Dante e l’America, Dante in America [Rino Caputo]

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Dati bibliografici

Autore: Rino Caputo

Tratto da: Il pane orzato. Saggi di lettura intorno all'opera di Dante Alighieri

Editore: Euroma - Editrice Universitaria di Roma - La Goliardica, Roma

Anno: 2003

Pagine: 13-48

1. Dante e l’America

Tra Dante e l’America esiste una relazione speciale. Non è, certamente, quella, fantasiosa, d’un felice anacronismo, risolto nell’improbabile profetica e/o poetica prefigurazione del Nuovo Mondo. Dante, in questo, non è Petrarca che osa indirizzare la sua opera «in versi e ‘n rime a gente che di là forse l’aspetta»; per lui, invece, oltre l'emisfero boreale ci sono realtà ed apparenze «non viste mai fuor ch’a la prima gente» o, in definitiva, c’è il «folle volo» oltre che, positivamente, la montagna del Purgatorio, che è un “altro” mondo e non certo il Nuovo Mondo.
Bisogna notare piuttosto la tradizionale sensibilità mostrata dalla cultura americana nei confronti di Dante fin dal costituirsi della identità “statunitense” sganciata dal ceppo anglosassone (che, pure, resta l’ovvio e diretto tramite della conoscenza della personalità di Dante e della sua opera).
Ma già a questo punto è necessario operare una distinzione: “Dante e l'America” significa Dante e la cultura nordamericana, soprattutto quella situata nel mondo accademico variamente circolante nelle e tra le università degli USA e del Canada. Senza togliere alla restante parte sudamericana e ispanoamericana, peraltro quantitativamente maggioritaria, lo specifico e autonomo contributo agli studi danteschi, bisogna riconoscere preliminarmente che quando si parla del rapporto tra Dante e l’America è alla realtà settentrionale del Nuovo Mondo che occorre riferirsi.
“Dante e l’America” diventa così lo studio del modo di collocarsi dell’opera di “Dante in America”, che assume fin dall’inizio una particolare conformazione: nelle università americane Dante è piuttosto considerato un autore universale che uno (o, magari, il più grande) degli autori della letteratura italiana e la Commedia, di conseguenza, è ritenuta patrimonio culturale e occasione di lettura critica da parte degli studiosi appartenenti all’intera “melting pot” socio-linguistica e non solo di quelli di estrazione italo-americana e/o di formazione italianistica.
Nelle università americane esistono cattedre e insegnamenti esclusivamente versati su Dante; la tradizione dei Dante Studies è annosa e fiorente e solo più recentemente si è collegata a quella, ancora un po’ troppo sporadica, degli Italian Studies. Anche soltanto un tentativo di esaminare le profonde ragioni storiche e sociali di tale situazione spingerebbe l’analisi troppo oltre ma, almeno, è possibile e opportuno dire che l’assetto istituzionale suaccennato non è ininfluente sul modo e la qualità del rapporto tra Dante e l'America ovvero, in maniera più esplicita, tra la critica dantesca americana e l’opera del “divino poeta”.
L’attenzione crescente della cultura nordamericana nei confronti di Dante trova il suo punto di snodo nel primo Novecento. Non è che, lo si ripete, siano mancate prove di fedeltà a Dante nei due secoli precedenti, ma è chiaro che a partire dallo scorcio di fine secolo XIX si assiste ad una vera e propria scoperta di Dante. E anche in America si riproduce la particolare costellazione della critica dantesca: di essere, cioè, oltre che occasione di una nuova e più accreditata interpretazione dell’opera di Dante, una sede di verifica delle tendenze teorico-ermeneutiche più aggiornate e più onnivalenti (o che si pretendono tali) dell’intero panorama critico-letterario. Si pensi, ad esempio e a tale proposito, per fermare l’attenzione soltanto alla realtà italiana, almeno a La poesia di Dante di Benedetto Croce pubblicato nel 1921, nel sesto centenario della morte del poeta, e alla gran messe di studi - oltre che alla più moderna edizione critica di G. Petrocchi - raccolti intorno al settimo centenario della nascita, nel 1965.
Non stupirà allora di trovare, agli albori della critica dantesca americana del Novecento, personalità come Eliot e Pound, scrittori, poeti e saggisti definiti da R. Wellek nella sua Storia della critica moderna, «le figure centrali dell’evoluzione del gusto e del cambiamento della teoria critica del nostro secolo»; oppure come G. Santayana, filosofo ma soprattutto, per Wellek, «grande critico»; ovvero critici letterari in senso stretto come Burke e Winters, già per tempo, tra l’altro, sostenitori o oppositori dell’allegorismo applicato ai testi letterari.
Eliot, in particolare, influenza l’ambiente critico-letterario con la sua autorevole impostazione del rapporto tra poesia e religione, fondato sulla visione dell’arte come esperienza emergente dal simbolismo, vivificato dai valori della società cristiana. In maniera cronologicamente più datata, viene così individuato il nesso che lega la migliore cultura inglese primonovecentesca - quella, appunto, del “Bloomsbury Group”, di V. Woolf, L. Strachey, etc. e, per altro verso, dello stesso Eliot - alla più tipica e avanzata cultura nordamericana di stampo anglosassone (anzi “wasp”), quella, appunto, del New England, di Boston e della Harvard University.
Ma Eliot è sacerdote del culto dantesco anche e soprattutto in qualità di poeta e critico teorico della poesia. L'insegnamento di Dante riguarda, «l’ampiezza dell’arco emotivo», la «completa gradazione delle “profondità” e delle “altezze” dell’emozione umana», e nello stesso tempo, il poeta Dante pensa in «terza rima».
Il culto di Dante risente in America, altresì, di una specifica connessione con la dimensione religiosa tanto originaria quanto onnipervasiva, che è tipica dello “spirito pubblico” statunitense, contrassegnato dall’eredità puritana e biblico-scritturistica dei Padri Fondatori (e si pensi, almeno, a due personalità come Longfellow e Emerson). E se a tutto ciò si aggiunge la particolare sensibilità di altre fedi religiose, quella ebraica innanzitutto, nei confronti della Parola scritta nel testo sacro, si può ulteriormente, e agevolmente, comprendere l’importanza riconosciuta dalla critica letteraria americana alla relazione presupposta permanente e costitutiva tra Testo (sacro) e testo (letterario). Si pensi, per menzionare solo un esponente di tale pratica ermeneutica, a H. Bloom, rabbino e critico. È per la somma di questi motivi che la critica dantesca americana del Novecento trova, fin dagli esordi, un terreno fecondo per il solco ermeneutico vivificatore e pronto, quindi, a dare copiosi frutti.
Ma, come spesso accade nelle vicende della critica letteraria, la tradizione acquisita e consolidata permette un compiuto dispiegarsi di tutte le potenzialità che contiene solo quando il soggetto operatore protagonista avverte il contatto con altre tradizioni lontane nel tempo e nello spazio ma non sempre necessariamente allotrie nei tratti fondamentali. E questo è il caso del primo grande dantista americano, Ch. S. Singleton.

