Gli studi sulla poetica e sulla retorica di Dante e del suo tempo [August Buck]

Dati bibliografici

Autore: August Buck

Tratto da: Dante nella critica d'oggi

Editore: Le Monnier, Firenze

Anno: 1965

Pagine: 159-166

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La finalità etica della Divina Commedia non era in se stessa nuova, poiché già nel commento al Convivio Dante in considerazione del contenuto morale delle canzoni le aveva interpretate allegoricamente, e nel De Vulgar Eloquentia aveva assunto le parti del poeta della «rectitudo» . Ma nella Divina Commedia egli realizza un nuovo concetto di poesia filosofica, quale si era formato a poco a poco nel suo spirito. Mentre nella Vita Nuova aveva ritenuto che per essere poeta basti la formazione retorica , nel commento alle canzoni del Convivio presuppone per di più un sapere relativamente vasto e, in particolare, cognizioni di filosofia morale. Quando nel De Vulgari Eloquentia esige insieme all’«ingenium» e all’«ars» anche la «scientia» , intende — secondo il significato medioevale del termine «Philosophia» — non soltanto una cultura generale, quella viene trasmessa dalle «septem artes liberales» bensì anche speciali cognizioni di filosofia. Studiando con lo stesso zelo sia gli «auctores» cioè i poeti, i retori e gli storici latini dell'antichità e del medio evo, che Aristotele, Dante ristabilisce il legame tra le «artes» e la filosofia, nesso infranto dall’Aristotelismo e da Tommaso d'Aquino.
Gli riuscì così di eliminare il conflitto fra poesia e filosofia, conflitto che già per Platone stesso esisteva da molto tempo; e di conseguenza portava la poesia ad un grado più elevato nel cosmo spirituale del medioevo. L’alta Scolastica aveva annunciato, per bocca di Tommaso d'Aquino, che fra tutte le attività dello spirito la poesia era l’infima, poiché contiene un minimo di verità ; Dante invece esige che la poesia svolga una funzione analoga a quella della filosofia. Chi al seguito di un De Sanctis formuli un giudizio sulla Divina Commedia, partendo dalla convinzione che tra il poeta e il pensatore Dante sussista un contrasto, non comprenderà né Dante né la sua poesia. Dante è poeta e nello stesso tempo pretende di essere filosofo . La filosofia nella Divina Commedia diviene parte integrante della concezione poetica Ce tale; poiché Dante vuole che la sua opera venga interpretata come un poema didascalico nei confronti del suo valore filosofico-morale: «Genus vero phylosophie sub quo hic in toto et parte proceditur, est morale negotium, sive ethica» .
Il concetto di poesia filosofica, per il quale non c’era stato posto nel pensiero dell’alta Scolastica, Dante lo trovò nella Francia del secolo XII dove poeti e filosofi si erano occupati degli stessi argomenti operando una reciproca penetrazione tra poesia e filosofia . I poemi epici di un Bernardo Silvestre, di un Alano de Insulis e di un Giovanni de Honville stanno a rappresentare un nuovo genere letterario nel quale problemi di filosofia naturale, di morale e di teologia vengono trattati con un’espressività linguistica spesso sorprendente, utilizzando in parte gli antichi modelli stilistici. Era da supporre che Dante avesse conosciuto questi testi e che si fosse trovato sotto il loro influsso. Dopo che, già ottanta anni fa, furono notate certe somiglianze tra l’Anticlaudianus di Alano e la Divina Commedia , le indagini del Curtius e del Ciotti hanno chiarito i rapporti fra le due opere sino a punto che ormai è possibile affermare con sicurezza che Alano abbia esercitato un influsso su Dante, sebbene questi non ne faccia mai segno. Le precise proporzioni di questo influsso potranno essere messe in evidenza soltanto da un dettagliato confronto di ambedue i poemi; lavoro che rimane ancora da fare .
A prescindere dalla concordanza in singoli elementi stilistici e motivi letterari, i due poemi presentano due varianti diverse dello stesso tema, cioè l’ascesa dell’uomo nella realtà trascendente dell’Empireo. In ambedue i casi la ragione da sola non è capace di compiere questa ascesa, essa ha bisogno di essere aiutata dalla teologia. Quando questa nell’ultima parte del viaggio cosmico assume nell’Anticlaudianus la guida, la «ratio» resta indietro, come Virgilio nella Divina Commedia non appena Beatrice si occuperà di Dante. A questa affinità di struttura corrisponde un analogo atteggiamento in riguardo della poesia. Come Dante nella Epistola a Can Grande così Alano nel prologo all’Anticlaudianus fa notare il contenuto filosofico-morale della sua opera ed esige che questa venga interpretata allegoricamente: «In hoc etenim opere litteralis sensus suavitas puerilem demulcebit auditum, moralis instructio perficientem imbuet sensum, acutior allegorie subtilitas proficientem acuet intellectum» .
