Il paradiso dei poeti, l’allegoria dei filosofi. Croce, Gentile e il Dante di Karl Vossler [Paolo Falzone]

Dati bibliografici

Autori: Paolo Falzone

Tratto da: La Cultura

Numero: 1

Anno: 2022

Pagine: 57-75

Chi rivada — con l’aspettativa di accostarsi ai primi documenti di una lettura neoidealistica di Dante — alle diverse lettere che tra il febbraio 1907 e l’aprile dell’anno successivo Croce e Gentile si scambiarono in merito alla recensione di quest’ultimo al libro di Karl Vossler sulla Divina Commedia — Die gottliche Kombòdie. Entwicklungsgeschichte und Erklirung — rischia di rimanere deluso. Nel complesso si tratta, possiamo dire, di un dialogo non molto significativo, concernente per lo più questioni di ordine pratico (Croce preme sull’amico, e collaboratore della «Critica», per la consegna, Gentile tergiversa e prende tempo) e dal quale di rado emergono problemi di esegesi dantesca o considerazioni estetiche di un qualche interesse. Fa vistosamente eccezione, nella situazione appena descritta, una lettera di Croce (non datata, ma da assegnare con sicurezza alla fine del novembre 1907), che apre uno spiraglio inatteso su questioni destinate a impegnare a lungo, e con esiti via via più divergenti, la riflessione dei due filosofi sulla poesia di Dante (e sulla poesia in generale) . Prima di venire al punto, tuttavia, e di analizzare la lettera di Croce (con la discussione che ne seguì), conviene ripercorrere brevemente, seguendo l’andamento cronologico del carteggio, la storia della recensione gentiliana . Il primo cenno al riguardo lo troviamo nella cartolina che Croce spedisce a Gentile, da Napoli, il 26 gennaio 1907. «Vi mandai il Dante del Vossler», gli scrive, e aggiunge: «Vi prego di farne voi la recensione per la Critica perché è materia vostra» . Il libro al quale Croce si riferisce antonomasticamente come «il Dante di Vossler» è il primo tomo del libro Die gottliche Kombòdie. Entwicklungsgeschichte und Erklirung, di cui l'editore Winter di Heidelberg aveva fatto uscire, nel 1907, la prima parte, dedicata alle fonti religiose e filosofiche del poema dantesco . Che la materia fosse di pertinenza gentiliana, come Croce, commissionando all'amico la recensione del volume, non manca di sottolineare («è materia vostra»), è indubbio . Di Dante, della sua filosofia e del rapporto di questa con la natura poetica del suo genio, Gentile si era occupato in effetti già in precedenza, nel capitolo dedicato a Dante Alighieri (il IV del libro I) dell’opera La Filosofia, apparsa, in più fascicoli, nella Storia dei generi letterari italiani del Vallardi .
A rafforzare l’opportunità della committenza interveniva poi un altro fatto, non secondario, e cioè che quelle pagine di Gentile erano ben note al Vossler, che in una lettera a Croce del 7 ottobre 1906 dichiarava di averle utilizzate con profitto nella stesura «del suo Dante» . Posto questo apprezzamento, non stupisce che prima ancora che a Croce, l’idea di commissionare a Gentile la recensione del Dante fosse venuta a Vossler medesimo . Lo si apprende dalla lettera dell’8 febbraio 1907, con la quale Gentile, con malcelato imbarazzo, fa sapere a Croce, tra varie altre cose, che «già da un pezzo» Rodolfo Renier, su «suggerimento dello stesso Vossler», lo aveva pregato di scrivere una recensione del volume tedesco per il «Giornale storico della letteratura italiana», sicché egli si era impegnato con il direttore della rivista torinese senza aspettare (come sarebbe stato forse naturale per un assiduo collaboratore della «Critica») che il libro gli arrivasse da Croce. Stando così le cose, e non potendo ormai venir meno all'impegno assunto con il Renier, l’unica soluzione, proponeva Gentile, era scrivere due recensioni del volume vossleriano, una per il «Giornale storico» e una, ma «da un altro punto di vista», per «La Critica» . La proposta ebbe l’approvazione di Croce, che non si trattenne però dal manifestare un certo disappunto: per l'avvenire sarebbe stato opportuno — scrive il 13 febbraio all’amico (al quale nel frattempo era passato a dare del tu) — non prendere impegni di recensioni con altre riviste. Le parole che seguono a questo ammonimento lasciano trapelare, insieme con una punta di fastidio, il timore che l’idea della doppia recensione, benché l’unica praticabile, potesse penalizzare «La Critica», che rischiava di doversi accontentare di un cerzzo e non di una recensione vera e propria .
Il timore di Croce non era infondato. Trascorsi alcuni mesi, nei quali la questione passa in secondo piano, alla fine di ottobre Gentile torna a parlare della doppia recensione: lascia intendere, anzitutto, di essere al lavoro su quella per il «Giornale storico», giacché il Renier insiste per averla in tempi brevi; egli avanza quindi il dubbio che il volume, del quale intanto era uscita la seconda parte, potesse offrire materia sufficiente per due recensioni. Interessante per le questioni filosofiche e di metodo, molto meno il libro lo era infatti nei particolari, sì da lasciare al recensore ben poco da dire al riguardo . Nella successiva lettera del 10 novembre il dubbio si è ormai tramutato in certezza. La lunga recensione per il «Giornale storico» è terminata ed è stata spedita al Renier, ma il libro — lamenta Gentile — «non ha prestato materia se non per discussioni metodiche e generali», quali egli aveva sperato di poter «riserbare alla Critica». Per far sì che anche «la Critica» abbia quel che le spetta, non c’è altro rimedio — conclude Gentile — che accorpare in un nuovo testo la recensione del primo volume, realizzata con ciò che era rimasto fuori dal pezzo per il «Giornale storico», e quella del secondo, da cui potevano venire, sperabilmente, nuovi spunti di riflessione. In tal modo sarebbe stato possibile fornire sulla «Critica» un’idea completa «di tutta questa genesi storica della Corzzzedia, che il Vossler vuol ricostruire nei due volumi della 1° parte».
A togliere Gentile dall’imbarazzo ci pensò, inaspettatamente, il Renier. Appena dieci giorni dopo, Gentile annuncia a Croce, in un post scriptum alla lettera del 21 novembre 1907, che forse manderà a lui, per «La Critica», l'articolo sul Darte di Vossler già inviato al «Giornale storico». Il Renier l’aveva giudicato infatti troppo lungo. «Gli ho proposto — aggiunge — che me lo rimandi, e io gliene avrei fatto uno più breve di carattere puramente storico analitico sui 2 voll. insieme» . Le cose andarono in effetti in questo modo. Gentile si fece restituire dal Renier la recensione, promettendogliene una più breve in seguito , e senza indugio, il 27 novembre, provvide a spedirla, insieme con un articolo su Francesco Acri, a Croce, che già il giorno seguente era in grado di trasmettere all'amico una prima reazione “a caldo” su questi due lavori: letti — scrive — «con vivo piacere» e giudicati entrambi bellissimi (sì da potersene auspicare l’immediata pubblicazione sulla «Critica») . E nondimeno, mentre senza riserve è l’elogio del ritratto dell’Acri, a proposito dell’articolo sul Vossler Croce anticipa a Gentile che sulle bozze gli indicherà «qualche frase che non /o persuade del tutto» . Giungiamo qui finalmente al documento più significativo di questa breve vicenda, vale a dire la lettera di fine novembre 1907 — di cui si diceva all’inizio del nostro discorso — con la quale Croce rimanda a Gentile, in vista della pubblicazione, le ultime cartelle della recensione vossleriana, corredate di «alcune sue osservazioni». Il punto della recensione gentiliana che lo lasciava perplesso, e che gli impediva di essere fino in fondo d’accordo con l’amico, era anticipato da Croce nel testo della lettera. La difficoltà riguardava essenzialmente il giudizio nei confronti di De Sanctis, al quale con eccessiva disinvoltura Gentile faceva risalire l’idea vossleriana che gli elementi intellettivi resistessero in Dante alla potenza risolutrice della poesia. Pareva infatti a Croce che De Sanctis su questo fosse da sì da correggere, ma non sino al punto da disconoscere che la sua posizione fosse in realtà più sfumata e complessa, e abitata da una sorta di interna incoerenza — giacché, se da un lato egli predicava il potere illimitato dell’arte, capace di risolvere in sé stessa, nel cerchio aureo della forma, ogni possibile contenuto, dall’altro, nello svolgere la critica del poema, smentendo quella premessa, distingueva arbitrariamente tra contenuti poetici, l’adulterio di Francesca ad esempio, e contenuti irriducibili alla poesia, quali le verità filosofiche o il sistema della scolastica.
Croce raccomandava quindi a Gentile di rendere più esplicito nell'articolo, «come avvertimento per il futuro», che nell’interpretare la Corzzedia «bisogna tener conto, più che il De Sanctis non facesse, degli elementi intellettivi che Dante trasforma in Poesia» .
Dove invece la critica del De Sanctis non aveva bisogno di correzioni e manteneva intatto il suo valore — osservava lapidariamente Croce — era nella condanna delle allegorie, le quali non meritavano la difesa che Gentile aveva tentato nella sua recensione . Il senso di questi rilievi, appena accennati nel corpo della lettera, è chiarito nelle osservazioni che Croce sottopone all’attenzione dell’amico.
Dei cinque punti elencati da Croce interessano, ai fini del nostro discorso, i primi tre:

