La Divina Commedia. Canto dell’avventura anagogica [Pasquale Tuscano]

Dati bibliografici

Autore: Pasquale Tuscano

Tratto da: Dal vero al certo. Indagini e letture dantesche

Editore: Ed. Scientifiche Italiane, Napoli

Anno: 1989

Pagine: 233-247

Uscito nel 1966, presso Le Monnier, e, in seconda edizione, nel 1972, il volume di studi danteschi di Silvio Pasquazi All’eterno dal tempo, vede ora la terza edizione «con alcune aggiunte e modificazioni, che lasciano pressoché invariata la struttura del libro» .
Che non dimostri gli anni lo testimoniano la fortuna di lettori che ha avuto e il rigore metodologico, il calore, la vivacità e la ‘semplicità’ — che è, ovviamente, il versante opposto del ‘semplicismo’ — con cui lo studioso affronta argomenti che dantisti, anche autorevoli, hanno sempre presentato come aridi, impenetrabili, scostanti, impervi, da trascurare, se non da tralasciare, per non compromettere il ‘sublime’ della parola poetica di Dante, isolata e delibata, come l’ape trilussiana ‘che se posa / su un bottone de rosa: / lo succhia e se ne va... .
Con estrema chiarezza e fermo senso della storia, il Pasquazi ribadisce che Dante va letto, per essere capito e valutato correttamente, tenendo presenti i suoi testi e quelli del suo tempo, coi quali, direttamente o indirettamente, il poeta fece i conti. Solo così si taglia corto con il piroettare convulso delle ipotesi, a volte stravaganti e paradossali per desiderio di originalità, che servono soltanto a rendere incomprensibile e, a volte, noiosa, l’esaltante poesia della Divina Commedia.
Il dotto filologo fiorentino Vincenzo Borghini (1515- 1580), acuto lettore di Dante nel lontano Cinquecento, avverte che «cavar i sensi allegorici violentemente, non è interpretare l'intenzione degli Autori, ma più presto fare che il Poeta interpreti la nostra, facendo così dire non quello che in verità hanno detto, ma ciò che pare a noi seguendo il nostro concetto» . Il Pasquazi tiene presente questo prezioso, e spesso negletto, suggerimento, e non solo, ovviamente, non ‘cava’ ‘violentemente’ i sensi allegorici della poesia dantesca, ma, con l'appoggio di numerose e valide testimonianze, cerca di liberare aspetti e momenti del testo della Commedia dalla ‘violenza’ di interpreti vecchi e nuovi.
Come scrive, con ammonitrice preoccupazione, il Singleton, «siamo ormai arrivati quasi al limite cui era possibile arrivare nella tendenza a minimizzare o a escludere dall’attenzione i più profondi significati cristiani della Commedia; e tale tendenza non è certo recente: cominciò molto presto dopo Dante, in quella rivoluzione che talvolta s'è chiamata un Rinascimento» . L’attenzione del Pasquazi si rivolge, specificatamente, a tali ‘profondi valori cristiani’ che sostanziano non solo la poesia della Commedia, ma la stessa Weltanschauung del Poeta e l’atmosfera dei suoi tempi turbinosi.
