Dante profeta [Bruno Nardi]

Dati bibliografici

Autore: Bruno Nardi

Tratto da: Dante e la cultura medioevale

Editore: Laterza, Bari

Anno: 1942

Pagine: 280-334

La visione dantesca, e cioè il viaggio attraverso l'Inferno, il Purgatorio e le sfere celesti sino al cospetto di Dio, è forse, per Dante, pura finzione poetica, qualcosa come dire un «romanzo teologico», ossia, come Dante stesso diceva nel Convivio , una «bella menzogna» sotto il velame della quale si nasconde una verità da scoprire? Non parlo della selva, delle tre fiere, del veglio di Creta, della processione mistica nell’Eden, che hanno sicuramente un significato allegorico; parlo della visione dei tre regni d’oltre tomba e dell’ascesa del Poeta sino all’Empireo. E per meglio precisare i termini e i limiti del problema, dirò che, per il momento, a me non interessa di conoscere quello che dovrà essere il giudizio dei moderni intorno al pensiero di Dante, interessa invece di conoscere quello che Dante Stesso pensava e intendeva, o, se preferite, fantasticava.
E prima di tutto, vediamo com’egli considerava il racconto che Virgilio fa nel suo poema delle peregrinazioni d’Enea. Nel quarto trattato del Convivio , egli ritiene che nei dodici libri dell’Eneide, presi tre per tre, siano raffigurate le quattro età dell'uomo. Il che indurrebbe a credere che Dante considerasse il racconto virgiliano una storia fantastica con significato allegorico. Ma chi toglie in mano la Monarchia, resta sorpreso di vedere che il racconto dell’Eneide è preso alla lettera e l’autorità di Virgilio invocata come pari, se non superiore, a quella di Livio, «gestorum Romanorum scriba egregius» . Così, per esempio, è verità, per Dante, la discendenza d’Enea da Elettra «nata magni nominis regis Athlantis» . Con questa differenza però, che, mentre per Virgilio la figlia d’Atlante che regge sulle sue spalle la volta celeste, s’era unita con Giove e n’era nato Dardano, Dante ritiene che questo particolare sia favola. La quale copre una profonda verità, al pari di quella che vuol Romolo figlio n Rea Silvia e di Marte. In realtà, pensa Dante, ampliando un concetto appena accennato da Livio , Dardano fu figlio d’oscuro padre, e solo per esaltarne le virtù, lo si disse figlio di Giove ; allo stesso modo, «vien Quirino da sì vil padre, che si rende a Marte» .
Ma fatta questa riserva per quel che concerne l’esistenza degli dei e delle dee del gentilesimo, che Dante per altro avvicina alla dottrina aristotelico-cristiana delle intelligenze separate e a quella platonica delle idee, «avvegna che (li gentili) non così filosoficamente intendessero quelle come Plato» , i fatti della narrazione virgiliana sono storici. Fatto storico è non solo l’approdo d’Enea alle foci del Tevere, ma altresì la sua discesa all'Inferno:

Tu dici che di Silvio il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogni male
cortese fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui e’l chi e’l quale,
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu dell’alma Roma e di suo impero
nell’empireo ciel per padre eletto:
la quale, e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.
Per questa andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto .

Predestinato da Dio ad esser padre dell’impero romano che doveva apparecchiare il mondo alla venuta di Cristo, e padre di quella Roma ove doveva risiedere il capo della chiesa, Enea meritò da Dio la grazia d’andare, prima della sua morte, ai beati Elisi, per udirvi dall’ombra d’Anchise le profetiche parole che l’avrebbero spronato nella lotta per la conquista del Lazio. La stessa grazia fu concessa a san Paolo, l’apostolo prescelto da Dio a diffondere nel mondo greco-romano la parola di Cristo:

Andovvi poi lo Vas d’elezione,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio alla via di salvazione .