1) Trovo giustissimo l'appunto fatto alla critica dantesca del De Sanctis di trascurare alquanto il valore dell’altissima poesia che nasce dalle ispirazioni più intellettive e meno passionali di Dante e la sua esposizione poeticissima della stessa scolastica. Ma ho sempre pensato che il De Sanctis reagiva contro un falso concetto di Dante, e perciò esagerava. La ragione della sua esagerazione era poi in parte nel suo temperamento, che aveva grande simpatia per la drammaticità e passionalità (hegelianismo!).
2) Ma mi pare che tu abbi torto nel confondere un po’ l’allegoria con l’elemento intellettuale. Certo, l'elemento intellettuale può essere un antecedente dell’arte; e così diventa arte come l'elemento passionale, anzi si traduce esso stesso in passionale. Ma l’allegoria si definisce il persistente dualismo nell’arte: è l’arte che ha valore non per sé ma per qualcos’altro. Contro l’allegoria in questo senso sta la critica del De Sanctis. E in questo senso l’allegoria non è elemento d’arte, ma è arte sbagliata.
3) Circa l’estetica dantesca, osservo che se essa diventa elemento intellettivo, al pari della scolastica, che sia un precedente della sintesi artistica dantesca, certamente fa parte del poema e bisogna tenerne conto per capire questa o quella parte. Ma come riflessione di Dante sulla propria arte, essa, o vera o falsa che sia, non appartiene al momento artistico: appartiene al Dante scienziato, non al poeta .

L’impossibilità di accedere alla prima redazione della recensione, andata perduta , non ci consente di attingere a pieno la fisionomia originaria del discorso gentiliano, solo indirettamente ricostruibile in ciò che di essa è conservato nella versione definitiva, che vide la luce nella «Critica», sul primo fascicolo del 1908, col titolo Ft losofia, religione e arte nella «Divina Commedia». A proposito di un libro del Vossler . Pur tenendo conto in larga misura dei rilievi di Croce, come ovvio, questo testo lascia infatti intravvedere una certa resistenza dell'autore a consentire pacificamente alle osservazioni dell’amico, l'accordo con il quale trova un limite, come vedremo, nel rifiuto di negare, con Croce e con De Sanctis, il valore estetico delle allegorie dantesche. Prima però di vedere nello specifico la posizione di Gentile su questo punto, per come essa è documentata dalla redazione definitiva del suo articolo, vale la pena soffermarsi un istante sulle osservazioni di Croce, nelle quali già si colgono alcuni elementi che resteranno tipici, anche in seguito, della lettura crociana di Dante (non occorre rammentare che un decennio e più separa queste considerazioni dal libro del 1921 sulla Poesia di Dante).
La difficoltà che secondo Croce lo scritto di Gentile lascia affiorare nella sua conclusione riguarda l’esatta valutazione in termini estetici di ciò che egli chiama l’elerzento intellettuale. Il punto non è se esso possa costituire o meno materia di poesia. Su questo Croce, benché la sua appaia una posizione più sfumata e indulgente, condivide senza riserve la critica che Gentile muove a De Sanctis, di non aver compreso cioè, per i limiti di gusto connessi con il suo begelianismzo, che anche le «ispirazioni più intellettive e meno passionali di Dante» possono convertirsi in arte, dar luogo a una poesia diversa bensì nell’ispirazione ma non meno compiuta ed efficace di quella che scaturisce, poniamo, dai drammi di Francesca o di Ugolino. La questione è meno ovvia di quel che potrebbe pensarsi: da questi giudizi emerge - lo vedremo - un modo nuovo di leggere il poema dantesco, più unitario che in passato. È da notare intanto che la discussione tra i due filosofi intorno al Dante di Vossler si rivela l'occasione per un confronto — altri ovviamente, e più approfonditi, ne seguiranno — con la lettura desanctisiana della Commedia . Come si era determinato questo spostamento dell’interesse da Vossler a De Sanctis? Un collegamento esplicito tra il maestro della critica letteraria italiana e il dantista tedesco era stato istituito da Gentile in un passaggio della sua recensione, sul quale si era immediatamente appuntata l’attenzione di Croce. Il rapporto era autorizzato, secondo Gentile, dalle seguenti affermazioni di Vossler, nelle quali era possibile avvertire distintamente, a suo parere, l'eco del pensiero desanctisiano (la traduzione è dello stesso Gentile):

Il nefastissimo regalo, che la scolastica tomistica ha fatto al nostro Poeta, è la sua bicipite estetica negativa. Tra Dante poeta e Dante critico regna quella specie d’inimicizia per cui uno sa dei maneggi e dell’arte dell’altro giusto quel tanto che è necessario a far nascere la mutua diffidenza e il malinteso. Se alla fine tuttavia l’artista ha vinto, ei lo deve alla sua naturale, innata superiorità di forze .

Un Dante dunque come scisso tra il critico, che appesantisce la sua opera con i dettami di un’estetica falsa e astratta (perché ricavata da una falsa filosofia), e l'artista, fortunatamente più potente del primo, e alla fine perciò vittorioso su quello. Dante — scrive Vossler in una pagina anch’essa citata da Gentile — aveva fatto come quel milionario che insieme con le sue favolose ricchezze (/’oro #772- mortale della Poesia) si premuri di consegnare ai posteri un «libriccino di conti (Rechenbiichlein), polveroso e gualcito» (la sua estetica). E con un’altra delle sue corpose metafore, egli assimilava l’arte dantesca a una veste splendida e pregiata nella quale di tanto in tanto si osservano però «bucherelli e strappi», vale a dire quei difetti e quelle iperfezioni attraverso i quali si rivelano allo sguardo del critico «la fragilità della sua filosofia» e i limiti dell’estetica che ne discende .
Ora, questa teoria, «eloquentemente difesa dal Vossler», non era altro che uno svolgimento, faceva notare Gentile, del pensiero di De Sanctis, là dove egli postula un insuperabile dualismo tra la poetica di Dante e la sua poesia, tra mondo intenzionale e mondo reale, fra una teoria dell’arte conforme a una concezione trascendente della realtà e l’arte effettuale del poema, che quasi sempre riesce ad imporsi su quelle premesse teoriche, dissolutrici dell’arte . Era evidente, dunque, che la teoria di Vossler non poteva essere discussa (ed eventualmente respinta) senza discutere al contempo la teoria desanctisiana che ne era il presupposto. E qui il giudizio di Gentile appare dividersi, nella redazione definitiva del suo articolo, tra la disponibilità a riconoscere che nella lettura del poema dantesco De Sanctis si poneva in contrasto con i principi stessi della sua estetica (che era l’aspetto che Croce, volendo addolcire la polemica verso il Maestro, gli aveva raccomandato di mettere bene in evidenza) e la volontà di riaffermare, con chiarezza, il proprio disaccordo rispetto a quella lettura, il cui difetto maggiore, diceva Gentile riprendendo la prosaica immagine vossleriana del milionario, era quello di aver preteso di vedere Dante senza il suo Rechenbuchlein. Un Dante siffatto, privato della sua estetica e della sua filosofia, obiettava Gentile, «non è mai esistito, e non esiste certo nella Commedia, che è il Dante più saldamente esistente, la maggior realtà di Dante». L’arbitraria rimozione dell’elemento intellettuale nell’arte dantesca spiegava altresì la visione fortemente frammentaria del poema elaborata da De Sanctis, poi divenuta corrente, che Gentile riassume in questi termini:

Quindi quella specie di proporzione inversa nello svolgimento della Commedia, per cui nell’Imferzo si avrebbe un massimo di poesia e un minimo di filosofia, e nel Paradiso un minimo di poesia e un massimo di filosofia; quindi la giustificazione di quella valutazione estetica corrente, che vede le maggiori creazioni del genio artistico dantesco in mezzo al più violento turbine delle passioni umane eternate nell’Inferno. Quindi, infine, il dispregio per gli studi sull’allegoria, anche sull’autentica, o probabilmente autentica, della Comedia .