2. Singleton

È stato rilevato, da recensori tempestivi e attenti, che l’appartenenza di Singleton alla tradizione americana procede in una con la sua formazione culturale e più strettamente professionale, filologico-letteraria, connessa all'Europa e all’Italia.
La precoce esperienza di filologo editore di testi fiorentini del Rinascimento e l’apprestamento di una edizione criticamente riveduta del Decameron (pubblicata nel secondo dopoguerra e, quindi, qualche decennio più tardi) attribuiscono concretamente a Singleton l’immagine di un clericus vagante per le biblioteche fiorentine, italiane ed europee, a contatto con le istituzioni accademiche dei paesi visitati, ma, soprattutto, con le figure eminenti o emergenti della cultura europea. Singleton è così protagonista di un tour forse un po’ diversamente motivato da quello che, pure, coinvolge molti intellettuali americani negli anni Venti e Trenta. Non c’è infatti, come in Santayana, il ripudio del New England puritano e, peraltro, l’assenza dal continente americano non è giustificata da una scelta “laica” o anticonformista: il giovane Singleton è un appassionato studioso di filologia e letteratura umanistica e rinascimentale e in tale veste, si deve credere, incontra anche Dante e la sua opera.
Ma, nel contesto storico-critico americano, l’incontro di Singleton con Dante viene fatto risalire piuttosto agli anni più maturi, dopo il ritorno in patria e l’inserimento nella dimensione accademica statunitense, in particolare della costa atlantica, che varrà a Singleton, pur nato e formatosi nella West Coast, l’epiteto di «egregio harwardiano» da parte di un altro grande dantista, filologo e critico accademico italiano, come G. Contini.
La premessa filologico-letteraria europea degli anni giovanili si riduce, forse un po’ troppo, ad una parentesi slegata dall’attività successiva, prevalentemente esegetica. Ma lo studio di Boccaccio e lo stesso allestimento della raccolta di testi dei Canti Carnascialeschi possono, in qualche modo, definire un incontro di Singleton con Dante, foriero degli sviluppi della maturità, se si valorizzano alcuni preziosi indizi contenuti direttamente o indirettamente nei lavori di questo primo periodo.
È nota la fermissima convinzione di Singleton che, senza penetrare nel mondo dell’autore, senza compartecipare delle motivazioni strutturali dell’opera, non si danno conoscenza e godimento effettivi dell’evento artistico.
Con bella e intensa parafrasi di un brano del commento di Benvenuto de’ Rambaldi da Imola, tra i primi e più noti esegeti danteschi, e a conclusione dell’«Appendice» agli Elementi di Struttura, il primo libro scritto su Dante (edito nel 1957), che apre la silloge italiana La poesia della Divina Commedia, Singleton quasi sentenzia:

Non ti paia sconveniente, lettore, che questo viaggio di un vivo nel mondo oltremondano ti sia presentato nel suo primo senso come letteralmente e storicamente vero. E se tu dici: “Non credo che Dante abbia mai visitato l’oltretomba”, io allora risponderò che con coloro che rifiutano di credere ciò che un poema esige sia creduto è inutile discutere oltre.

In Benvenuto la tesi è sostenuta con il corredo di un’affermazione esplicita e inequivocabile:

Si enim vis intelligere opus istius autoris, oportet concedere quod ipse loquatur catholice tamquam perfectus christianus, ei qui semper et ubique conatur ostendere se christianum.

Singleton fa sua la convinzione di Benvenuto e anzi la estende a norma ermeneutica costante, attraverso l’utilizzazione, come si vedrà tra breve, della cosiddetta “allegoria dei teologi”. Ma Benvenuto condivide con altri uomini di cultura del Trecento, eruditi, studiosi e poeti, l’idea che Dante sia un poeta-teologo (come recita persino l’epitafio posto sulla tomba ravennate dall’amico “bucolico” Giovanni del Virgilio).
In particolare, è da far risalire a Boccaccio l’esaltazione della virtù poetica dantesca in una con la sua qualifica dottrinale teologica. E, in effetti, nelle opere dedicate a Dante, Boccaccio si rivela, oltre che appassionato cultore dell’illustre conterraneo, primo interprete critico tanto da poter oggi affermare che, per tanti aspetti, Dante perviene alla posterità immediata e lontana “attraverso” Boccaccio (ciò che appare essere, molto spesso, la funzione più e meno deliberata della “critica letteraria” nei confronti della “letteratura”’).
A Boccaccio risale la convinzione, strenuamente difesa in polemica con gli esponenti delle discipline giuridiche, mediche e perfino teologiche, suggerita dallo stesso Dante del Convivio, che la poesia emerge ex sinu Dei alla stregua della teologia, senza essere perciò ancella o grado secondario dell’itinerario a Dio.
E proprio perché espressione compiutamente divina, la poesia è fervor oltre che exquisita locutio, pertiene al sacro fuoco divino come alla più fredda ma ben elaborata facoltà linguistico-stilistica umana.
Essa è perciò, altresì, tramite diretto del verbo divino nelle più elevate articolazioni umane. Il poeta-vate, il “poeta” che è anche “profeta”, è visto da Boccaccio come l'esempio, predeterminato fin dagli albori dell’umanità, della connessione paritetica tra poesia e teologia e, anzi, pur con qualche esitazione etimologica, viene persino personalizzato: Mosè = Museo: «Museus et Moyses unus et idem».
Non deve passare inosservata l’arditezza ideologica che spinge Boccaccio a legare “ab origine” cultura classica pagana e cultura ebraico-cristiana. L'esempio è del resto, come s'è già accennato, nel Dante del Convivio, ben prima, quindi, di ogni successiva “teologizzazione” della critica:

fu in uno temporale che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu origine de la cittade romana, sì come testimoniano le scritture. Per che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio, per lo nascimento della santa cittade che fu contemporaneo a la radice de la progenie di Maria;

ma Boccaccio va più in là, fino a sostenere che «Moysem [...] non soluto stilo, sed heroyco scripsisse carmine, Spiritu Sancto dictante».
Tale impostazione, è bene dirlo, non traspare esplicitamente dal primi scritti singletoniani, versati piuttosto, com’è stato ampiamente puntualizzato, sui notevoli problemi della tradizione del testo del Decameron. Nella «Premessa» al volume degli Scrittori d’Italia dedicato a Boccaccio la traccia dantesca registrata da Singleton è apparentemente irrisoria e un po’ convenzionale. Da un lato la ripresa dell’immagine di esordio della Commedia, la «scena del prologo», per dirla con Freccero («ma solo i fatti studiati senza preconcetti avrebbero potuto rischiararmi la diritta via per la selva sì oscura»), versi, però, tanto commentati successivamente e divenuti quasi architrave dell’intera ricostruzione critica di Singleton e dei suoi migliori allievi, Freccero innanzitutto, appunto come «the prologue scene». Dall'altro, quasi riecheggiando l’intuizione eliotiana testé accennata, una singolare osservazione numerologica sulla “terza rima”, anch’essa ripresa negli studi più maturi e a tal punto importante da spingere il diretto e prestigioso allievo J. Freccero a dedicare al tema il saggio che la curatrice R. Jacoff ha posto a chiusa della silloge italiana pubblicata nel 1989.
Singleton rileva che, quanto all’edizione critica del voluminoso testo decameroniano,

non fa meraviglia quindi se nessuno vi si accingesse. Non solo a ragione della mole stessa di cento novelle e di una cornice già in sé lunga; bensì per la natura stessa di quest'opera in prosa che non si protegge nella sua forma materiale con nessuna linea formale e recisa (si pensi alla Divina Commedia e a quel che rappresenta la terza rima a questo riguardo!) [...].

