsa della beatitudine terrena e difforme dalle teorie filosofiche e teologiche del suo tempo, o sbagliano quanti vedono raffigurata nell’ Eden dantesco la felicità terrena dell’ uomo.

2.2. Un assurdo teologico

Con pari sicurezza si ripete pure dai moderni dantisti che il fine allegorico del Paradiso celeste è «la felicità della vita eterna» quale è insegnata dalla dottrina cristiana.
Ma Dante nell’Empireo raffigura veramente l’anima che entra a godere della beatitudine eterna? Vediamo questa scena.
Il Poeta, passato dal mondo temporale all'eterno, da «Fiorenza» alla cittadinanza giusta e santa dei beati, stupisce ed è pieno di ammirazione, più dei barbari del settentrione quando vedevano per la prima volta Roma.
Tra tante meraviglie e allegrezze, tra volti dipinti di fervida carità e illuminati di luce divina, resta dapprima muto, pur percorrendo da ogni parte l’immenso quadro che gli sta dinanzi, poi si rivolge per interrogare Beatrice intorno ai dubbî della sua mente, ma scorge invece della dolce guida il venerando S. Bernardo. Subito chiede ov’«ella» sia e il santo Dottore gli risponde di guardare su, nel terzo giro della celeste rosa. E a Beatrice la quale nella pienezza della sua gloria sta assisa sopra lo scanno che i suoi meriti le destinarono, il Poeta rivolge questa preghiera:

Tu m'hai di servo tratto a libertade
per tutte quelle vie, per tutti i modi
che di ciò fare avei la podestate.
La tua magnificenza in me custodi
si che l’anima mia che fatta hai
sana piacente a te dal corpo si disnodi.
(Paradiso, c. XXXI v. 85-90).

La donna amata gli sorride dandogli così un tacito segno che la sua preghiera sarebbe stata esaudita. Poi S. Bernardo conforta il Poeta a fortificare lo spirito nella visione del Paradiso e lo rassicura che la Vergine Maria gli sarà larga di grazia. E dopo aver dimostrato a Dante la composizione della rosa celeste, rivolge a Maria una preghiera sublime, piena di tenerezza e tutta cosparsa di profonda devozione.
Finisce così:

Ancor ti prego, regina che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani
dopo tanto veder, gli affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani.
Vedi Beatrice con quanti beati
per li miei preghi ti chiudon le mani.
(Paradiso c. XXXIII v. 34-39)

Osservo: Dante dubita di sé, degli affetti terreni e teme che, passata l’estasi, abbia a cadere nuovamente in peccato. La paura di Dante è pure condivisa da Beatrice, da Bernardo e dagli altri beati i quali, tendendo le mani in atto di adorazione verso la Vergine, la pregano che i «movimenti umani» non travolgano Dante.
Ora, questa scena sarebbe possibile se Dante avesse davvero messo piede nella gloria eterna e ne avesse gustata la dolcezza? In altre parole, si può vedere raffigurata la felicità eterna nella Commedia?
La dottrina cristiana che dice in proposito?
S. Tommaso si pone la questione «utrum beatitudo habita possit amitti» e dopo i soliti dubbi risponde conchiudendo: «perfecta beatitudo amitti non potest, quae, quoniam in visione divinae essentiae consistit, omne maliun ereludit». E spiega perché e come non si può perdere la beatitudine celeste. Dice infatti che l’anima alla vista dell’essenza divina si riempie di tutti i beni poiché si congiunge al fonte di ogni bontà ; cita la Bibbia e dimostra come non possa venir meno la beatitudine celeste, sia perché all'uomo non è possibile abbandonare la beatitudine per propria volontà, sia perché Dio giusto non può sottrargli la grazia e la gloria che gli ha donato.
Notisi la ragione che adduce S. Tommaso: «chi ha visto Dio non può più cadere in colpa, perché la visione di Dio importa rettitudine di volontà e la vista sua eleva così l’uomo sopra tutte le cose della terra che nessuna può influire su di esso e staccarlo da Dio».
Qui S. Tommaso esprime la dottrina della Chiesa e non una sua veduta particolare, quindi è evidente questa conclusione: Dante non può aver simboleggiato nel suo Paradiso l'animo che tocca la celeste felicità. Se fosse tale, sarebbe secondo il dogma, impeccabile e non dovrebbe per nulla temere le lusinghe del mondo, i moti della passione, e inutile sarebbero la preghiera di S. Bernardo e l’intercessione dei beati. Basterebbe anche la sola paura di perdere la beatitudine per far si che questa non fosse più piena e somma: ora, Dante teme ed è dubbioso della sua eterna salute per cui non s’inebbria della felicità celeste.
Se dunque si accetta l’opinione corrente, bisogna conchiudere che la figurazione della felicità celeste fatta da Dante racchiude un errore teologico e, peggio ancora, si è costretti ad affermare che tale figurazione contradice alla teologia. E il «theologus Dantes nullius dogmatis expers» non se ne sarebbe accorto?

