Allegoria, metafora, simbolo in Dante da Croce a Pagliaro [Aldo Vallone]

Dati bibliografici

Autore: Aldo Vallone

Tratto da: Simbolo, metafora e senso nella cultura contemporanea

Editore: Milella, Lecce

Anno: 1996

Pagine: 285-292

Il problema (e si dica, più semplicemente, il tema) di “leggere” Dante, unitariamente, è affrontato, se non risolto, in vari modi lungo il cammino della interpretazione plurisecolare . Gli antichi lettori (e bastano, qui, solo alcuni cenni a supporto del nostro esame) vedono in lui soprattutto dottrina e scienza. È nel Cinquecento (è particolarmente con Borghini, che Vico non ebbe modo di conoscere), ben al di là di Bembo e delle bemberie, che l'interpretazione tende a cogliere qualità e caratteristiche della poesia, e, certo, se ne pone il problema proprio accanto o nel pieno dei “processi”, celebrati a nome e con l'autorità di Aristotele. Tasso, a limite del secolo, vive in questa atmosfera, ne sente gli obblighi e i limiti, e, però, prudentemente, dà una lettura di Dante sotto forma di “postille”, acutissime, se in sé prese, ma di fatto scompongono l’unità dottrinale e inaugurano un “genere” adottato nel Seicento e assai suggestivo anche in epoche posteriori. La riconsiderazione dell'unità del mondo dantesco, in nome della poesia e della sua qualificazione “retorica”, si ha con Vico, tramite d'obbligo per le varie vie della straordinaria vicenda del dantismo otto-novecentesco. Egli fa di Dante un punto di appoggio, alto e significativo, della grande periodizzazione in cicli storici e ideologici; dopo, invece, e sempre sulla sua scia, Dante-personaggio entra nel tempo e nelle idee che lo nutrono, e, per quanto sublime modello, indossa i panni della storia, ora come fiero partigiano e laico, ora come esule, giudice, maestro di dignità civile e di orgoglio nazionale con l’assolutezza dei rispettivi simboli. Foscolo di tutto questo fa una figura emblematica e impegna, su questo aspetto, fede e ingegno; ma lascia poi in eredità a De Sanctis irrisolti i problemi. Non a caso i primi saggi danteschi di Foscolo, pubblicati in inglese nel 1818, sono subito tradotti in italiano e pubblicati ne “Il Raccoglitore” nel 1819-1820, cui altri seguono come A parallel between Dante and Petrarch (1823) e il Discorso sul poema di Dante (1825), raccolti nelle edizioni di Londra e di Lugano del 1827 e 1838 e, poco dopo, in quella a cura di G. Mazzini del 1842-1843 .
Sono gli anni di De Sanctis, che portano, dapprima, alle Lezioni e poi ai vari saggi danteschi e al profilo “più costruito, polemico e documentato” della Storia della letteratura italiana . Dante, protagonista modello ed esemplare, gli si pianta nella coscienza: diviene esso stesso una forza morale, assoluta e intraducibile. Se è così, è bene; se così non è, si apre allora tutta una catena di dislivelli e limitazioni digradanti verso l'equivoco e il fragile, o, al contrario, verso la saldezza morale e l'impegno civile. Nasce qui, in Dante e a fronte di Dante, il concetto di per sé simbolo di “coscienza” e di “serietà” o “sincerità”, che nutre le pagine della Storia della letteratura italiana: tutt'uno con quello di spirito nazionale e indigeno: e l’uno e l’altro sono di forte sapore laico e civile e di netta presa di posizione, non solo contro le mode letterarie e le invenzioni formalistiche, già in avanzata, ma anche contro l’esterofilia e le piaggerie . Né tutto è qui. De Sanctis taglia fuori dalle qualità dell'artista”, quasi contrapposto al poeta, i temi della “scolastica”, dell’”allegoria”, dell'‘’ascetismo” e “la stessa grandezza ed energia dell’uomo”. “Ci era, prosegue, nella sua coscienza un modo reale troppo vivo e appassionato e resistente, perché l’arte potesse dissolverlo e trasformarlo. E quel mondo era involuto in forme così dense e fisse, che il suo sguardo profondo non poté sempre penetrarvi e attingerlo nel suo immediato” . Ora se Dante è centrale nell'impianto critico di De Sanctis, De Sanctis stesso è centrale nella storia della interpretazione dantesca, anche ben entro gli odierni formalismi. Oltre tutto, egli, per primo, ha reso ancor più “popolare” un testo, insegnando a saperlo leggere e lasciando scoperti (e per qualche ragione anche stimolando) nuovi ed aspri problemi , come quello della allegoria, del recupero alla poesia delle zone dottrinali, della metafora (al di là dell’aristotelica qualifica di “regina della poesia”), del simbolo.