Ma, per completare l’accenno agli spunti preliminari, è nelle avvertenze all’edizione dei Canti carnascialeschi del 1936 e dei Nuovi canti carnascialeschi del 1940 che Singleton sembra sperimentare, “in corpore vili” o almeno profano, trattandosi di componimenti non certo degni del poema sacro, l’efficacia di alcune categorie ermeneutiche portanti l’intero edificio della sua critica dantesca. Dopo un ribadito riscontro stilistico-numerologico (come il Decameron, i Canti carnascialeschi «hanno subito la sorte di tutte quelle forme d’espressione non ben solidamente fissate e legate dal verso o dal ritmo e trasmesse oralmente»), è nei Nuovi canti che Singleton assume il carico del problema del senso duplice del testo, letteralmente purgato e pulito e, insieme, connotativamente licenzioso. Ma basta qualificare diversamente la frase di Singleton per farle acquistare immediata pregnanza dantesca:

Ma bisogna osservare che è proprio il secondo senso che detta la scelta del soggetto e dell’apparato e fa da sostegno al senso letterale.
Tra il senso letterale e il «secondo senso» non vi è soltanto interazione semantica, ma anche relazione sociale, nella misura in cui il testo, o l’opera che dir si voglia, è riconducibile a un sistema comunicativo.
La produzione, trasmissione e ricezione del significato trae senso dalle reciproche aspettative degli artisti produttori, inventori, creatori, operatori di vario grado e del pubblico fruitore. Ecco perché, ancora una volta, l’osservazione “carnascialesca” di Singleton apre la via, nella sua perentorietà, alla più globale applicazione sul testo dantesco:

Il concetto equivoco di un canto carnascialesco non è creato da quel canto, ma è diffuso nel pubblico che lo ascolta e se lo aspetta.

Nel Singleton editore filologico di testi circola imperativamente l’esigenza di immettersi nel mondo dell’autore, quello, si direbbe oggi, estetico-cognitivo (mentre altri ha parlato, in passato, di «mondo intenzionale») e quell’altro più largo, artistico-intellettuale e ideologico-letterario, sedimentato dal contesto storico-sociale.
E tale istanza poietica e comunicativa, mentre getta luce sulla prassi filologico-critica esercitata, sembra motivare anche la familiarità ante litteram di Singleton con alcune tra le più prestigiose categorie della critica dantesca coeva, a partire, come si vedrà tra breve, da quelle di E. Auerbach.
Ma, intanto, a cogliere più perspicuamente i passaggi fondativi della formazione critica singletoniana, soccorre l’appoggio della posizione esegetica boccacciana.
Negli ultimi libri del Genealogia la definizione teorica della poesia e dei suoi rapporti con le altre branche dell’attività intellettuale umana si vale dell’opera di Dante come esemplare esercizio di lettura, oltre che come autorevolissimo precedente dottrinale, poetico e teologico:

Et sic alios non nullos equo modo magnalia Dei sub metrico velamine licterali, quod “poetico” nuncupamus, finxisse.

L’argomentazione è condensata soprattutto nell’equazione poeta-teologo:

nostrum Dantem sacre theologie implicitos persepe nexus mira demonstratione solventem, non sentiat eum non solum phylosophum, sed theologum insignem fuisse

ovvero:

Et, ut ex multis aliquid ostensum sit, noster Dantes, dato materno sermone, sed artificioso scriberet, in libro quem ipse Comediam nuncupavit defunctorum triplicem statum iuxta sacre theologie doctrinam designavit egregie,

che permette a Boccaccio perfino di “allegorizzare” sulla Commedia e, dettagliatamente, su Pg XXX, in forme non dissimili da Singleton, che, com’è noto, fa di questo canto il fulcro dell’«avvento di Beatrice»:

Et si hoc existimet, qua fultus ratione arbitrabitur eum bimembrem gryphem, currum in culmine severi montis trahentem, septem candelabris et totidem sociatum nimphis, cum reliqua triumphali pompa, ut ostenderet quia rithimos fabulasque sciret componere?

Occorre tuttavia precisare che il Singleton della fase esegetica più matura tenderà a deprimere il ruolo critico dell’autore della sua gioventù, non tanto rimproverandogli le pecche filologiche (peraltro non secondarie, se si pensa agl’interventi arbitrari sul testo della Vita Nova); quanto, piuttosto, rimpiangendo l’incapacità irreversibile dell’umanista Boccaccio di rientrare nel mondo di Dante, da lui distante appena una generazione.
Ribaltando la valutazione su quello che può essere stato il primo vero ausilio alla sua intuizione esegetica, Singleton ha parole dure per la sostanziale inintelligenza boccacciana del poema dantesco, ritenuta addirittura modalità capostipite dell’allontanamento, se non dell’indifferenza, dello sguardo critico dei secoli successivi, troppo “rinascimentali” e “illuministici” per apprezzare l’ordinata armonia del mondo (anche dantesco) medievale:

Forse un giorno ci renderemo conto che una delle indagini più importanti da intraprendere negli studi danteschi potrebbe consistere in una rigorosa considerazione del modo in cui abbiamo perso contatto, per dir così, con Dante e il suo tempo - e con il poema; ripercorrere la storia di questa nostra perdita e del modo in cui essa è avvenuta nel corso dei secoli significherebbe infatti acquisire una più acuta consapevolezza di quello che dobbiamo fare per recuperare il tempo e il “mondo” di Dante, nonché il poema in cui quel tempo e quel mondo si riflettono.

Attribuendo poi a Boccaccio la funzione di revisionista laico della spiritualità agostiniana che permea tutta la dimensione religiosa medievale (il cor inquietum dell’esordio delle Confessiones) e, forse, trascurando l’importante mediazione, “umanistica” certo, ma anche, se non soprattutto, agostiniana di Petrarca, Singleton così conclude la sua argomentazione e, insieme, conferma, “e contrario”, le basi della sua teoria dell’allegoria nell’opera dantesca:

Eppure, ben presto dopo la Commedia, appena una generazione più tardi, viene il Decamerone con il suo “cor quietum” e un Boccaccio che non intende più l’allegoria dantesca del cor inquietum, ma legge il poema come se Dante avesse scritto nei modi di un’allegoria pagana del “cor quietum”.