2.3. Prove che non reggono

Le prove positive che gli avversari portano a sostegno della loro tesi non provano nulla. La loro argomentazione si riduce sostanzialmente a questo: «Dante va spiegato con Dante; ora, il Poeta nel De Monarchia, 1. III c. XV parla della duplice felicità, la terrena e la celeste; dunque si deve conchiudere che il fine allegorico della Commedia è il raggiungimento delle due felicità».
Ma per non scemare forza all’ argomento trascrivo intero il passo di Dante: Duos igitur fines providentia illa inenarrabilis homini proposuit intendendos: beatitudinem scilicet huius vite, que in operatione proprie virtutis consistit et per terrestrem paradisum figuratur; et beatitudinem vite ecterne, que consistit in fruitione divini aspectus ad quam propria virtus ascendere non potest, nisi lumine divino adiuta, que per paradisum celestem intelligi datur. Ad has quidem beatitudines, velut ad diversas conclusiones, per diversa media venire oportet. Nam ad primam per phylosophica documenta venimus, dummodo illa sequamur secundum virtutes morales et intellectuales operando; ad secundam vero per documenta spiritualia que humanam rationem transcendunt, dummodo illa sequamur secundum virtutes theologicas operando, fidem spem scilicet et karitatem. Has igitur conclusiones et media, licet ostensa sint nobis hec ab humana ratione que per phylosophos tota nobis innotuit, hec a Spiritu Sancto qui per prophetas et agiographos, qui per coecternum sibi Dei filium Iesum Cristum et per eius discipulos supernaturalem veritatem ac nobis necessariam revelavit, humana cupiditas postergaret nisi homines, tanquam equi, sua bestialitate vagantes “in camo et freno” compescerentur in via. Propter quod opus fuit homini duplici directivo secundum duplicem finem: scilicet summo Pontifice, qui secundum revelata humanum genus perduceret ad vitam ecternam, et Imperatore, qui secundum phylosophica documenta genus humanum ad temporalem felicitatem dirigeret. Et cum ad hunc portum vel nulli vel pauci, et hii cum difficultate nimia, pervenire possint, nisi sedatis fluctibus blande cupiditatis genus humanum liberum in pacis tranquillitate quiescat, hoc est illud signum ad quod maxime debet intendere curator orbis, qui dicitur romanus Princeps, ut scilicet in areola ista mortalium libere cum pace vivatur.
Questo è l’Achille di tutti i dantisti; ma fa più paura a vederlo da lontano che a guardarlo da vicino. Ciò che spaventa sono quei due incisi «quae per terrestrem paradisum figuratur» e «quae per paradisum coelestem intellegi datur» perché, a tutta prima, fanno pensare che Dante abbia voluto dirci che egli nella Commedia intese dare ai due paradisi i due sensi allegorici dichiarati nella Monarchia. Ma ci sono dei «ma». I due incisi non potrebbero essere note irreptizie? Ecco una questione delicata che io qui non posso trattare a fondo, perché dovrei fare uno studio sui codici. Osservo però che nel De Monarchia c’è un’altra citazione della Commedia.
Nel libro I cap. 14. Scrive: ... manifestum esse potest, quod haec libertas, sive principium hoc totius nostrae libertatis est maximum donun humanae naturae a Deo collatum, sicut in Paradiso Comediae dixi, quia per ipsum alibi felicitamur ut dii. E questa citazione molto fondatamente si ritiene una postilla di qualche studioso, passata poi nel testo per l’ignoranza di un copista. Il fatto sarebbe avvenuto così: un lettore ricordando i versi famosi del Paradiso

