Allegoria e simbolo dal Convivio alla Commedia sullo sfondo della cultura bolognese [Maria Simonelli]

Dati bibliografici

Autore: Maria Simonelli

Tratto da: Dante e Bolgona nei tempi di Dante

Editore: Forni, Bologna

Anno: 1967

Pagine: 207-226

L'essenza e la funzione dell’allegoria, la difesa di tale mezzo retorico nell’uso della poesia profana e di conseguenza la elaborazione di una teoria poetica del parlare allegorico costituiscono se non il fulcro certo un punto fondamentale della problematica dantesca sull’arte. La tradizione critica non è in proposito lineare e il dibattito è ancor oggi aperto. Accanto a generali incertezze di definizione concettuale, sono avvertiti dubbi e lacune nella ricostruzione storica della formazione culturale di Dante. È perciò opportuno riaffrontare il problema nella sua essenza, movendo da un diretto riesame delle fonti, al di là d’ogni pregiudiziale propensione ad accogliere o a confutare polemicamente le tesi già formulate.
L’aspirazione ad inserire la poesia in un sistema esegetico proprio dei libri sacri direi che esula dall'ambiente culturale fiorentino in senso stretto. Si tratta di ricerche, discussioni e riprese tematiche proprie di un mondo squisitamente scolastico che, per Dante, poteva essere rappresentato soltanto da Bologna: almeno durante gli anni che precedettero il suo esilio. Non che Dante giovane — integrato nella vita di Firenze — fosse alieno dal sentire l'esigenza d’una giustificazione dottrinale dei mezzi espressivi prescelti; il capitolo XXV della Vita Nuova è in proposito una chiara testimonianza. Proprio dal confronto di questo capitolo con le liriche allegoriche prima, e con il Convivio II, i poi, si ricava la sensazione netta di quello che Bologna può aver dato a Dante.
Nella Vita Nuova la giustificazione teorica investe la metafora e la personificazione, ossia il bagaglio retorico di tutta la schiera di quei dicitori per rima, i quali, in virtù degli esempi offerti da Virgilio, da Ovidio e da Orazio, si sentivano autorizzati e, in qualche modo, nobilitati dal ricorso a simili «artifici». Fin qui l’ambiente fiorentino era sufficiente. Le stesse «disputazioni de li filosofanti», che Dante dichiara di aver frequentato dopo la morte di Beatrice, a Firenze non dovevano essere sufficienti per allargare ulteriormente gli orizzonti culturali. Francescani, domenicani e agostiniani tenevano scuole teologiche: vi mancava quel più armonioso complesso di ricerche nel campo retorico, giuridico, filosofico-teologico che, invece, Bologna offriva in uno scambio continuo di idee e di discussioni, quali soltanto un centro di studi di portata internazionale poteva suscitare. Già è stato visto come gli studi giuridici, di cui Bologna andava gloriosa, fossero strettamente congiunti con l’insegnamento della retorica (non per nulla i maestri di retorica insistevano principalmente sull'arte epistolare o sull’arte notarile di stendere convenientemente un atto pubblico o privato), e con lo stesso insegnamento filosofico-teologico, che con il diritto si trovava in perenne simbiosi. In questo clima particolare, in cui i retori si rifacevano ai testi classici (da Quintiliano ad Isidoro), dove chiaramente veniva definita l’allegoria poetica, e i teologi andavano esponendo i sensi della Scrittura, secondo i canoni esegetici fissati dalla lunga tradizione cristiano-ebraica (discussi nei concili con fervoroso travaglio delle Chiese di Oriente e di Occidente ), soltanto nel clima particolare di Bologna, dico, si poteva concepire la fusione dei due tipi di allegoria e applicare ai testi profani i metodi dell’esegesi biblica.
Datare con esattezza il soggiorno bolognese di Dante è impossibile, almeno al momento odierno delle ricerche. Collocherei tuttavia tale soggiorno (e non sappiamo se fu lungo o breve o in più riprese) prima delle due rime allegoriche del Convivio, prima cioè del ’93-‘94; né si può andare indietro oltre l’’80-’81: l’età stessa di Dante lo vieta. Questo per il periodo che riguarda la formazione culturale di Dante. Del resto, la guelfa Bologna non avrebbe offerto all’esule un rifugio sicuro dopo la condanna del ’302.
Una conferma indiretta che Dante doveva essersi recato allo Studio bolognese proprio in quello scorcio di anni, la possiamo ricava- re da più elementi. Innanzi tutto l'influenza della cultura bolognese su tutta la vita fiorentina nel decennio ’85-’95, influenza così forte che modificò la stessa struttura del Comune e sfociò negli ordinamenti di Giustizia, se è vero che Giano della Bella, «come si dice, mandò per essi a Bologna» . In effetti gli Ordinamenti furono redatti sopra gli Ordinamenti sacrati e sacratissimi emanati in Bologna nel 1282-84 . Mi sembra logico supporre che un giovane «intellettuale» fiorentino, impegnato, dopo il ’90, anche nella vita politica della sua città (la difesa della nobiltà come «seme di bontà dato da Dio all’anima ben posta», — al di là di ogni ragione di stirpe o di antica ricchezza — era un modo di combattere l’alterigia e la prepotenza magnatizia) non si sentisse ad agio finché non avesse perfezionato la sua preparazione teorica presso una qualunque scuola bolognese. Poi ci sono le sicure influenze del teologo francescano Bartolomeo da Bologna, — soprattutto con il Tractatus de luce — reperibili anche nel Convivio . Bartolomeo, successo a Matteo d’Acquasparta, resse la scuola francescana di Bologna tra l’82 c il ’94, dopo alcuni anni d’insegnamento a Parigi. Infine gli auctores che Dante cita nel Convivio coincidono con le letture d’obbligo della scuola bolognese , e poco di diverso vi troviamo aggiunto.