La discesa d'Enea all’Eliso del pari che il raptus di san Paolo al terzo cielo, intorno al quale esiste una copiosissima letteratura teologica medievale, non sono per Dante semplici finzioni poetiche, ma veraci visioni concesse per una grazia speciale a questi due uomini privilegiati, in vista della missione affidata ad essi da Dio, per la fondazione dell'impero e per la propagazione della fede cristiana.
E una grazia speciale è quella concessa a Dante di discender vivo nel baratro infernale, di uscirne incolume per salire, attraverso i balzi del Purgatorio, sulla vetta del monte dell'Eden, e quindi d’esser rapito, attraverso le sfere celesti, sino a veder Dio faccia a faccia.
Si potrebbe ritenere finzione poetica l’incontro con Virgilio e il dubbio mosso da Dante alla sua proposta di seguirlo nel pericoloso viaggio:

Ma io perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enea, io non Paulo sono:
me degno a ciò nè io nè altri crede.

Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle:
se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono.

Ma intanto giova notare che, per mezzo di questo dubbio, Dante è riuscito a mettere in evidenza, senza averne l’aria, la somiglianza del viaggio propostogli da Virgilio colla narrazione del sesto libro dell’Eneide e la Visio Pauli. Il suo pensiero s’è rivolto proprio ai due episodi miracolosi occorsi al padre dell’ impero romano e all’apostolo cristiano. Le parole poi colle quali il poeta latino dissipa l’esitazione di Dante prima d’accingersi all’alto passo, gli rivelano che tre donne benedette, la Vergine Maria, Lucia e Beatrice, si son mosse a compassione di lui impedito «sulla fiumana ove ’l mar non ha vanto», e, per soccorrerlo nel suo smarrimento, gli hanno inviato quell’anima cortese mantovana. Il suo viaggio è dunque voluto da Dio per l’intercessione di quelle che curan di lui nella corte del cielo . Ed è fatale come l'impresa d’Enea:

Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole; e più non dimandare .

Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi nell'alto, là dove Michele
fe’ la vendetta del superbo strupo .

All’udire che Dante può, vivo ancora, visitare il regno dei morti, Nino Visconti rivolgendosi a Corrado Malaspina chiama pieno d’ammirazione:

Su, Currado! vieni
a veder che Dio per grazia volse .

«Gran segno è che Dio t’ami», gli dichiara Sapìa nell’apprender questa «a udir sì cosa nuova» . «Dio in te vuol che traluca tanto di sua grazia», proclama ugualmente Guido del Duca . E Cacciaguida, che accoglie nel cielo di Marte l’atteso pronipote colla stessa affettuosa espansione con cui Anchise accolse il figlio in Eliso, «se fede merta nostra maggior musa», esclama con parole che riecheggiano quelle virgiliane:

O sanguis meus, o superinfusa
gratia Dei, sicut tibi cui
bis unquam coeli ianiia reclusa? .

Non fa quindi meraviglia, se rinnovellato come piante novelle e trasumanato nella sua ascesa al cielo, come lo saranno i beati «a cui esperienza grazia serba», il poeta torna di nuovo a raffrontarsi all’apostolo delle genti:

S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ‘l sai, che col tuo lume mi levasti .

Chè san Paolo appunto, accennando alle sue «visiones et revelationes Domini», diceva di sè :

Scio hominem in Christo ante annos quatuordecim (sive in corpore nescio, sive extra corpus nescio, Deus scit), raptum huiusmodi usque ad tertium caelum. Et scio huiusmodi hominem (sive in corpore, sive extra corpus, nescio, Deus scit), quoniam raptus est in paradisum: et audivit arcana verba, quae non licet homini loqui.