Lo maggior don, che Dio per sua larghezza
fesse creando, ed alla sua bontate
più conformato, e quel ch’ei più apprezza,
fu, della volontà, la libertade,
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, furo e son dotate.
(Paradiso, c. V, v. 19-24)

avrebbe scritto in margine al codice del De Monarchia: «sicut dixit in Paradiso Comedia»; e qualche amanuense avrebbe poi portato la postilla nel testo correggendo in «sicut dixi in Paradiso Comediae». Ed è assai probabile l’irrepzione. Come mai Dante avrebbe rimandato alla Commedia per un concetto comunissimo o per una frase indovinata come è il chiamare la libertà umana «il maggior don che Dio fesse all’uomo creando...?»
Sarebbe una piccola vanteria di quelle che si compatiscono negli scrittori novellini. E questa nota irreptizia non potrebbe essere una spia che ci faccia sospettare che un caso simile sia avvenuto anche per i due incisi?
Uno studioso del Poeta, forse a sfoggio della sua erudizione, giunto là dove Dante parla delle due felicità, avrebbe scritto in margine che la felicità terrena «per terrestrem paradisum figuratur» e la felicità celeste per «coelestem paradisum intellegi datur...» Le note marginali sarebbero poi passate nel testo per opera di qualche copista. Ma l’ultima parola sull’argomento spetta ai codici. E quando pure fosse sfavorevole a questa ipotesi, si rilegga spassionatamente il famoso capitolo: quale ne è il senso preciso? Questo e non altro. Dante dice che le due felicità si sogliono simboleggiare nei due paradisi , che così fanno i teologi, gli ascetici, i commentatori biblici. E in nessun modo si può far dire a quegli incisi che Dante, nei paradisi della Commedia, abbia nascosto quel senso allegorico. Il Poeta può aver voluto fare dell’erudizione con quelle aggiunte, un vezzo che non gli è discaro anche nella Monarchia ; ma non si può asserire che intese spiegare con esse il senso allegorico delle due guglie del suo bel tempio. Si è dunque ben lontani dall'avere in quegli incisi l'esplicita asserzione di Dante che nei due paradisi della Commedia egli idoleggiò le due felicità di cui discorre nel De Monarchia.
Dissipato quindi il fascino delle due aggiunte, resta nella sua nudità l’argomento che enunciai sopra e che ripeto: Dante nel De Monarchia discorre di due felicità; dunque, per il principio «Dante va spiegato con Dante» nella Commedia dobbiamo vedere figurate le due felicità. Contro questo argomento si può osservare che nel Convivio il Poeta parla pure della felicità pratica o attiva e di quella speculativa o contemplativa. Adunque, non si potrebbe con uguale ragione sostenere che Dante attuò nella Commedia le due felicità della vita attiva e contemplativa di cui nel Convivio discorre più volte e a lungo? Perché si darà la preferenza al De Monarchia? e perché Dante non si sarebbe attenuto alla teoria della felicità insegnata nel Convivio? E si badi che le teorie del Convivio erano comuni a tutti i Dottori della Chiesa, non così quelle del De Monarchia. Anzi, è nota: la critica del Padre Vernani il quale non trovava punto filosofica la distinzione dei fini esposta da Dante nel De Monarchia.
Io non voglio qui esaminare se abbia ragione il Vernani contro Dante, voglio soltanto mostrare come non sia improbabile che il Poeta abbia nel De Monarchia rimaneggiato l'opinione comune per comodità di polemica: all’indipendenza delle due somme autorità giovava certamente stabilire l’indipendenza dei fini posti all’ uomo dalla Provvidenza.
Raccogliendo queste osservazioni, concludo: «non si può in nessun modo affermare che per il principio “Dante va spiegato con Dante,, si debbano vedere figurate nei due paradisi della Commedia le due felicità di cui discorre nel De Monarchia.
Quindi il più forte se non l’unico argomento che si porta a sostegno della teoria oggi diffusissima, abbaglia, se si vuole, ma non prova nulla.
Accenno ad un altro argomento su cui si «conta molto e che è dato dalle parole di Beatrice, già sopra riferite. Come degnasti, dice aspramente, di accedere al monte?
Non sapei tu che qui è l’uom felice?
Ecco, si conchiude, Dante esplicitamente dice che il Paradiso terrestre è simbolo della felicità terrena, di cui parla nel De Monarchia. Ma non ci vuole affatto dell’abilità dialettica per rispondere: si è proprio sicuri che il verso citato richiami le teorie del De Monarchia?
Non potrebbe invece riferirsi alla felicità di cui ragiona nel Convivio? E non mi dilungherò: le ragioni che addussi or ora fanno preferire la seconda interpretazione e presto ne addurrò altre che la impongono addirittura.

