Dante e le tradizioni latine medievali [Peter Dronke]

Dati bibliografici

Autore: Peter Dronke

Tratto da: Dante e le tradizioni latine medievali

Editore: Il Mulino, Bologna

Anno: 2022

Pagine: 31-38

Premessa

Lo scopo di questo libro è quello di delineare ed illustrare una varietà di modi in cui le tradizioni latine medievali possono aiutarci a comprendere la Commedia di Dante. L'attenzione è rivolta a un certo numero di tecniche poetiche, di idee, simboli e miti che Dante ereditò dalla latinità medievale, ma che assunsero nuova vita nel suo poema. Ho scelto di concentrare l’attenzione su un numero limitato di problemi e di collegare il loro esame a tentativi di interpretazione dettagliata. Ma questa scelta è stata operata, spero, in modo da poter aprire la strada ad una più completa comprensione di molte delle più importanti strategie dantesche e ad un approccio in grado di affrontare le sfide — e persino gli ostacoli — che il poeta deliberatamente pone al lettore.
Esiste una credenza assai diffusa, sostenuta da un consenso che inizia con i primi. commentatori e che continua tuttora, secondo cui l'approccio più adeguato alla Commedia consiste nel tentarne una lettura prevalentemente allegorica. Molti degli elementi dell’interpretazione. allegorica sono divenuti tanto fermamente, quasi unanimemente, accettati da fare apparire sciocco il solo tentare di metterli in discussione. Ad ogni modo, metterli in discussione per ragioni di poesia, suggerendo che le allegorie convenzionali che sono state proposte non rendono giustizia all’altezza dell’i immaginazione poetica dantesca, apparirà sempre troppo impressionistico, soggettivo, per risultare convincente. È possibile avere la sensazione che Dante sia dotato di un «potere esemplaristico» — che amalgama i significati e addensa la significazione linguistica grazie ad una coscienza di tipo associativo — che supera i limiti dell’allegoria; ma rimane difficile, dal punto di vista storico, mettere in disparte l’approccio consacrato da una lunga tradizione a vantaggio di un approccio critico che goda di maggiore libertà.
Mi sembra che la via più promettente per superare questo dilemma consista nel tentare di dimostrare, sulla base di un gruppo di testi, che ai tempi di Dante erano possibili approcci più raffinati e immaginativi nei confronti del significato poetico. Ritengo che sia possibile rinvenire qua e là nel corso del Medioevo alcune profonde intuizioni riguardo alla natura della poesia che ci colpirebbero ancora come degne della grande poesia. I metodi allegorici, quali venivano impiegati dai commentatori biblici e a volte anche da quelli dei testi classici, non erano né gli unici né i più rilevanti strumenti interpretativi disponibili.
Sono inoltre incoraggiato a mettere in discussione anche alcuni dei presupposti interpretativi più profondamente radicati dal fatto che, nel nostro secolo, due degli studiosi il cui lavoro su Dante mi ha maggiormente influenzato hanno preso le distanze in modo piuttosto netto da quella tradizione esegetica, e di ciò hanno anche potuto offrire ragioni di carattere storico. Mi riferisco qui agli scritti di Erich Auerbach e di Bruno Nardi. Esaminando le concezioni medievali della figura come qualcosa di distinto dall’allegoria, Auerbach pervenne a porre solide basi per uno studio adeguato di alcuni degli aspetti fondamentali della ricchezza immaginativa dantesca. Non era più necessario seguire Guido da Pisa, Jacopo della Lana o i figli di Dante, Jacopo e Pietro, per spiegare Virgilio e Beatrice come allegorie — della Ragione e della Teologia, o di concetti simili — oppure temere che non fosse «medievale» respingere equazioni concettuali di tal genere. Accanto all’allegoria, infatti, la concezione medievale della figura, altrettanto bene attestata, consentiva di presentare simultaneamente delle creazioni vividamente individuali e dei significati nascosti — significati che non entrano in conflitto con la percezione dell’individualità, ma che sono piuttosto ad essa consustanziali.