Boccaccio, cioè, soprattutto nel Comento a parere di Singleton, riconosce l’allegoria come nucleo fondante del poema dantesco, ma ne assume la duplicità del senso in modo genericamente culturale. Eppure, ancora in Genealogia, è dato ritrovare affermazioni nette ed esplicite come questa:

et quod poeta “fabulam” aut “fictionem” nuncupat, “figuram” nostri theologi vocavere

ma, in definitiva, Singleton rimprovera a Boccaccio di non saper recuperare la sostanza dell’ispirazione dantesca. E «recupero», fin dalle prime pagine della Poesia della Divina Commedia, è una categoria critica che connota fortemente l’esegesi singletoniana.
Non c’è dubbio, tuttavia, che, almeno sul piano della raccolta delle argomentazioni teoriche, la prima esegesi dantesca di Singleton si vale di alcune intuizioni boccacciane e, in ogni caso, della mediazione storico-critica che il più giovane scrittore trecentesco opera nei confronti di un predecessore da subito avvertito come maestro e in maniera molto più conclamata ed esplicita degli altri suoi colleghi contemporanei, Petrarca innanzitutto.
Ma è invece tutta del critico americano novecentesco l’insistenza sul «recupero» del mondo dantesco, inteso non soltanto come sostrato poetico-dottrinale dell’identità individuale dell’autore della Commedia, ma come parte di una realtà che si presenta a Singleton - uomo di cultura ma, è bene ricordarlo, uomo di fede cristiana - come governata da una mentalità umana collettiva fondata sull’ordine trascendente di tutte le cose naturali e di tutte le vicende storico-sociali:
Per mondo - è chiaro - non intendo semplicemente i fatti accertabili concernenti le centinaia di persone, luoghi e avvenimenti e le migliaia di allusioni che concorrono a popolare il “mondo” interiore del poema [...] intendo invece le forme precipue del pensiero e della sensibilità medievali, gli schemi fondamentali della mentalità e della fantasia cristiana che erano venuti prevalendo attraverso secoli di Cristianesimo - e che Dante aveva buon motivo di ritenere avrebbero continuato a costituire parte del nostro retaggio e a restare nei nostri cuori come vivo contesto del suo poema.

L’impulso intenzionale quasi teologico dell’interesse singletoniano per Dante “medievale” affiora fin dalle prime pagine della Presentazione, anche attraverso l’analogia con la condizione dell’arte architettonica coeva:

Nessun artista è in grado di prevedere i cambiamenti che il tempo potrà apportare al contesto pubblico della sua opera [...]. Nell'opera, quale egli l’aveva composta, il significato interiore e privato era in tensione con ciò che stava all’esterno, con un contesto che finiva per essere una specie di “dimensione pubblica” [...]. Quella “dimensione pubblica” di un’opera d’arte non esiste, naturalmente, che in noi: ma noi siamo cambiati moltissimo. Nel caso dell’arte medievale, tale dimensione, nella sua portata più generale, non era altro che la persuasione che in questo mondo nulla importa quanto la salvezza (salus) dell’anima, e che la vera salvezza è possibile solo per mezzo di Cristo, facendo emergere in tal modo l’istanza convintamente religiosa sottesa alla sua attività critico-esegetica:

Ecco perché, chi desidera comprendere un’opera in sé, dovrà parlare così spesso di cose che sembrano al di fuori e al di là di essa.

E, in particolare nella Divina Commedia, l’esigenza di rintracciare le «dimensioni del significato», che sono, altresì, gli «elementi fondamentali della struttura» s’imbatte da subito nelle cose che, per così dire, sono fuori dalle parole, anche se da queste sono espresse:

la poesia di Dante nella Divina Commedia è un esempio supremo di “imitazione”: l’opera fu deliberatamente costruita come analogia di quel grande “poema” che nella concezione del Medioevo cristiano è l’universo creato.

Non va taciuto, tuttavia, che a queste perentorie affermazioni, peraltro non ellittiche perché argomentate in molte pagine, sarà obiettata da parte della critica dantesca non singletoniana una contraddittorietà non solo critico-letteraria ma anche teologica e, cioè, di aver reso Dante un competitore non solo poetico ma quasi luciferino del Creatore effettivo di tutte le cose e le parole!
Ma, prima di ciò, va notato che il «recupero», in quanto cornice metodologica, è sostenuto da una spinta alla compenetrazione dello sguardo critico con l’oggetto di studio. Con i termini della teologia cristiana, si tratta per Singleton di vera e propria incarnazione, ovvero della necessità di ridarsi con piena e totale disponibilità della mente e del cuore al mondo che fu di Dante.
L’atto della volontà coincide con l’atto critico. Infatti, anche se ciò ha potuto e, forse, potrà sorprendere più d’uno, secondo Singleton anche un ateo può conoscere e gustare la poesia (religiosa e cristiana, come s’è visto) della Divina Commedia se attua, per il tempo che serve, una sospensione e un trasferimento; così come la disponibilità del cristiano verso una poesia che per Singleton è definibile come laica e areligiosa (se non proprio irreligiosa) è comprovata sul testo che ha ricevuto le maggiori attenzioni del filologo “as a young man”, il Decameron.
Non è contraddittorio, quindi, ritrovare l’affermazione che, per apprezzare la situazione di partenza del Purgatorio, «noi siamo invitati a considerare l’episodio come se avesse luogo nella vita terrena» e che, per far questo, poiché «noi siam peregrin come voi siete» (Pg II, 63), occorre «immedesimarci nella nostra vera condizione di Cristiani».
È necessario insomma condividere il mondo di Dante, essere in comunione (e il termine è allusivamente pregnante in questo caso e per niente affatto parodistico) con Dante e con tutto ciò con cui è in comunione Dante. A partire, magari, dalla constatazione della sicura coscienza dantesca di operare, attraverso il poema sacro, una sorta di imitazione sia dell’universo creato da Dio sia del Libro parlato, per così dire, da Dio: le cose, appunto, e le parole, da cui scaturiscono in maniera conseguenziale i procedimenti tecnico-espressivi del «simbolismo» (imitazione della struttura del mondo reale) e dell’«allegoria» (imitazione della struttura della Sacra Scrittura).
Ma risalta intanto, e in via preliminare rispetto al concreto dispiegarsi dell’interpretazione singletoniana dell’opera di Dante, l’uso di categorie critiche, teoriche, ermeneutiche e più propriamente filologico-esegetiche di provenienza ed uso non puramente danteschi.
Le «dimensioni del significato» accennate da Singleton in esordio non esauriscono la loro realtà sul piano tematico o contenutistico: esse sono, invece, «elementi fondamentali della struttura del poema» e come tali assumono la veste di protagonisti della costruzione dei registri stilistico-espressivi del testo dantesco.
L’allegoria e il simbolismo non sono arnesi posticci, impalcature provvisorie ma appunto, per iterare la metafora edilizia, «struttura», che è nozione piuttosto attinente agli esiti filosofico-linguistici e antropologici delle scienze umane e naturali del (primo) Novecento e, per giunta, non riducibile a quel grado della stessa metafora edilizia, con cui condivide solo il campo teorico, utilizzato da Benedetto Croce per affermare, già trent'anni prima di Singleton, che la Divina Commedia era un «romanzo teologico», l’allegoria una «criptografia allotria» e che, anzi, a proposito di mondo dantesco, «quelle dottrine vi stanno in quanto pensate ma solo in quanto immaginate, e perciò non si dialettizzano nel vero e nel falso» e che

paragone per paragone, si potrebbe piuttosto raffigurarla come una fabbrica robusta e massiccia, sulla quale una rigogliosa vegetazione s’arrampichi e stenda e s’orni di penduli rami e di festoni e di fiori, rivestendola in modo che solo qua e là qualche pezzo della muratura mostri il suo grezzo o qualche spigolo la sua dura linea.

