L’allegoria di Lia e Rachele: dalla patristica greca e latina alla Commedia [Paola Ureni]

Dati bibliografici

Autore: Paola Ureni

Tratto da: Studi Danteschi

Numero: 63

Anno: 2008

Pagine: 65-80

Alla fine della terza ed ultima notte di Purgatorio appare in sogno a Dante (Purg. XXVII 91-108) una donna «giovane e bella» che va «per una landa cogliendo fiori», la quale, dopo aver declinato cantando il proprio nome, «Lia», e la propria missione, «movendo intorno / le belle mani a farmi una ghirlanda», annuncia la sorella Rachele che «mai non si smaga / dal suo miraglio, e siede tutto giorno» e ne rimarca la complementare diversità: «lei lo vedere, e me l’ovrare appaga». Rachele, pertanto, non si materializza nel sogno; Dante la vedrà risplendere nella candida rosa accanto a Beatrice, avendo al disotto «di soglia in soglia» Sara, Rebecca, Giuditta e Rut (Par. XXXII 7-15), quando, guidato da S. Bernardo, giungerà al termine del suo percorso di redenzione.
La narrazione biblica (Gen. 29-35) di Giacobbe e delle due figlie di Labano, Lia e Rachele, divenute sue mogli, può esser così riassunta. Giacobbe migrò nella terra di Paddan-Aran per sposare una delle figlie di Labano, fratello di sua madre Rebecca, e generare una discendenza che divenisse un’accolta di popoli. Giunto a destinazione, Giacobbe abitò nella casa di Labano e lavorò per lui. Labano aveva due figlie, la maggiore di nome Lia, la minore Rachele, ma Lia «lippis erat oculis, Rachel decora et venusto aspectu» . Dopo un mese Labano chiese a Giacobbe quale ricompensa desiderasse e questi, che amava Rachele, rispose: «‘Serviam tibi pro Rachel filia tua minore septem annis’». Labano accettò. Alla fine dei sette anni si celebrarono le nozze e, dopo il convito nuziale, di notte, Labano prese la figlia Lia e la introdusse da Giacobbe che si unì a lei, ma, al mattino, accortosi della sostituzione, disse al suocero: «‘Quid hoc fecisti mihi?’». Il suocero rispose: «Non est in loco nostro consuetudinis, ut minorem ante maiorem tradamus ad nuptias. Imple hebdoma: dam hanc, et alteram quoque dabo tibi pro opere, quo serviturus es mihi septem annis aliis’». Finita la settimana, Labano consegnò Rachele a Giacobbe: «Et ingressus etiam ad Rachel amavit eam plus quam Liam serviens apud eum septem annis aliis. Videns autem Dominus quod despiceret Liam, aperuit vulvam eius, Rachel sterili permanente». Lia partorì quattro figli, Ruben, Simeone, Levi e Giu- da. Ma Rachele per la sua sterilità «invidit sorori et ait marito suo: ‘Da mihi liberos, alioquin moriar’. Cui iratus respondit Jacob: ‘Num pro Deo ego sum, qui privavit te fructu ventris?”. At illa: ‘Ecce, inquit, famula mea Bilha; ingredere ad illam, ut pariat super genua mea, et habeam ex illa et ego filios’». Così Giacobbe si unì a Bilha, la schiava di Rachele, e generò due figli, Dan e Neftali. Rachele disse: «‘Certamina Dei certavi cum sorore mea et invalui’». Lia, trascurata, offrì la schiava Zelfa a Giacobbe, che da lei ebbe due figli. Successiva- mente Lia cedette a Rachele le mandragore, che il primogenito Ruben aveva trovato nel campo, in cambio della concessione di potersi unire nuovamente a Giacobbe. Così quella sera a Giacobbe, che rientrava dai campi, Lia: «Ad me, inquit, intrabis, quia mercede conduxi te pro mandragoris filii mei’. Dormivitque cum ea nocte illa. Et exau. divit Deus Liam, concepitque et peperit Iacob filium quintum (...) sextum (...) [et] filiam nomine Dinam». Ma Dio si ricordò anche di Rachele «et aperuit