Croce eredita questa situazione, in sé lineare e confusa insieme. E se De Sanctis accetta più di una idea di Vico e Foscolo, e però si batte con energia contro le dotte e artificiose discussioni delle età precedenti; Croce rimedita il pensiero desanctisiano, che lo coinvolge dai primi agli ultimi studi; ma ne avverte anche i rischi e i problemi ancor più quando si vanno pronunciando teorie di approcci all'opera di Dante. Ed anzi accade che spesso i vecchi problemi del primo e secondo Ottocento si mescolano alle nuove teoria o, addirittura, queste su quelle si impiantano. I temi di assaggio dantesco in Croce sono vari e disseminati in oltre vent’anni fino all'approdo con La poesia di Dante (1921). La pubblicazione delle opere di Groeber e Vossler sono occasioni di precisi chiarimenti . Il cammino è lineare ma intenso. Coerentemente con l’Estetica si rigettano via via i concetti delle categorie e delle classificazioni, entro o sovrapposte a Dante: così “non c'è il sublime, ma c'è Eschilo. Dante, Shakespeare” ; così metafora e similitudine si saldano in unità, perché “il dualismo dei termini è veramente delle esposizioni dottrinali” . E addirittura egli prende le distanze, energicamente, come non mai accade in altri luoghi, da De Sanctis, perché “se Dante, dice, tornasse al mondo, nessuno gli dispiacerebbe tanto quanto il suo maggior interprete, Francesco De Sanctis, il quale, com'è noto, ha eseguito una fiera operazione chirurgica sulla personalità del grande fiorentino ed ha crudemente estirpato e gittato al fuoco almeno tre dei ‘quattro sensi’, che sono sopportati dall'arte dantesca” ; ed è questo un pensiero del 1905. Ma, ancor più energicamente in una lettera a G. Gentile del novembre 1907, consiglia l’amico non solo a lasciare “da banda la difesa delle allegorie, che nel senso del De Sanctis sono ben condannate”, ma anche di non confondere l’allegoria con l'elemento intellettualistico, perché, comunque, l’allegoria “è arte sbagliata” . E per questa via cadono, l'uno dopo l’altro, altri “idoli” critici, fiorenti nel pieno e nel tardo Ottocento ed anche del primo Novecento . È, se si vuole, un tirocinio o una sperimentazione che porta a La poesia di Dante e lo confessa, esplicitamente, in una lettera a Vossler del 3 febbraio 1921: “Anche il mio libro è per me una liquidazione di problemi e di tentativi di soluzione: e se potessi tornerei indietro ora o tra breve a Dante per vedere in esso altre cose oltre quelle che già ho visto” . Tuttavia Croce, portatosi all’interno della poesia, coglie la vitalità della struttura (da De Sanctis posta in sé e in modi di antagonismo creativo) nella “immaginazione”, che, intervenendo come “demiurgo” “compie un'opera affatto pratica, qual’è quella di foggiare un oggetto che adombri a uso dell’immaginazione l’idea dell’altro mondo dell'eterno”: è questo “il romanzo teologico’ o ‘etico-politico-religioso’” . Presa in se stessa la definizione, che peraltro tale non è, appare audace o impropria: e su questo punto si blocca tanta parte della discussione critica per oltre venti-trent'anni . Tuttavia Croce dà un primo sbocco al problema, laddove sostiene che “schema e poesia, romanzo teologico e lirica, non sono separabili nell'opera di Dante, come non sono separabili le parti dell'anima sua, di cui l'una condiziona l’altra e perciò confluisce nell'altra; e, in questo senso dialettico, la Commedia è sicuramente un’unità” . Dopo, sopraggiungono a chiarire e ad ampliare