Ora qual cristiano del medio evo, che non fosse stato uno sciocco o un miscredente, avrebbe mai osato di parodiare il raptus di san Paolo per farne una finzione poetica, cioè una «bella menzogna», sia pure che questa celasse una verità?
Il vero è, che le vite dei santi e gli scritti dei mistici medievali son pieni di siffatte visioni e rapimenti estatici; e che ad essi si prestava comunemente fede, e si cercava di spiegarli con ragionamenti filosofici e teologici, come si trattasse non di finzioni poetiche, ma di apparizioni e rivelazioni sovrannaturali o, comunque, insolite.
E non solo i teologi, ma anche i filosofi eran persuasi che taluni uomini, o per grazia divina, o per influssi di superiori agenti naturali che avessero trovato nell'uomo favorevoli disposizioni, potevano elevarsi al di sopra del comune modo di comprendere il corso degli avvenimenti, sino a divinare il futuro. Potremmo ricordare qual era in proposito il pensiero di Platone, dello stesso Aristotele, di Cicerone nel De divinatione , di Apuleio e soprattutto di Giamblico ; potremmo ricordare i filosofi musulmani Avicenna che aveva cercato di giustificare razionalmente lo spirito profetico riconosciuto a taluni uomini privilegiati ; potremmo ugualmente ricordare le dottrine rabbiniche e in special modo quella svolta da Mosè Maimonide nel suo Dux neutrorum, per dare un fondamento filosofico alla tradizione d'Israele ; ma ritengo che basti fermarci ad Alberto Magno, che intorno alle divinazioni e alla profezia ha scritto tutto un trattato nel suo commento al De somno et vigilia d’Aristotele, trattato che per taluni ritengo fosse conosciuto da Dante .
Dopo aver detto in che cosa si distinguon fra loro la visione, il sogno divinatario e la profezia , il domenicano dimostra che «animae, ad huiusmodi visiones et somnia et prophetias, triplex est in genere dispositio» .
Anzitutto, coloro che possiedono un intelletto molto attivo e chiaro, per la natura del loro stesso intelletto hanno grande affinità colle intelligenze celesti. E poiché tutta l’anima è strumento dell’intelligenza celeste, si dice che questa imprime in quella, ogni qual volta su di essa giunge l'influenza del suo lume. E poiché l'intelligenza è piena di forme che esplica per mezzo del moto celeste, quando i raggi e la figura formata dai raggi toccano i corpi e la parte inferiore dell’anima legata ai corpi, cotali uomini ricevono il lume dell'influenza dell’intelligenza celeste nella maniera in cui ne son capaci, e lo ricevono in modo molto chiaro ed aperto; e perciò essi sono ottimamente disposti per loro natura ad intendere ed acquistare nel modo migliore le altissime scienze che diconsi sapienze. E per questo Mosè Egizio chiamò siffatti uomini sapienti.
Vi sono altri del pari i quali possiedono un ottimo organo della fantasia e dell’immaginazione, in quantità, qualità, complessione, composizione, conformazione, e per tutto ciò che si richiede alla perfezione dell'organo della potenza immaginativa. L’immaginazione di costoro può comporre in modo eccellente immagini vere e simboliche. Siffatti uomini son perfetti nelle cose metafisiche per loro naturale abilità; ma se il lume dell’intelligenza non li soccorre, si perdono in molte ragioni fantastiche, a cagione della grande e varia attività della loro immaginazione; e perciò confondono il vero sapere con quello sofistico, si attengono ai ragionamenti probabili e se ne compiacciono, e abbondano nel ragionar d’argomenti retorici e politici, poiché la verisimiglianza di questi si fonda sull’immaginativa. Tali furono Eraclito e i suoi seguaci. Dotati d’ intelligenza e di provata scienza nelle cose civili furono invece Anassagora e Talete Milesio.
V’è inoltre una terza categoria di uomini i quali hanno un’ottima disposizione sì nell’intelletto che nell’immaginazione e nell’organo di questa. E costoro hanno immagini molto buone e ordinate, e son sempre apparecchiati ad apprendere con verità e certezza: siffatti uomini, per una felice disposizione di lor natura, sognano il vero, e, a differenza di altri, hanno visioni veraci, talché non di rado pronunziano perfino chiarissime profezie .
A far comprendere anche meglio il fondamento di siffatta teoria, Alberto si dilunga ad esporre e a correggere anzi tutto la tesi di Avicenna e d’Algazele, i i sulla ragione onde provengono siffatte differenze nelle anime umane , indi le opinioni in proposito di Averroè, d’Alfarabi e di Isacco Israelita, più consone al pensiero aristotelico . Quanto al pensiero di Avicenna e di Algazele, il luogo di Alberto è della massima importanza, perché Dante mostra di conoscerlo nel Convivio, ove si propone di spiegare come e per quali virtù «più pura [e men pura] anima si produce» in noi, e dove accenna all’opinione di coloro i quali dicono, se tutte le diverse «virtù s’accordassero ne la produzione d'un’anima ne la loro ottima disposizione, che tanto discenderebbe in quella de la deitade, che sarebbe un altro Iddio incarnato» .
Senza credersi proprio un altro Iddio incarnato, è certo che Dante si riteneva un uomo privilegiato,