Mi sembra che non sia troppo azzardato pensare che l’idea stessa di usare l’allegoria in «Voi che ’ntendendo ’l terzo ciel movete» e in «Amor che ne la mente mi ragiona» (e sono questi i primi esperimenti allegorici) sia nata in Dante subito dopo o durante il soggiorno a Bologna. Il prestigio e l’opera del grande Boncompagno — di cui Bene da Lucca, forse ascoltato da Dante (le sue ultime lezioni sono dell’ ’81), non è che un pallido epigono — dovevano essere ancora ben presenti. L’esttoso e prepatatissimo maestro di retorica, contemporaneo di Guido Fava, aveva lasciato scritti sopra i quali i maestri della seconda metà del secolo, tutte figure meno brillanti dei loro predecessori, tenevano le loro lectiones o ai quali, più o meno direttamente, si ispiravano.
Nella Rethorica novissima Boncompagno si era avvicinato alla definizione di allegoria dei poeti parlando della transumptio. La transumptio è, per Boncompagno, «mater omnium adornationum», «quedam imago loquendi in qua unum ponitur et reliquum intelligitur», «quoddam naturale velamen sub quo rerum secreta occultius et secretius proferentur» . Queste ultime parole ricordano da vicino un’allusione ciceroniana alla funzione dell’allegoria: «...De re publica breviter ad te scribam; iam enim charta ipsa ne nos prodat pertimesco. Itaque post haec, si erunt mihi plura ad te scribenda, άλληϒορίαις obscurabo» . Ma subito Boncompagno passa ai poeti, agli ioculatores, che nelle loro composizioni usano ogni sorta di trarsumptio, e cita l’esempio di Sclavo Barense. Non abbiamo la lirica riassunta nella Rethorica novissima, e per questo non è facile individuare nell’«ingeniosus in idiomate materno transumptor» quello stesso Sclavo o Schiavo o Savio di cui ci è pervenuta una raccolta di sentenze. Da quel che ne dice Boncompagno può comunque desumersi che si trattasse di un canto d’amore allegorico-simbolico. Sottolineeremo inoltre che lo stesso maestro da Signa era ricorso alla personificazione (nella Rota Veneris) e ai titoli simbolici, di cui spiega il significato all’inizio delle opere . Nella Rota Veneris c’è già un primo tentativo di definire la transumptio: «positio unius dictionis prolata», «largo modo similitudo, set non convertitur» . L’operetta si chiude con una specie di autodifesa che investe di striscio anche l’allegoria dei teologi, ma senza un vero impegno definitorio, piuttosto, per una specie di scanzonato giuoco letterario: «...Salomon... multa proposuit in Canticis canticorum, que, si secundum litteram intelligentur, magis possunt ad carnis voluptatem quam ad moralitatem trahi. Verum tamen sapientes dubia in meliorem partem interpretantur... credere autem debitis quod Boncompagnus non dixit hoc alicuius lascive causa, set sociorum precibus amicabiliter condescendit» .
Boncompagno, sul quale ho insistito più per individuare un clima che per altro, non era certamente il primo a far teoria sulla libertà transumptiva, sotto cui si potrebbe celare la libertà allegorica, dei poeti. Nelle scuole di retorica, se non veniva letto proprio Cicerone , si commentava senza dubbio Quintiliano , e testo corrente erano gli Etymologiarum libri di Isidoto di Siviglia. Isidoro nei capitoli dedicati ai tropi distingue nettamente ciò che è allegoria da ciò che è simbolo: «Allegoria est alieniloquium: aliud enim sonat, aliud intelligitur»; «Aenigma (cioè il simbolo) est quaestio obscura, quae difficile intelligitur, nisi aperiatur» . E, ancora distinguendo, insiste: «Inter allegoriam et aenigma hoc interest: quod allegoriae vis gemina est (il senso letterale, cioè, e quello che trascende la lettera), et sub re alia aliud figuraliter indicat. Aenigma vero tantum sensus obscurus est, et per quasdam imagines adumbratus» . Secondo Isidoro, dunque, l'enigma, il simbolo non possiede una forza gerziza, per la quale si trascenda il valore letterale, ma rende oscura o adombrata nell'immagine simbolica la lettera stessa: il simbolo è un senso univoco, contro l’allegoria che si fonda sulla forza polisensa del testo.
Se i retori, assai prima dei tempi di Cicerone, avevano conosciuto e analizzato la funzione dell’allegoria , saranno poi i teologi a fissarne il concetto e a diffonderla insieme all’esegesi dei testi sacri. Anche l’allegoria dei poeti acquisterà così una dignità nuova. Con S. Paolo l’allegoria è già inserita nelle categorie del pensiero cristiano e figura e voce della terminologia esegetica. Interpretando la storia biblica dei due figli di Abramo, l’Epistola ai Galati dice che «άτινά άλληϒορούμηνα» (Gal. IV. 24). Agostino distingue con chiara formulazione l’allegoria dei poeti da quella biblica, la quale è inchiusa «in verbis, sed in facto» . Dio, cioè, ha parlato allegoricamente attraverso il processo storico del popolo eletto, e ha racchiuso in quel processo tutte le verità che l’uomo doveva conoscere e che non era in grado di intendere direttamente: l’allegoria della Scrittura è «in facto». I poeti, invece, racchiudono le loro verità «in verbis», nelle favole c possono creare. Prudenzio, nel V secolo, con la Psycomachia, attua nuovo concetto di allegoria poetica, che è già lontano dalle premeditazioni retoriche di un Cicerone o di un Quintiliano, e risente fortemente della speculazione esegetica cristiana. L’allegoria non è più soltanto metafora, ma una verità intellettuale racchiusa nella trama sensibile delle parole.