Intanto, nella Premessa, intitolata significativamente Il canto dell'avventura anagogica, egli invita il lettore al rispetto dei suggerimenti del Poeta per cogliere, senza ipotesi arbitrarie, il valore, e il senso, del miracolo della poesia della Divina Commedia. Egli è, giustamente, persuaso che il lettore deve tener sempre presenti, come chiave di lettura, i quattro ‘sensi’ indicati da Dante nei testi e nei luoghi a tutti noti, e nell’articolazione suggerita dal Poeta, con particolare privilegio per il senso anagogico, o, meglio «avanzarsi nella scoperta del senso anagogico», che «non è diletto di eruditi, ma partecipazione al sentimento più profondo che ispirò il poeta» . ‘Sentimento più profondo’ che Dante deve partecipare, in realtà, non a un pubblico qualunque, a lettori intesi a trarre dal suo poema diletto e svago, bensì ai più alti vertici della classe egemone del tempo, religiosi e civili, persone, quindi, colte e capaci di recepire il suo ‘messaggio’, ch’era ‘messaggio’ di Dio, di cui aveva avuto il privilegio di essere ‘scriba’ . Osserva un suo fine critico, vissuto nel Settecento, lo svizzero Johann Jacob Bodmer (1698-1783): Dante «ha scritto in parte per uomini di stato, principi e re, in parte per ecclesiastici, preti e vescovi, che ai suoi tempi assai si mescolavano alle faccende mondane; e per questi lettori (ed altri egli non ne bramava) i suoi giudizi politici, l'introduzione di tante persone del partito guelfo, i suoi frizzi contro i papi erano pieni d’interesse ed attrattiva, le sue distinzioni e termini scolastici non avevano niente di fastidioso, di strano o di oscuro. Anche i pezzi mistici, che egli offre nel Paradiso, concernevano oggetti di cui i sottili dotti del suo tempo si occupavano ogni giorno nelle loro celle e nelle loro stanze di studio» .
Riteniamo che il lettore di poesia, rigoroso e severo quanto discreto e prudente, non debba prescindere, nell’interpretazione di un testo, dalle indicazioni dell'autore. E Dante, come dicevamo, rimane un autore abbastanza generoso in questa direzione. Perciò, è doveroso tenere presente quanto egli suggerisce, a proposito, nel Convivio e, soprattutto, nell’Epistola a Cangrande della Scala. Se si tengono presenti tali considerazioni, il senso anagogico acquista una valenza anche storica, straordinaria e imprescindibile. Se è vero, e non dovrebbero sussistere dubbi, che la Commedia è «l'itinerario di un avventuroso ritorno della creatura al suo Creatore» , e che «non è possibile approfondire il senso ed i valori (compresi quelli estetici) della poesia dantesca, se si prescinda da quell’attesa escatologica che vibra nel Poema dalla profezia del Veltro alle invettive dei beati, e che fu sempre viva nel pensiero e nel cuore dei più elevati spiriti di quel tempo» , soltanto la chiave anagogica può dare alla parola poetica della Divina Commedia il sigillo più autentico.
Il Pasquazi puntualizza il significato dell’anagogia, suggerendo i termini entro i quali va intesa e utilizzata come misura interpretativa. «Anagogico è quel senso che si ottiene trasvalutando le cose narrate, per contingenti che siano, sul piano dei valori eterni, dove le cose del tempo e della creazione rivelano la loro connessione con la verità assoluta da cui traggono l'essere e a cui tendono come a ultimo fine» . In sostanza «la parola ‘anagogia’ include un coefficiente che va al di là della pura analisi teorica, intellettuale e conoscitiva; include, cioè, l’ergersi della Speranza soprannaturale, include lo slancio intellettualmente motivato ma affettivamente cantato, onde si trae l'animazione fondamentale della poesia dantesca. In ciò trovano la loro forza, il coraggio, gli sdegni, le contemplazioni, il messaggio del Poeta; è attraverso questi sentimenti che la Fede di Dante diviene alta poesia» . Così, dichiarato il carattere teofanico della creatura, «si viene a comprovare anche per questa via la validità del metodo anagogico, che appunto vuole perennemente risalire dalla creatura al Creatore» . Tale presupposto è fondamentale, tra l’altro, per riportare Dante al suo tempo e la lettura della Commedia come fu intesa dall’esegesi medievale, senza nulla togliere al valore universale e senza tempo della ‘mirabile visione’. Con questo criterio di lettura la stessa poesia guadagna in autenticità e vigore. Se si tiene presente il senso anagogico, il protendersi della creatura, manifestazione di Dio, dal ‘tempo’ all’ ‘eterno’ — che rimane, sappiamo, il fine ultimo della Comedia —, la stessa suggestiva e stimolante interpretazione ‘figurale’ auerbachiana, acquista in chiarezza, si scorpora da certa patina intellettualistica e si fa più persuasiva, perché, così «figura e personaggio trovano nella loro sorte escatologica finale il proprio adempimento più vero, il proprio significato più profondo: cioè la realtà storica terrena è figura reale d’una realtà ancor più vera» .