non pur per ovra de le rote magne
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne,
ma per larghezza di grazie divine ;

sì che, se avesse seguito sua stella, non avrebbe potuto fallire a glorioso porto . Sua stella era la costellazione dei Gemelli che aveva presieduto alla sua nascita:

O gloriose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sla; il mio ingegno,

con voi nasceva e s’ascondeva vosco
quelli ch’è padre d’ogni mortal vita,
quand’io senti’ di prima l’aere tosco .

Quando lo spirito umano è disposto per sua natura, le forme di cui è piena l’intelligenza celeste, s’imprimono in esso ora durante il sogno ora durante la veglia. Alberto Magno, seguendo da presso il Dux neutrorum di Mosè Maimonide , distingue beni tredici modi secondo i quali la forma celeste «sigillatur in anima somniantis vel aliter praevidentis secundum sui diversitatem» . Il duodecimo di questi modi costituisce il primo grado della profezia di cui parlano i filosofi; e si verifica quando appaiono immagini espresse di cose future, come suole accadere durante la veglia, qualora i sensi si ritraggano dal mondo esterno e si raccolgano in se stessi. Chi si trova in questo stato, discerne le cose occulte e quelle che accadranno. Onde Ermete disse, che un uomo siffatto possiede lo spirito divino; e Socrate afferma che al tutto divina è tale ‘ conoscenza delle cose occulte. L’ultimo modo, in cui s'ha il più alto grado dello spirito profetico, si verifica quando l’uomo prevede le cose occulte per impulso delle intelligenze celesti, sì che ne ha una vera cognizione anche senza bisogno di astrarsi del tutto dai sensi.
A sì alto grado, cioè al conseguimento dell’abito profetico, secondo il concetto dei filosofi arabi e giudei, perviene solo chi è ottimamente disposto dall’ intelletto agente separato, ed ha ottenuto il dono d’un organo dell’immaginazione sano e perfetto, tale da somministrar all’intelletto le migliori immagini. Ma anche un uomo non riuscirà a profetare, finché non sì sia liberato dagli stimoli dei desideri corporei, dalla paura delle cose mutevoli, finché sarà preso dai piaceri che ci vengon di fuori, agitato dagli affanni e dalla tristezza. Se invece si dedicherà tutto alla virtù, specialmente a quella intellettuale, all'acquisto del sapere e alla vita ritirata, se avrà sgombrato l’animo tolo cure del mondo, e, cessando d’esser curioso di ciò che lo riguarda, si raccoglierà piuttosto in se stesso per attendere a quelle scienze nelle quali l'intelletto ha maggiormente bisogno d’appartarsi dai rumori del mondo sensibile, allora facilmente gli si rivelerà la bellezza celeste per mezzo di quegli influssi delle sfere superne, i quali governano il mondo delle cose che nascono e moiono.
Tale è, per Alberto Magno, la profezia a cui l’uomo può elevarsi col solo aiuto degli agenti naturali, senza un diretto intervento di Dio e un'ispirazione sovrannaturale. Socrate, per testimonianza d’Apuleio, sarebbe stato l'uomo veramente perfetto, dotato, per la buona disposizione della sua natura, di siffatto spirito profetico. Diversa dalla profezia naturale di cui trattano i filosofi, è quella soprannaturale, che è un dono dello Spirito Santo e della quale parlano i teologi .