vulvam illius. Quae concepit et peperit filium dicens: ‘Abstulit Deus opprobrium meum’. Et vocavit nomen illius Ioseph». Dopo che Rachele ebbe partorito Giuseppe, Giacobbe chiese a Labano di poter tornare alla terra del padre Isacco insieme alle due mogli, alle due schiave e alla figliolanza. Labano acconsentì. Per i contrasti insorti con gli altri figli di Labano, Giacobbe caricò le sue donne e i figli sui cammelli e fuggì di nascosto. Prima di par tire, all'insaputa di tutti, Rachele «furata est teraphim patris sui»; successivamente riuscì, con un’astuzia e una bugia, a nasconderli al padre che aveva inseguito e raggiunto i fuggitivi per recuperare quanto gli era stato sottratto. Superato senza danno l’incontro con l’adirato Labano, Giacobbe, su ordine divino ripartì e raggiunse Bethel, cambiò il proprio nome in Israele, e, infine, si diresse a Efrata, ma durante il trasferimento Rachele partorì. Tuttavia «ob difficultatem partus periclitari coepit, dixitque ei obstetrix: ‘Noli timere, quia et hac vice habes filium’. Egrediente autem anima et imminente iam morte, vocavit nomen filii sui Benoni (id est Filius doloris met); pater vero appellavit eum Beniamin (id est Filius dextrae). Mortua est ergo Rachel et sepulta est in via, quae ducit Ephratham; haec est Bethlehem. Erexitque Iacob titulum super sepulcrum eius; hic est titulus monumenti Rachel usque in praesentem diem».
Rachele nella Comedia, in armonia con l’interpretazione dello scritto biblico da parte dei Padri e dei dottori della Chiesa, esprime la vita contemplativa, ma nel sogno è figura di secondo piano rispetto alla sorella Lia. Quest'ultima, invece, è lontana sia dalla Bibbia che dalla letteratura patristica, con la quale è anche, per molti aspetti, in contrasto. Scopo del presente studio è la comparazione del testo biblico e della sua esegesi con la poesia di Dante.
La prima interpretazione allegorica delle Sacre Scritture è, con ogni probabilità, quella di Filone Alessandrino, morto intorno al 45 d.C. Egli affermò la necessità di cogliere nei personaggi, nei nomi e negli avvenimenti riportati nei libri sacri il simbolismo degli stati dell'anima umana. Quest’interpretazione era fondata sulla cultura ellenistico-alessandrina mescolata e fusa con elementi diversi, in specie platonici e stoici. I suoi scritti sono andati in parte perduti, ma nei testi conservati emerge chiaramente l’interpretazione allegorica della Bibbia. Nel Quaestionum et solutionum in Genesin Liber , pur essendo illustrato il simbolismo della vita e delle opere di Isacco, Rebecca, Esaù, Giacobbe e Labano, non sono menzionate Lia e Rachele. Esse compaiono nel libro De nomzinibus hebraicis : «Lia, laboriosa; (...) Rachel, ovis, vel videns principium, aut visio sceleris, sive videns deum. Hoc autem secundum accentuum et literarum evenit diversitatem: ut tam in contrarias significationes nomina commutentur». È evidente, pertanto, il duplice aspetto del simbolismo di Rachele, definita sia ‘videns principium (...) sive videns deum’, che ‘visio sceleris’. La definizione è in armonia con il racconto biblico, nel quale è detto non solo che era ‘decora et venusto aspectu’, che era amata da Giacobbe ‘plus quam Liam’ e, infine, che Dio si ricordò di lei ‘et aperuit vulvam illius’, ma anche che invidiò la sorella, che da questa si fece consegnare le mandragore, dando in cambio Giacobbe per una notte, e che, infine, mancò di rispetto ed ingannò il padre che chiedeva la restituzione dei teraphim da lei rubati.