Il concetto di allegoria entra così nel bagaglio della problematica medievale: da allora ogni glossatore, ogni filosofo, ogni poeta che decide di ricorrere a quel mezzo espressivo, movendo da alcuni punti estabili, trova una sua particolare apertura verso l’allegoria, tanto lo svariare delle definizioni o dell’uso potrebbe offrire uno spunto la storia delle poetiche del medioevo. Anche la posizione dantesca è colta su questo sfondo culturale; senza per ciò equivocarla con lo sfondo medesimo. Pilastro stabilitissimo di ogni definizione dell’allegoria per Dante come per ogni altro, è che l’allegoria non è scindibile dalla lettera; pur travalicandola, ne partecipa.
Anche per questo problema, il pensiero cristiano parte dalla speculazione intorno alla sostanza umana, seguendo un metodo per il quale sempre si prendono le mosse dal più noto verso il meno noto, in continua progressione. Base di conoscenza per l’uomo è l'uomo in se stesso: quel composto di anima e di corpo legati nel rapporto concreto di forma e materia. Come l’anima trascende il corpo pur essendo inchiusa e perfino condizionata da esso, così l’allegoria trascende la lettera, pur essendo in essa compresa. Questa inscindibilità, analoga all’inscindibilità tra materia e forma in tutte le creature terrene, è affermazione comune a filosofi e poeti. Per stralciare qualche esempio, si legga Riccardo di San Vittore, che scrive: «... una eadem Scriptura, dum multipliciter exponitur, multa nobis in unum loquitur: moraliter... allegorice ... anagogice...» ; o si pensi a Cristiano di Troyes, che nel più perfetto forse dei suoi romanzi, l'Yvaro, dichiara che nell’estoire che sta narrando sono inclusi matiere e sens. L'altro punto fermo è che la lettera, similitudine del corpo, è la più nota e quindi la più facile ad essere intesa; di conseguenza ogni commento deve partire dalla lettera: «Debemus ergo a novissimis et notissimis incipere, et scientiae nostrae promotionem paulatim sublevare ef per exteriorum notitiam ad invisibilium cognitionem ascendere...» , spiega sempre Riccardo; le cui teorie scaturivano esemplarmente dalla gnoseologia: «Absque dubio sensus carnis sensum cordis in cognoscendis rebus praecedit» . Il sensus carnis corrisponde nelle scritture al sensus litteralis; il sensus cordis al sensus spiritualis, cioè latamente all’allegorico.
Il separare la lettera dall’allegoria, dimenticando la loro complessa unicità, caratterizzerà poi uno degli aspetti della crisi del medioevo e la nascita di un nuovo corso storico. Le proposizioni occamiste segnano l’inizio della lunga crisi che si operò durante il XIV secolo, subito dopo la morte di Dante, e che fu sofferta in maniera più o meno cosciente dagli uomini del tempo, dal Petrarca al Boccaccio. E, in effetti, il Boccaccio fu il primo a scindere con taglio netto l’interpretazione letterale da quella allegorica, nel suo commento alla Commedia. Il commento veniva così a snodarsi su due piani paralleli, privi di interferenze, quasi due discorsi staccati e indipendenti l’uno dall’altro. È questo l’avvio a un fraintendimento, il cui processo giunge fino ai nostri tempi e culmina — nell’ambito dei nostri tempi — nella ricerca crociana, con l’allegoria sentita come negazione dell’arte, fuori e contro la poesia . I commenti precedenti al Boccaccio, specie i più antichi (penso a un Graziolo Bambaglioli o a un Pietro di Dante), erano rimasti più vicini al gusto e al dettato dantesco, anche se per loro stessi non era stato del tutto facile e spontaneo inserirsi nella poesia della Commedia: già per loro, scriventi dieci o trent'anni dopo la morte di Dante, l’atmosfera culturale era cambiata e la poetica della Commedia si lontanava in una età conclusa e irripetibile.
Ma Dante concepiva ancora lettera e allegoria come un tutto unico e inscindibile, ne vedeva il rapporto analogicamente al rapporto corpo anima, materia-forma, visione che sarà abbandonata, secondo la nozione d’una secolare concezione cristiana, solo da una posteriore di pensiero. Dante sperimentò questo mezzo espressivo nelle due canzoni del Convivio, e in qualche altra rima dello stesso periodo e l’applicò, ormai con tutta sicurezza, nella Commedia. L’una volta e l’altra (Convivio e Commedia) sentì il bisogno di chiarite teoricamente la sua intenzione operativa: nel primo capitolo del II trattato del Convivio, e nell’Epistola XIII . Anche da questo punto di vista il Convivio occupa fra le opere minori una posizione particolarissima: è il primo tentativo di usare e spiegare l’allegoria: mezzo poetico per delle verità che nessuna rima di volgare sarebbe stata degna di portare semente. È dunque una scelta cosciente, fatta in vista del fine espressivo, e necessitata, imposta quasi, dalla cosa da dire. Così nel Convivio come più tardi nella Commedia. Nel Convivio (II, i, 3) si legge che il senso allegorico «è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste parole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna». Il senso letterale è dunque «la bella menzogna», «la favola» che porta dentro la verità, il senso allegorico: verità ineffabile direttamente, per lo meno in rima, cioè in maniera poetica. Subito dopo Dante distingue l’allegoria dei teologi dalla allegoria dei poeti: «Veramente li teologi questo senso (allegorico) prendono altrimenti che li poeti»; e aggiunge: «ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato» (II i, 4). Ciò che distingue il poeta dal teologo è la lettera: il poeta inventa fantasticamente la lettera entro cui svolge le verità da dire. La lettera del poeta sono immagini e trame narrative favolose, menzogne che richiedono soltanto di essere belle, corpi armoniosi di poesia, attraverso i quali si manifesta l’anima, cioè il senso allegorico che è la verità da esprimere. Il teologo invece legge le verità rivelate da Dio attraverso un processo storico fermato in parole e fatti dagli uomini, o attraverso l’ispirazione diretta della lettera dei profeti. Nell’un caso e nell’altro la lettera quindi ha un valore in sé, contiene la verità storica di avvenimenti realmente accaduti in un loro provvidenziale processo temporale, nella cui trama Dio ha infuso verità atemporali, valide al di là del limite dello spazio e del tempo.