Dopo una puntuale analisi etimologica e storica del termine anagogia nelle varie sfumature in cui fu inteso dall’esegesi medievale, ma che approdò sempre nel far vedere «nella realtà della Gerusalemme terrestre, la realtà della Gerusalemme celeste», per cui «dopo l’allegoria, che edificava la Fede, e la tropologia, che edificava la Carità, ecco l’anagogia, che edifica la Speranza» , il Pasquazi segna bene i termini che distinguono l’anagogia dall’allegoria. Premesso che «la spiritualità medievale accettò l’allegoria come una componente essenziale e insostituibile del pensiero e dell’arte» , presupposto da tener ben presente nella lettura dei testi medievali se non si vogliono fraintendere, lo studioso avverte, tuttavia, che solo l’interpretazione anagogica dice tutto il potente realismo della poesia dantesca. Ciò perché, mentre il senso allegorico «parte da una finzione mentale, il figurale anagogico si fonda su una realtà. L’allegorico è pensato, il figurale anagogico è avvenuto» . Tra l’altro, il senso anagogico riporta puntualmente in quel clima di attesa di eventi straordinari, di lievitanti fermenti gioachimiti, entro cui si colloca il Poema Sacro.
Entro questa linea di lettura, s’intendono più correttamente soprattutto alcuni momenti emblematici della struttura del Poema. Intanto, si coglie puntualmente la posizione di Dante ‘viator’ nei tre regni e il relativo processo del suo affrancamento dalla terrestrità, dal peccato, per rendersi degno di contemplare l’‘amor che move il sole e l’altre stelle’. Di qui anche il senso degli ‘Anti’, che, nel Poema «non sono soltanto il ‘vestibolo’ dei pusillanimi e, globalmente, le balze inferiori della santa montagna (...), ma si può ritenere che i cieli della luna e di Mercurio costituiscono per il terzo regno l’analogo (non l’identico) di quel che suole denominarsi nelle prime cantiche ‘Antinferno’ e ‘Antipurgatorio’». Si tratta di tre momenti nei quali le anime denunciano la carenza di umanità che le caratterizzò nella vita terrena. Furono «meno uomini, quindi meno dannabili, meno purgabili, meno beatificabili» .
In alcune dense pagine, il Pasquazi traccia una minuziosa e chiara mappa delle fonti, e del valore, del contrapasso dantesco. Sostanzialmente «il contrapasso è l’applicazione dantesca dell’antico principio giuridico-morale detto ‘legge del taglione’ (...). Dante, dunque, non inventò la formula del contrapasso, ma la ereditò e se ne impose l’obbligo» . Dopo aver precisato che il Poeta «non ha immaginato nel contrapasso una corrispondenza ‘commutativa’, quasi tariffaria, fra peccato e pena», e che occorre non dimenticare che «la pena del contrapasso non è l’ultima cui sono sottoposte le anime dell’Inferno e quelle del Purgatorio, anzi non è nemmeno la principale, nonostante sia la più appariscente» , il critico, partendo dalla distinzione teologica, che era anche del tempo di Dante, tra pera sensus e pena damni per le anime dell’Inferno e quelle del Purgatorio, sottolinea come il contrapasso dantesco deve ricondursi soprattutto alla poena sensus, «la quale non deve intendersi come ritorsione vendicativa, bensì come proseguimento di decisioni operate nella vita terrena, e tale proseguimento è fissità ontica nei dannati e abito accidentale nel Purgatorio» .