2.4. La teoria esposta net capitolo XV del libro III del De Monarchia era inattuabile e non fu attuata nella Commedia

Tutto ciò che in teoria è bello e appariscente non è sempre bello e attuabile in pratica. Io mi son chiesta se è possibile in pratica che l’uomo con mezzi filosofici e sotto la guida dell'Imperatore possa raggiungere la felicità terrena, e poi, con mezzi teologici e sotto la guida del Papa, possa raggiungere la felicità celeste. Questo Importerebbe uno sdoppiamento dell’uomo che non si può dare e che nella vita non si dà.
Quindi a Dante non era possibile attuare la teoria do De Monarchia nella Commedia dove rappresenta l’anima Cristiana che tende al raggiungimento delle due felicità.
Ma possibile o no, il fatto è che non fu attuata nella Commedia. Difatti non ci raffigura un’anima che con mezzi umani solamente e sotto una guida umana tocchi la felicità terrena.
Vedasi brevemente: Dante comincia il suo viaggio sotto gli auspici e l’azione delle tre donne che su nel cielo si compiangono di lui, smarrito nella selva; e le tre donne, comunque s’intendano, rappresentano un’azione celeste o soprannaturale. Il cammino di Dante, anche nella prima parte che è la più umana, si compie con aiuti non puramente umani. Si ricordi il messo celeste che vince l’opposizione dei demoni, sotto le mura infuocate della città di Dite.
E nel Purgatorio gli aiuti celesti si raddoppiano. Noto il rapimento di Lucia, l'angelo che apre la porta del Purgatorio e gli altri che levano col ventare delle ali i sette P che il Poeta ha segnati sulla fronte.
Dunque, questo basta per far conchiudere che la famosa teoria del De Monarchia non fu attuata.