In modo simile, anche Nardi sostenne, sulla base della sua conoscenza incomparabilmente dettagliata del pensiero medievale, che il concetto di una lettura di carattere costantemente allegorico, morale e mistico della Comedia era storicamente inappropriato, che «qualsiasi tentativo di cavare dal poema dantesco i sensi mistici che i teologi ebrei e cristiani solevano ricavare dalla Bibbia è un tentativo semplicemente cabalistico» .
Eppure — questa è l’obiezione che viene di solito rivolta a questo approccio — non era forse stato questo il metodo di lettura che Dante stesso aveva adottato nella lettera di dedica del Paradiso al suo patrono, Cangrande? Mentre nel 1944 Nardi parlava di «dubbio grave e giustificato» riguardo al fatto che Dante avesse effettivamente scritto quell’esposizione, nei suoi studi successivi egli pervenne alla conclusione, sulla base di una grande varietà di osservazioni, molte delle quali non sono ancora state contraddette né smentite, che il testo esplicativo che segue la dedica — il fondamento apparente dell’allegorizzazione sistematica della Commedia — non poteva essere attribuito a Dante stesso.
Questo studio parte da alcune delle intuizioni di Nardi e Auerbach. È evidente — ed entrambi questi studiosi erano prontamente disposti ad ammetterlo — che momenti di allegoria sono effettivamente presenti nella Commedia, che Dante a volte si basava su significati determinati oltre che su quelli aperti. Mi sembra che ci siano ancora molte questioni da discutere riguardo all’identificazione dei momenti di vera e propria allegoria e alla delimitazione della loro portata e, nel caso di alcuni di quelli che affronto nel corso di questo libro, non seguo nessuno dei due grandi pionieri. Neppure mi sentirei di seguire Nardi fino al punto di attribuire tanta importanza all’inautenticità dell’esegesi per Cangrande. Ho molti motivi — compresi alcuni finora insospettati — per ritenere che Dante non abbia scritto questa esegesi, e questi emergono sia nel corso del primo capitolo che in un Excursus a parte. Nonostante ciò, ritengo che possa anche essere concepibile che, in questa unica occasione, Dante si sia deciso a presentare il suo viaggio ultraterreno utilizzando un metodo esplicativo simile a quello che Bernardo Silvestre e altri avevano ritenuto appropriato al viaggio ultraterreno di Enea, o che i Padri della Chiesa avevano applicato a molti brani della Bibbia. Si trattava di un metodo che avrebbe benissimo potuto essere talmente familiare alla maggior parte dei commentatori del tempo da indurli automaticamente, proprio perché vedevano nella Commedia un testo sorprendentemente simile all’Eneide e alla Bibbia, ad organizzare il nuovo testo in base agli schemi familiari da tanto tempo. Si può comunque per lo meno osservare che l’autore dell’esegesi per Cangrande, anche se tentato da questa impostazione, non insistette su questa via: dopo un’affermazione di carattere generale e un esempio tratto dalla Bibbia egli non proseguì applicando il metodo neppure ai pochi versi dal Paradiso che egli decise di elucidare. Ancora più importante per noi è renderci conto di quanto il metodo allegorico sia diverso innanzitutto dalle discussioni in area latina del significato poetico che Dante avrebbe potuto conoscere (e che, anche se in effetti queste non gli servirono né come insegnamenti né come ispirazione, offrono per lo meno qualche coordinata appropriata per la comprensione della sua arte poetica) e, in secondo luogo, dalle brillanti intuizioni riguardo alla natura del significato che si incontrano in certi momenti della Commedia stessa. Alcune di queste intuizioni sono discusse nel Capitolo I.
I capitoli successivi non sono in un certo senso altro che frammenti di quella che dovrebbe essere un'indagine più estesa. Ho scelto tre momenti della massima importanza — quelli relativi ai giganti dell’Inferzo, alle apparizioni apocalittiche nel Purgatorio e alla prima corona del cielo del Sole nel Paradiso — per esaminare dettagliatamente alcuni dei modi in cui questi momenti si fondano sulle tradizioni latine medievali ed in cui il retaggio medievale di Dante è di ausilio per la comprensione della sua prassi poetica. Ho naturalmente dovuto fare numerosi riferimenti ad altre parti della Commedia e agli altri scritti di Dante, ma ho deciso di concentrare la mia attenzione su queste parti, piuttosto che su altre, perché considerate globalmente esse fanno emergere un nutrito gruppo di problemi complementari, e possono perciò essere ritenute esemplari. Se le si considera congiuntamente, appare chiaramente che queste parti racchiudono in sé una notevole varietà dei modi danteschi di generare il significato poetico; riflettono molti dei generi di creatività che si possono incontrare nel corso della Commedia; illustrano numerosi aspetti del mondo immaginativo medievale su cui Dante si basò, e possono quindi essere d’aiuto nel mostrare sia come egli utilizzò quel mondo sia quanto da esso si allontanò.