Il pensiero di Filone influenzò largamente l’esegesi delle sacre Scritture dei primi secoli dell’era volgare. Fu comune a quasi tutti l’intento di trasferire a Rachele, ‘venusta ed decora’, il tipo della nuova Chiesa e a Lia, ‘lippis oculis’, il tipo della Sinagoga . Labano fu interpretato come dealbatio, perché attraverso la figlia Rachele purificò Giacobbe. Lia ‘laboriosa’ ha la vista incerta e non è amata da Giacobbe, ma, sia pure grazie alla volontà del padre, è la prima ad unirsi a Giacobbe e a dargli una figliolanza. Essa è l’immagine della Sinagoga, che inizialmente ha molti figli, ma avendo gli occhi del cuore obnubilati non vede il Cristo che nasce e predica al suo interno. Rachele è bella ed è amata da Giacobbe, ma rimane a lungo sterile, fino a quando il Signore le concede il primo figlio, Giuseppe, che può prefigurare l'avvento di Gesù . Alla nascita del secondo figlio, Beniamino, Rachele muore, prefigurazione del sacrificio dei primi martiri cristiani per l'affermarsi e il diffondersi della Chiesa . S. Ambrogio vide in Giacobbe, detto, dopo la lotta con l'Angelo, Israel, cioè ‘colui che vede Dio’, la prefigurazione di Gesù «duorum vir coniugorum, hoc est, consors quidam Legis et gratiae» . Infatti, come Giacobbe amò con pio affetto la vergine Rachele, destinata a divenire sua sposa prediletta, ma dovette unirsi prima a Lia, primogenita di Labano, così Gesù accettò prima la ‘Legge’ espressa dalla Sinagoga che, come Lia ‘lippis oculis’, «mentis caecitate Christum videre non potuit», per pervenire poi alla ‘Grazia’ tanto desiderata della santa Rachele, che, secondo la corretta interpretazione del nome, esprime «Ecclesiae principatum futurum».
Molti si premurarono di rimuovere gli aspetti negativi di Rachele presenti nel racconto biblico, che Filone aveva accolto con il suo videns sceleris e con l'affermazione «ut tam in contrarias significationes nomina commutentur». S. Giustino vide in Rachele, che rubava e nascondeva gli idoli al padre, la figurazione della conversione dei Gentili . Giovenco, in una composizione poetica del 329, definì prudente ed avveduta Rachele che nascondeva al padre i teraphim in precedenza rubati: «Haec tamen involucris cohibebat cauta Rachela» . S. Ambrogio scrisse: «Beata Rachel, quae abstulit opprobrium suo partu; beata Rachel, quae abscondit cultus, erroresque gentilium, quae simulacra eorum plena esse immunditiae declaravit. Nemo credat paternae pietatis laesam esse reverentiam, quod stante patre sedit, quoniam scriptum est: Qui plus fecerit patrem aut matrem, quam me, non est me dignus (Matth. X, 37)» . Dello stesso tenore furono gli scritti di Gregorio Nazianzeno , Giovanni Crisostomo e Teodoreto . Il Crisostomo , tuttavia, biasimò come grave male la gelosia verso la sorella fertile, perché sfocia nella stoltezza. Ma S. Eucherio sostenne che Rachele non invidiò la sorella prolifica, «neque enim invidia tabescit», anzi l’amò ardentemente, «zelavit sororem suam» e, accettando le mandragore, le concesse per benevolenza di giacere ancora con Giacobbe e di avere altri figli; infine non mancò di rispetto al padre quando gli nascose, rimanendo seduta, i teraphim in precedenza rubati. Infatti, «sedere est humilitate poenitentiae appetere, sicut scriptum est, Surgite postquam sederetis (Ps. CXXVI). Rachel ergo idola sedendo cooperuit, quia sancta Ecclesia Christum sequens, vitium terrenae concupiscentiae per humilitatem poeniten- tiae cooperuit. De hac cooperatione per prophetam David dicitur, Beati quorum remissae sunt iniquitates, et quorum tecta sunt peccata (Ps. XXX])» . S. Paolino di Nola scrisse in un’epistola che Rachele «in Ecclesiae imagine vixit; tamen, ut reor, in Synagogae typum moritur, et partu filium doloris enixa illic, ubi erat Virginis partu Legis finis edendus: finis etenim Legis Christus» .