2.5. Contaminazione di sensi

Finisco la critica dell’opinione troppo fortunata, rilevando che la spiegazione allegorica è messa insieme malamente; vi si fa una strana mescolanza del senso allegorico e del senso letterale.
Difatti, l'inferno nel senso letterale rappresenta la vita di chi ha perduto il «ben dell’intelletto» e nel senso allegorico rappresenta lo stato di «chi lascia lo fele e va per i dolci pomi».
Il Purgatorio, nel senso letterale, è la descrizione dello stato delle anime «che si fanno belle» e nel senso allegorico, figura l’anima che «è vicina alla felicità terrena». E fin qui tutto corre liscio. Ma che cosa è il Paradiso? In senso letterale, è la descrizione dei gaudî del Paradiso; in senso allegorico, è il simbolo dell’anima che s’inebbria della eterna felicità. Qui vi è una contaminazione di sensi, anzi una confusione; e si rasenta l’assurdo. Può forse una cosa qualsiasi essere simbolo di sé stessa? Un leone può essere simbolo di forza e di ogni essere forte e coraggioso; ma può dirsi che sia simbolo di un leone? E perché si dirà che Dante fece la vita paradisiaca simbolo della beatitudine che è promessa a chi entra nel regno dei cieli? Può parere una sottigliezza questa osservazione, ma non la credo priva di valore.

3. La mia ipotesi

La chiamo così per un certo senso di modestia, perché per me è tesi sicurissima. E la esposi già: io penso che nella Commedia, Dante, abbia raffigurato allegoricamente la somma felicità terrena che i filosofi e i teologi del suo tempo riponevano nella contemplazione di Dio, alla quale non poteva levarsi che un’anima purificata dalle colpe ed esercitata lungamente nelle virtù.
In favore della mia tesi sta anzitutto:

3.1. Essa non urta negli scogli in cui l’altra s’infrange

Non c’è contaminazione di sensi.
In essa il Paradiso dantesco, in senso letterale è la descrizione della beatitudine celeste; in senso allegorico è la beatitudine somma che l’anima può raggiungere quaggiù, levandosi con una vita pura e con opere ascetiche alla contemplazione di Dio.
Scompaiono pure le irriuscite figurazioni allegoriche e gli assurdi teologi in cui urta la teoria comunemente accettata e che oggi tiene il campo. Vedemmo che la felicità terrena sarebbe malamente adombrata dall’Eden dantesco; invece, quanto chiaramente vi si vede simboleggiata una delle tappe che gli asceti medioevali segnavano sulla via della somma felicità terrena la quale veniva riposta nella contemplazione!
Al mio scopo non occorre che mi addentri molto nei dotti studi degli asceti medioevali: basterà ricordare che Riccardo da S. Vittore il quale «a contemplare fu più che viro» nel Beniamin maior segnava dodici stadi sulla via della perfezione; S. Pier Damiani settantadue, quante furono le fermate del popolo ebreo nel viaggio dall'Egitto alla terra promessa; S. Bonaventura nell’«Itinerarium mentis in Deum» si accontentava di sette.
E ricordo ancora che S. Bonaventura nel «De Plantatione Paradisi» vedeva raffigurata l’humilis devotionis refocillativa suavitas.
Ora, quanto acconciamente Dante avrebbe raffigurata questa tappa sulla via della somma felicità terrena! Il Poeta si umilia, e quante volte, nelle scene del Paradiso terrestre, sotto gli amari rimproveri di Beatrice! E la sua devozione si rifocilla negli abbracci delle virtù cardinali e negli ammaestramenti di Beatrice e poi nella misteriosa figurazione delle vicende della Chiesa che sfilano innanzi al suo occhio attonito.
E le parole di Beatrice «qui è l’uom felice» non potrebbero accennare alla felicità propria di questa tappa che gli asceti medioevali segnavano sulla via dello spirito? Ma io non ho un’idea mia su questo particolare; mi seduce tale spiegazione che non urta con la mirabile visione del Paradiso terrestre. Scompare pure l’errore teologico nella figurazione allegorica della felicità celeste che già rilevai.
L’angelico Dottore nella questione già citata e nell'articolo IV si domanda: «Utrum beatitudo habita possit amitti» e risponde: «possibile est quemvis ab imperfecta beatitudine qualis in hac vita haberi potest, deficere». E lo dimostra osservando che la felicità della vita contemplativa si può perdere per soverchie occupazioni le quali distraggono e impediscono la contemplazione, e che la felicità della vita attiva si può perdere perché la volontà dell’uomo può volgersi ad amare il male: «voluntas enim hominis transmutari potest ut videlicet degeneret a virtute, in cuius actu principaliter consistit felicitas».
Nel «degeneret a virtute» non abbiamo i «movimenti umani» di cui parla il Poeta? Quindi con quanta maggiore ragione si può vedere raffigurata nel Paradiso celeste, la beatitudine somma la quale si può aver quaggiù e che «amitti potest».
Vidi anche alcune delle visioni ascetiche, reali o immaginarie che siano, del tempo di Dante; e in esse quelle anime, quando erano vicine allo scioglimento della loro estasi e sentivano di dover tornare come uno dei tanti pellegrini della terra, temevano di sé e invocavano l'assistenza della grazia divina. Anche Dante teme e invoca la Vergine e tutti i beati.
Qui adunque non c'è più nessuna di quelle stonature che notammo nell’altra ipotesi; ma c’è anzi una piena corrispondenza tra la dottrina dogmatica e la poesia e una perfetta e artistica colorazione di quegl’insegnamenti.