Che genere di realtà immaginativa hanno gli esseri che compaiono nella Commedia? Per comprendere e definire questo aspetto, a proposito di una varietà di apparizioni tanto disparate quanto i giganti nell’inferno, le fantasmagorie nel paradiso terrestre ed i filosofi e i teologi nella sfera del Sole, è necessario fare ricorso a fonti latine. Così, ad esempio, il trattamento che Dante riserva ai giganti mitologici e a Nimrod non sarebbe stato possibile senza i generi di evemerismo che il mondo latino medievale aveva sviluppato. Eppure nessuno prima di Dante aveva utilizzato quelle tecniche evemeristiche in modo così multiforme, per ottenere un insieme di effetti tanto complesso. I Padri della Chiesa avevano ridotto gli dèi e i semidei pagani al rango di uomini o demoni: se Cristo è il «vero Apollo», allora l’Apollo pagano non può essere stato altro che un re umano, oppure — se ancora esiste — uno spirito maligno. Il procedimento scelto da Dante, ad ogni modo, non è quello dell’opposizione ma piuttosto dell’integrazione: per lui, i giganti favolosi Efialte e Anteo sono reali nello stesso senso del gigante biblico Nimrod, condividono tutti una brutalità ed una miseria umane. Ma grazie al suo linguaggio l’integrazione dantesca si spinge anche più in là, nei regni del comico, del pauroso, del colloquiale. Nessuno prima di lui aveva introdotto tali aspetti nel dominio del paragone fra i miti classici e quelli biblici. Dante eredita determinate concezioni riguardo a ciò che è letterale e ciò che è mitico, come pure determinate nozioni sulle lingue immaginarie e sulla natura delle illusioni. Quanto egli aggiunge a tutte queste idee è peculiarmente suo: egli fa in modo che tutte servano allo scopo di collocare i giganti in prospettiva, dal punto di vista drammatico, e di demitologizzarli da quello filosofico, mentre allo stesso tempo, grazie alle sue risorse linguistiche, fa sì che l’incontro con i giganti diventi paurosamente reale.
Le fantasmagorie che appaiono a Dante nel paradiso terrestre esemplificano una gamma ancora più ampia di realtà immaginative, che si estende a coprire costrutti emblematici e visioni di ossessiva veemenza. Ciò che mantiene tutti questi elementi sotto controllo è il duplice punto di vista che alcuni pensatori medievali — compresi alcuni di quelli che Dante celebra più avanti, nel cielo del Sole — avevano percepito nei libri profetici della Bibbia, considerando i contenuti delle visioni profetiche come avvenimenti soggettivi che hanno luogo all’interno di un essere umano e allo stesso tempo come avvenimenti esterni che il visionario proietta sul mondo. Ma esisteva anche un duplice punto di vista corrispondente a questo, conosciuto dai migliori autori di poetiche medievali: il poeta, nel fare «paragoni occulti» (collationes occultae), poteva, come il profeta, realizzare qualcosa che era «sia dentro che fuori». Non è possibile comprendere i risultati cui perviene Dante negli ultimi canti del Purgatorio nei soli termini della poesia o della profezia; egli si avvale di entrambe le modalità, certo che, poiché il suo pensiero è integrato, le due si fonderanno.
Questo approccio mette necessariamente in discussione un certo numero d’interpretazioni allegoriche tradizionalmente accettate per molte delle immagini presenti in questi canti enigmatici, come quelle generalmente avanzate per l’albero, l’aquila o il drago. Nei confronti di queste e delle altre, il mio metodo consiste nell’iniziare da Dante stesso, cercando di accertare quali immagini egli avrebbe potuto storicamente conoscere e come le ha trasformate; lascio da parte il metodo che prende le mosse dalle ipotesi di Jacopo della Lana e degli altri commentatori antichi. È naturalmente ancora possibile sostenere che questi commentatori abbiano interpretato correttamente le intenzioni di Dante, ma spero di avere almeno mostrato che ciò non è ovvio: si tratta di una posizione che dovrebbe essere argomentata di nuovo, sulla sola base dei suoi meriti intrinseci.