Riprende, e chiarisce, il tema annoso, affrontato marginalmente, quando non complicato del tutto da ipotesi tanto suggestive quanto fallaci, della ‘bivalenza’ del sapere classico. Quel lettore certo non stravagante di Dante che fu Hegel, in una famosa pagina dell’Estetica, scrive: «L’antichità traspare in questo mondo del poeta cattolico, ma solo come guida e modello di saggezza e formazione umana, perché, per quel che riguarda dottrine e dogmi, ad aver la parola è solo la scolastica della teologia e dell’amore. cristiani» . Concetto che il Pasquazi ribadisce in altri termini, ma non meno persuasivi: «Il sapere antico, la civiltà classica hanno bene per Dante un duplice aspetto: da una parte sono peccato originale, mondo che ha preteso di bastare a se stesso, di percorrere con le sole proprie forze l’infinita via della perfezione, mondo, dunque, che ha peccato di orgoglio intellettuale; dall’altra, sono preparazione lunga e generosa all’avvento del Cristianesimo, sono lavoro e diuturna esperienza dell’insufficienza dell’uomo e perciò, almeno implicitamente, desiderio perennemente insoddisfatto e perennemente vivo di quel dono di grazia di cui i secoli successivi hanno beneficiato» .
A parte il discorso globale sulla poetica della Commedia nel suo complesso, il Pasquazi reca contributi originali e stimolanti su aspetti del poema di non facile, e tuttora controversa, interpretazione. Pensiamo, ad esempio, all’interpretazione di ‘lingua nostra’ (Purg., VII, 17), espressione che, a parer suo, sintetizza contemporaneamente «il linguaggio umano, quello latino, quello poetico e quello profetico», intesi in senso dinamico, come «un protendersi incessante dell’uomo nello sforzo di trovare le parole del vero assoluto» ; di ‘pecore matte’ (Par., V, 2), pecore ammalate di cerunosi, o capostorno, un’affezione cerebrale prodotta da vermi parassiti del cervello, che costringe l’animale «a muoversi in cerchio, e a compiere continue oscillazioni con la testa. E l’allusione dantesca appare ben calzante perché sta ad indicare il comportamento oscillante e contraddittorio di coloro che prima emettono il voto e poi lo ritirano» ; al tormentato verso ‘Dove l’acqua di Tevero s’insala’ (Purg., II, 101), ch'egli dimostra, con rigorosi e probanti richiami testuali, individuarsi col «punto di tangenza e di confine tra la giurisdizione dell'Impero e il regno della Grazia (ovviamente su un piano simbolico o figurale)» ; sul significato del verbo ‘prendere’, che, a proposito della lonza, dovrebbe intendersi «prendere al laccio», mentre «nei riguardi di Gerione significa evocare, attirare da lontano» ; al soggetto del verso ‘ecco chi crescerà li nostri amori’ (Par., V, 105): «non si spiega, se non riferendolo all’unicità di Dante, e dunque alla sua soprannaturale investitura e alla sua profetica missione» ; al valore allegorico dell’Aquila del cielo di Giove che racchiude, a parer suo, una molteplicità di allusioni, sulle quali domina la presenza della Vergine Maria: «Quella M rappresenta il mondo terreno, in quanto matrice iniziale di civiltà; l’uomo, in quanto protagonista della vicenda provvidenzialmente voluta; la Monarchia, in quanto strumento essenziale per l’attuazione della giustizia e dell'Impero; Mercurio, in quanto donatore di civiltà, e, dunque, di leggi, e messaggero di Giove; San Michele, in quanto guida e sostegno dell'Impero, cui spetta attuare la giustizia storica. Infine, il rapporto intrinseco fra la giustizia storica e la Vergine Maria (...), sintesi di quel popolo eletto che preparò l'incarnazione del Verbo attraverso la formulazione e l’attuazione della giustizia secondo la legge di Mosé» . Sulla condizione di Dante nell’Empireo, osserva: «Dante esce dal tempo quand’esce dai cieli rotanti (che misurano il tempo), e viene al divino quand’entra nell’Empireo: per cui questo ‘passo’ è il passo più reale di tutto il poema» .