3.2. Un’obbiezione

Lo spirito di S. Tommaso, chiuso in uno dei fulgori che in forma di ghirlande si presentano a Dante nel cielo del Sole gli dice:

Quando
lo raggio della grazia, onde s’accende
verace amore, e che poi cresce, amando,
multiplicato, in te, tanto risplende,
che ti conduce su per quella scala,
u’, sanza risalir, nessun discende;
qual ti negasse il vin della sua fiala
per la tua sete, in libertà non fora,
se non com’acqua, ch’al mar non si cala.
(PARADISO, c, X, v. 82-90)

Da questi versi si suol dedurre che Dante era sicuro della sua eterna salvezza, perché a Dio era stato tanto caro che lo condusse su

per quella scala,
u', sanza risalir, nessun discende.

Qui dovrei mettermi nel ginepraio dei commenti che si hanno su questi due versi, ma a quale pro? Osservo appena che alcune interpretazioni vedono un accenno all’impeccabilità di Dante e, quindi, alla sua predestinazione al regno celeste; ma non mancano quelle che nel breve verso leggono tutt'altro senso.
Io argomento: è lecito per un verso di dubbia interpretazione rinnegare il senso chiaro e indubitabile delle scene descritte da Dante negli ultimi canti del Paradiso? E poi ci sarebbe il guaio serio di conciliare i due passi del Paradiso o si dovrebbe dire che Dante è in contraddizione con se stesso.
Ancora, lo Scartazzini osserva che non ci si può vedere un’allusione all’ impeccabilità di Dante, perché dice, “la Scrittura sacra non ammette tale impeccabilità perché parla di coloro che caggiono dopo aver gustato il dono celeste e le potenze del secolo a venire,,. E cita la lettera di S. Paolo agli Ebrei cap. V, v. 4-6. E il “theologus Dantes,, non lo sapeva? o contradisse ai divini insegnamenti ?
Io sto quindi con quei commentatori i quali intendono il verso così «la scala sulla quale Dio ti conduce, ossia le visioni celesti che Dio ti ha elargito hanno tanta dolcezza per l'anima, che chi le gusta una volta si studia di rendersene degno ancora». Ecco il “non si discende senza risalire,,. Le gioie della contemplazione sono tanto pure e penetrano così addentro all'anima che chi le ha gustate una volta vuole rigustarle ancora.
Mi piace aggiungere che questo senso scaturisce da quel verso anche se lo interpretiamo tenendoci stretti alla grammatica. La “scala,, sulla quale Dante è condotto dalla grazia di Dio è la mirabile visione che descrive: questo è fuor di dubbio. L’immagine è tolta dalla visione di Giacobbe in cui gli parve vedere una scala che dalla terra metteva al cielo e su di essa angeli che salivano e discendevano. La visione dell’antico patriarca era nel medio evo spiegata per la contemplazione. Anche il verso tanto tormentato

U’, sanza risalir, nessun discende

va riferito a quella scala; e che ha vedere la salita delle anime giuste dopo la morte?
Ecco perché io sto contenta a questa facile e bella interpretazione, che per di più non mette nell’imbarazzo di conciliare Dante con Dante.
Appoggio poi la mia tesi alle seguenti ragioni.