Nel quarto capitolo, la mia intenzione principale è di esaminare un gruppo di testi e autori latini medievali con gli occhi di Dante, cercando di individuare ciò che egli avrebbe potuto vedervi. Parto dall’ipotesi — che stranamente sembra non essere ancora stata avanzata — che i dodici saggi che formano la prima corona del cielo del Sole sono stati scelti perché Dante conosceva bene le opere di ciascuno di loro, ed in esse aveva trovato qualcosa che illuminava le sue intenzioni poetiche centrali nel gruppo di canti (Par. X-XIV) che descrivono questa sfera. Il tentativo di mettere alla prova questa ipotesi ha rivelato una coerenza assai più profonda all’interno del disegno dantesco di quanto sia stato evidenziato da coloro che non hanno seguito Dante nell’esaminare il pensiero di queste figure. Così, prestando attenzione sia agli autori che Dante conosceva sia al contesto poetico in cui egli li pone, diviene possibile comprendere con maggiore precisione ciò che ognuno di questi pensatori rappresentava per Dante.
Il libro si conclude con due Excursus che offrono una documentazione più dettagliata riguardo ad alcuni punti controversi che emergono nel corso della discussione nei capitoli I e II. Nel primo Excursus, il mio scopo è quello di presentare in forma più rigorosa di quanto non sia stato fatto finora le difficoltà tecniche implicite nel sostenere che Dante sia l’autore della parte esplicativa dell’Epistola a Cangrande. Queste difficoltà riguardano le strutture ritmiche della prosa latina. Dopo la pubblicazione dello studio notevole su questo argomento di Tore Janson (1975) , le cadenze ritmiche latine sono quantificabili in modo preciso, e le cadenze volute sono divenute chiaramente distinguibili da quelle puramente fortuite: un fatto che richiede la revisione di numerose conclusioni e opinioni precedenti.
Nel secondo Excursus, il mio obiettivo è quello di distinguere per la prima volta, fra i testi latini riguardanti Nimrod, i dettagli relativi alla leggenda di Nimrod l’astronomo, presentando un certo numero di brani dall’ancor inedito «Libro di Nimrod» (Liber Nemroth) medievale. Ciò consente di differenziare chiaramente il Nimrod del Liber, che è un saggio nobile e dagli alti ideali, da Nimrod il gigante degenerato — una figura che Dante probabilmente conobbe soprattutto tramite la tradizione preservata da «Pietro Mangiadore», uno dei teologi che nomina nella sfera del Sole (Par. XII, 134).
Mentre gran parte del libro pone le tradizioni latine medievali in relazione con Dante, desidero qui sottolineare, una volta per tutte, quanto poco, in ultima analisi, i processi immaginativi ed intellettuali di Dante possano essere spiegati semplicemente nei termini delle sue fonti. I materiali provenienti dal mondo dell’erudizione — il mondo della latinità medievale — rappresentarono per lui una continua sfida, conscia e inconscia. Egli non si accontentò mai semplicemente di copiare: per Dante la comprensione implicava una trasformazione. Quasi nulla può essere posto a confronto con le sue fonti in modo semplice e diretto. Nello studio di Dante, la Quellenforschung deve inevitabilmente rimanere elusiva almeno in parte: la sua era una mente per cui ogni assimilazione rappresentava istintivamente l’inizio di un’alchimia. V’è in Dante una rara ed ostinata in- dipendenza che è vicina al centro della sua creatività. Perciò Je tradizioni che sono qui rievocate non rivelano altro che possibilità cui Dante poteva attingere; esse ci conducono solo fino alla soglia del mistero di come egli abbia potuto andare al di là di ciò che conosceva. Questo libro si rivolge in primo luogo ai medievalisti e agli studiosi di Dante; ma spero che esso possa anche rappresentare un invito alla lettura, o rilettura, della Commedia di Dante per coloro che non sono specialisti. Per questo motivo, nel testo, le citazioni dal latino compaiono in traduzione.

Date: 2022-10-31