Fin qui Dante non fa che riassumere motivi svolti dai Padri e da tutta la scolastica. La stessa distinzione fra allegoria dei poeti e allegoria dei teologi c’era già nella formulazione agostiniana. Fra il V e il VI secolo, se Prudenzio usa coscientemente l’allegoria dei poeti, Fulgenzio ne sanziona l’utilità: «Sub blanditorio fictionis tegumento moralium seriem institutionum utiliter inserererunt (i poeti)... In nuce enim duo sunt, testa et nucleus; sic in carminibus poeticis duo sensus: litteralis et mysticus» . Nell’VIII secolo Teodulfo d’Orléans legge in chiave allegorica gli stessi poeti classici, specie Virgilio e Ovidio: «in quorum dictis, quamquam sint frivola multa / plurima sub falso tegmine vera latent» . Nel XII Bernardo Silvestre ripete che la parola virgiliana racchiude verità che la travalicano: «Scribit (Vergilius), in quantum est philosophus, humanae vitae naturam... Sub tegumento describit quid agat vel quid patiatur humanus spiritus in humano corpore temporaliter positus...» ; e Alano da Lilla insiste: «In superficiali litterae cortice falsum resonat lyra poetica, sed interius auditoribus secretum intelligentiae altioris eloquitur, ut exteriore falsitatis abiecto putamine, dulciorem nucleum veritatis secrete intus lector inveniat...» . In superficiali cortice, sub tegumento, sub falso tegmine, acquistano valore di formule per indicare la favola poetica; Dante interpreta e traduce: sotto bella menzogna.
L’allegoria del Convivio è chiara e indiscussa: nascita e vittoria dell’amore per la Filosofia sopra tutti gli amori terreni, ivi compreso quello per Beatrice. Quando da questa allegoria si passa a quella della Commedia, sorgono dubbi e difficoltà; anche perché non sempre viene accettata dai critici la spiegazione che l’Epistola XIII offre in termini affatto semplici e di tutta evidenza: «Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitri libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est» . Dante riprende poi la stessa formulazione quando, dall’interpretazione generale dell’opera, passa a soffermarsi su quella particolare della III cantica: «... et si totius operis allegorice sumpti subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitri libertatem obnoxius, manifestum est in hac parte hoc subiectum contrahi, et est homo prout metendo obnoxius est iustitie premiandi» . Altrettanto evidente è nell’Epistola XIII la spiegazione del senso letterale: lo stato delle anime dopo la morte. Direi che è proprio questa estrema chiarezza e semplicità a disorientare la critica. Viene così messa in dubbio la stessa autenticità dell’Epistola XIII; oppure, accettandone l’autenticità, si vuole ancora discettare e vedere se la posizione assunta nel Convivio sia o non sia la stessa di quella assunta nell’Epistola XIII; se cioè Dante usi anche nella Commedia l’allegoria dei poeti, o se invece si tratti di ben altro. Proprio questo dubbio — in sé indicativo di tutto un atteggiamento esegetico — ha mosso ancora recentemente un illustre dantista (C. Singleton) ad affermare che l’allegoria della Commedia è la stessa che Dante nel Convivio aveva definito come allegoria dei teologi: «È il loro tipo di allegoria — scrive il Singleton — non soltanto perché la sacra Scrittura è citata per illustrarlo, ma perché, dato che è citata la Scrittura, il primo e letterale senso non può essere fittizio, ma deve essere veto, e in tale esempio storico».
Al di là di questa peculiare interpretazione critica, resta comunque il problema se fra Convivio e Epistola XIII, cioè tra Convivio e Commedia, vi siano profonde differenze teoriche intorno alla allegoria. Comparando i due passi danteschi, colpisce una variante espositiva. Nel Convivio Dante enumera quattro sensi, secondo i quali «le scritture si possono intendere e deonsi esponere»: letterale, allegorico, morale, anagogico. Nell’Epistola XIII i sensi risultano ridotti a due: letterale (qui babetur per litteram) e allegorico (qui babetur per significata per litteram); il senso allegorico potrà tuttavia essere considerato anche mortalmente o anagogicamente: «Et primus dicitur litteralis, secundus veto allegoricus sive moralis sive anagogicus...».