Anche san Tommaso ammette che lo spirito umano possa arrivare a conoscere eventi futuri, in quanto sono nelle loro cause che siano oggetto di conoscenza naturale; ammette anche una certa capacità divinatoria a percepire nei sogni le sottili impressioni celesti che non sono avvertite durante la veglia ; anzi, nelle Quaestiones de veritate arriva perfino ad ammettere una tal quale profezia naturale intermedia tra il sogno e la profezia divina ; ma ha tutta l’aria di fare qualche concessione ad opinioni divulgate, senza esprimere alcun calore di convinzione. In realtà, v'è tra lui e Alberto Magno questa sostanziale differenza: per l’Aquinate non è possibile alla mente umana, in questa vita, arrivare a congiungersi direttamente colle intelligenze separate, la cui esistenza è conosciuta da noi soltanto per mezzo della loro azione sul mondo ; Alberto invece combatte espressamente questa tesi «quam fere sequuntur omnes modernorum latinorum», — dic’egli; — «sed isti in principiis non conveniunt cum Peripateticis». E peripatetici sono, per lui, Alessandro d’Afrodisia, Temistio, Avenpace, Avicenna, Algazele e Averroè, col quale ultimo dichiara in sostanza di trovarsi d’accordo, pur dissentendone per quel che concerne l’unità dell’intelletto .
Ad ogni modo, anche per Alberto la profezia di cui trattano i teologi, è dovuta a un dono sovrannaturale, cioè ad una rivelazione diretta di Dio . Questa è, pei teologi, la profezia concessa ad alcuni spiriti privilegiati dell'Antico Testamento, i quali furon da Dio messi a parte dei suoi disegni e de’ suoi segreti per il bene dell’umanità; questa, e non la profezia dei filosofi, è stata concessa agli Apostoli e a taluni santi della chiesa cristiana, ogni volta che a Dio è piaciuto di farlo pe’ suoi reconditi fini.
Ma anche nella visione profetica quale l’intendono i teologi, il più delle volte il profeta non vede la verità palesatagli da Dio, se non coll’aiuto d’immagini sensibili suscitate in lui ora nel sogno ora nella veglia. Solo in certi casi Dio imprime colla sua luce nella mente umana puri concetti sovrannaturali senza il sussidio d’immaginaria visione .
Al di sopra della profezia sta il rapimento (raptus), che importa una certa violenza, in quanto colui che è rapito dallo spirito di Dio è come avulso di viva forza dal mondo circostante, e trasferito a contemplare alcuni «intelligibilia alienata a sensibus, vel... aliquam imaginariam visionem seu phantasticam apparitionem» . Tale fu il rapfus di san Paolo, il quale fu innalzato sino a vedere l’essenza divina, in una tale alienazione dai sensi, da ignorare se la sua anima era ancora unita al corpo o n’era separata .
Aperta coi profeti dell'Antico Testamento, la serie di coloro ai quali Dio ha largito il dono della profezia, non è ancor chiusa. Poiché la rivelazione profetica non ha avuto il solo scopo di annunciare la venuta di Cristo, ma anche quello di raddrizzare i costumi degli uomini e d’insegnar loro il rispetto della legge divina . Anzi, secondo un detto del libro dei Proverbi , «cum prophetia defecerit, dissipabitur populus». Perciò, in ogni tempo, e prima e dopo Cristo, quando ve n’è stato bisogno, Dio ha suscitato uomini ai quali ha rivelato i suoi voleri e ha imposto di levare la loro voce «in pro del mondo che mal vive».
Uno di questi uomini dotati di spirito profetico era, per Dante, il calabrese abate Gioachino, checchè ne pensassero Bonaventura e Tommaso. Ed altri probabilmente anche dopo di lui aveano avuto da Dio la rivelazione delle cause del decadimento della chiesa. Qual meraviglia se anch’egli, Dante, raccolto a meditare sui mali ond’era travagliata l’umanità per implorarne da Dio il rimedio, egli che, edotto da una dolorosa esperienza e provato dalla sventura, non aveva perduto la fede nella provvidenza, ma anzi l’aveva sentita crescere ogni giorno più vigorosa, qual meraviglia, dico, se la sua speranza d’un rinnovamento umano, predisposto dalla volontà di Dio, prese forma di profetica visione, e se una voce interiore, risuonando alla sua coscienza, gli disse come al profeta Geremia: — Sorgi e parla, va, grida alle orecchie di Gerusalemme , — o come al profeta Ezechiele: — Figlio dell’uomo, va alla casa d’Israele e riporta ad essi le mie parole — ?