Un esempio di una tale interpretazione filosofico-morale per la poesia epica ce lo dà un altro poeta «filosofico» del secolo XII: Bernardo Silvestre, autore del «prosimetrum» De universitate mundi, ha scritto un commento allegorico all’Eneide, allora molto diffuso, e noto direttamente o indirettamente anche a Dante, come ci ha dimostrato Giorgio Padoan con argomenti concludenti . Il commento di Bernardo parte dalla convinzione che Virgilio sia stato poeta e filosofo e che abbia insegnato delle verità filosofiche, senza ledere la finzione poetica. L’Eneide appare quindi come l’allegoria delle diverse età dell’uomo, il quale si trova a dover scegliere tra virtù e vizio; Enea, dopo i primi errori, indica il cammino fissato dalla vera sapienza per una vita proba. È ovvio che, considerati i suoi stretti legami con l’Eneide, Dante sarà stato particolarmente impressionato dal commento di Bernardo, o almeno vi avrà trovato una conferma al suo principio che la Divina Commedia debba essere interpretata come «opus doctrinale».
In quanto tale il suo metodo interpretativo risale ad altre fonti: il Curtius per il primo ha posto in risalto il rapporto fra la autointerpretazione di Dante nell’ Epistola a Can Grande e l’«accessus» medievale, che ha le sue origini nei commenti all’Eneide di Servio e di Donato . Nello stesso tempo egli riconosce anche l’importanza dei dieci «modi» d’interpretazione dell’Epistola, desunti dalla tradizione, nei quali persino un esperto come Edward Moore aveva veduto soltanto «a curious list» . Con ciò nella valorizzazione dell’Epistola si viene a produrre un capovolgimento: non la si considera più, con disprezzo, un semplice cumulo di «futilità» e di «quisquiglie», come aveva fatto ancora il D’Ovidio , ma si riconosce piuttosto il valore che essa ha per la teoria poetica. La riabilitazione dell’Epistola avviata dal Curtius è stata continuata soprattutto dal Mazzoni in modo così convincente che Natalino Sapegno nel suo nuovo Trecento analizzando la Divina Commedia si è lasciato guidare in parte dai principî dell’«Epistola» .
Nel suo schema d’interpretazione Dante prende le mosse dalla duplice funzione della Divina Commedia, che dev’essere poema ed «opus doctrinale» . I dieci «modi» d’interpretazione desunti in parte dalla retorica, in parte dalla Scolastica sono divisi in due file di cinque, l’una relativa all’interpretazione poetico-retorica, l’altra relativa all'interpretazione filosofica: «Forma sive modus tractandi est poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transumptivus, et cum hoc diffinitivus, divisus, probativus, improbativus, e exemplorum positivus» .
Al centro dell’interpretazione poetico-retorica sta il problema del titolo. Ambedue gli argomenti, quello tematico e quello stilistico, con i quali Dante giustifica il titolo della sua opera trovano una corrispondenza nella tradizione retorica: il poema comincia «aspro» e termina «felice» proprio come una commedia ; il suo stile, quello comico, è basso, perché il poeta colla «locutio vulgaris» usa una forma d’espressione che anche le donne potranno comprendere . È stato affermato ripetutamente che con queste giustificazioni Dante non rende giustizia alla Divina Commedia e che inoltre contraddice la denominazione della sua opera come «poema sacro» . Noi crediamo invece – e possiamo appoggiarci all’autorità di un Rajna , di uno Schiaffini e di un Mazzoni – che Dante abbia tentato, nel quadro dei concetti tradizionali della retorica, di dare espressione a un fenomeno della teoria poetica, per il quale non esisteva esempio né nella letteratura antica né in quella medievale, cioè il fatto che la Divina Commedia non può essere compresa in nessuno dei tradizionali generi letterari.
Ne avevano avuto di già presentimento gli interpreti della Divina Commedia nel Cinquecento , pur senza essere stati in grado di risolvere il suddetto problema. Ci ha avviati verso una soluzione Erich Auerbach, quando caratterizza lo stile del «poema sacro» come stile alto dell’epica cristiana, mediante il quale Dante ha superato l’antica teoria della separazione degli stili e contemporaneamente l’antica teoria dei generi . Dissentiamo però dall’Auerbach quando crede di poter riconoscere in Dante una qualche incertezza riguardo alla classificazione della Commedia. Dante infatti era perfettamente conscio che i principî esposti nel De Vulgari Eloquentia relativi all'alto stile non erano sufficienti a caratterizzare lo stile della Divina Commedia. Per questo motivo nell’Epistola amplia il concetto di stile comico. Richiamandosi ad Orazio, che nella sua «ars poetica» consente all'autore di commedie di parlare talvolta come un tragico , dischiude allo stile comico, che già nel De Vulgari Eloquentia poteva essere ora «mediocris», ora «humilis» , anche la terza, e nello stesso tempo suprema, possibilità di espressione poetica. Con ciò giustifica quel frammischiamento di stili che notiamo nella Divina Commedia, condannato dalla tradizione retorica; questo frammischiamento – considerato positivamente – non significa altro che la libertà creativa di Dante nel rappresentare una tematica enciclopedica comprendente l'ordine intero del mondo medioevale.