L'antitesi fra Lia e Rachele, già presente negli autori sopra ricor- dati, fu riproposta in termini molto crudi da S. Girolamo e S. Cirillo Alessandrino, da Teodoreto e S. Isidoro. Scrisse S. Girolamo: «Lia lippientibus oculis, et Rachel, quam Jacob amabat plurimum (Genes. 29), Synagogam Ecclesiamque testantur» ; in maniera più spregiativa «et Rachel primum sterilem atque formosam, quam plurimum dilexit Jacob, significare Ecclesiam ; Lia autem lippientibus oculis atque fetosam, Synagogae sacramenta monstrare» e «lippientem Liam deformem atque fetuosam synagogae typum praetulisse; Rachel vero pulchram et diu sterilem, Ecclesiae significasse mysterium» , Giudei S. Cirillo vide prefigurata negli occhi cisposi di Lia l'incapacità dei della Sinagoga di percepire e riconoscere Dio, fondando la sua affermazione sul Salmo CXIII, 15: «Oculos enim habent, et non vident» e sul Vangelo di Matteo: «Sinite ipsos, caeci sunt, et duces audiunt». Vestri autem beati oculi, quia vident, et aures vestrae, quia esprime Ma Lia oltre che ‘lippa è interpretata ‘laborans’, perché il grave ed intollerabile onere che affaticò i Giudei della Sinagoga per sostenere la legge di Mosè; Gesù, come scrive Matteo, li chiamò alla libertà: «Venite ad me, omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos». Puri erano gli occhi di Rachele: «vidit enim Ecclesia ex gentibus gloriam Christi, et in ipso Patrem». Rachele, in quanto allegoria della Chiesa, deve essere interpretata come l’ovile di Dio, θεού ποίμνιον. Qualche decennio più tardi, anche Teodoreto vide nelle due mogli di Giacobbe, Lia con gli occhi malati, e Rachele, bella e formosa, l’allegoria dei due popoli di Dio, l’antico con gli occhi del cuore velati, il nuovo adornato dalla luce della fede. S. Isidoro confermò l’antitesi delle due donne: «Lia Synagogae figuram habuit, quia infirmis oculis cordis sacramenta Dei speculari non potuit. Rachel vero clara aspectu Ecclesiae typum tenuit, quae contemplationis acie Christi mysteria cernit» . In Rabano Mauro l’evidente influenza del pensiero di S. Agostino attenuò fortemente la contrapposizione fra Lia e Rachele: la prima «oculis infirmis» esprime «cogitationes mortalium timidae et incertae providentiae nostrae», la seconda «ovis Dei (...) Ecclesiam figuratur» ; Ruben, il primogenito di Lia, «populum significat Iudaeorum» che «confixit [Christum] in patibulo crucis». Gioacchino da Fiore vide nella contrapposizione delle due figure di donna l’urgente necessità di passare dall’Antico al Nuovo Testamento, dalla Sinagoga alla Chiesa: «Non enim est adhuc tempus Lie laboriose que est lippis oculis: sed tempus Rachelis venuste faciei et decori aspectus: iam enim videre incipient facie ad faciem ea que antiqui patres nostri viderunt per speculum in enigmate» .