Attraverso una simile visione del poema, commentava Gentile, De Sanctis contraddiceva il suo principio del valore della forma artistica (risolvente in sé stessa il suo contenuto), e cedeva senza accorgersene al suo temperamento, «che lo portava a reagire, anche esagerando nel senso opposto, a certe forme ultime del romanticismo» . L'accordo quasi letterale di quest’ultimo giudizio con il concetto che Croce aveva raccomandato a Gentile di far emergere nella sua recensione è palese, e non occorre che sia sottolineato. Restava però tra quelle raccomandazioni di Croce e il modo in cui Gentile le recepiva e le faceva sue una piccola ma non trascurabile differenza, di cui dovremo a breve dar conto. Limitiamoci per ora a concentrare l’attenzione sul punto in cui l'accordo tra i due filosofi è totale e senza riserve. La questione è formulata in modo esplicito da Croce, nelle osservazioni sottoposte all'amico: De Sanctis era nel torto quando sottovalutava, trascinato in parte dal suo hegelianismo, l'elemento intellettuale dell’arte dantesca, e su questo andava perciò corretto, come proponeva Gentile. Rimaneva implicita, in questa osservazione, la conseguenza negativa che derivava dalla visione desanctisiana, quella gerarchizzazione artistica delle tre cantiche, che Gentile aveva denunciato nella sua recensione e rispetto alla quale lo stesso Croce dissentiva radicalmente, come vedremo subito. Una volta assunto lo schema desanctisiano, costruito sull’idea che l’ardore poetico fosse tanto più efficace quanto meno si lasciasse raffreddare dall’elemento intellettuale, era inevitabile in effetti riconoscere nell’Inferzo, la cantica delle grandi e violente passioni umane, il vertice della poesia dantesca, rispetto al quale le altre due cantiche mostravano come un inaridimento, un progressivo affievolirsi della forza poetica, che già più debole nel Purgatorio discendeva al grado minimo di intensità nel Paradiso, là dove cioè il prevalere dell’astrazione e del ragionamento diradava e rendeva più evanescente la presenza umana, togliendo così alla fiamma poetica il suo nutrimento vitale.
Ora, tanto Croce quanto Gentile, sia pure con diverse sfumature, si mostrano lucidamente consapevoli dell’inadeguatezza di questo schema, allora predominante e, affermano concordemente che la poesia può trovarsi, e in effetti si trova, in tutta la Corzzzedia (sebbene non in ogni suo singolo verso), recuperando così quella visione unitaria del poema, sul piano artistico, che l’interpretazione desanctisiana, tenendo disgiunti, in un dualismo insuperabile, l’elemento intellettuale dalla poesia, aveva compromesso .
Perno di questa operazione riformatrice era evidentemente la terza cantica, che andava liberata dal peso del pregiudizio di essere la parte meno poetica, perché la più intellettuale, della trilogia dantesca. La facile vulgata di un Croce demolitore dell'unità estetica del poema, impostasi all'indomani del libro dantesco del 1921 e viva ancora oggi, rischia di travolgere l’importanza di questo dato e di far dimenticare che proprio Croce, con Gentile, fu tra i primi a promuovere, contro le censure del De Sanctis, un apprezzamento globale del poema, difendendo l’idea che nella Comzzedia, pur con inevitabili pause, la poesia circoli dappertutto, dall'inizio alla fine, diversa nei toni ma sempre identica a sé stessa per qualità . Comincia da qui, in effetti, tra le pieghe di questa discussione intorno al Danze di Vossler, quel processo di riabilitazione poetica della terza cantica che culminerà, diversi anni dopo, nelle pagine della Poesia di Dante dedicate al Paradiso. Lì la caratterizzazione della particolare tonalità poetica della terza cantica sarà affidata alla suggestiva (più che persuasiva) formula della poesia didascalica, che è appunto poesia, e non dottrina, nella misura in cui in essa si esprime non già «l’indagare e l’insegnare che la mente opera, ma la rappresentazione dell’atto dell’indagare e insegnare, la virtù di quest’atto, che si compiace e gioisce di sé stessa» .
Fu certo anche per merito delle amichevoli sollecitazioni di Croce se Vossler, già prima che uscisse il libro crociano su Dante, aveva cominciato a rivedere i suoi precedenti giudizi, fortemente negativi, sul Paradiso. Nella parte seconda del secondo volume del suo Danze, dedicata all’illustrazione della poesia dantesca e pubblicata nel 1910 (ma mai tradotta in italiano), Vossler non aveva esitato infatti a definire la terza cantica un «controsenso poetico» (ein dichterischer Widersinn) .
E ciò per il fatto che il tema del Paradiso, che Vossler individuava nella trascendenza dello spirito umano, annientante sé stesso nella contemplazione e nell’unione mistica con Dio, era da lui giudicato come qualcosa di irrappresentabile, intraducibile cioè in ragionamenti o in immagini poetiche. Una simile trascendenza e divinizzazione di sé, faceva notare Vossler, la si può desiderare, sperare, presentire: può essere oggetto, in altre parole, di una preghiera o di un breve canto lirico, ma non può essere oggetto — hegelianamente — né di dramma né di epos.
Ecco invece che Dante, a dispetto di tale evidenza, si era sforzato di darci — qui stava il cortrosenso — un Paradiso in trentatré canti di stile epico, didattico e drammatico, dello stile stesso dell’Irferno. Egli, dunque, avrebbe affrontato un’impresa «impossibile e assurda»: ragione per cui la sua terza cantica è da ritenere non accidentalmente difettosa qua e là, come le altre due, ma «sbagliata e fallita» in modo sostanziale. Tutto il Paradiso, sentenziava Vossler, va considerato «un gigantesco e sublime errore» (einen riesigen und erhabenene Irrtum), un’opera artisticamente scadente (hinfallig), una sistematica violazione delle leggi della poesia .
Di questo severo giudizio, nel quale la svalutazione desanctisiana del Paradiso era portata all'estremo, Vossler fece ammenda, come si diceva, in un articolo pubblicato nel 1921 (ma in realtà terminato già nel ’19), tanto che nella seconda edizione tedesca del suo Dante (Heidelberg 1925) egli riscrisse la parte sul Paradiso, per adattarla alle nuove vedute . Abbiamo detto che a compiere questa autocritica Vossler fu sollecitato almeno in parte da Croce, che da tempo si adoperava perché venissero riconosciute alla terza cantica le benemerenze poetiche che le spettavano. La consultazione del carteggio Croce-Vossler reca un'immediata conferma di questo dato. Il 3 novembre 1919, ad esempio, rispondendo a una lettera di Croce che lo metteva al corrente di avere tra le mani il suo Danze e dell’intenzione di «ristudiare i problemi della critica dantesca», Vossler sente di dover comunicare all’amico il proprio disorientamento nell’interpretazione e nella valutazione del Paradiso e di volerne dar conto in un articolo, per il momento solo abbozzato . Maggiori dettagli su questo saggio, che per varie circostanze verrà pubblicato soltanto nel 1921, Vossler fornisce nella lettera del 23 dicembre, nella quale egli riassume all’amico il pensiero fondamentale del lavoro (der Grundgedanke der Arbeit) e ne chiarisce lo scopo (cito dalla versione italiana di Lidia Croce) :

Il mio articolo sulla critica del Paradiso non apparirà così presto. Poiché esso è destinato ad una pubblicazione in onore del 60mo compleanno dell’editore Olschki, il cui genero è l’organizzatore, così non ho la possibilità di affrettare la cosa.
Il pensiero fondamentale del lavoro è all’incirca il seguente: la critica del Paradiso come la parte poeticamente più debole della Commedia, come si trova in De Sanctis, Gaspary, Bartoli e, in una valutazione più forte, più paradossale, in me, è un'eredità o il resto di una critica artistica semiromantica, seminaturalistica, con cui oggi non ci si intende più. Proprio attraverso la conseguenza esagerata di questa concezione si riesce a vincerla, cosa che io poi mi sforzo di fare in particolare per il 2° canto del Paradiso. Inoltre, attraverso una serie di accenni all'arte modernissima con le sue mitizzazioni e simbolizzazioni, mi sono sforzato di dimostrare che la fantasia del poeta si può permettere un volo che va molto oltre l’evidenza, in modo che resta viva solo la passione, da cui la visione prorompe .

Come si vede, il ribaltamento rispetto alle posizioni precedenti è totale: ciò che prima era dato come un “controsenso poetico” — l’innaturale tensione della voce poetica verso l’informe e il trascendente — è ora dato non solo come possibile, ma come espressione di una poesia più ardita e più moderna (nell’articolo Vossler arriva addirittura a paragonare i versi del Paradiso a quelli dei poeti futuristi), capace di proiettarsi oltre il piano dell’evidenza sensibile . La svolta è prontamente salutata con favore da Croce, che si compiace di vedere l’amico giunto finalmente sulle sue stesse posizioni:

Sono contento — gli scrive da Napoli il 31 dicembre — che il concetto al quale tu sei giunto circa il Paradiso è precisamente il mio. Anch'io sono persuaso che l’elemento turbativo della critica del De Sanctis fosse dato da alcuni aspetti del romanticismo, fortemente colorato e drammatico .