Così come è quasi sorprendente riscontrare, al termine di una lunga argomentazione tra le più costitutive dell’interpretazione singletoniana di Dante e della Commedia, il ricorso ad una categoria critica gravata, quant’altre mai, dai termini più intensi ed estremi del dibattito teorico, storico-critico, storico-ideologico e politico-culturale del primo e secondo Novecento: il “realismo”. Se, ancora una volta, simbolismo e allegoria sono «elementi fondamentali della struttura» dell’opera, e dunque coessenziati ad essa, se, cioè, per usare le stesse parole di Singleton

l’intero viaggio nell’aldilà va oltre il linguaggio metaforico, non è riducibile alla specie di allegoria entro cui ha avuto origine. Quando la figura di quest'uomo vivo, questa persona in cui anima e corpo sono ancora uniti, varca la porta dell'Inferno, il poema abbandona la doppia visione, ben riconoscibile e familiare, con cui era iniziato, e perviene a una visione singola ed assolutamente singolare, cioè a dire un viaggio singolo: a una visione resa fisicamente sensibile, che possiede una corposità e una forza di persuasione quali non si sarebbero potute attendere dall’inizio. Lì si dipana il filo di un viaggio letterale presentato come reale [...],

allora

dovunque è il particolare, l’individuale, il concreto, il sensibile, l’incarnato, con tutta la forza e l’irriducibilità della realtà stessa. Qui è visione fatta davvero carne, e la possibilità che ciò abbia luogo ha origine proprio là, nel prologo del poema.

La conclusione è netta e sicura: «se solo guarderemo il mondo nel modo in cui lo concepiva lui», premette Singleton così “recuperando” Dante, «ci renderemo conto che l’arte di questo poeta religioso è essenzialmente realistica».
Si può affermare, in definitiva, che se “allegoria” e “simbolismo” sono i capisaldi della Commedia e di Dante, “struttura” e “realismo” sono gli ambiti teorici e operativi entro i quali è possibile iscrivere l’attività critico-letteraria di Singleton.
E la critica dantesca americana eredita in linea indiretta, quasi subliminale, la lettura che di queste categorie teoriche è stata fatta in ambito europeo e, in particolare, si trova a utilizzare il concreto apporto agli studi danteschi, e medievali, di E. Auerbach.
Certo, una ricostruzione a sé stante meriterebbe, in via preliminare, l’ampia fondazione del discorso che Singleton presenta nel Saggio sulla “Vita Nuova” del 1949; basti dire che sono riconoscibili, nell’edizione italiana, interi passi (con il relativo processo argomentativo) che dal Saggio sono trasferiti nella prima parte della Poesia della Divina Commedia: come, ad esempio, la questione dell’«analogia» e del rapporto tra artista, pubblico e opere (p. 10) testé notata, la ripresa del confronto critico con Curtius (p. 40), Auerbach (p. 44) e Spitzer (p. 11 e 66), i riferimenti suggestivi a Petrarca (p. 69 e 92) e a Cavalcanti (p. 102 e 133), oltre che all’Epistola a Cangrande (p. 121).
Pur essendo ormai riconosciuto il contatto tra Singleton e Auerbach (e oggi persino Freccero ribadisce, come si vedrà, in modo molto argomentato convinzioni testimoniate già da alcuni decenni), è stata rilevata, tuttavia, la singolare coincidenza tra la produzione dell’ultima fase, americana appunto, del lavoro dello studioso tedesco e la prima esplicita formazione delle tesi critico-esegetiche di Singleton. Nel decennio a cavallo degli anni Cinquanta essi elaborano e pubblicano le loro interpretazioni dantesche senza reciprocamente menzionarsi. Ciononostante si trovano ad essere ospitati nello stesso numero del 1952 dedicato a Dante dalla «Kenyon Review» (la rivista ritenuta allora l’organo portavoce dei più prestigiosi aderenti al cosiddetto “New Criticism”), in compagnia dei maggiori studiosi americani e stranieri (Contini, ad esempio).
Solo recentemente, insomma, con le precisazioni di Baranski e le definitive ammissioni di Freccero, che fanno tesoro anche delle prime e già corrette annotazioni degli anni Sessanta di Della Terza, la critica dantesca americana ha evidenziato il filo che lega le due esegesi della Commedia che più delle altre, nel primo e secondo Novecento, valorizzano dell’opera di Dante il rilievo figurale dell’allegoria e la densità poietica del simbolismo, la pregnanza della realtà individuale e la generalità teoretica ed artistica del tipico.
Per Auerbach nella struttura della Commedia risiede il fondamento della poesia di Dante. Come rileva Della Terza, nella Prefazione all’edizione italiana degli Studi su Dante, se la struttura è il «principio di costruzione valido per scoprire il meccanismo che fa scattare il destino poetico dei personaggi danteschi», allora «non vi è altra poesia che la struttura stessa».
Viene in tal modo ribaltata anche da Auerbach la posizione crociana, così come fa Singleton che anzi, da parte sua, accusa esplicitamente il filosofo abruzzese di operare un indebito recupero di Dante nella sua concezione estetica e di non disporsi, quindi, a ricevere con partecipe apertura il messaggio dell’opera.
E la struttura del poema è costruita, secondo Auerbach, e proprio come pensa Singleton, ad imitazione della struttura del mondo creato da Dio. Di qui l’inferenza allegorica che in Auerbach si specifica come interpretazione figurale e in Singleton come rispecchiamento analogico del senso letterale e del senso duplice.
La «mimesis», l’imitazione o, come meglio si potrebbe dire oggi, accogliendo la proposta terminologica di G. Genette, la «simulazione» della realtà nel testo è, per ambedue gli esegeti, principio poietico attivo della «struttura» e, insieme, garanzia teoretica ed estetica. E, quanto alla struttura, la «mimesis» agisce come espressione della memoria poetica che fabbrica, costruisce, simula, appunto, non tanto «copia di cose determinate», ma, piuttosto, si ritiene autorizzata a «fondere a suo piacimento il suo materiale di realtà, tratto dall’infinito numero delle cose di cui la memoria dispone».
Essa perciò identifica l'imitazione della realtà con «l’imitazione dell’esperienza sensibile della vita terrena» e in tal modo, poeticamente «l'aldilà diventa teatro dell’uomo e delle sue passioni». Dante è «poeta della vita terrena» (come s’intitola un famoso saggio auerbachiano) e “perciò” realista.
La nozione di realismo di Auerbach non dipende dalla «verimiglianza e la credibilità dei fatti», ma, piuttosto, da

un genere di rappresentazione che raffigura i fatti in modo evidente, siano essi verosimili oppure no, sicché il problema della loro verisimiglianza può sorgere solo ad una riflessione successiva [...] secondo la concezione qui seguita importa l'evidenza della cosa rappresentata

e se per Singleton Dante è «poeta di Platone», l’esegeta tedesco s'inserisce a suo modo nella tradizione filosofico-estetica classica, valorizzando le inferenze teoriche del platonismo nella operatività aristotelica. Un intreccio, è bene precisarlo, che percorre altresì tutto il medioevo:

Aristotele ha quindi formulato la nozione che il particolare formalmente determinato realizza l’idea e con ciò lo ha riabilitato come oggetto dell’imitazione,

con la conseguenza che

la cosa artisticamente imitata rappresenta qualcosa di più fortemente formato che non il suo modello empirico, e dunque di maggior valore.