S. Agostino fu probabilmente il primo a proporre una visione positiva dell’allegoria di Lia laboriosa e, in parallelo, a sottolineare la complementarietà e la necessità di Lia e Rachele per Giacobbe, come della vita attiva e contemplativa per l’anima umana che vuol raggiungere la perfezione. Il pensiero di Agostino può esser così sintetizzato: 1) la figurazione delle due virtù che sono preposte all ani- ma umana «una activa, altera contemplativa (...) in duabus uxori- bus Jacob figuratae intelleguntur»; 2) entrambe le virtù sono sposa- te all’anima umana, come Lia e Rachele erano a pieno titolo liberae uxores di Giacobbe; 3) la vita attiva e la contemplativa sono ugual- mente necessarie per l’anima umana come per Giacobbe la meno amata e meno bella, ma fertile Lia e la bella, ma a lungo sterile Rachele; 4) nonostante la necessità e l’utilità di Lia e Rachele per Giacobbe e della vita attiva e contemplativa per l’anima umana, Rachele e la vita contemplativa sono su un gradino più elevato rispetto a Lia e alla vita attiva. Lia è meno bella di Rachele e meno amata da Giacobbe, ancorché più fertile; così la vita attiva è inferiore alla contemplativa, perché, come Lia, ha la visione limitata alle opere terrene e non si innalza a Dio, seppure con le opere e la predicazione ottenga frutti copiosi per la Chiesa, espressione della propria fertilità. Seguendo questo orientamento di pensiero, la vita attiva e la contemplativa sono «illa qua itur, ista quo pervenitur, illa qua laboratur, ut cor mundetur ad videndum Deum, ista qua vocatur et videtur Deus (...) illa operatur, ista requiescit, quia illa est in purgatione peccatorum, ista in lumine purgatorum». Pertanto in questa vita mortale, l’attiva è «in opere bonae conversationis», la contemplativa è «magis in fide et apud perpaucos per speculum in enigmate et ex parte in aliqua visione assimilabili incommutabilis veritatis»; 5) gli Evangelisti sinottici sono piosius a Lia, perché «temporalia facta Domini et dicta (...) copaucioria persecutos», Giovanni a Rachele perché «facta Domini multo narrantem» .
Grazie all’autorevolezza scritti, Agostino del suo magistero e all’autorità dei suoi influenzò i contemporanei , la teologia medievale e lo stesso Dante. Nelle opere teologiche posteriori il suo pensiero risulta sempre presente, spesso largamente parafrasato, talora chiosato ed ampliato.
Nel Thesaurus di Eugippio , che si rifà all’agostiniano Faustum, Lia è Contra «laboriosa justiti» e Rachele «speciosa intelligentia». Un contemporaneo di Agostino, il presbitero Rufino di Aquileia scrisse che «activa et contemplativa vita gaudio aeternitatis remunerabitur» . Beda il Venerabile accettò l'assimilazione di Lia con la Sinagoga e di Rachele con la nuova Chiesa e ne fornì la corretta interpretazione allegorica: «Cur autem Iacob pro Rachel servivit, et supponitur ei Lia maior, nisi quia Dominus, ut Ecclesiam assumeret, prius Synagogam sibi coniunxit» . Le due liberae uxores di Giacobbe «ad novum testamentum (...) existimantur pertinere, non tamen frustra duae sunt, nisi quia duae vitae nobis in Christi corpore praedicantur: una temporalis, in qua laboramus; alia aeterna, in qua delectationem Dei contemplabuntur». Lia è detta con la vista debole perché «cogitationes eorum mortalium timidae et incertae providentiae nostrae; spes vero aeternae contemplationis Dei, habens certam intelligentiam veritatis. Ipsa est Rachel». Per sottolineare la complementarietà e la necessità delle due mogli per Giacobbe e delle due vite per l’anima umana, Gregorio Magno fornì quest’interpretazione allegorica: «Beatus autem Jacob Rachel quidem concupierat, sed in nocte accepit Liam, quia videlicet omnis qui ad Dominum convertitur, contemplativam vitam desiderat, quietem aeternae patriae appetit, sed prius necesse est ut in nocte vitae praesentis operetur bona quae potest, desudet in labore, id est Liam accipiat, ut post ad videndum principium in Rachel amplexibus requiescat» . Ma dopo esser stato con la sterile Rachele è necessario che torni a Lia perché «post visum principium laboriosa vita boni operis non est funditus deserenda». In un’altra opera sentenziò, in accordo con S. Agostino, «vitae activae magna merita, contemplativae potiora» . La supremazia della vita contemplativa sull’attiva si trova in altri teologi, da Giuliano Pomerio a S. Bernardo e a S. Tommaso. Scrisse il primo: «Habet activa profectum, contemplativa fastigium. Haec facit hominem sanctum, illa perfectum (...). Activa vita habet sollicitum cursum, contemplativa gaudium sempiternum» . Anche per Bernardo la vita «activa finem habet, contemplativa semper parit (...). Ergo Sara et Rachel nunquam parere cessabunt, Lia vero post sex filios aut omnino parere cessat, aut filiam parit» . Tuttavia il contemplativo Bernardo in diversi Sermones in Cantica Canticorum ammonì i confratelli che la vita contemplativa è meno necessaria e meno utile dell’attiva, tessendo l’elogio dell’attività di predicazione, che è come il pane con cui si nutrono quotidianamente i figli ed è più necessario del vino della contemplazione: questa fa dolce il cuore di uno solo, l’altra edifica molti . Il confratello Arnolfo de Bohéries rimarcò i molti meriti della vita attiva che «pauperes pascit, recipit, potat et vestit, visitat et consolatur, sepelit, et cetera opera misericordiae eisimpendit. Et Lia est fecunda in filiis, quia multi sunt activi, et pauci contemplativi» , La contemplativa Rachele viene definita ovis perché semplice, innocente ed aliena dal tumulto delle passioni mondane; ha due figli perché «duo sunt genera contemplativorum. Alii namque vivunt in commune in monasteriis; alii vero sunt solicantore et ab accettarono omnibus separati». Anche il vescovo Ildiberto e Pietro il cantore accettarono la complementarietà e i meriti delle due sorelle e dei due tipi di vita per l’uomo. Il vescovo Brunone Astense affermò che Giacobbe abitò sia con Lia che con Rachele, ma con la prima «carnaliter», con la seconda «spiritualiter» e che alla morte di Rachele non ci fu pianto perché «S. Ecclesia non ad moerorem, sed ad gaudium moriendo tendit». S. Bonaventura mise in evidenza che ugualmente e a pieno titolo mogli di Giacobbe, sia la fertile Lia «de cuius semine ortus est Christus Dominus» , sia la sterile Rachele che «magis habebat dominium sive posse ad Jacob». San Tommaso condivise la supremazia della vita contemplativa, definendola migliore dell’attiva e di maggior merito presso Dio, e fondò il suo giudizio su Aristotele, Agostino e Gregorio Magno. Un’interpretazione diversa da ogni altra fu data dall'abate Ruperto nel XII secolo. Pur accettando la visione anagogica di Rachele contemplativa e di Lia laboriosa, assimila Rachele alla Sinagoga, che muore quando nasce il Cristo, e Lia, dagli occhi cisposi, ai Gentili che adoravano gli dei pagani, ma si convertirono alla nuova fede.
Il massimo della valutazione positiva di Lia e della complementarietà delle due mogli di Giacobbe è fornito da Riccardo di S. Vittore nel Benjamin minor . Lia «fecunda sed lippa» simboleggia «disciplina virtutis et desiderium justitiae», Rachele, «fere sterilis, sed forma singularis», esprime «doctrina veritatis et studium sapientiae». Le affermazioni successive propongono un’impostazione completamente nuova dell’esegesi del passo biblico , perché sostengono esser l’amore della giustizia più necessario dell'amore della sapienza: amare intensamente la giustizia, cioè Lia, già significa essere giusto; la sapienza, Rachele, può esser amata con pari intensità, ma si può vivere nella grazia del Signore anche senza di essa. Se si considerano quali sono «instituta verae justitiae», si comprende perché nella vita terrena sia detestato il connubio con Lia e, al contrario, sospirato l’amplesso con Rachele. La perfetta giustizia impone di amare i nemici, abbandonare ogni cosa e persona cara, sopportare le offese ricevute e rifiutare ogni offerta di gloria mondana. E per coloro che amano i beni terreni che cosa ci può esser di più stolto ed oneroso di questo precetto? Pertanto «Lia et lippa creditur, et laboriosa vocatur»: essi, infatti, «Liam lippam, non caecam vocant», perché ritengono «in rerum judicium errare». AI contrario, Rachele è tanto diletta perché non c’è niente «dulcius et jucundius (...) quam oculum mentis ad summae sapientiae contemplationem erigere». Un altro simbolismo emerge dall’analisi della figura delle due mogli di Giacobbe, a dimostrarne la complementarietà. Rachele è la personi- ficazione della ragione, «divina revelatione illuminata», Lia dell’amore, «divina inspiratione inflammata», virtù, entrambe, offerte da Dio agli uomini: la prima, «ratio, qua discernamus», conduce alla verità, la seconda, «affectio, qua diligamus», porta alla virtù. Dalla ragione nascono «consilia recta», dall'amore «desideria sancta», che impongono di attenersi rigidamente «ad normam Justitiae». Ma questo è estremamente gravoso, perché «non sine labore magno, animi affectio ab illicitis ad licita restringitur: et recte talis uxor Lia (id est laboriosa) vocatur». La contemplazione divina ad opera della ragione è, invece, dolce ed è correttamente espressa «Rachelis nomine».