Meglio che all’abate Gioachino e agli altri riformatori religiosi, a lui Dio aveva fatto vedere la pianta due volte dispogliata, e gli aveva fatto conoscere la funzione che spettava all'impero nel rinnovamento sociale ch’egli attendeva. Egli e non Gioachino era dunque il nuovo profeta del Veltro, del messo di Dio, del quale «già stelle propinque, secure d’ogni intoppo e d’ogni sbarro» , preannunziavano e preparavano l’imminente venuta.
L’anima sua, nutrita di poesia fin dall’adolescenza, avea cantato d’amore in rime dolci e leggiadre; indi aveva provato le ali a più ardui voli spaziando nei cieli della filosofia; ora la lettura dei libri sacri le schiudeva un oceano sconfinato che mai non si corse. Novello Giasone, egli era spinto da una forza sovrannaturale a entrar nell’alto passo e a tentare un’impresa più meravigliosa di quella degli Argonauti ; sì che, ritornando in Firenze con altra fama da quella di nemico della sua patria, e con ben altro vello da quello rapito dai «gloriosi che passaro al Colco», egli meritasse dai suoi concittadini ravveduti d'esser qual si conveniva a chi aveva toccato le più egli mee accolto alte vette dalla poesia, e d’essere incoronato nel bel San Giovanni .
In ogni poeta veramente ispirato, c’è la natura del profeta, e il profeta è a suo modo un poeta. Per questo i poeti furon detti vati e interpreti degli dèi, e creduti parlare afflante numine; per questo ancora gli stessi teologi riconobbero quello che d’immaginario e fantastico v'è quasi sempre nelle visioni profetiche . Lo stesso intimo legame il Boccaccio scopriva tra poesia e teologia, «dove uno medesimo sia il suggetto», sino a ritenere che «la teologia niun’altra cosa è che una poesia di Dio»; e a conferma del suo dire citava la testimonianza d’Aristotele, secondo il quale i poeti teologizzanti furono i primi sapienti del genere umano .
Il profeta, sia esso Mosè o Maometto, Ezechiele o l’abate Gioachino, è l'uomo che, raccogliendosi a meditare sulle condizioni storiche del suo popolo, avverte il travaglio profondo e le aspirazioni d’un’epoca, ne intuisce le forze latenti, ne divina lo sviluppo, presentendo il fatale scioglimento del dramma sociale di cui vive la passione. Di questo dramma egli non è solo inerte spettatore, ma spesso attore non secondario. la cui parte è quella d’incitare i volenti, denunciare e sferzare i malvagi, additare la mèta segnata da Dio.
Il suo linguaggio non è l’astuto e circospetto parlare dell'uomo politico, né il pacato ragionare del filosofo; dall'interno fuoco che l’arde, salgono al suo labbro parole concitate e roventi, comandamenti e minacce; i suoi pénsieri s’incarnano in vivide immagini, le vicende umane passate e gli eventi ancor non nati affluiscono alla sua fantasia a formare la drammatica visione che lo rapisce.
Non artificio letterario, ma vera visione profetica ritenne Dante quella concessa a lui da Dio, per una grazia singolare, allo scopo preciso che egli, conosciuta la verità sulla cagione che il mondo aveva fatto reo, la denunziasse agli uomini, manifestando ad essi tutto quello che aveva veduto e udito. Altra volta aveva creduto di poter correggere gli errori diffusi nel mondo per mezzo di ragionamenti filosofici; e con questa fiducia s’era accinto a scrivere il Convivio e la Monarchia, che avrebbero procacciato fama a lui e giovamento.