Uno dei contributi di più ampio respiro, più puntigliosamente documentato, condotto con acribia filologica e, quindi, uno dei più persuasivi del volume, è quello dedicato al Messo celeste Angelo del Limbo. Nello sterminato lavoro di esegesi dantesca, il problema del Limbo e del Messo celeste non era stato ancora affrontato con tanto impegno, con un apparato così scrupoloso e così probante di pezze d’appoggio. Il Pasquazi è persuaso che il Messo sia un Angelo. Per questo, sottolinea il valore partecipiale, e non sostantivale, di messo (Inf., IX, 85) [ma non potrebbe anche essere una parafrasi del termine greco anghelos = messaggero?]. Infatti, dall’avere inteso il termine nell’accezione sostantivale derivò l’impossibilità di stabilire se si tratti di un angelo o di un altro ‘messo’, e, quindi, le varie e, spesso, paradossali ipotesi: divinità pagana (Ercole, Mercurio); personaggio biblico (Mosé, San Pietro); personaggio classico (Enea, Cesare); personaggio contemporaneo (Arrigo VII) e, perfino, Cristo. Per giungere alla dimostrazione della possibile identificazione del Messo celeste con «Mercurio-Hatéchon-Michele», il Pasquazi prende l'avvio dalla condizione particolare delle anime del Limbo, specificatamente dei megalopsicoi, nei quali Dante significa, in termini altamente drammatici, lo scacco dell’uomo-solo. «Ma Dante, proprio per avere esasperato in Virgilio e nei Limbicoli lo scacco dell’uomo-solo, è in grado di proporre l’unica soluzione vera: la salvezza degli spiriti magni, non come un finale rosa per lettori di debole coscienza, ma come l’irrompere di un Amore che ha preparato le sue strade lungo tutta la storia dell'umanità», così che, «nel Poema Sacro, dal duolo di coloro che sono sospesi alle solenni affermazioni dell'Aquila nel cielo di Giove, non cessano il compianto su le anime del Limbo e la percezione adorante e fiduciosa di un segreto disegno divino su di esse». Quanto alla ‘qualità’ dell'Angelo «di fatto presente nel Limbo, ma di diritto abitatore del Cielo», ci troviamo di fronte ad un «Angelo buono, anzi di eccezionale valore come eccezionale è la sua funzione».
La presenza di un Angelo nel Limbo è testimoniata da diversi fattori: dalla percezione luminosa (il ‘foco / ch’emisperio di tenebre vincia’ Inf, IV, 68-69), a quella uditiva (la voce sola, vigorosa e imperiosa, come di chi deve essere ubbidito), dal castello che, come tale, comporta un castellano, che il testo dantesco non autorizza ad individuare in Omero, al passaggio del ‘bel fiumicello” come ‘terra dura’, che è privilegio di operazioni angeliche [basti pensare all’Angelo che guida il passaggio dei figliuoli d’Israele del mar Rosso (Esodo, XIV, 19), al ‘signor de l’altissimo canto’, che non può essere Omero. L’idea, poi, di mettere un Angelo a guardia del primo cerchio, quindi dell’Inferno, e con complesse mansioni, Dante ha potuto derivarla dall’Apocalisse (XX, 1), dove si parla di un Angelo «che scendeva dal cielo, ed avea la chiave dell’abisso, ed una gran catena in mano». Questa immagine imperiosa ricorda, anche emblematicamente, l'Arcangelo Michele, ma il Pasquazi ritiene, più opportunamente, che «la auctoritas forse decisiva, da cui Dante poteva attingere la certezza della presenza attiva di un Angelo, anzi di San Michele Arcangelo, al margine dell’oscura cavità infernale, va indicata nell’Offertorium della Messa per i defunti», in uso almeno dal secolo XII, nel quale si chiede al Cristo di liberare le anime dalle pene dell’inferno, ‘sed signifer sanctus Michaél repraesentet eas in lucem sanctam’, proprio come Egli promise ad Abramo, in modo che loro possano ‘de morte transire ad vitam’. Non vi sono dubbi che questa preghiera, così accorata