3.3. Ai commenti antichi

Come vedemmo, gli antichi commentatori sono concordi nel parlare di una sola felicità e nessuno accenna, anche lontanamente, al doppio fine, ossia alle due beatitudini. Questa concordia d’interpretazione in coloro che furono coevi a Dante e poterono conoscerne il genuino pensiero, vale pur qualche cosa.

3.4. Alla lettera a Can Grande

In essa, al capitolo XV si dice che «il fine del tutto e della parte può essere molteplice, ma, lasciata ogni sottile investigazione, è a dirsi brevemente che il fine del tutto e della parte è di rimuovere coloro che vivono in questa vita dallo stato di miseria e di indirizzarli allo stato di felicità». «Finis totius et partis esse potest multiplex, scilicet propinmquus et remotus. Sed omissa subtili investigatione, dicendum est breviter, quod finis totins et partis est removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis».
Il «viventes in hac vitu» sta quasi per escludere i «viventes in alia vita» e quindi la rimozione dallo stato di miseria e il raggiungimento della felicità deve riferirsi ai «viventes in hac vita».
Adunque, si può conchiudere che nella lettera si dà per fine diretto del poema la somma felicità terrena. La beatitudine eterna può essere benissimo conseguenza più o meno remota, ma non è voluta né intesa direttamente dall’autore.
Ora si può argomentare: la lettera a Can Grande è autentica o no. Se è autentica, la questione è finita e Dante avrebbe con parole apertissime dichiarato che il fine allegorico della Commedia non è la doppia felicità terrena e celeste, ma la suprema felicità che si può raggiungere quaggiù.
Se la lettera non è autentica, resta sempre che il più antico dei commentatori della Commedia fissò con esattezza il fine di essa, e sarebbe tutto in favore della mia tesi.

3.5. Ad evidentissimi accenni che si hanno nella Commedia

Più che tutto restano chiarissime, quantunque implicite, le asserzioni della Commedia.
Prendasi l’ultima terzina:

all’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio desiro e il velle,
si come rota ch’egualmente è mossa,
l’amor, che move il sole e l’altre stelle.
(PARADISO c. XXXIII v. 142-145).

Qui si ha il ritratto psicologico e morale di Dante dopo «il suo fatale andare»; ed è lo stato di chi è accolto tra il sodalizio eletto alla gran cena del benedetto agnello? O piuttosto non si è descritto lo stato di un'anima che ha toccato la massima perfezione e la somma felicità consentita ai mortali? Indubbiamente qui è riflesso uno stato d’equilibrio tra «il desire» ossia le passioni e gli appetiti e tra «il velle», la volontà retta; ed è la più alta perfezione di un'anima pellegrina sulla terra. Per le anime beate: «essere in caritate è necesse» e la loro vita è tutta assorta nella visione di Dio: sta qui la loro beatitudine.

Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato, nell'atto che vede
non in quel ch’ama che, poscia, seconda;
e, del vedere, è misura mercede,
se grazia partorisce e buona voglia;
così, di grado in grado, si procede.
(Paradiso, c. XXVIII, v. 108 e sgg.).