Si tratta, come ho detto, di una variante espositiva, ma non di un intrinseco mutamento concettuale. La quadripartizione dei sensus, già esposta nel Convivio, non è infatti rigettata, bensì elaborata e più sottilmente inquadrata entro lo schema dottrinale. Nella Epistola XIII Dante menziona ancora — dopo aver ribadito la distinzione fra i due termini fondamentali di littera e di significata per litteram — il senso morale e il senso anagogico, come aspetti che è lecito considerare singolarmente («si ad moralem sensum, significatur nobis conversio animae... si ad anagogicum, significatur...»), e ciò formalmente conferma la validità dei quattro sensus descritti nel Convivio. Subito dopo però precisa che queste sono distinzioni nominali e non sostanziali, poiché i tre termini riferiti ai sensi che si distinguono dalla lettera sono generaliter riconducibili al preponderante denominatore comune dell’allegoria: «Et quamquam isti sensus mistici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi» . La bipartizione dei sensus, accentuata nell’Epistola XIII, altro non è dunque che un chiarimento dell’enunciato del Convivio. E l'evoluzione della maniera espositiva, con richiami che possono fare pensate alla preoccupazione di giustificare una propria antecedente formulazione, trova conferma nell’esame formale dei passi, del Convivio e dell’Epistola XIII. Negli ultimi periodi del I capitolo del II trattato del Convivio ricorre per ben quattro volte l’avverbio massimamente, usato per dar rilievo al senso allegorico, citato insieme agli altri non letterali: «sempre lo litterale dee andare innanzi... sanza lo quale sarebbe impossibile e inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico...»; «con ciò sia cosa che ne le scritture [la litterale sentenza] sia sempre lo di fuori, impossibile è venire a l’altre, massimamente a l’allegorica...»; «con ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia subietto e materia de l’altre, massimamente de l’allegorica...» «... e la litterale dimostrazione sia fondamento de l’altre, massimamente de l’allegorica...» . L’avverbio così insistentemente ripetuto anticipa la formulazione dell’Epistola XIII: «... isti sensus mistici... generaliter omnes dici possunt allegorici...». Il massimamente usa to nel Convivio risuona nella memoria di Dante, quando dieci o quindici anni più tardi, riformula il concetto attribuendo a generaliter una analoga funzione di sottolineatura della allegoria.
Una spiegazione ti tale nuova formulazione può anche essere offerta dalle fonti. Il periodo trascorso a Bologna dovette offrire a Dante più di una occasione per approfondire questo genere di problemi. Se fu alla scuola di fra Bartolomeo, bonaventuriano di stretta osservanza, dovette già allora cogliere il nesso particolare che univa i sensi allegorico, morale e anagogico entro la categoria di un triplex sensus spiritualis. Dice San Bonaventura: «In omnibus enim Scripturae libris, praeter litteralem sensum, quem exterius verba sonant, concipitur triplex sensus spiritualis, scilicet: allegoticus, quo docemur quid sit credendum de divinitate et humanitate; moralis, quo docemur quo modo vivendum; et anagogicus, quo docemurt qualiter est Deo adhaerendum» . In sostanza i quattro sensi sono qui ancora presenti, così com'erano stati fissati da Rabano Mauro: «Quisquis ad Sacrae Scripturae notitiam desiderat pervenire, prius diligenter consideret quando bistorice, quando allegorice, quando anagogice, quando tropologice...» , e ribaditi nel distico mnemonico: «Littera gesta docet, quid credas allegoria, / moralis quid agas, quo tendas anagogia». Ma Bonaventura aggiunge una sottolineatura della distinzione fra lettera da una parte e il iriplex sensus dall’altra. Sottolineatura che richiama alla memoria il mzassimamente del Convivio.
Non molto lontano dalla formulazione bonaventutiana è San Tommaso, che nella Summa Theologica (I, 1, X) scrive: «Hic autem sensus spiritualis trifarium dividitur». Nella Quodlibetata VII, q. VI, art. 14- 15, Tommaso invece accentua la bipartizione tra lettera e senso spirituale, così come Dante fa nell’Epistola XIII: «In Sacra Scriptura — scrive Tommaso — manifestatur veritas dupliciter: uno modo secundum quod res sunt per verba, et in hoc consistit sensus litteralis; alio secundum quod res sunt figurae aliarum rerum, et in hoc consistit sensus spiritualis». Se si confrontano l’enunciato di S. Bonaventura e quelli di San Tommaso, si può dunque ben vedere che anche la variante espositiva della Epistola XIII rispetto al Convivio II, i è pienamente giustificata dallo stesso oscillare delle formulazioni reperibili nelle fonti dottrinali, senza che per questo se ne debba dedurre un mutamento della sostanza concettuale.
Tuttavia tra il Convivio II, i e l’Epistola XIII si può rilevare una differenza anche più sottile. Nel Convivio Dante aveva distinto due tipi di allegoria (quella dei poeti e quella dei teologi); seguendo l’Epistola XIII sembra che esista una unica allegoria, valida per gli uni e per gli altri. Il testo lo afferma implicitamente: l’allegoria rappresenta per il poeta e per il teologo la verità inchiusa entro la lettera: i significata per litteram. Ciò non ostante, comparando ancora i due testi, si vedrà chiaro che l’Epistola non rappresenta che un approfondimento dottrinale e una maggiore lucidità espositiva nei confronti del Convivio. Qui Dante aveva conflato insieme allegoria e modo di trattare la materia («Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che la mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare...»); nell’Epistola XIII invece, dopo aver parlato dei sensi, definisce il modo, la forma, distinguendo una forma tractatus (semplice divisione della materia in cantiche, canti e gruppi ritmici di terzine) e una forma tractandi. «Forma sive modus tractandi est poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transumptivus, et cum hoc diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus, et exemplorum positivus» . Il modo è dunque ancora «poetico e fittivo»; ancora l’intenzione di Dante è «lo modo de li poeti seguitare». I due aggettivi che aprono la serie, posti come sono in posizione dominante, non sembrano lasciare adito a dubbi. Lo stesso fictivus riporta indietro nel tempo: alle «fittizie parole» del Convivio o al De vulgari Eloquentia, lì dove Dante diceva che la poesia non è che una «fictio rethorica musicaque poita» .