il problema altri saggi: il proemio alla Vita Nuova, le lecturae di Par. XXXI e XXXIII, e soprattutto Ancora della lettura poetica di Dante (1948), che, certo, più che sull’Estetica (1902) si impianta su La poesia (1938). Il travaglio metodologico e critico è ancor più evidente nei due canti terminali del poema: ad esempio, si stenta a capire, per intero e distesamente, la “poesia”, perché spesso affiorano i concetti nudi di “strutturale” e “didascalica”, seppure questa è “di eccelso argomento, di grandioso movimento, di altissima intonazione, ma una didascalica con gli espedienti di didascalica” .
In definitiva, si sottolineano, ovunque, due punti, su cui Croce ribadisce, insistentemente e con grande pazienza didattica, il suo pensiero: l'allegoria e il carattere dialettico dei due termini della interpretazione. L'allegoria è l'elemento irriducibile a poesia ed è bene non confonderla con il romanzo teologico-filosofico-morale, né scambiarla con la metafora (un settore questo che tuttavia progredirà con i critici letterari puri, ad esempio con il Flora, e dopo ancora fino a talune interpretazioni d'oggi) . Nel saggio Sulla natura dell’allegoria (1922) egli amplia i confini e calca sui contorni, ma di fatto non cambia la conclusione generale: l’allegoria di Dante resta “quasi sempre estrinseca, e solo rarissime volte interferisce nella poesia” . È un concetto, che, assunto in sé, si propaga rapidamente tra studiosi e lettori di Dante. Ne colgo un esempio eloquente in una lettera inedita di S.A. Barbi a B. Nardi del 15 gennaio 1943, a proposito di M. Casella: “Ebbi con lui [cioè con Casella] un lungo colloquio per un altro lavoro che potrebbe considerarsi preparatorio; e mi parve, di fronte alla lettera di Michele, come se principiasse a sentire il fascino pericoloso, sia pure ancor lontano, della “allegoria”. Io non ho l'autorità di ‘tirargli tratto tratto la giacchetta’, come mi diceva Casella stesso, e intanto penso che le vie allegoriche, oltre che pericolose, minacciano d'essere senza fine” .
Per “struttura-poesia” Croce instaura un rapporto dialettico, in cui però i due elementi “non si compenetrano e non si contaminano, ma si alternano e si giustappongono. Dove è chiaro che all’elemento della “distinzione”, e mai più della “separazione”, e a quello della loro “unità” nello “spirito” del poeta, già perseguiti prima dell’opera La poesia di Dante, Croce sostituisce quello di una gradazione sottile di toni e temi al fine di togliere spessore e ogni netto contorno di impoeticità alla “struttura”, strappata definitivamente alle riserve e ai giudizi negativi .
Croce opera dall'interno un risanamento di metodo, confutando o aggirando suggestioni o interferenze, senza però spegnere il flusso vitale: l'età nostra da Auerbach a Pagliaro (e poi dopo anche da Contini a Boyde) eredita quell'immagine vichianamente salda e illustre, proprio quando Dante e l’età sua, in sé presi e nel loro complesso, e lo stesso concetto di poesia e letteratura, si aprono audacemente (e talvolta inconsideratamente) a sperimentazioni di ogni genere: e penso alla critica stilistica, filologico-verbale, figurale, strutturale 0, in opposizione, alla critica marxistica, teleologica, numerologica, psicanalitica .
Ma per un rinnovamento, più serrato che altri, e nello stesso tempo libero e proposto dall'interno, può valere, lungo la linea che da Vico porta all’età nostra, l’interpretazione di A. Pagliaro. Egli è di fronte a vecchi e nuovi problemi, come anche a tradizioni di cultura e tematiche contemporanee. Lo storicismo è nel fondo e nutre il suo pensiero: e se Vico, di cui è stato il massimo interprete nel Novecento, e De Sanctis e Croce stesso danno nutrimento alle sue idee, le esperienze europee, da De Saussure a Martinet, da Spitzer ad Auerbach, da Lukacs a Goldmann, rientrano nel cerchio dei suoi interessi e promuovono nuove istanze e personali soluzioni. Si prenda per un’esemplificazione