E c'è di più. L’equilibrio morale che Dante esperimentava gioiosamente in sé, appena finita l’estasi, era duraturo? Dante ne dubitava, onde la preghiera di S. Bernardo, di Beatrice, di tutti i santi alla Vergine; e non è punto detto nella Commedia che la grazia sarebbe stata largita.
Dunque, qui Dante simboleggia un'anima pellegrina su questa terra e non già fatta cittadina del Paradiso! E tutto il lungo cammino percorso da Dante a che scopo mira? Quale è il frutto che il Poeta raccoglie dalla lunga peregrinazione? È espresso in questi versi caldi e riboccanti di affetto.
Dice Dante a Beatrice:

Tu m’hai di servo tratto a libertate,
per tutte quelle vie, per tutti i modi
che, di ciò fare, avei la potestate.
(PARADISO, c. XXXI v. 85-87).

La magnificenza della donna amata si ridusse ad affrancarlo dal vizio, a rintuzzare gli appetiti, perché non insorgessero contro la retta volontà. Dante non avrebbe così parlato, se fosse stato simbolo di un’anima che gusti le gioie del Paradiso!
Né altro significato possono logicamente avere i versi che si trovano sparsi nella Commedia e che con immagini diverse indicano il fine del mistico viaggio. Ne cito alcuni per saggio. Nell’Inferno, al canto XVI, dice:

Lascio lo fele e vo per dolci pomi,
promessi a me per lo verace duca.
(Versi 61-62).

Nel Purgatorio, al canto V:

… farò per quella pace
che, retro ai piedi di sì fatta guida,
di mondo in mondo, cercar mi si face.
(Versi 61-63).

E più oltre:

Quinci, su vo per non essere più cieco.
(PURGATORIO, c. XXVI, v. 58).

Quindi, conchiudo che nella Commedia esplicitamente si asserisce che Dante con il suo viaggio volle rendersi degno moralmente di levarsi alla contemplazione di Dio. Per conseguenza, Dante non può essere simbolo che dell’anima la quale aspira e gusta la somma felicità terrena. Chi ne vuole fare un simbolo dell’anima che giunge a gustare l’eterna felicità contradice a tutti questi passi della Commedia e li. trae a forza a significati che essi non racchiudono.

3.6. Una postilla della Summa theologica

Finisco con un’osservazione che credo non priva di valore. In una postilla della «Summa theologica» alla questione V (Ia-IIae) dove S. Tommaso tratta della felicità terrena e della celeste si dice: «L'autore scrisse questi articoli per combattere l’errore dei Beguardi e delle Beghine e di altri eretici del suo tempo, errori che furono condannati nel Concilio di Vienne».
Non ebbi tempo di fare ricerche in proposito che potrebbero portare forse a più ampie e sicure conferme della mia ipotesi, ma le riprenderò appena ne avrò l’agio. Intanto da questa notizia storica io argomento così in favore della tesi che propongo:
Se nella Commedia si vede adombrata la somma felicità terrena, la Commedia s’impernia su di una questione che a quei tempi era viva e scottante. Mentre, se si vedono raffigurate le felicità terrena e celeste, la Commedia svolgerebbe la dottrina cristiana che da secoli s'insegnava e s’insegna ancora.
La breve postilla a me fece una profonda impressione.
Tante volte mi ero domandato: perché mai Dante scelse per argomento del suo altissimo canto la felicità? e non seppi darmi mai una spiegazione soddisfacente né la trovai in quei non pochi dantisti che consultai.
Ora la ragione chiara e soddisfacente l’ho trovata: Dante s’ispirò alle questioni vive e dibattute ai suoi giorni, come fecero tutti i grandi poeti epici. Questa a me pare una ragione non disprezzabile e mi propongo di ritornarci sopra e di metterla in piena luce.

4. Conclusione

Il lavoretto è così breve che non occorre riassumere le ragioni che militano contro la teoria vulgata e in favore della tesi che oso proporre alle discussioni dei cultori di Dante, se alcuno la riterrà «legna di considerazione. Per me l’opinione corrente è un frutto cattivo maturato – nel campo delle lettere, e non in questo solo, capitano spesso simili fenomeni! – sulla pianta buona del principio esegetico «Dante va spiegato con Dante».

Date: 2023-01-14