Del racconto biblico e della successiva interpretazione allegorica dei Padri della Chiesa, nella poesia del terzo sogno di Dante, rimane soltanto l’assimilazione di Lia e Rachele con la vita attiva e la contemplativa. Sotto questo aspetto il sogno non necessita di decodifica , ma una doppia difficoltà si presenta quando si consideri la figura della Lia dantesca in rapporto all’esegesi patristica e «come il sogno si riferisca all’azione successiva, a quello che accade a Dante che dal sogno è stato visitato» . Con riferimento al primo punto occorre rilevare che, pur nel rispetto della tradizione medievale dell’individualità di ognuna delle due figlie di Labano, divenute mogli di Giacobbe, il poeta vuole abolire ogni differenza di bellezza e di merito fra loro , e rimarcarne la complementarietà . Infatti, la superiorità della contemplazione di Dio, espressa da Rachele, è oscurata dall’esaltazione dell’operosità di Lia, che è «la vera protagonista del sogno» . L'immagine dello specchio, che è intermedia fra Lia e Rachele , e l'assenza di Rachele, che è solo evocata nel canto della protagonista Lia, contribuiscono al simbolico livellamento delle due donne. In questa interpretazione, Dante disattende, almeno in parte, le parole del Convivio (IV xv 9-11 e xxI 10-11, 18) e il comune sentimento degli esegeti cristiani greci e latini, che Gregorio Magno aveva felicemente espresso con la sentenza: «Vitae activae magna merita, contemplativae potiora».
La figura di Lia nella poesia dantesca è, pertanto, del tutto nuova. Lia non è lippa, ma «giovane e bella» (Purg. XXVII 97): la sua bellezza simboleggia la riconquistata libertà morale del poeta pellegrino che Virgilio sta per proclamare con la solenne affermazione «libero, dritto e sano è tuo arbitrio» (Purg. XXVII 140) . Il difetto fisico degli occhi cisposi e smorti del passo biblico, che S. Agostino e gli altri recepirono come metafora della scadente prospettiva soprannaturale di ogni attività umana, anche la più meritoria, è ignorato dal poeta. Dante, purificato o dell’attraversamento del «muro» (Purg. XXVII 36) del fuoco e pervenuto alla soglia del paradiso terrestre, vede Lia con gli occhi dello spirito, non de corpo. In armonia con il pensiero di San Bernardo nei Sermones in Cantica Canticorum, con lo scritto di Riccardo di S. Vittore e la tradizione dei Vittorini, Lia non è, per il poeta, cisposa e deforme, come appare a coloro che prediligono i beni terreni, ma è giovane e bella, come appare a chi, uniformando la propria vita all'insegnamento cristiano, ama i nemici, si spoglia di ogni bene terreno, sopporta pazientemente le offese e rinuncia alla gloria e ad ogni privilegio. Nessuno meglio del Dante dell’esilio, che, abbandonata «la compagnia malvagia e scempia» (Par. XVII 62), sta per concludere il pellegrinaggio ultraterreno di purgazione e redenzione, può comprendere la sovrumana bellezza di Lia: egli ha dovuto lasciare «ogni cosa diletta» ed ha provato «come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ’l salir per l’altrui scale» (Par. XVII 55, 58-60). La bel- lezza di Lia, pertanto, non è fisica, ma spirituale, come fu quella di coloro che, con l'esempio, le buone opere, la predicazione e, talora, il martirio, contribuirono ad acquisire nuovi adepti alla parola del Salvatore. Con questo intento