e solenne, non può valere per le anime dell’Inferno, perché sarebbe contrastante col dogma, né potrebbe essere utile per le anime del Purgatorio, perché sono già destinate alla beatitudine. La preghiera può interessare, quindi, soltanto le anime del Limbo, le quali, trovandosi senza Grazia, ma senza colpa, possono sperare la salvezza, possono, quando che sia, passare dalla morte alla vita dello spirito. «Al cuore di Dante quella preghiera dell’Offertorio della Messa dei defunti doveva suonare come una partecipazione della Chiesa orante alla sua Speranza e alla sua preghiera; e ch’era simile a quella preghiera con cui Gregorio Magno aveva ottenuto il Paradiso per l’imperatore Traiano». Quanto poi, al sincretismo fra San Michele Arcangelo e Mercurio, si tratta di un fatto antico e diffuso, e con Hermes-Mercurio l'Arcangelo Michele ha numerose affinità. Basti pensare al fatto che Hermes-Mercurio «attua una obbedienza piena e completa, perché pone tutte le sue facoltà, e in primo luogo la più importante, cioè l’intelletto, nell’attuazione dei compiti affidatigli da Zeus», e che, nella mitologia pagana, svolgeva le mansioni di psicacogo, cioè di colui che raccoglieva i trapassati, e di psicopompo, cioè di conduttore delle anime, che pesava, presentando a Dio il suo giudizio, come appunto San Michele Arcangelo. Ma l’Arcangelo Michele è anche «l'Angelo tutelare dell’Impero», quindi «strettamente collegato con quella realtà storica che più di ogni altra parlò al cuore di Dante» , potendosi, così legittimamente, identificare con l'Angelo protettore di Roma, col misterioso ‘Katéchon’ paolino. Il discorso del Pasquazi — da noi, ovviamente, sottolineato nei momenti conclusivi. — procede serrato, prevenendo possibili obiezioni, con una logica stringente. Egli è consapevole di quanto l'argomento sia aspro e insidioso, come sa bene di quale fondamentale importanza rivesta nella struttura complessiva del mondo dantesco. Per questo egli costruisce la sua tesi pazientemente, pietra su pietra, facendosi bordone di una documentazione quantitativamente e, soprattutto, qualitativamente, adeguata e difficilmente confutabile.
Un altro dei momenti più controversi dell’esegesi dantesca rimane la figura di Catone, su cui si registra una letteratura ampia e autorevole: basti pensare ai contributi del Pézard, dell’Auerbach, del Sansone, del Bigi, del Fubini, del Raimondi. L’Uticense, pagano, nemico di Cesare, suicida, posto come guardiano ai piedi della santa montagna, ha lasciato sempre sorpresi, sollevando numerose questioni. Tenendo presente il senso anagogico, il Pasquazi dimostra come Catone sia figura «in qualche modo riassuntiva di tutto l’Antipurgatorio» , soprattutto nel senso che l’Antipurgatorio costituisce il luogo dell’«integrazione» delle anime, in modo che, integrate, come abbiamo visto, nelle loro carenze, la loro purgazione possa essere completa. Accanto a una integerrima rettitudine, Catone presenta carenze di Fede e di opere. «Fra tutte le anime dell’Antipurgatorio, nessuna come lui può dirsi più eroicamente retta e onesta, più aperta (idealmente) al divino e, altresì, più fedele all’ideale umano della res publica civile; ma nessuna come lui è stata più totalmente — sia pure senza colpa — priva di fede soprannaturale; e nessuna come lui suicida — sia pure in buona fede —, ha rinunciato così radicalmente al dovere umano delle opere» . Osservazioni che, sfrondando l’episodio di ogni patina intellettualistica e retorica, restituiscono l’immagine di Catone in un’aria di palpitante umanità, e la stessa poesia dantesca acquista in chiarezza e partecipe vigore.
Originali e stimolanti sono le pagine sui prìncipi negligenti e su Sordello.