Il punto è ancora, come si vede, correggere le esagerazioni desanctisiane. Ma il carteggio lascia registrare altri scambi sulla questione. Quando il saggio di Vossler vide finalmente la luce, nel 1921, esso fu accolto come ovvio con immediata simpatia da Croce, che viceversa aveva dovuto già rendersi conto della fredda accoglienza riservata al suo libro (da subito frainteso). Eloquente, per l’uno e l’altro sentimento, è ciò che egli scrive a Vossler il 3 febbraio 1921:

Ti ringrazio cordialmente del tuo articolo critico sul mio saggio dantesco [Benedetto Croces Dante, «Deustsche Literaturzeitung», 1921, p. 42], che mi ha consolato delle molte sciocchezze che ho letto nei giornali italiani, intonate al solito alla mia frigidità e incapacità di sentire la poesia. E ho letto il tuo scritto sul Paradiso, e sono affatto d’accordo con te che il problema che ora si fa urgente nella critica dantesca è quello della intelligenza della terza cantica. Intendo benissimo che tu consideri la tua precedente interpretazione come una reductio ad absurdum della tendenza romantica e desanctisiana A questo modo, e solo a questo modo, avvengono i progressi mentali in noi e fuori di noi. E certo un problema effettivo quello dell'anima che Dante portava nella sua immaginazione del Paradiso: cioè fino a qual punto si tratti di allegoria e didascalismo e fino a qual punto di miti. Ma, come tu stesso avverti, la questione estetica rimane da parte, ossia non coincide precisamente con l’altra. Ciò che è da ammettere è che molti di quegli spettacoli paradisiaci, che dalla critica più o meno realistica o romantica erano senz'altro considerati impoetici, abbiano un loro afflato poetico. Io ho fatto qualche passo in questo verso, ma forse se ne potranno fare altri .

Così pure notevole, tornando indietro, è la lettera del 29 luglio 1920, nella quale Vossler comunica all’amico italiano le impressioni suscitate in lui dalla lettura di tre capitoli de La poesia di Dante, cui Croce andava dedicandosi ormai da mesi. Con un singolare scambio delle parti, ora è Vossler che obietta a Croce di essersi spinto troppo in là nella separazione (pure legittima) di elementi lirici ed elementi teologico-dogmatici, togliendo così efficacia alla sua intenzione di “salvare” il Paradiso:

Credo che concordiamo nei punti principali. Forse io sono incline ancor più di te a «salvare» il Paradiso [das Paradiso zu «retten»], e soprattutto a render meno acuta la separazione tra elementi lirici e quelli teologico-dogmatici, e per altro verso più acuta. Più acuta in quanto io non valuterei il piano pedagogico come un romanzo, e non sono neppure sicuro come te che lo stesso Dante non abbia considerato le sue proprie strutture delle realtà metafisiche e non si sia irretito nelle sue proprie reti .

Non è facile cogliere il senso esatto di questa obiezione, che colpisce in primo luogo — questo è chiaro — la riduzione crociana delle parti non poetiche del poema a struttura e a romanzo teologico (tesi caratterizzante, più di ogni altra, la Poesia di Dante) .
Ciò che a noi qui interessa rilevare, tuttavia, è che nell’esprimere i propri dubbi circa il modo, troppo acuto, in cui Croce aveva distinto elementi lirici ed elementi dottrinali, anche a scapito dell’intenzione di salvare il Paradiso, Vossler non fa che riversare su Croce le obiezioni che Gentile, diversi anni prima, aveva rivolto alla sua interpretazione del Paradiso. E qui bisogna riandare non tanto all’articolo pubblicato sulla «Critica», dove il problema, pure presente, era soltanto sfiorato, ma alla recensione al secondo tomo del libro vossleriano, quello dedicato appunto all’interpretazione estetica del poema, apparsa nel 1912 sul «Giornale storico della letteratura italiana» .
Ad un certo punto di questa recensione Gentile tornava a ragionare dei limiti dell’interpretazione desanctisiana della Comedia e di come questi limiti avessero pesato negativamente anche sul discorso di Vossler . Mettendo insieme diversi passaggi della Storia, Gentile faceva osservare che per De Sanctis tutto il poema poteva essere letto come un «andare dall’individuo alla specie e dalle specie al genere»:

«Più ci avanziamo, e più l'individuo si scarna e si generalizza. Questa è certo perfezione cristiana, è morale; ma non è perfezione artistica... Innanzi alla porta del Purgatorio scompare il diavolo e muore la carne, e con la carne gran parte di poesia se ne va». Nel Paradiso poi «siamo all’ultima dissoluzione della forma». L’immaginazione diventa un semplice lume, un barlume, muore .

Ora, tali giudizi, commentava Gentile (facendo nuovamente suo l'argomento crociano), sono in «contraddizione col principio della critica desanctisiana»: quando dalle astratte generalità passa all’analisi concreta della Commedia, il grande critico vede infatti benissimo che «la corpulenza, l’individualità dell’Inferno, se non è una corpulenza né un’individualità metaforica, non viene meno nel Purgatorio né nel Paradiso, e che la vita (o la carne che si dica) non se ne va col diavolo». Dissipato l’equivoco, non resta che ribadire, convintamente, che «la differenza fra le tre cantiche, essendo differenza di contenuto, è del tutto estranea alla realtà estetica; e dalle varie determinazioni della materia cantata dal Poeta non se ne può trarre argomento di sorta per una determinazione e una valutazione del suo canto» .
Il non aver compreso che questo, e non altro, era il senso vero e profondo della critica di De Sanctis, di là dagli equivoci che il Maestro, per difetto di chiarezza o per limiti di gusto, poteva aver favoriti, aveva condotto Vossler, rimasto evidentemente alla superficie di quei giudizi, alla insostenibile svalutazione del Paradiso. Il difetto di una simile posizione — notava ancora il recensore — stava nella sua astrattezza. Il tema che Vossler aveva assegnato al Paradiso — Vannientamento del soggetto nell’unione mistica con Dio — «non è infatti il tema di quel Paradiso concreto di cui Dante tratta».
Che cosa dovesse intendersi per Paradiso “concreto”, Gentile spiegava subito dopo:

[È il Paradiso] quale si presenta nell’anima di Dante, nutrita di quelle idee astronomiche, metafisiche, teologiche, storiche e di quelle passioni e di quella virtù fantastica, per cui l’unione dell'anima con Dio non è più un’astratta relazione immediata, ma una ricca, determinatissima ascensione su per i cieli popolati di spiriti, tra i quali e coi quali l’anima cattolica adora il suo Dio .

In altre parole, Gentile ritiene che la concretezza del Paradiso vada ricercata nella concretezza dell'anima di Dante, che è il principio nel quale le idee e le passioni del Poeta si sono unificate e fuse in una creazione fantastica potente e originalissima — l’ascesa di un’anima cattolica, adorante il suo Dio, attraverso i vari cieli. La ragione, insomma, per la quale il Paradiso non è meno riuscito artisticamente dell’Izferzo o del Purgatorio è che lo spirito di Dante è tale da trasformare ogni cosa, ogni contenuto, in poesia, e ciò assicura che l’unità estetica del poema sia sempre immancabilmente raggiunta, anche nella terza cantica, dove è più marcata, e tende a diventare preponderante, la presenza di elementi dottrinali. Da questo modo di impostare il problema scaturiva la conseguenza che distinguere, nel poema, tra religione e filosofia, filosofia ed arte non fosse a rigore possibile, perché ognuno di questi elementi confluiva e si annullava nell’arte di Dante, quell’arte che era la vera e più alta espressione della sua anima .
Ciò era del resto conforme allo spirito autentico della critica desanctisiana, quando poneva che il «solo contenuto di un’opera d’arte non è il contenuto, ma la stessa forma in cui esso si scioglie e vive». Ragione per cui, continuava Gentile, «appena si entri a considerare un dato contenuto — il mondo che si agitava nello spirito d’un poeta — come astratto contenuto, si era già fuori della realtà a cui si rivolge la critica, che è la realtà dell’arte» . Sicché la storia del contenuto di un poema può essere bensì fatta, precisava Gentile, ma «per essere dimenticata». Essa serve soltanto, infatti, ad affiatarci allo spirito del poeta; dove, realizzato che sia, «non c’è più l’attuale coscienza storica della propria genesi, ma solo quella data creazione vivente che è il poema» .
L’interpretazione estetica, o la vera critica letteraria — ne conseguiva — «presuppone la storia come propria condizione indispensabile, ma è la negazione della storia, che le è servita di scala per salire al piano che è suo» .
E a chiusura di questo sottile ragionamento Gentile forniva due corollari, che definiva due canoni capitali della critica:

1) che non c’è propriamente una storia delle forme artistiche, e cioè dell’arte, ma solo dell’astratto contenuto dell’arte;
2) che non c'è un contenuto per sé estetico o inestetico .