primaria, lo strutturalismo, che, superata la barriera del concetto di “struttura” desanctisiano-crociano, rimette in discussione, scavalcando polemiche e diatribe, allegoria e metafora. È questa una ideologia critica che non sovrasta, né flette il pensiero di Pagliaro, proprio perché, come bene puntualizza il Piovani, perdendo “ogni contatto con la storicità”, essa s'incanala “in un formalismo, in cui le strutture linguistiche analizzate, rischiano di morire per mancanza di quell’ossigeno che solo la insuperabile vivacità della storia fornisce agli organismi viventi (lingua e linguaggio compresi)” . E meno che mai fa breccia “la connessione semplicistica e frettolosa dei sociologi alla letteratura” laddove sostengono, come avverte ancora Piovani, che “lo stato dei rapporti economici” indica anche “la causa immediata delle manifestazioni estetiche” . Ne Il segno vivente (1952-1959), che si pone come sintesi di singoli saggi, in un lungo cammino di prove ed anche di sostanziosi studi di critica semantica, fino a Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia (1966), protagonista è la “parola”, ricercata in plurimi percorsi (“magia della parola”, “necessità della forma”, “lingua e mito”, “il miracolo del segno” e così via). Pagliaro, oltre a vedere la storicità di essa, fissa anche le ragioni e le necessità del suo atteggiarsi. “Il segno linguistico è un segno vivente [...]: è portatore di un significato, che si forma e si rinnova, si plasma e si ravviva, a seconda del vigore e della ricchezza del contenuto di coscienza che si traduce e della virtuosità tecnica del parlante” . È un invito al ritorno ai testi, oltre le formule e i simboli astratti. “La creazione poetica obiettiva il sentimento in un complesso di immagini, valori saputi idonei ad esprimerlo; e queste, mentre da un lato con il loro significato costituiscono il dato, in cui quel sentimento perennemente si anima, dall'altro per la loro entità visiva, uditiva o comunque sensibile si collegano al valore semantico della frase convocata a rappresentarle [...]. A una siffatta critica, la quale porti tutta la sua attenzione tra il significante e il significato per accertarne la legittimità, si è data bene la qualifica di ‘critica semantica’” . È la base su cui s'impostano i problemi più urgenti. Nel saggio Simbolo e allegoria nella Divina Commedia, apparso dapprima in “L'Alighieri” (1963, pp. 3-35) Pagliaro distingue nettamente l'uno dall'altra: al primo attribuisce natura metaforica, in quanto “il segno si crea nell’ambito di un rapporto tra il sensibile e il concettuale”; nel secondo, invece, vede un significato imposto da un’intenzione esterna o un rapporto del sensibile e del non sensibile più propriamente arbitrario. Molte parti considerate allegoriche vengono pertanto viste come metaforiche; altre, slittanti verso l’allegoria; altre ancora (e il numero di queste si è molto ristretto), puramente allegoriche . Non è un cedimento alla critica estetica (e all’estetismo ad oltranza dei crociani): è, se mai, una consonanza con l’idea di fondo per cui la Divina Commedia è un “viaggio di conoscenza” e Ulisse, l'espressione somma. Si acquistano per questa via, al di là di ogni formula o definizione (in cui, ripeto, era stato insaccato il pensiero di Croce), la globalità di intenzioni e di realizzazioni, la riconosciuta unità del mondo dantesco (oltre che della poesia, s’intende), il rilievo della profonda organicità di una mente che tutto ha disposto e dissimulato in personaggi ed episodi. Questa unità non è ricercata nell’idea o nella morale come tale o nell’ardore polemico politico—civile o, al di là di questi moduli ottocenteschi, soltanto nello stile e nella lingua o ancora nella somma dei simboli, come accade in molte pagine d’insigni critici d'oggi; ma è colta nel suo sorgere e affermarsi in una profonda e sofferta concezione della vita, della natura e del destino degli uomini .

Date: 2022-10-27