I principi «rappresentano l’Europa in crisi per difetto d'impegno umano, per viltà e anarchia, per egoismo di parte e per rilassamento morale», e, per la legge d’integrazione, si spiega persuasivamente la «sacra rappresentazione» del serpente e degli angeli. Non si deve, quindi, parlare di ‘tentazione’, perché «quel serpente porta i principi a riflettere su un punto che non considerarono abbastanza nella prima vita: essere la funzione politica non un privilegio di comodità, ma una missione di lotta» . In Sordello vede la «controfigura di Dante, non nel senso di un puro equivalente, ma come personaggio capace di esprimere quell’ulteriore maturazione che Dante viator ha realizzato a questo punto del suo itinerario». Con gli altri principi della Valletta, Sordello rappresenta l'Europa disordinata del tempo del Poeta, e, come loro, si è fatto «complice e preparatore dei delitti che guastano la cristianità» .
Come si vede, il Pasquazi, pur non perdendo mai di vista, nella lettura, la Weltanschauung dantesca, e, soprattutto, l'iter catartico e metanoico che, dal tempo, fa degna la creatura di salire all’Eterno, sottolinea vigorosamente la carica umana, e politica, del messaggio dell’Alighieri, quanto esso sia corroborante per le coscienze positivamente attive. Dimostra, altresì, come tale carica umana e civile non solo non si attenui nel Paradiso, com'era sembrato a certa critica, ma come, di cielo in cielo, diventi valenza sempre più essenziale del canto del Poeta.
Per cogliere l’effettivo valore umano, spirituale e storico della figura di san Benedetto, ribadisce l’imprescindibile necessità di tener presente il testo della Regula del Santo, così come l’ha certamente presente Dante nella stesura del canto XXII del Paradiso. «Le pagine brevi della Regula, di forte impronta personale, di molta sapienza regolatrice e paternamente ammonitrice erano assai diffuse ai tempi di Dante, che ne doveva conoscere le grandi linee magistrali». Il testo di san Benedetto suggerisce, certamente, a Dante i termini essenziali di «una dottrina ascetica ch'è fondamentale per intendere la Commedia: la dottrina, cioè, del discendere per salire, della conquista di tutto attraverso la rinuncia a tutto; la dottrina, insomma, che mentre sembra negare la natura in realtà la salva, sollevandola dalla prigionia del contingente all’ipostasi con l’assoluto» .
Nella seconda edizione del volume, il Pasquazi aveva assegnato al noto, e tormentato, episodio del ‘getto della corda’ (Inf., XVI, 106-114) e a Gerione un intero capitolo. Ora, senza nulla modificare della tesi sostenuta, fonde quelle pagine in una sintesi vivace, ma sgombra da ogni punta contingentemente polemica, e la colloca come Appendice alla ‘lettura’ del canto dei ‘tre fiorentini’ (Inf., XVI), dando all’argomento maggiore unità e incisività. Dopo aver avvertito che «tutta la Commedia è scritta in chiave parusiaca, che in tutta la Commedia si contempla la storia dall'alto della metastoria», sostiene, con ampia testimonianza di testi autorevoli e di opportuni rimandi a momenti significativi del poema dantesco, che «il getto della ‘corda’ non significa un ritorno puro e semplice alla barbarie primitiva, ma indica il decadente, consapevole e malizioso rifiuto da parte dell’umanità dei suoi più profondi valori» .
Nel rapido assaggio dell’ampia e articolata silloge di studi danteschi del Pasquazi, ho indicato, naturalmente, soltanto qualche argomento che a me è parso particolarmente significativo. Ma è volume che lo studioso di Dante, e della letteratura italiana, nel consenso e nel dissenso, deve tener presente per intero, integrandolo cogli altri suoi più recenti contributi danteschi, che fanno, sostanzialmente, corpo con questi, e che riguardano Virgilio, Ulisse, Cunizza, san Francesco . Se, in appena vent’anni, il volume è giunto alla terza edizione senza mostrare i segni del tempo, significa che, per generale consenso, è opera che, per i problemi affrontati e per i contributi offerti per la loro soluzione, merita un posto di rilievo nella bibliografia dantesca del nostro tempo.

Date: 2022-10-28