Ora, erano proprio questi due canoni, tolti i quali l’indipendenza del fenomeno artistico sarebbe inconcepibile, che De Sanctis, a parere di Gentile, aveva violato, nella Storia e nell’interpretazione estetica della Cormzzzedia, tradendo i principi più puri della sua critica, e ancor più, irrigidendo le posizioni desanctisiane, li aveva violati Vossler, rompendo in determinazioni astratte (e perciò irreali) l’unità vivente e inscindibile della poesia (il concreto) . Come si è accennato, questo complesso di idee, che agli occhi di Gentile rendeva artificiosa la scomposizione della genesi della Corzzzedia nella quadripartizione immaginata da Vossler (religione, filosofia, pensiero etico-politico, letteratura), muoveva dal presupposto, vero fulcro dell’interpretazione gentiliana, che l’unità estetica del poema avesse il suo fondamento, e la sua giustificazione, nell’unità inscindibile dell'anima dantesca, anima essenzialmente poetica. Il concetto era presente già nella recensione del 1908 per «La Critica», ad esempio in questa pagina:

Nell’anima di Dante, nella sua coscienza, tutto è fuso, tutto è uno: la religione è filosofia, e la filosofia è arte: cioè, a rigore, non c'è né religione, né filosofia, ma arte; un’arte, come non c’era stata mai; un’arte, che raccoglie nel fuoco della fantasia la visione dell’universo, natura e uomo; e l’uomo con tutte le passioni vitali, dagli amori bestiali all'amore del divino; e però con tutte le forme del sapere, dalla descrizione delle cose sensibili alla speculazione della realtà sopramondana. La poesia qui non ha da riconciliar nulla, io credo; perché sorge dall’unità straordinaria di quest’anima completa e fortemente personale. Il segreto per intendere la filosofia che ci sta dentro, e senza di cui perciò la stessa poesia sarebbe inintelligibile, è di mettersi dal punto di vista di Dante .

Affermazione limpida, che dimostra come all’epoca in cui scriveva queste parole — siamo nel 1908 — Gentile continuava a muoversi nell’orbita di Croce e della sua Estetica . Ma è pure da osservare, per altro verso, che l’unità spirituale di cui si parla qui, l’unità dello spirito dantesco, che da Croce era concepita, e lo sarebbe stata ancor di più in seguito, come unità dialettica , in questo luogo di Gentile tendeva già a chiudersi in una immobile e asfittica identità (nell'anima di Dante tutto è fuso, tutto è uno).
Come che sia di ciò, questa tendenza — cosciente o meno che fosse — non era allora distinguibile, di fatto, dalla volontà di attenersi al magistero crociano, decisamente prevalente . Donde la conclusione, anch’essa pienamente conforme alle idee estetiche di Croce, che nell’opera d’arte «non è detto che non ci debbano esser elementi intellettuali». Non esiste anzi opera d’arte, dice Gentile, che ne sia priva, «soltanto che l'elemento intellettuale non deve valervi come tale, per la sua verità obbiettiva, logica, ma invece come aspirazione lirica dell’artista» .
Fu indubbiamente per la pressione di queste obiezioni, prima ancora che per i convergenti (ma successivi) rilievi crociani, che Vossler si dispose a rivedere la sua interpretazione del Paradiso, fino a capovolgerla del tutto come si è visto . E del resto che le recensioni di Gentile avessero lasciato in lui un’impressione profonda e duratura ci è confermato da Vossler medesimo.
È nota da tempo, per essere stata resa pubblica nella «Critica», nel secondo fascicolo del 1908, la lettera con la quale Vossler reagì alla prima recensione del filosofo italiano . Meno noti sono invece due biglietti spediti a Gentile in occasione delle due successive recensioni, apparse entrambe per il «Giornale storico della letteratura italiana», rispettivamente nel settembre 1909 (con la quale Gentile onorò l'impegno preso a suo tempo col Renier) e nel 1912.
Se nel primo di questi biglietti, del 10 maggio 1909, Vossler si limita a definire la recensione gentiliana «la più seria... e la più proficua» per lui fra tutte quelle avute fino a quel momento, sì da vedersi costretto in molti punti a «a dargli ragione contro sé stesso» , nel secondo, una cartolina postale datata 15 maggio 1912 (e relativa alla recensione del secondo tomo del Dante) egli entra maggiormente nel merito delle critiche mossegli da Gentile, e lo fa difendendo il proprio punto di vista . Non c’è ancora alcun cenno di arretramento rispetto alle proprie tesi o di autocritica (salvo un vago impegno a riconsiderare la materia in altro momento), ma è evidente che i rilievi di Gentile lo hanno toccato più di quanto non dia a vedere la garbata reazione.
Tre sono i punti dell’articolo di Gentile dai quali Vossler si dice non persuaso (o che egli non ha fino in fondo chiari): la questione dell’astratto e del concreto; la distinzione tra critica e storia; la valutazione estetica del Paradiso, in cui Vossler continua a vedere una schiacciante supremazia del pensiero (cattolico) sulla poesia. Il documento, inedito, si trascrive qui per la prima volta:

Carissimo amico, Vi ringrazio molto della recensione del mio Dante. Essa mi ha dato e mi darà parecchio da pensare. Per ora non mi ha persuaso; e specialmente, credo, perché non riesco a capire le differenze del contenuto astratto dal contenuto concreto, né la differenza che mettete fra storia e critica. Più tardi forse tornerò su questi problemi; per ora son troppo impegolato di [sic] altre ricerche.
Posso ammettere che qua e là avrei dovuto enunciare meno nettamente il biasimo e la lode; il che è però piuttosto questione di temperamento che di principi fondamentali.
Nella disposizione ho seguito l’ordine naturale dei canti, parte per riguardo al pubblico tedesco poco familiare col poema, parte — e questa era la ragione principale — per far risaltare il vario progresso dell’intonazione lirica che sta in fondo ai diversi canti ossia gruppi di canti; difatti, a guardare bene, ho tenuto l’ordine dell’elemento lirico, non quello degli avvenimenti ossia dell'elemento epico.
Che poi un critico moderno riesca a salvare quelle parti ove il pensiero cattolico del poeta ha sopraffatto il pensiero poetico (cioè parte del Purgatorio e la maggior parte del Paradiso) mi par impossibile. Riuscirà a scusarlo; ma Dante non ha bisogno di avvocati né di indulgenze...

Ancora nessuna palinodia, ripetiamo. Ma i dubbi sollevati da Gentile, momentaneamente respinti, torneranno di lì a poco a turbare le apparenti sicurezze di Vossler. Fino a che, come sappiamo, egli sarà costretto a concedere che un critico moderno era effettivamente riuscito nell'impresa, qui data per impossibile, di salvare il Paradiso, e questo critico era proprio Gentile (con Croce al suo fianco).
Quando nel 1919 il critico tedesco farà ammenda dei suoi precedenti giudizi, nel saggio Zur Beurteilung von Dantes Paradiso, terrà a riconoscere in modo esplicito che era stata anzittutto la recensione gentiliana del 1912, la seconda pubblicata sul «Giornale storico», a mettere in crisi la sua precedente valutazione della terza cantica e ad aprire così la strada a un ripensamento radicale della questione, del quale quel contributo offriva il primo risultato . Il ravvedimento, annunciato in questo breve scritto, ancor di più sarebbe stato visibile, come dicevamo, nella seconda edizione del Dante (Heidelberg 1925), su cui si basò la seconda edizione (ma la prima completa) italiana del libro, pubblicata da Laterza nel 1927 .