Non è chi non veda che tali affermazioni, oltre a connotare originalmente la categoria del realismo, conducono esplicitamente al cuore dell’esegesi dantesca e diventano perspicue anche se vengono riferite, allusivamente, alle basi teoriche della lettura singletoniana.
Affine, poi, a quella di Singleton è l’utilizzazione auerbachiana della «dottrina» di Dante non separabile dal suo «genio poetico». Di qui l’importanza totalizzante (anche se, forse, non totalitaria come talora appare in Singleton) del fondamento cristiano dell’opera dantesca, inteso soprattutto nel suo aspetto “creaturale”, e, cioè, di valorizzazione intensa della specificità dell’umana creatura che, particolarmente nella sofferenza, è posta in contatto con il suo Creatore, nella persona di Cristo uomo e dio.
Anche per Auerbach, ma l’“anche” non mira a stabilire un “posterius” rispetto a Singleton, il realismo dantesco è il riflesso artistico della sua convinzione teologica: per Dante «la misura della storia stessa ma il perfetto ordine divino del mondo». Ed è altrettanto avvertita dallo studioso tedesco l’esigenza peculiarmente singletoniana di «recupero» del sentimento dantesco del mondo:

Evidentemente la sua concezione dell’accadere, della storia non è identica a quella generalmente diffusa nel mondo moderno: in verità egli non lo vede solamente come evoluzione terrena, come sistema d’avvenimenti sulla terra, bensì in continua correlazione con un piano divino, che è la meta a cui continuamente volge l’accadere umano.

Il mondo terreno di Dante si realizza, anche poeticamente, nell’“altro” mondo che gli dà senso (come Auerbach afferma, sulla base di una nota osservazione di Hegel sulla Commedia).
Ed ecco quindi, ad imitazione della Sacra Scrittura, che è la traduzione umana del piano divino, l’interpretazione figurale come completamento del senso umano, terreno e creaturale:

L’interpretazione figurale stabilisce fra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l’altro, mentre l’altro comprende o adempie il primo.

Ma, per Auerbach, il realismo figurale consente altresì di ottenere e garantire «la conservazione del carattere storico e reale delle figure contro correnti spiritualistico-allegoriche».
Anche per Singleton è necessario dare valore autonomo alla realtà letterale dell'evento, pur interrelato col più compiuto significato secondo. Nella Poesia della Divina Commedia si insiste molto spesso sulla formula del «questo e quello», ovvero della realtà duplice delle “cose” che sono e, insieme, significano. E le cose sono tutti gli aspetti della creazione, ovvero i due “libri” scritti da Dio, quello della natura e quello, più indiretto, trascritto dall’uomo con le parole.
Nemmeno il termine «figura» è assente dal lessico singletoniano, ma, come per tanti altri elementi compositivi dell’esegesi applicata al testo dantesco, esso deriva da una fonte che è esplicitamente dichiarata teologica: le cose esistono «per il significato che esse esprimono», afferma il critico riprendendo l’agostiniano grazia significandi e, quindi, per citare un’applicazione esemplare dello schema, Matelda, realtà dell'Eden situato fisicamente, poeticamente e teologicamente in cima alla montagna (ancora) terrena e umana del Purgatorio, è «la figura della condizione umana prima del peccato» ovvero «di una perfezione naturale di cui nessun vivente potrà mai più godere». Ed è appunto evidente, a tal proposito, l’influenza, semiotica ante litteram, di Agostino, soprattutto nella netta e sicura distinzione tra “verba” e “res”, pur ricondotta alla matrice divina.
Essa dà luogo in Singleton a un complesso e conseguenziale ragionamento, fondato su parallelismi e analogie, al termine del quale appare quella che con icastica formula viene chiamata la «sostanza delle cose vedute». Singleton argomenta che, poiché tutte le cose sono «in grembo a Dio», quando esse sono «vedute», acquistano un tratto imprescindibile di oggettività. Perciò il mondo terreno e creaturale, per dirla con i termini di Auerbach, è per Singleton oggettivo e, dunque, non solo reale ma «realistico»: Dante «vede da poeta, e da poeta realizza, quello che è già concettualmente elaborato e fissato nella dottrina cristiana».
In verità è questo, forse, l’unico momento in cui Singleton sembra riconoscere e notevolmente apprezzare, al di là di ogni eccessiva o troppo conseguenziale “teologizzazione”, la consistenza letteraria dell’opera dantesca: dall’ammissione che la Commedia è «prima di tutto una narrazione, il racconto di un viaggio» che è rievocato nella memoria («e proprio per ciò non può essere presentato in forma drammatica», al riconoscimento della liceità della «fictio» non solo come foriera della «veritade ascosa sotto bella menzogna» (che è, come si sa, la formula con cui Dante nomina la cosiddetta “allegoria dei poeti” nel Convivio), ma come condizione di esprimibilità di quella «sostanza delle cose vedute» che, altrimenti, resterebbero perfettamente vere, oggettive e reali, ma prive di ricezione umana. Ecco perché, utilizzando ancora una volta l’eco agostiniana, in particolare quell’importantissimo passo dei Soliloquia, II, 10 in cui si afferma, pur dopo lunga, complessa e vivace argomentazione, che «certe opere devono essere false per poter essere vere», Singleton perviene a sintetizzare con un famoso paradosso la dimensione strutturalmente realistica del poema dantesco: «La fictio della Divina Commedia è che essa non sia una fictio».
Ma, a differenza di Auerbach, che tende piuttosto a mettere in rilievo la progressiva emancipazione della concreta raffigurazione poietico-fantastica del “poeta”, Singleton tralascia ben presto il coté più propriamente estetico, per rimarcare, ove ce ne fosse bisogno, la cornice fideistico-teologica che garantisce a Dante la pretesa e il destino di “profeta”.
È qui che le posizioni dei due grandi esegeti tendono a distanziarsi, anche se, oggi, dopo tanti studi che hanno evidenziato le differenze, è forse il caso di rintracciare, ancora una volta, le somiglianze, comuni, del resto, come si vedrà subito, ad altre apparentemente più lontane posizioni critiche.
Singleton riprende totalmente l’Epistola XIII indirizzata a Can Grande della Scala, da lui attribuita a Dante senza ombra di dubbio, e esalta, in particolare, la formula allegorica che l’estensore della lettera propedeutica alla lettura del Paradiso propone e, cioè, il poema come «polysemum, itinerarium mentis ad Deum, conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratie», e così via.
Il viaggio è quindi, nello stesso tempo, del cor inquietum e della persona viva “là”, attraverso l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, “qui”, avvenimento reale e oggettivo della nostra vita; il “viator” è Dante e, insieme, «Everyman» (Ognuno) o, meglio, «Wicheveryman» (Chiunque, Qualsiasi Uomo).
Perciò l’allegoria di Dante, in quanto effettiva imitazione dell’allegoria biblica, «è esplicitamente radicata nella teologia del suo tempo» e ciò significa che «il poeta non ha inventato la dottrina» ma ha avuto la capacità di mettere in versi la realtà vera e oggettiva: perfino nelle osservazioni più direttamente versate sulla “forma” del poema Singleton non può evitare la ripresa della tesi generale e la «terza rima», giovanile intuitiva occasione ermeneutica, gli sembra «riflettere la realtà che è una e trina» (e da qui prenderà le mosse J. Freccero, per il suo «significato della terza rima», mentre, ancora una volta, occorrerà registrare l’analoga intuizione di Auerbach, del 1929: «la santa Trinità si rispecchia nella tripartizione del poema, nel numero dei canti, nella terzina, e nell’ordine delle rime. Trinità dei versi e trinità delle rime [...]».
La posizione di Singleton che, così argomentata, rischia l’elusione del problema della “poesia” di Dante a favore della “teologia” (o, come pure è stato notato, di una diversa accezione della «struttura» come «non poesia») è sostanzialmente condivisa dalla critica dantesca coeva, almeno nel senso che appare difficile prescindere dal manifesto rilievo critico-esegetico e critico-ermeneutico dell’“allegoria dei teologi” nella Commedia, ma, nello stesso tempo, sembra impossibile rinunciare alla specificità letteraria del testo poetico.
È il caso problematico dello stesso Auerbach: «la potenza poetica di Dante non avrebbe raggiunto così alta perfezione, se non si fosse ispirata ad una visione di verità trascendente ogni significato immediato e attuale»; ma è anche quello, più implicito e inatteso, di un critico come Contini, da sempre equilibrato mediatore tra “poesia” e “teologia”, anche perché attento lettore sia di Auerbach che di Singleton:

l’inesauribile facoltà rappresentativa è fatta servire alla dottrina o alla narrazione figurata, dà una vera garanzia d’indipendenza alle scene, tanto potenti da valere, al postero, per sé; qui è il nodo del rapporto fra “struttura” e “poesia”, ma occorre riferire questa situazione alla peculiare condizione della libertà nel medio evo. Diversamente che nel mondo odierno, essa si attua con straordinaria elasticità entro un perimetro di assoluta sicurezza, autorità o fede.

Tutti gli autori finora menzionati avvertono, in definitiva, l’importanza dell’esigenza diretta e indiretta di «recupero» del mondo dantesco sollevata per la prima volta da Singleton, ma non tutti, soprattutto nella critica dantesca di generazione più contemporanea, sono disposti a condividere i tratti perentori e compatti con cui è disegnato lo schema d’interpretazione dell’opera di Dante, dalla Vita Nova al Convivio alla Commedia. La richiesta di Singleton di accettare il mondo di Dante e, nell’accettarlo, di attraversarlo col cuore e con la mente fino a coinvolgersi nel «riorientamento» salvifico, coincide in maniera forse troppo totalizzante con l’invito a compartecipare dello stesso sguardo critico che valorizza quel mondo: a sostituire, insomma, l’orizzonte d’attesa del lettore moderno del testo dantesco e medievale con quello che si presume organicamente inserito nel testo dantesco e medievale, che l’esegeta ha svelato con fideistica intuitività e che il lettore moderno non può rifiutare.
Spesso, a tal proposito, l’argomentazione è affascinante, tende a un consenso del cuore, appunto, piuttosto che dell’intelletto. Singleton si meraviglia, ad esempio, che «non uno tra le dozzine di commenti della Commedia pubblicati negli ultimi cinquant’anni si preoccupa di seguire il disegno dell’allegoria più che in modo sporadico»; addebita a Croce la responsabilità di aver attualizzato nel Novecento il rifiuto dell’allegoria, di provenienza rinascimentale, e lo accusa soprattutto di tendenziosità ideologica:

Come al solito lo studioso di estetica non conduce i propri passi verso l’opera, ma pretende che sia l’opera a venire da lui, per farsi giudicare in base alle sue categorie.