Ma il paragrafo 7 dell’Epistola XIII necessita di qualche commento in più dal momento che è quello che ha dato l'avvio all’interpretazione degli studiosi che accettano la tesi che Dante nella: Commedia abbia usato, o abbia creduto di usare, l’allegoria dei teologi, affermando così la verità storica del suo viaggio nell’oltretomba. Il paragrafo, a guardar bene, si divide in due parti: la prima in cui Dante commenta la sua opera: «Ad evidentiam itaque dicendorum sciendum est quod istius operis non est simplex sensus... Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus...» (si noti che per il primo senso viene usato soltanto l’aggettivo litteralis), nella seconda parte il dettato si allarga in un enunciato di ordine generale, che non riguarda più l’opera in se stessa, bensì tutte le scritture da intendere allegoricamente. Questa seconda parte si inizia con l’esempio tratto dalla Sacra Scrittura. Alla fine dell'esempio Dante trae le conseguenze: soltanto adesso i sensi non letterali sono detti mistici, quel- li cioè che i teologi vanno scoprendo, e può concludere: «... isti sensus mistici... generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a ltterali sive historiali diversi...». Soltanto adesso aggiunge l’aggettivo istoriale accanto a letterale; e questo riguarda direttamente i teologi, in quanto la lettera in cui essi leggono le verità spirituali è un vero storico; i teologi leggono «non in verbis, sed in facto» l’allegoria che vanno appostando per le scritture. Per la Commedia Dante aveva parlato di un senso letterale, sic et simpliciter, e di uno allegorico, senza cenno alcuno che il senso letterale fosse, nel caso specifico della sua opera, sive bistorialis.
D’altra parte una forse maggiore attenzione agli scritti di San Tommaso e una necessità di maggiore precisione tecnico-espositiva (necessità che i passi già commentati mi sembrano documentare) costringevano Dante ad abolire la distinzione tra allegoria dei poeti e allegoria dei teologi. Proprio nella Quodlibetata VII, q. VI, art. 16 ad 2 Tommaso, aderendo ad un enunciato di Giovanni di Salisbury, dice: «Fictiones poeticae non sunt ad aliud ordinatae nisi ad significandum; unde talis significatio non supergreditur modum litteralis sensus»; nega cioè alla poesia ogni possibilità di travalicare la lettera in un significato allegorico. Dante, quasi in una tacita polemica, sente invece che questo è possibile; che, anzi, l’allegoria dei poeti non è diversa da quella dei teologi nel suo valore intrinseco; quello che cambia, e cambia fortemente, è la materia, il corpo di cui, per riprendere un esempio di cui già ci siamo serviti, l’allegoria è l’anima. La materia dei teologi è la lettera storica, con la sua verità provvidenziale; quella dei poeti è favola, parola fittizia, bella menzogna ornata e fatta positiva di esempi.
Per tirare le conclusioni di quanto ho esposto, mi pare che si possa affermare che l’allegoria per Dante, sì nel Convivio che nella Commedia, consiste nella particolare funzione significante della trama narrativa. Funzione significante che si svolge essa stessa in una tra- ma di significati non esprimibile per mezzo della pura lettera, a cui tuttavia la lettera non solo si collega ma implicitamente guida e allude. L’allegoria fondamentale della Commedia natta la condizione umana, considerata nella piena libertà del suo arbitrio e quindi degna del premio o della punizione divina, pet un supremo atto di giustizia. Accanto a questa allegoria fondamentale, e mescolati con essa, si possono trovare di volta in volta gli altri sensi: quello morale, che insegna all’uomo la retta azione per una vita felice sulla terra; quello anagogico, che investe il rapporto dell’uomo con Dio, in vista della felicità ultraterrena. Ma la lettera in se stessa resta mera invenzione fantastica.
Non bisogna infine dimenticare che Dante con la Comedia s'inserisce in una tradizione narrativa diffusissima in tutto il medioevo cristiano, orientale ed occidentale, che risale ai Vangeli apocrifi, i quali a loro volta, arricchirono la tradizione cristiana con l'apporto di nuove varianti sincretiche dei miti degli inferi già cari agli scrittori classici sia latini sia greci. Il rapporto della Divina Commedia con la tradizione apocrifa meriterebbe anzi nuove indagini più approfondite. In quanto anello di congiunzione fra la letteratura sacra e la letteratura profana ancora in fieri in vaste zone della cristianità medioevale, l’apocrifo può essere studiato come germe di una nuova «forma tractandi» che tende a privare la lettera del suo originario valore istoriale e a trasformarla in «favola», ovvero in «bella menzogna», secondo la definizione dantesca. In questo senso, la Comedia può essere considerata l’opera più perfetta di un «genere letterario» lentamente elaboratosi nel Medioevo, ossia di una forza verbale la cui funzione significante può variare pur nella continuità tradizionale della tecnica espressiva.
Le vere cruces della Commedia, tuttavia, non si riferiscono all’allegoria, poiché la trama allegorica difficilmente sfugge. Si tratta piuttosto di difficoltà grammaticali, sintattiche e lessicali strettamente connesse con la lettera, oppure della interpretazione del significato dei simboli. Dante infatti intesse la propria allegoria ornando la lettera d’ogni mezzo retorico a disposizione e in particolare ricorre al simbolo che, se non il più poetico, certo ne è l’arricchimento più fantastico.