Quest’ordine si rispecchia nello «status animarum post mortem» , il «sensus litteralis» della Divina Commedia. Perciò ne deriva a questo «status» un significato reale in contrasto con una semplice finzione poetica che rappresenta soltanto «una bella menzogna» . Per dimostrare questo contrasto Dante riporta due esempi: da una parte i versi d’Ovidio su Orfeo che, considerati in se stessi privi di verità, sono soltanto il velo allegorico di una verità; dall’altra parte i versi del salmo 113 sull’esodo del popolo d'Israele dall’Egitto, che contengono una verità storica ed inoltre, interpretati allegoricamente, nascondono in sé altre verità. Mentre nel Convivio Dante illustra i due esempi , nell’«Epistola» si limita al secondo , evidentemente perché soltanto questo secondo esempio sta in rapporto coll’interpretazione della Divina Commedia. Questa contiene quindi una doppia verità: una verità immediata e letterale ed un’altra verità indiretta e nascosta, da scoprire mediante l’interpretazione allegorica: «primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram» . Il fine a cui è diretta l’interpretazione allegorica (in senso lato), viene determinato dal «genus phylosophie» dell’opera, in altre parole, dall’etica quale dottrina di una vita proba. «Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est» . In virtù di questa visione dell'ordine cosmico, scaturito dalla giustizia divina, l'umanità da uno stato di miseria sarà condotta alla beatitudine: «finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» .
L’allegoria immanente all'intera Divina Commedia che serve alla finalità etica – il Barbi la chiama «allegoria veramente intrinseca» –, è identica al significato «figurale» o «tipologico» dell’opera sul quale di recente hanno richiamato la nostra attenzione l’Auerbach e il Chydenius . Per l’esegesi figurale o tipologica la realtà significa se stessa e nello stesso tempo raffigura una realtà superiore, cosicché figure ed eventi storici vengono bensì riconosciuti nella loro realtà, ma trovano compiutezza nel loro significato tipologico nel regno delle verità eterne. Indi ne segue, per l’interpretazione della Divina Commedia, come Natalino Sapegno ha espresso molto felicemente (senza però riferirsi esplicitamente alla interpretazione figurale), «che il lettore, in ogni situazione e in ogni figura, sia pronto a cogliere simultaneamente il valore istoriale dell'episodio, con la sua sostanza cronachistica e affettiva, e la sua funzione simbolica» .
Un presentimento di ciò si trova già, oltre un secolo fa, nello Schelling, che scrisse: «Das Gedicht des Dante ist nicht allegorisch in dem Sinn, daß die Gestalten desselben etwas anderes nur bedeuten, ohne unabhingig von der Bedeutung und an sich selbst zu seyn» . («Il poema di Dante non è allegorico nel senso che le sue figure significano soltanto qualcosa d’altro, senza esistere indipendenti da questo significato e senza avere un’esistenza propria»). Grazie all’interpretazione figurale la poesia viene a far parte del processo della salvezza eterna, che trascende ogni cosa terrena e che dà all’esistenza dell’uomo medievale il suo proprio senso. Così la «poesia filosofica» riceve la sua più alta consacrazione; il poeta interpreta se stesso come eletto da Dio per annunciare le verità eterne. Una motivazione teoretica per una tale posizione del poeta l’offriva la poetica teologica.
Il concetto del «poeta-theologus», usato da Aristotele per indicare un rappresentante poco serio dell’arcaica dottrina naturalistica e assunto poi dalla letteratura latina , aveva acquistato più tardi nel cristianesimo un significato positivo: la poesia in seguito al suo legame con la religione non soltanto trova legittimazione, ma viene anche innalzata a suprema dignità. Sebbene il concetto di «poeta-theologus» non s’incontri mai in Dante – Giovanni del Virgilio parlerà per primo nell’epitaffio del «theologus Dantes» –, pur tuttavia Dante, per caratterizzare la poesia e i poeti, si serve di alcuni elementi ripresi dalla tradizione della poetica teologica, senza formularne però una teoria.
La poesia gli appare «quasi divinum quoddam manus» ; insieme a Virgilio celebra i poeti come «dilectos Dei» e «Deorum filios» . L’«invocatio», che Dante adopera nei punti salienti della sua opera, viene motivata dal fatto che i poeti devono rivolgersi alle «sostanze superiori» . Tali sono, oltre a Dio e a Cristo , anche Apollo e le Muse . A causa della sua origine divina il poeta supera colla sua gloria quella di tutti gli altri uomini, persino quella dei re e degli altri potenti della terra ; il nome del poeta è quello «che più dura e più onora» . Il riconoscimento più alto da parte della società, che il poeta divide coll’imperatore vittorioso è l'incoronazione d’alloro .
Di questo onore Dante sentì una grandissima nostalgia. Da esiliato doveva temere per la sua fama e la sua riputazione e perciò sperava che la gloria poetica gli rischiudesse le porte della città nativa e gli ottenesse l’incoronazione poetica nel battistero di S. Giovanni:

Se mai continga che 'l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m'ha fatto per più anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta; ed in sul fonte
del mio battesmo prenderò ‘l cappello .

Il medesimo pensiero ritorna come motivo centrale nella prima delle due egloghe indirizzate a Giovanni del Virgilio .
Questo atteggiamento di Dante esprime la coscienza di aver compiuto una grande opera, che chiama «sacro poema» , «sacrato poema» , proprio come una volta Macrobio aveva chiamato l’Eneide. Dante, quindi, in una scena di altissima forza simbolica, viene a far parte della «bella scuola» e si pone così quale poeta moderno, grazie alla sua opera di uguale valore, allo stesso livello dei grandi poeti dell’antichità .
Se si è voluto vedere nel potenziarsi della fiducia in se stessi una caratteristica degli scrittori a partire dal secolo XI , dobbiamo ammettere che questo processo ha raggiunto l’apice in Dante. Egli si sente investito d’una missione divina che gli conferisce il diritto di erigersi a giudice dell'umanità intera e di anticipare il decreto divino.
Riteniamo che sia erroneo voler vedere di già in questa autointerpretazione di Dante il concetto moderno di poeta. Anche se l’alta stima nutrita da Dante per la dignità del poeta e per il proprio poema si è spinta fino ai confini del pensiero medievale, egli tuttavia non li ha mai oltrepassati. La sua idea del poetare, infatti, non si fonda su una concezione dell’uomo, quale si sarebbe sviluppata più tardi nel Rinascimento, bensì ha le sue radici nell’atteggiamento spirituale di un poeta geniale, che in nessun campo, nemmeno nella poetica, si ribella contro la tradizione, ma, trasformandola nell’atto creativo, la pone a servizio della sua arte.

August Buck

Università di Marburgo

Date: 2023-01-03