Andare verso l’opera significa, invece, fare l’esperienza nuova e inattesa, dichiarata quasi con candore: «Non so perché tutto questo non l’abbiamo visto prima» e, a proposito dell'osservazione numerologica sui canti centrali del Purgatorio, e della Commedia, su cui si basa l’intero saggio Il numero del poeta al centro, la scoperta non suscita troppi rimpianti retrospettivi di tipo filologico o storiografico: «[...] l'importante è che la vediamo ora».
Ma l’esposizione più conseguente della linea teologica che guida la lettura singletoniana della Commedia è raggiunta, senza dubbio, nella ripresa ermeneutica di un “passaggio” tra quelli più centrali (se non il più centrale), del testo biblico e, insieme, secondo il critico, del testo dantesco: l’immagine dell’Esodo.
«In exitu Israel de Aegypto» è infatti, oltre che un allusivo verso della Commedia (Pg II, 46), il titolo di un saggio di Singleton del 1960 che costituisce il frutto maturo e, per certi aspetti, conclusivo dell’esegesi del testo dantesco.
Singleton aderisce alla quadruplice significazione dell’evento storico-letterale contenuto nella Bibbia, così come viene esposta nel paragrafo 7 dell’Epistola a Cangrande, riusandola con tutto il corredo della fraseologia medievale, dal distico mnemonico riassuntivo dei quattro sensi («Littera gesta docet, quid credas allegoria/moralis quid agas, quo tendas anagogia»), alla derivazione delle «due specie di allegoria», per Dante e in Dante, dalla rielaborazione tomista dell’intera tradizione classico-cristiana, non puramente aristotelica, bensì anche platonica, neo-platonica e, soprattutto, agostiniana.
Ma, secondo lo schema del «questo e quello», l’allegoria teologico-biblica diventa altresì nella Commedia la quadruplice significazione del viaggio del pellegrino raccontato dal poeta. L’Esodo è figura coessenziata a Dante che, a suo vantaggio e in nome di - e al posto di - tutte le altre creature umane, esce dall’Egitto, compie l’attraversamento del Mar Rosso (ovvero del Mare dei Giunchi, come quasi enigmisticamente, ma brillantemente, suggerisce Singleton con riferimento alla prima scena purgatoriale), fino a raggiungere la terra promessa dell’Eden-Israele (anche se, poi, il “passaggio” non è così netto e immediato: prima dell’Eden-Israele c’è il Giordano, fiume di fiumi, "fiumana” che può “vantare” la consistenza di mare, che è la vera e definitiva frontiera da superare, affinché l’uomo nuovo arrivi al paese nuovo, come osserverà più estesamente J. Freccero nel suo saggio che si fonda, esplicitamente, «sulle parole stesse di Dante e sulla dimostrazione di Charles Singleton»).
Il fulcro dell’esegesi, nonché del poema, è individuato da Singleton nel canto XXX del Purgatorio, in cui viene descritto l’Eden, luogo dell’avvento di Beatrice mediante la processione trionfale, il punto in cui, come il critico dirà successivamente, il viaggio di Dante con Virgilio «verso» Beatrice si trasforma nel viaggio «con» Beatrice verso Dio. Singleton asserisce che Beatrice è la stessa che, senza sbalzi, appare e “significa”, per così dire, a Dante fin dalla Vita Nova («la Commedia accoglie entro di sé l’esperienza della Vita Nuova»). Essa percorre la traiettoria dantesca coincidendo con i momenti salienti della vita intellettuale e morale del poeta e, anche quando sembra discostarsene, magari per far posto alla donna Petra o a Madonna Filosofia, incombe comunque sul destino essenziale del protagonista.
A Singleton non pare che il processo esegetico descritto, fondato altresì su un’interpretazione univoca dello stesso processo autoesegetico dantesco, possa mostrare crepe, lacune e contraddizioni: si tratta, fin dall’inizio, di un “journey to Beatrice” e Viaggio a Beatrice s'intitola, com'è noto, il volume apparso nel 1958 e ora compreso nella Poesia della Divina Commedia, di cui Il disegno al centro costituisce il capitolo terzo.
Beatrice, auerbachianamente, è «figura Christi», al punto che nell’Eden il trionfo è della Donna (beatrice) “al posto di" Cristo: come afferma Singleton, con felice e acuta intuizione critica, a proposito di Pg XXX, 19 («Tutti dicean: “Benedictus qui venis!”»), «A venire non è Cristo — è Beatrice che viene come Cristo». Anche Beatrice è nella relazione di «questo e quello» con Cristo e il suo significato è completato dal significato che per ogni credente, e per Dante innanzitutto, ha Cristo e Singleton prontamente osserva che «qui si ha, una concezione del tempo, e della storia, che non potrebbe essere più cristiana». Ecco perché, attraverso la descrizione del viaggio a Beatrice, Singleton si propone di «portare in luce il disegno generale dell’allegoria della Commedia», facendo ricorso, senza dubbio con abilità e dottrina, agli elementi di teologia, e di “teologia morale”, presenti nel corpus della cultura medievale, da Agostino a Tommaso, fino ai mistici vittorini e, anche, ma sporadicamente, agli scrittori di “poetria”: testimoni oggettivi, questi ultimi, e talora ingombranti, della “letterarietà” dantesca, che il critico allegorico «non esclude dal novero di ipotesi di lavoro plausibili, ma che nella pratica operativa che ci è tramandata risulta come messo tra parentesi e sottaciuto».
L’”avvento di Beatrice” non è per Singleton mera occasione esemplificativa ma, come s’è già visto, tale centro esegetico da poter arguire che, per il critico, l’azione effettiva della narrazione dantesca si concluda nell’Eden e che il Paradiso (luogo e cantica) sia appendice quasi ridondante, se non inessenziale, del centro di manifestazione e, per certi aspetti, di realizzazione della Giustizia divina ovvero dell’ordine cosmico, terreno ed umano. Le cose non stanno, ovviamente, in questo modo, soprattutto perché Singleton motiva l’importanza dei culmini teologico-narrativi attraverso la dichiarazione che essi realizzano compiutamente ciò che precede, nel tempo sia della vita che della narrazione, sia del senso letterale che di quello allegorico. Ritorna, cioè, ma per assumere una posizione definitivamente centrale, la consueta analogia, qualitativamente connessa, tra «questo e quello», tra il punto raggiunto dal protagonista del viaggio, pellegrino e/o poeta, e ciò che lo ha preceduto, per così dire, “in verbis” e “in factis”. Si tratta di quella dinamica allegorico-teologica, certo, ma dotata di inevitabili riflessi sulla architettura narrativa del poema, che, ancora una volta con felice colpo d’ala ermeneutico, Singleton ha chiamato della «visuale retrospettiva» (e The Vistas in retrospect s’intitola il saggio relativo, non a caso presentato come testo del discorso tenuto il 21 aprile 1965 a Firenze, in occasione del Congresso Internazionale di Studi Danteschi e, come si può notare, nel settimo centenario della nascita di Dante).
Tributando alla dimensione letteraria del testo dantesco un omaggio che, forse, va al di là delle intenzioni, Singleton argomenta che la visuale retrospettiva permette di cogliere il senso profondo e secondo del senso letterale proprio quando un evento, un episodio o una connessione tematica vengono inseriti nella struttura del poema considerato come una «frase»:

In verità, non c'è mezzo più infallibile per distruggere una poesia che impedirle di attuarsi secondo l’intendimento del poeta, che intromettersi dicendo al lettore quello che egli deve apprendere soltanto nello svolgimento e capire soltanto dalla fine [...] è come se uno, ascoltata la prima parola di una frase (fuor di metafora), interrompesse colui che parla per spiegare quale sarà il significato di quella parola quando saranno state pronunciate le altre che costituiscono la frase. Eppure è questo il metodo costantemente praticato dai nostri commentatori [...] che cosa dovrà fare il nostro chiosatore? Come potrà rispettare la forma del poema? La risposta mi sembra chiara: egli dovrà escogitare dei modi di commentare le varie «frasi» dalla loro «fine», dovrà sapersi voltare indietro a guardare le varie sequenze di significato da posizioni donde sia possibile comprenderle, vale a dire, da dove queste «totalità» possano essere viste retrospettivamente come tali.

Ora, a parte l’intrusione di un altro termine teorico-critico appartenente al campo storico e semantico della «struttura» e del «realismo» come quello di «totalità», conta rilevare che la conclusione esegetica di Singleton, nel mentre allude, con singolare anticipazione, ai moderni metodi di trattamento narratologico dell’opera dantesca, intesa, appunto, innanzitutto come testo narrativo, realizza altresì, a suo modo, la definizione auerbachiana di «figura», intesa come senso completo e compiuto dell’evento e del senso (storico, letterale) che lo ha preceduto. Ma tale duplice risultato dell’esegesi singletoniana comporta un ineludibile intreccio, produttivo di inedite e creative inferenze negli studiosi che in anni più recenti si sono dedicati alla critica dantesca, a cominciare dallo stesso Freccero.
Ma, intanto, a riequilibrare i piani della poesia e della teologia, soccorre in conclusione questa «frase» di Auerbach, che vale a connotare l’apporto migliore della generazione di critica dantesca della prima metà del Novecento e che Singleton, pur dopo qualche esitazione, avrebbe potuto accettare e infine condividere, forse, con calore, trattandosi della sua Beatrice, secondo Auerbach un «demone particolare»:

nella sorte eterna il fenomeno non è distinto dall’idea, ma è contenuto e trasformato in essa. Solo la poesia è disposta e capace di dar forma a ciò; essa supera la filosofia dottrinale, che non può abbandonare e oltrepassare la ragione; essa sola è all’altezza della rivelazione e può esprimerla; ed essa esce dall’ambito della bella apparenza, non è più imitazione e non sta al terzo posto nell’ordine dopo la verità, bensì la verità rivelata e la sua forma poetica sono una cosa sola.

Poesia e teologia rimangono, dopo Auerbach e Singleton, i poli della critica dantesca americana. E, accanto a chi svolge la propria “lectura Dantis” intorno a uno ed uno solo dei termini, c’è chi, come J. Freccero, tenta di raccogliere, e spesso raccoglie, l’eredità congiunta dei grandi maestri, per spostare, innovativamente, il senso della Commedia e della critica dantesca.

Date: 2023-01-04