«Aenigma est quaestio obscura quae difficile intelligitur, nisi aperiatur» — aveva scritto Isidoro di Siviglia. E infatti da questa natura del symbolum-aenigma nascono schiere di dubbi interpretativi e le discussioni su questioni tuttora insolute e forse insolubili. Che cosa rappresenti Virgilio o Matelda o San Bernardo, che cosa raffiguri il veltro, o il veglio di Creta, che cosa si nasconda dietro le tre fiere o dietro i personaggi della mistica processione del Paradiso terrestre: queste sono le questioni che davvero tormentano i critici e che sembrerebbero attribuire alla natura ed alla funzione del simbolo nell’opera dantesca un significato teorico preponderante. Eppure, benché sempre arduo nella pratica dell’esegesi, il problema del simbolo non potrà portarci ad una discussione concettuale analoga a quella richiesta dall’allegoria. Non siamo infatti incerti in merito alla definizione del simbolo (ché, in proposito, potrebbe bastarci una formula concisa, quale quella isidoriana) o in merito alla sua generale funzione retorica, ma ci troviamo in difficoltà quando si tratta di «aperire» la «quaestio obscura» contenuta in ciascun «aenigma». Si tratta non di stabilire come si realizza il procedimento retorico del simbolo, bensì di intendere, di volta in volta, che cosa un determinato simbolo voglia significare, e si tratta anche di vedere sino a che punto le nostre fatiche interpretative siano legittime e non vadano oltre l’intenzione significante dell’autore (i limiti semantici del simbolo sono infatti connessi con una possibile sua natura esoterica, definibile soltanto in sede storica).
Se per l’allegoria ci siamo posti il problema delle fonti della dottrina dantesca e abbiamo così potuto sottolineate l’importanza dell’ambiente bolognese, in merito allo strumento retorico del simbolo, ogni ricerca delle premesse biografico-culturali dovrebbe necessatiamente articolarsi in molte indagini particolari per le quali sarebbe inopportuno il ricorso ad un denominatore comune che non fosse la stessa vita di Dante considerata come somma di successive esperienze specifiche. Sarà pur tuttavia utile, quanto all’uso dantesco del simbolo, qualche precisazione atta a chiarite come determinate questioni esegetiche connesse con tale uso non riguardino l’allegoria se non perché si riferiscono alla lettera di cui l’allegoria stessa partecipa. La Commedia è una narrazione allegorico-simbolica: procedimento tecnico non certo estraneo al gusto del tempo. Chiaro precedente, e di grande fortuna, è per esempio il Roman de la Rose. Si accetti o non si accetti la ripresa attributiva del Fiore , cosa certa è che Dante aveva conosciuto la narrazione francese, diffusasi rapidamente in tutta l'Europa occidentale, tanto nella redazione primitiva di Guillaume de Loris, quanto nella continuazione dottrinale di Jean de Meung. Anche nel Roman de la Rose abbiamo, come nella Commedia, un’allegoria fondamentale (la nascita dell’amore in un cuore giovanile, con le sofferenze, le gioie, le difficoltà, le speranze che accompagnano il suo sorgere). Tale allegoria viene espressa per mezzo della trama letterale (il sogno del giardino di Diletto sul fare dell’alba); ma tale trama si complica di una folla di simboli e di personificazioni il cui significato spesso viene aperto dai nomi Diletto, Oziosità, Maldicenza, Miseria ecc...
Poiché l’area del simbolo è vastissima — quanto e più dell’area della metafora —, tutto si prestava ad essere assunto a valore simbolico: colori, animali, piante, fiori e l’uomo stesso preso come personificazione di una idea astratta. Bestiari e Lapidari non sono che raccolte di possibilità simboliche. Se vogliamo però giungere ad una certa chiarezza, dobbiamo insistere sulla distinzione fra simbolo e allegoria (come fa Isidoro di Siviglia) e precisare che un’opera poteva essere allegorica e non simbolica (anche se non è facile citarne gli esempi perché il simbolo era uno dei mezzi espressivi più ampiamente usati), e viceversa poteva essere simbolica e non allegorica. Di questo caso gli esempi non mancano certo, e senza uscite dal campo dantesco. La Vita Nuova è già un esempio: non si può mettere certo in dubbio il valore simboli. co dei numeri nel libello giovanile, e neppur quello dei colori; nel tipo dell’espressione simbolica rientra anche la personificazione d'amore. Con questo tuttavia l’operetta non è certo allegorica. La canzone Tre donne intorno al cor è anch'essa simbolica, ma non allegorica: al suo buono intendimento bastano «le parti nude», avverte Dante stesso nel congedo.
Le definizioni di simbolo, per le ragioni sopra ricordate, non sono ricche e numerose come quelle di allegoria; abbondano invece i lunghi elenchi e le raccolte dei principali simboli del Vecchio e del Nuovo Testamento. Aenigrza è parola paolina, accanto ad essa si trova figura e similitudo, signum, talvolta symbolum. Le cose create portano similitudine del Creatore e pertanto tutte le cose hanno un loro valore simbolico: «invisibilia Dei, per ea quae facta sunt, intellecta, conspiciuntur» scriveva Paolo ai Romani (I, 20). È sempre l’esegesi biblica che diffonde e dirama fino alla poesia l’uso del simbolo. Ugo di San Vittore ne dà una definizione: «Symbolum est collatio formarum visibilium ad invisibilium demonstrationem» ; Riccardo riprende la parola di San Paolo: «habent corpora omnia ad invisibilia bona similitudinem» ; e Alano da Lilla scrive: «Omnis mundi creatura / quasi liber et pictura / nobis est in speculum; / nostrae vitae, nostrae mortis, / nostri status, nostrae sortis / fidele signaculum» .
La formulazione più netta la dobbiamo a Tommaso, nel suo commento alla Logica di Aristotele: «signum formale ducet in cognitionem alterius vi similitudinis» . Qui veramente il significato si allarga e comprende ogni uso del simbolo: l’uso sacro e quello profano. Non sempre infatti il signum formale è una cosa sensibile che abbia il fine d’indicare un ultrasensibile; può semplicemente indicare un’altra cosa che abbia con la prima una qualche similitudine. Nel Roman de la rose la rosa è simbolo della donna amata, ed è un signum formale sensibile che significa un altro sensibile vi similitudinis.