Il discorso che abbiamo svolto fin qui ci ha mostrato Croce e Gentile consentire sull’opportunità di una rettifica delle posizioni “ultradesanctisiane”, se così si può dire, professate da Vossler nel suo libro dantesco. Ciò nondimeno, se i due filosofi concordavano nel ritenere, come sì è visto, che la riabilitazione poetica della terza cantica dovesse implicare il riscatto della materia intellettuale, predominante in quella parte del poema, dalla dimensione del brutto e del falso, più problematica l’intesa si rivelava sui limiti da assegnare a questa riabilitazione: su questo ciò che Croce era disposto a concedere era meno di quello che aveva concesso Gentile. Sembrava infatti a Croce di avvertire, nel discorso gentiliano, la preoccupante inclinazione a trattare anche le allegorie del poema come elemento intellettuale, e su questa base a reintrodurle nella sfera dell’arte, da dove De Sanctis — la cui posizione su questo punto era incontestabile — le aveva a ragione cacciate. Al suo turbamento su questo punto Croce dà voce nella seconda delle cinque osservazioni che egli trasmette all’amico, restituendogli le ultime cartelle della recensione vossleriana.
Rileggiamo:

Mi pare che tu abbi torto nel confondere un po’ l’allegoria con l'elemento intellettuale. Certo, l'elemento intellettuale può essere un antecedente dell’arte; e così diventa arte come l’elemento passionale, anzi si traduce esso stesso in passionale. Ma l’allegoria si definisce il persistente dualismo nell’arte: è l’arte che ha valore non per sé ma per qualcos’altro. Contro l’allegoria in questo senso sta la critica del De Sanctis. E in questo senso l’allegoria non è elemento d’arte, ma è arte sbagliata .

Ancorché espresso sinteticamente, il senso del rilievo è chiaro. In termini di valutazione estetica, l'elemento intellettuale può essere ammesso esclusivamente come antecedente dell’arte, ossia come contenuto extrapoetico (morale, filosofico, religioso ecc.) che l’arte trova fuori di sé e poi — grazie alla sua virtù formalizzante — rende identico a sé, negandolo al contempo come contenuto extrapoetico. L’allegoria, obietta Croce, rappresenta un caso diverso: è infatti un contenuto intellettuale che resiste alla sua risoluzione estetica, rompendo così, in un persistente dualismo, quella perfetta identità di forma e materia che è in ogni opera d’arte che sia veramente tale. Ne consegue che l’allegoria non può essere annoverata tra le forme dell’arte, ma è da considerarsi semplicemente, con De Sanctis, arte sbagliata, ossia “il brutto” . È difficile dire fin dove si fosse spinto Gentile, nella recensione inviata a Croce e purtroppo perduta, in questa riabilitazione dell’allegoria.
Constatiamo tuttavia che l'ambiguità segnalata da Croce non è sciolta nemmeno nella versione definitiva, pubblicata sulla «Critica», segno che sul problema dell’allegoria, e della sua valutazione estetica, Gentile era meno disposto a recepire le osservazioni dell’amico. Malgrado qualche timida apertura verso la posizione crociana, Gentile resta fermo in effetti nel rivendicare all’allegoria «i suoi diritti di buona cittadinanza nel campo dell’arte» . La volontà di ribadire la propria convinzione, unita allo scrupolo di non eludere completamente il monito crociano, trasmette al discorso di Gentile un andamento incerto ed inquieto, che si esprime nello sforzo di distinguere tra allegoria come «errore estetico» (per quanto innocuo) ed allegoria come “linguaggio” (ossia come espressione), o allegoria costituzionale. La prima si ha quando «l’artista, in funzione di critico, crede di elevare o creare il valore [della sua arte] attribuendole un significato intellettuale» in realtà estraneo al processo artistico. Allora l’allegoria è interruzione dell’arte, perché sovrapposizione indebita dell’elemento intellettuale alla creazione fantastica: «è la critica (falsa) che interviene nell’arte, sebbene senza guastarla». Questa allegoria, errore di estetica, non è — osserva Gentile — un antecedente dell’arte, ma è qualcosa di successivo all’arte (e perciò di innocuo, seppur sbagliato): «è riflessione sull’arte (la quale... è sempre erronea, perché fuor di posto, in quanto s’intrude nell’arte, anche se per sé vera), non elemento dell’anima dell’artista, e però dell’arte». Non è questa, avverte il filosofo, l’allegoria di Dante. Quella di Dante è un’allegoria («una significazione simbolica») che è tutt'uno con la fantasia creatrice del Poeta e ne è anzi un alimento vitale. E così, sarebbe impresa non solo vana, ma dannosa, pretendere di staccare la figura di Virgilio (o poniamo di Beatrice), il suo significato letterale, dal complesso di significati ulteriori che l’anima di Dante, per effetto di una determinata educazione filosofico-estetica, ha proiettato su di essa. Significati falsi per noi, venuti dopo secoli di progresso scientifico e filosofico, ma veri invece per il Poeta e per la civiltà che nella sua anima si specchiava . Ammesso dunque con Croce che l’arte è linguaggio, l’allegoria in Dante dovrà intendersi, afferma Gentile, «come il linguaggio della sua anima», tanto diversa dalla nostra, che usiamo un’altra filosofia e usiamo le parole in modo diverso da come le usava il Poeta. E come la parola grammaticale, prosegue, dobbiamo intenderla, filologicamente, secondo l’uso dantesco, per quello cioè che Dante ci metteva, «così la sua allegoria, tutto il suo simbolo va inteso e [...] valutato, filologicamente, come espressione dello stesso spirito del Poeta» . Su questo presupposto, Virgilio non apparirà più, banalmente, come «l’astratta ragione», ma come «la reale intuizione di Dante, l’altissimo canto della mente umana, quale egli l’udì sonar nell’Eneide, leggendola e rileggendola con l’anima piena dell'immagine del Virgilio medievale e suo». Il Virgilio della Commedia non è allora che l’intuizione viva in cui l’attività singolarissima dello spirito poetico ha reso oggettivo, plasmandolo in tale figura, un suo particolare contenuto. Se è così, l’unica conclusione che si può trarre, in termini generali, è che «tutta l’arte è simbolo, buona e legittima allegoria, se la forma si guarda in sé, senza vederne la vita nello spirito artistico» . Posto quest’assunto, apparirà chiaro — conclude Gentile — che tra l’allegoria costituzionale (e tale è l’allegoria di Dante) e la reale intuizione dell'artista non può darsi differenza alcuna. Ogni tentativo di staccare l’una dall’altra, di scindere cioè il simbolo dal simboleggiato, conduce infatti all’artificiosa e antistorica separazione, nel poema, tra una parte vera (la poesia) e una parte falsa (l’allegorica) .
Per evitare di incorrere nella riprovazione crociana e al tempo stesso mantenere all’allegoria «i diritti di buona cittadinanza nel campo dell’arte», Gentile, nei faticosi giri di questo ragionamento, giungeva dunque per un verso a ridurre l’allegoria dantesca, l’allegoria buona e legittima, al contenuto intellettuale che l’arte rende identico a sé, per un altro continuava a postulare una differenza, nell’arte di Dante, tra simbolo e simboleggiato, inseparabili ma pur sempre distinti — senza avvedersi (o avvedendosi?) che nel primo modo l’allegoria perdeva i diritti che egli avrebbe voluto riconoscerle: non era più allegoria (o simbolo), ma arte (col che si vedeva costretto a dar ragione, senza volerlo, a Croce e a De Sanctis); mentre nel secondo modo se il concetto dell’allegoria tornava a costituirsi, si dissolveva però quello dell’arte, si ricadeva cioè nel vecchio errore avversato da Croce, consistente nel porre un’arte che vale non per sé stessa ma per ciò che essa significa (per il contenuto che essa trasmette). E d’altronde, non era strano che a quest’esito paradossale pervenisse chi già qualche anno addietro, nel capitolo dantesco della Storia dei generi letterari, aveva elaborato il concetto, fortemente equivoco, dell’unità inscindibile di filosofia e poesia nell'opera di Dante, concetto del quale questa posizione rappresentava, a ben vedere, uno svolgimento interno .
Lo stesso doppio movimento, di adesione e fuga dalle prescrizioni crociane, che caratterizza la pagina che abbiamo appena riferito, si rileva dalla lettera, dell'8 dicembre 1907, con la quale Gentile comunica a Croce di aver rifatto la fine dell’articolo su Vossler, sulla base delle osservazioni che Croce gli aveva trasmesse. Rispetto a queste osservazioni, scrive Gentile, egli si dichiarava fermamente d’accordo con l’amico (sebbene con lui solo); e tuttavia su un punto, sulla questione dell’allegoria, l'accordo — per quanto alla fine indubitabile — era meno evidente, e richiedeva di essere raggiunto attraverso un supplemento di riflessione e un chiarimento. E qui, per argomentare il proprio punto di vista, Gentile richiamava alla mente di Croce ciò che Croce medesimo, nell’Estetica, aveva scritto a proposito dell’allegoria, invitandolo a considerare che non quella — ossia l’errore estetico bandito da Croce (sulla scia di De Sanctis) — era l’allegoria di Dante. La quale non era appunto l’inutile, sebbene innocua, «espressione aggiunta estrinsecamente sopra un’altra espressione», di cui aveva parlato Croce, ma era “altro”. Ebbene: che cos'era questo “altro”, e come si definiva? Premuto da due impulsi contrari, l’uno che lo allontanava dall’Estetica dell'amico e maestro l’altro che lo teneva avvinto alle categorie di quella, e desideroso di soddisfarli entrambi, il filosofo siciliano veniva anche qui a sdoppiare il concetto dell’allegoria, distinguendo l’allegoria “cattiva”, che non è che arte sbagliata, l’errore intellettualistico (ancorché innocente) riprovato da Croce, dall’allegoria “buona”, quella dantesca e di ogni vero poeta, che è invece è la stessa cosa del linguaggio, e come tale non è realmente distinguibile dall’arte:

Per ciò che riguarda l’allegoria io sono interamente del suo avviso, se l’allegoria è, come tu dici nella Estetica una interpretazione critica del poeta, una profezia post eventum. Ma non è questa l’allegoria di Dante, o almeno io non riesco a vedere la dualità tra l’allegoria di Dante e la sua poesia, salvo che non si voglia ridurre questa alla piccolissima parte del poema dove non c’è affatto elemento allegorico. Virgilio, Beatrice, Matelda, S. Bernardo, l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso ecc. come si devono intendere, se si trascura l’allegoria? E nel Faust l’ascensione di Fausto? E Dante stesso e Fausto sono Dante e Fausto letterali, NELLA intuizione poetica? Nel senso che io dico si deve attribuire all’allegoria di Dante, mi pare sia giusto dire che l’arte è essenzialmente allegoria, come è linguaggio. Spero che dopo i nuovi schiarimenti aggiunti all’art. tu l’approverai. Ci potrà essere qualche parola non precisa; ma in sostanza io credo di aver espresso un pensiero che dev'essere, ed è tuo .

Non occorre far notare come queste parole di Gentile, scritte con l’intento di “tirare” Croce dalla propria parte, dimostrino viceversa che sulla questione dell’allegoria, a differenza che sugli altri punti che l’amico aveva sottoposto alla sua attenzione, l'accordo non era possibile, se non stravolgendo e intorbidando il pensiero, in sé limpido, col quale Croce aveva ribadito, nell’Estetica, la ferma condanna desanctisiana dell’allegoria. La quale, una volta definita come espressione aggiunta dall’esterno, ad opera compiuta (post festum), all'espressione poetica, in alcun modo avrebbe potuto essere considerata, come pretendeva Gentile, identica a quest’ultima, che piuttosto le preesisteva e alla cui perfezione essa nulla poteva aggiungere o togliere .
Per Croce l’allegoria, “buona” (cioè innocua) o “cattiva” che fosse, era e doveva restare un fatto extraestetico. E tuttavia a Croce, cui premeva che l’articolo andasse finalmente alle stampe, non parve utile prolungare ulteriormente la discussione e rispondendo da Napoli, l’11 dicembre, preferì per quella volta non tornare sull’allegoria, limitandosi a dirsi soddisfatto del modo in cui Gentile aveva risistemato la parte finale della recensione , che in quella forma uscì infatti sulla «Critica», come si è detto, nel primo fascicolo del 1908.
Che però la discussione non si fosse esaurita con quel confronto troppo breve e che troppe cose aveva lasciate in sospeso, è indizio il fatto che essa conobbe uno strascico imprevisto poco dopo la pubblicazione dell’articolo gentiliano, allorché al dialogo tra i due filosofi vediamo aggiungersi, sempre sulle pagine della «Critica», la voce di Alfredo Gargiulo. Anche in questo caso il carteggio Croce-Gentile aiuta a mettere ordine nei fatti. In questa vicenda la figura di Gargiulo, alla cui recensione sugli Studi estetici di Giulio Augusto Levi (1907) Gentile aveva appena dedicato peraltro una «noterella» polemica, entra in scena con la lettera, di Croce a Gentile, del 26 marzo 1908: «ti mando — scrive Croce all'amico — un articoletto di varietà del Gargiulo, a proposito del tuo articolo sul Vossler» . Precisa, inoltre, che è stato lo stesso Gargiulo a pregarlo di inviare a Gentile il manoscritto dell’articolo, per esser sicuro che a costui «non dolga il suo intervento nella questione», e si dice convinto dell’opportunità di pubblicarlo, per due motivi, che Croce espone in questa forma:

perché la questione è importante, e perché veramente dal tuo articolo potrebbe nascere il fraintendimento che egli nota. Tu hai usato allegoria in un senso diverso da quello che ha nella critica, e cioè nel senso di pensiero religioso e filosofico incorporato nella visione artistica; perché io ho già costretto il Gargiulo a scrivere l’articolo da capo, mutandolo da discussione con te in un comento del tuo pensiero; e, come vedi, non contento di ciò, vi ho fatto un’altra revisione, per togliergli ogni aspetto di polemica. Ad ogni modo, se vuoi aggiungere una postilla, sei, naturalmente, liberissimo di farlo. Se invece le cose che si dicono nell’articoletto ti sembreranno accettabili (e credo di sì, e a me così sembrano), puoi anche consentirvi col silenzio. Fa tu come meglio credi .

La prima di queste due ragioni offre uno spunto notevole alla nostra riflessione, che è bene non lasciarsi sfuggire. Il nodo della questione è sempre l’allegoria. Le perplessità di Croce — le medesime cui dà voce l'articolo del Gargiulo — riguardano in particolare l'equivoco cui presta il fianco il modo in cui Gentile, nella sua recensione, ha mostrato di intenderla. A non convincere Croce, questa volta più esplicito, è il fatto che l’amico identifichi l’allegoria con «il pensiero religioso e filosofico incorporato nella visione artistica», ovvero con qualsiasi contenuto intellettuale suscettibile di trasformarsi in poesia. Non occorre ribadire per quale motivo una tale posizione a Croce dovesse sembrare insostenibile: se l’allegoria era allegoria (le si manteneva cioè il significato usuale che aveva nella critica e nelle teoria letteraria) allora essa non poteva che essere rigettata come errore e respinta al di fuori della cerchia estetica; se invece, come faceva Gentile, si pretendeva che fosse non la cosa a tutti nota, ma, più singolarmente, la materia intellettuale che l’arte informa e assimila a sé, allora non si vedeva come potesse costituirsene il concetto, come potesse restare sé stessa, allegoria, e al contempo annullarsi nell’arte: risolta nell’arte l’allegoria, per come la intendeva Gentile (il pensiero filosofico e teologico del Poeta) cessava infatti di esistere, era arte e soltanto arte, al pari di ogni altra materia, passionale o dottrinale che fosse, salita alla purezza della forma (l’espressione).
Su questo punto la distanza restava effettivamente incolmabile, e lo sarebbe rimasta anche in seguito: circa un anno dopo la pubblicazione della Poesia di Dante, quando il sodalizio con Gentile si era ormai interrotto da tempo, Croce avvertirà l’esigenza di tornare sulla questione, per precisarla e per innovare il suo disaccordo rispetto alla posizione gentiliana, che nel frattempo si era ulteriormente irrigidita. Affidò la sua polemica a una “memorietta” dal titolo Sulla natura dell’allegoria, presentata alla Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli, il 6 aprile 1922 (stampata in pochissime copie negli Atti dell’Accademia, la memoria venne poi ristampata l’anno successivo, con lo stesso titolo, sulla «Critica») .
Rispetto a ciò che ne aveva scritto nell’Estetica del 1902, la questione aveva assunto in Croce, negli anni, contorni più netti e definiti. Con il libro dantesco egli era giunto infatti a definire l’allegoria un atto pratico, definizione che ne faceva una forma di scrittura, una criptografia, il cui senso è condannato a restare inattingibile ove l’autore manchi di darne la chiave che lo disserra . Negato con ciò che l’allegoria potesse mai considerarsi una forma di espressione, tra i due processi, quello inventivo dell’allegorista (che pone le sue criptografie) e quello inventivo del poeta (che pone le sue immagini) Croce continuava a escludere ogni possibilità di sovrapposizione, confusione o scambio: «dove si considera l’allegoria — sintetizzava — non si considera la poesia e dove si considera la poesia non si considera l’allegoria» . L'ultimo atto di questa polemica si ebbe pochi anni dopo. A porgerne l'occasione fu ancora una recensione al Dante di Vossler, di cui nel 1927 presso Laterza era uscita, come si è detto, la traduzione italiana della seconda edizione tedesca (quella contenente il “ravvedimento” sul Paradiso). Il recensore stavolta era Luigi Russo.
Commentando sulla «Critica» il saggio di Russo, apparso su «Studi danteschi», Croce si soffermava in particolare sulla questione dell’unità del poema che specialmente dopo la pubblicazione della Poesia di Dante era divenuta nella moderna critica e storiografia letteraria, come scriveva, ciò che la questione omerica era stata per la filologia moderna, ossia il banco di prova per saggiare la bontà delle varie posizioni critiche . A Russo, apologeta dell’unità (sulla scia di Gentile), Croce obiettava anzitutto che la rivendicazione dell’unità della Commedia come opera interamente poetica — contro l’idea crociana di un’alternanza, nel poema, di parti poetiche e di parti non poetiche — cozzava con l'evidenza del fatto che in cinque secoli di critica dantesca ci si era travagliati su come comporre la molteplicità di atteggiamenti spirituali rinvenibile in Dante — l’artista, il filosofo, lo scienziato, il critico ecc. — il che non era avvenuto per nessun altro scrittore .
Ma una cosa era prendere atto di questa molteplicità — avvertiva Croce — altra cosa era valorizzarla a fini estetici, travolgendo ogni distinzione: su questo si doveva procedere con cautela, per evitare rischiosi fraintendimenti. Era qui che la questione dell’allegoria tornava a ripresentarsi, e con essa si ridestava l’ombra di Gentile, che quella questione trascinava con sé. Non c’è dubbio, infatti, che a lui si riferisca l’espressione volutamente generica, e un po’ sprezzante, «un filosofo italiano» (poi sciolta nella ristampa dell’articolo all’interno delle Conversazioni critiche) , che compare sulla soglia di questo nuovo affondo.
L’attacco colpisce, nello specifico, la conferenza La Filosofia di Dante tenuta da Gentile al Circolo filologico di Milano, nel gennaio 1921 e pubblicata lo stesso anno dalla Fondazione Besso di Roma. In un passaggio di quella conferenza Gentile tornava infatti a parlare di allegoria dantesca, all’incirca nei termini in cui ne aveva sempre parlato, ma rendendo espliciti, questa volta, i risvolti anticrociani della sua posizione . L'aggiornamento del dossier testuale, come non aveva mutato la tesi di Gentile, fattasi solo più schematica e aggressiva, così non mutò la sostanza della critica crociana, che restava fondata sulla ricusazione dell’identità, postulata dall’avversario, di allegoria ed espressione:

Un filosofo italiano ebbe a dire, in una sua orazione dantesca, che la questione dell’allegoria in Dante non aveva particolare importanza, perché, in fine, l’allegoria è una forma di espressione come le altre; e gli parve di aver troncato il nodo. Ma in realtà, egli, invece di compiere quella rapida operazione decisiva, prese una cantonata .

Da questo chiarimento estremo, riferibile a una stagione cronologicamente più avanzata rispetto a quella che il nostro studio prende in esame, torniamo ora, per concludere, al 1908 e alla breve coda polemica che seguì alla recensione vossleriana. Ricevuto e visionato il manoscritto del Gargiulo, Gentile non mostrò, almeno esteriormente, di esserne contrariato. E anzi, scrivendo a Croce da Palermo il 30 marzo, lo pregò di ringraziare Gargiulo da parte sua «degli schiarimenti che ha arrecati... alla questione». Era però sua intenzione, aggiunge, scrivere una breve replica alle osservazioni del critico, «alcune brevi postille, per dire fin dove siamo d’accordo» . La replica fu effettivamente scritta , ma Croce, dopo averla letta e riletta (anzi studiata), valutò che non fosse il caso di pubblicarla. Comunicò a Gentile la sua scelta, e le ragioni che la motivavano, nella lettera del 12 aprile 1909. Pareva a Croce, nello specifico, che la postilla di Gentile alimentasse gli equivoci anziché chiarirli, in una questione per giunta così delicata come quella dell’allegoria. E soprattutto egli vi avvertiva il rischio che la pretesa, in sé legittima, di correggere alcuni errori del De Sanctis, potesse degenerare, ove fraintesa, in un rifiuto di tutta la sua estetica, di cui viceversa andava riconosciuto l’immenso beneficio recato alla critica dantesca e della quale dovevano essere salvaguardati con cura alcuni principi fondamentali: uno di questi era appunto la distinzione capitale, così la definiva, tra intenzioni e fatto artistico, che il discorso di Gentile, confondendo l’arte col suo contenuto intellettuale, tendeva invece ad abolire. Sull’allegoria dantesca occorreva perciò, concludeva Croce, tornare con più calma in altro momento, per dissipare ogni equivoco residuo . La questione era insomma rinviata, ma tutt’altro che risolta. E per il momento era l’insoddisfazione a prevalere. Quanto all’articolo di Gargiulo, acquisito il parere di Gentile, esso fu dato regolarmente alle stampe, come Croce del resto desiderava, e con il titolo Ancora dell’allegoria in Dante apparve sulla «Critica» nel terzo fascicolo del 1908 .
Eviteremo di ripercorrere le varie e spesso pertinenti considerazioni che Gargiulo svolge, in questo suo scritto, in merito all’interpretazione gentiliana, anche perché per molte di esse ci troveremmo a dover ripetere in altra forma quanto già osservato sopra in merito ai rilievi di Croce, dai quali quelli di Gargiulo in certo senso discendono e di cui sono, per così dire, un ampliamento. Che con Gargiulo fosse anche Croce a parlare, e a rinnovare così all’amico i suoi dubbi e le sue perplessità, si deduce agevolmente da questo passaggio dell’articolo, nel quale davvero si ha la sensazione che le due voci si sovrappongano l’una sull’altra, tanto da non risultare più distinguibili:

La sua mira [di Gentile] è sempre quella: impedire che l’elemento religioso e filosofico dell'anima di Dante, il quale investe tutte le sue figurazioni, sia trascurato. Ciò che il Gentile chiama impropriamente «allegorico», è equivalente di «religioso» o «filosofico»: gli «elementi allegorici» sono per lui soltanto una realtà a cui non prestiamo più fede, o da noi filosoficamente superata [...] L’aver taciuto però dell’allegoria vera e propria, per aver in mira soltanto quel pericolo, espone intanto Gentile ad una interpretazione equivoca del suo pensiero: può dar luogo alla credenza che egli ritenga possibile una legittimazione estetica dell’allegoria in senso proprio (e non già del pensiero filosofico e religioso), e che in tal senso pensi che si possa correggere il pensiero di De Sanctis .

Qui c'è ancora la volontà di ricondurre la posizione gentiliana nell’orbita di quella desanctisiana (ribadita da Croce). Lo scarto rispetto a De Sanctis — ragiona Gargiulo (e dietro di lui Croce) — non è che una distorsione ottica prodotta da un difetto di chiarezza. In verità, come abbiamo visto, la deviazione era più concreta di quanto Gargiulo e Croce non volessero ammettere. Caduta l’illusione, e dissipato l’equivoco, le due posizioni prenderanno a polarizzarsi, e a divergere, nel modo che abbiamo cercato di ricostruire, fino all’ultimo confronto, all'indomani della pubblicazione, nel 1921, della Poesia di Dante. Il dialogo che Croce e Gentile intrecciarono in margine alla recensione gentiliana, nel primo decennio del secolo, rappresenta una sorta di incunabolo di molte delle idee che confluirono in quel libro, che apre una stagione nuova nella storia della critica dantesca (si pensi solo al rilievo che da quel momento assumerà la questione della struttura, e della sua distinzione, o non distinzione, dalla poesia, con «la molesta valanga di interpretazioni avvocatesche» che ne sarebbe venuta giù) . Già nelle pieghe di questa discussione giovanile si delineano e prendono forma, come abbiamo visto, due grandi questioni, diverse, ma strettamente intrecciate tra loro: la rivalutazione estetica del Paradiso e la questione dell’allegoria. A tenere insieme le due questioni, a costituirne il comune fondamento, è il problema — ereditato da De Sanctis — del peso da dare, sul piano artistico, a quello che i due filosofi chiamano, nelle loro conversazioni, l'elemento intellettuale del poema — problema che resterà a lungo al centro della loro riflessione su Dante e del quale essi offriranno soluzioni opposte: la distinzione di poesia e struttura (poesia e “romanzo teologico”) Croce, la natura intrinsecamente allegorica (filosofica cioè) della poesia dantesca Gentile (identità spinta al massimo grado nella conferenza milanese del ’21). Nelle lettere del 1907-1908 relative al Dante di Vossler, questa parabola, benché solo agli inizi, è in qualche modo già presente, nel senso che se ne possono intravedere, in forma implicita, i successivi svolgimenti.
Quel che è venuto dopo, accompagnato dal suono di reboanti polemiche, ha schiacciato questo primo momento della lettura neoidealistica di Dante e lo ha messo in ombra. A noi pareva che esso meritasse invece, per le ragioni che si sono dette, di essere ricordato e raccontato nuovamente — che è quanto si è provato a fare in questo studio.

Date: 2022-11-12