il poeta dice: «in sogno mi parea / donna veder andar per una landa / cogliendo fiori» (Purg. XXVII 97-99), ove landa, come evidenziato dalla critica dantesca, è questa terra, spesso desolata e ostile a chi si adopera al bene, ed i fiori sono i Gentili convertiti al Verbo ed immessi nella nuova Chiesa di Dio. Le mani con le quali Lia coglie i fiori sono definite «belle» (Purg. XXVII 102), come belle sono le opere realizzate in questa vita ter- rena con la predicazione e con l'esempio della carità e della fede in Cristo. I fiori raccolti formeranno una ghirlanda per esaltare non la bellezza fisica, ma quella Spirituale, interiore, di Lia. La ghirlanda di fiori cioè fa «corona di loda e di gloria a chi li collie e ponseli in capo, in su lo suo intelletto» e lo rende gradevole alla propria «co- scienza, che è lo specchio di ogni uno» , e a Dio .
Con riferimento al secondo aspetto del problema, la difficoltà concerne il modo con il quale si realizzano gli eventi che il sogno premonitore lascia intravedere. Singleton analizza questi aspetti ai quali gli studi danteschi non hanno dato risposte sicure . Seguendo l’interpretazione allegorica di Riccardo di S. Vittore, egli esalta la figura simbolica di Lia quale «disciplina virtutis» e «desiderium justitiae», e afferma che «il sogno ha la sua piena realizzazione non con Virgilio, ma con Beatrice [per mezzo della quale] la giustizia della vita attiva raggiunge la sua piena perfezione» e conclude: «con Beatrice viene allora una Lia perfetta». Nel poema sacro, infatti, i rapporti fra scienza e fede sono ristabiliti in conformità del concetto scolastico: la filosofia ritorna ancilla theologiae, e Virgilio diventa messo ed araldo di Beatrice . In armonia con questi autori è Stambler che vede nell’immagine onirica di Lia «an arrow which will become first Matelda, then Beatrice, and ultimately (at Par. 31 108) Mary» . La prima gli insegnerà «a oltrepassare le parvenze sensibili, a percepire (...) nella parvente bellezza delle “visibiles formae” del creato la divina “invisibilis pulchritudo” in esse rispecchiata, a cogliere nel mirabile ordine della creazione (...) il disegno provviden- ziale tracciato dall’artefice divino» e infine lo rigenererà immergendolo nelle acque del Letè e dell’Eunoè. Grazie a Matelda, Dante avrà nell’Eden «il preannuncio di quella conoscenza non diretta, bensì analogica (per speculum) del divino, che caratterizzerà l’itinerario gnoseologico del Poeta nel Paradiso, solo al termine coronato dalla visione diretta, facie ad faciem, della realtà divina» . Per ottenere quest’ultima, per entrare, cioè, «per lo raggio / de l’alta luce che da sé è vera» (Par XXXIII 53-54), Dante condividerà col cuore («cordis affectu, id est voluntate») la preghiera di S. Bernardo e invocherà da Maria la grazia di immergersi nella luce di Dio e percepirla.
In conclusione, con il simbolismo di questo sogno il poeta non vuole tanto indicare che le due modalità di vita sono complementari per l’uomo di fede come le due mogli per Giacobbe, secondo la consolidata esegesi medievale che, nello specifico, può essere fuorviante , quanto, invece, segnalare a sé medesimo, bozzo viator e Whicheverman , l’urgente necessità di intraprendere l’esperienza di contemplazione sin dall’entrata nel paradiso terrestre.

Date: 2022-10-28