Dante non si è mai preoccupato di dare una giustificazione teorica dell’uso del simbolo o di spiegare cosa egli ne intendesse; tuttavia due passi del Convivio assumono in proposito implicita funzione esemplare. Uno è il III, xii, 6. Dopo aver spiegato la lettera del «non vede ’l sol che tutto ’l mondo gira», prima di iniziare il ragionamento allegorico, Dante scrive: «Qui è da sapere che sì come trattando di sensibile cosa per cosa insensibile si tratta convenevolmente così di cosa intelligibile per cosa inintelligibile trattare si conviene. E però sì come ne la litterale si parlava cominciando dal sole corporale e sensibile, così ora è da ragionare per lo sole spirituale e intelligibile, che è Dio».
Questa è già definizione e uso di simbolo: indicare un corpus ha ad invisibilia bona similitudinem. In questo caso particolare il simbolo non appartiene né alla pura lettera, né alla pura allegoria: è arricchimento della lettera, e quasi un punto di passaggio dalla fabula alla sentenza vera: una conoscenza istituita vi simlitudinis.
L’altro passo è il IV, xii, 13-16. Dante, dopo aver spiegato le virtù proprie a ciascuna età dell’uomo, riassume tutto il suo pensiero in una sorta di breve racconto simbolico, tratto dal rapporto Marzia-Catone, svoltosi lungo la vita di entrambi: «... per la quale Marzia s’intende la nobile anima. Marzia fu vergine, e in quello stato si significa l’adolescenza; [poi si maritò] a Catone, e in quello stato si significa la gioventute; fece allora figli, per li quali si significa le virtudi che sopra si dicono a li giovani convenire; e partissi da Catone e maritasi Ortensio, per che si significa che [si] partì la gioventù e venne la se tute; fece figli di questo anche, per che si significano le virtudi che sopra si dicono convenire a la senettute. Morì Ortensio; per che si significa lo termine de la senettute; e vedova fatta — per lo quale vedovaggine significa lo senio — tornò Marzia dal principio del suo vedovaggine Catone, per che si significa la nobile anima dal principio del senio tornare a Dio. E quale uomo terreno fu più degno di significare Iddio Catone? certo nullo».
Assurgono a valore di simbolo Marzia, la sua verginità, il matrimonio, i suoi figli, il nuovo matrimonio con Ortensio, gli figli, la vedovanza, il ritorno a Catone, e Catone stesso. Qui il simbolo è realmente una quaestio obscura nisi aperiatur. Dante ne è, come consueto, cosciente: i vari si significa rappresentano proprio l’apertura del simbolo, altrimenti chiuso e indecifrabile.
Anche nella Commedia Dante trova modo, quando vuole e quando le esigenze dell’arte non lo obbligano ad agire altrimenti, di chiarire i vari simboli con richiami espliciti o con apostrofi al lettore perché aguzzi l’ingegno e s’impegni in una maggiore attenzione esegetica. Del resto, molti simboli usati da Dante dovevano essere abbastanza usuali per il lettore contemporaneo: in parte infatti sono simboli biblici, altri risalgono con tutta probabilità ai Lapidari e ai Bestiari. È questa una ricerca che può essere proficua e che ancora non è stata svolta sistematicamente.
Accanto ai molti simboli chiariti dallo stesso autore, ne troviamo altri che invece sembrano consistere tutti nella «quaestio obscura». La mancanza — in questi luoghi del testo — di ogni aggiunta esplicativa mi induce a credere che l’oscurità del senso sia voluta da Dante, e che perciò i nostri tentativi d’interpretazione non debbono tendere a portare più luce di quanta ne sopporti l’intezionale enigmaticità allusiva. Penso in particolare al veltro, unica vera profezia della Comedia, espressa con simboli di tipo apocalittico. Di fronte a passi di questo genere, non si può fare ricorso che alla fede che Dante aveva nelle promesse del Vangelo: che sarebbe cioè arrivato il giorno in cui tutta l'umanità, pacifico e pacificato gregge, avrebbe ubbidito all’amorevole saggezza di un solo pastore. Le parole di Beatrice , che interpretano la successione simbolica delle modificazioni del carro, rimangono ancora «buie» per l’accenno all’altro simbolo, a mio avviso nettamente collegato con il simbolo del veltro: il «cinquecento diece e cinque, messo di Dio». Soltanto i fatti, essa dice, «solveranno questo enigma forte».
Non c’è dubbio che l'oscurità è qui voluta e ricercata. Dante tendeva ad esprimere una ferma fede nella giustizia divina, regolante i cieli e la terra; ma la sua attestazione di fede doveva forzatamente restare nel vago e nell’indefinito.
Anche qui, comunque, il problema è di natura squisitamente filologica, ossia si riferisce al valore del simbolo particolare, impiegato in un luogo specifico del testo, e non è necessario, come per l’allegoria, fondare l’esegesi su una preliminare definizione concettuale dello strumento retorico.
Concludendo, mi pare che i testi esaminati offrano sufficiente documentazione per affermare:
1) che l’uso e la teorizzazione dell’allegoria sono, in Dante, connessi con l’esperienza culturale bolognese; 2) che Dante, pur inserendosi nella lunga tradizione legata all’esegesi biblica, difende l’uso di tale mezzo espressivo da parte dei poeti; 3) che tra Convivio e Epistola XIII, al di là delle varianti espositive, si nota una sostanziale | continuità concettuale; 4) che in Dante l’uso del simbolo, più diffuso e non legato a una particolare cultura universitaria, precede quello dell’allegoria; 5) che il simbolo è un arricchimento della lettera, non implica necessariamente l’uso dell’allegoria e pertanto va distinto dall’allegoria stessa.

Date: 2022-10-28