Ora i concetti filosofici d’un tempo, elaborati nelle veglie sull’Etica a Nicomaco, perdevano la loro astrattezza per assumere forma concreta in precisi lineamenti di figure umane. Così la lussuria diventava realtà vivente in Francesca, conquisa dalla baldanzosa passione e dal ricordo dell’istante in cui fu vinta e dannata insieme al compagno; in Brunetto Latini che viola la legge di natura, al pari di Prisciano, di Francesco d’Accorso, d'Andrea de’ Mozzi e d’altri «cherci e letterati grandi e di gran fama»; in Guido Guinizelli che insieme ad Arnaldo Daniello sconta nel fuoco che affina l’aver seguito l’appetito naturale come bestie; in Cunizza da Romano che, dominata dal lume della stella di Venere, ha espiato i trascorsi della gioventù volgendo il suo amore dalle cose caduche a Dio. Allo stesso modo, la gola assumeva le varie fisionomie morali di Ciacco, di Forese, di papa Martino IV che «purga per digiuno l’anguille di Bolsena e la vernaccia»; la pigrizia s’incarnava nel liutaio fiorentino Belacqua che anche sul balzo del Purgatorio motteggia la fretta di Dante: «Or va tu su, che se’ valente!»; la baratteria in Bonturo, in Fra Gomita, in Michele Zanche; la ruffianeria in Venedico Caccianemico che conduce la sorella a far la voglia del marchese d’Este; le discordie e gli scismi in Fra Dolcino, in Pier da Medicina, in Mosca de’ Lamberti, in Bertram del Bornio, e via di seguito.
Con questo vantaggio, che, mentre i vizI e le virtù, di cui parlano i trattatisti di morale, sono astrazioni irreali, perché mancano di limite, le figurazioni dantesche hanno invece i contorni di ciò che è vivo e determinato e una fisionomia schiettamente individuale. Francesca è la donna vinta dalla passione amorosa; ma essa ha amato in circostanze particolari, e il poeta non può condannare la colpa de’ due cognati senza un sospiro di pietà, ripensando ai dolci pensieri e al disio che li menò al doloroso passo. Farinata è l’eretico e orgoglioso ghibellino, ma è anche il cittadino che ama la sua patria e s’oppone a che sia distrutta. Nella sua alterigia v’è anche della nobiltà e grandezza d’animo. Brunetto non è soltanto un sodomita, è anche l’autore del Tesoro, quello che insegnava come l’uomo s’eterna. Ulisse non è solo un tessitor di frodi, è altresì l’ardito esploratore dall’insaziata brama di sapere, pronto a scagliar la sua vita nell’ignoto, per «divenir del mondo esperto e delli umani vizi e del valore». Superbo è Provenzan Salvani, eppure per amor d’un amico in pena s’umilia ai senesi. Ugolino aveva voce di traditor della patria; ma quanta angoscia nella sua agonia, mentre i figli cadono estenuati dalla fame intorno a lui! Ed ecco Guido da Montefeltro a colloquio segreto col «principe de’ nuovi farisei». Il condottiero che gli accorgimenti e le coperte vie seppe tutte per debellare i suoi nemici, si presenta al gran prete vestito del saio della penitenza che Bonifacio stesso gli aveva donato, quando pentuto e confesso chiese d’espiare le violenze e le frodi. Che cosa indusse Dante a rivedere il giudizio che nel Convivio aveva espresso intorno a «lo nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano», per aver calato «le vele de le mondane operazioni» ed essersi reso a religione nella tarda età, «ogni mondano diletto e opera disponendo»? . Quali voci erano corse, sì che Dante ne fosse spinto a costruire il drammatico colloquio segreto del frate col papa, senza meritar la taccia di calunniatore d’entrambi? È probabile che quanto vien riferito da Riccobaldo ferrarese intorno al «consiglio frodolente», non derivi affatto dall’episodio dantesco, ma renda anzi testimonianza di voci che correvano e che Dante raccolse . Ma quello che v'è di più orrido nell'episodio dantesco non è tanto il «consiglio frodolente», quanto il particolare dell'assoluzione d’un peccato non ancora commesso, e del quale è promessa la remissione mentre permane la mala volontà. A intendere questo particolare ritengo possa non poco aiutarci quanto scriveva fra Ubertino da Casale nel 1305. Nell’Arbor vitae crucifixae , fra Ubertino accenna alla guerra che papa Bonifazio fece ai due cardinali Colonna, e riferisce:

Facta tanta praedicatione per mundum per pseudoprophetas, quod ipse erat legitimus papa, et quod illi duo milites Christi et cardinales catholici cum omnibus eos sequentibus erant patareni, et quod omnium peccatorum dabatur euntibus ad eos capiendum, occidendum, et diripiendum bona ipsorun, et ipsis fugatis et castris eorum destructis, ipsis fugientibus de mundi aspectu, totus nundus cepit flectere colla et bestialem eius auctoritatem adorare et dicere: Quis unquam inter papas fuit huic similis in potentia, et quis poterit pugnare cum eo, si istos tam inclytos et tam potentes fugavit de mundo?

Il fatto della crociata bandita contro i colonnesi, condannati e dichiarati ribelli ed eretici, è storico. Niente d’inverosimile che gli agenti del papa promettessero la remissione di tutti i peccati a coloro che avessero prese le armi contro uomini che con régolare sentenza più volte pronunziata erano stati messi al bando.
Dante parrebbe aver riflettuto su questa circostanza, e aver preso da essa lo spunto a costruire l’episodio dell’assoluzione:

E poi ridisse: «Tuo cuor non sospetti:
finor t’assolvo, e tu m’insegna a fare
sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss’io serrare e disserare,
come tu sai; però son due le chiavi
che ’l mio antecessor non ebbe care» .

E Guido che si fidò dell’assoluzione datagli dal papa, è dannato fra i «rei del foco furo». Invece il figlio di lui, Buonconte, che «forato nella gola, fuggendo a piede e ’nsanguinando il piano», finisce pentito de’ suoi peccati col nome di Maria sulle labbra, si salva anche senza l’assoluzione del sacerdote, e l’anima sua è raccolta dall’angel di Dio . Allo stesso modo Manfredi, morto in contumacia di Santa Chiesa, per essersi pentito all'ultimo momento, ha meritato da Dio quel perdono che gli era negato dai preti:

Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
Se ‘l pastor di Cosenza, che alla caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia della grave mora...
Per la maladizion sì non si perde,
che non possa tornar l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde .

Chi poteva dare ad un credente della tempra di Dante, che protestava la sua riverenza per le somme chiavi , che nel pastor della chiesa additava la guida dei cristiani , che perfino in Bonifacio insultato ad i Anagni vedeva lo stesso «Cristo esser catto» , chi i poteva dargli tanto ardire di erigersi a giudice di papi e di prelati, di accusarli apertamente di avarizia e di simonia, di dichiararli «in veste di pastor lupi rapaci» , di attribuire ad essi «la cagion che il mondo ha fatto reo» , di riempirne il cerchio degli avari, di conficcare nel pozzo dei simoniaci Nicola III, Bonifacio VIII, Clemente V, che avrebbe fatto «quel d’Alagna andar più giuso» , se non la coscienza di un alto dovere ch'egli avesse proprio come credente, se non la voce di Dio che risuonava al suo spirito e gl’imponeva di parlare, se non la certezza che la visione dei tre regni d’oltre tomba gli era concessa, perché egli si facesse annunciatore della nuova redenzione?
È questo profetico zelo che anima le parole del santo abate di Fonte Avellana .

Venne Cefàs e venne il gran vassello
dello Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello.
Or voglion quinci e quindi chi i rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e di retro li alzi,
Copron de’ manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sotto una pelle:
oh pazienza che tanto sostieni!

A Pier Damiano fanno eco gli spiriti beati accolti intorno a lui con «un grido di sì alto tuono», chiedere a Dio quella vendetta che Dante vedrà prima di morire .
Un ugual profetico zelo ispira il santo patriarca Benedetto :

Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria...
Pier cominciò sanz'oro e sanz’argento,
e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento.
E se guardi il principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov’ è trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno!
Veramente Iordan volto retrorso
più fu, e’l mar fuggir, quando Dio volse,
mirabile a veder che qui’l soccorso.

Se Dio compiè il miracolo di far volgere indietro il Giordano e di far fuggire il Mar Rosso, come canta un Salmo ben noto a Dante, lo stesso onnipotente Iddio con un nuovo miracolo verrà al soccorso della sua chiesa riconducendola all’ideale evangelico, poiché nello stesso Salmo si legge : «La casa d’ Israele sperò nel Signore; esso è suo aiuto e sostegno».
E che altro se non un profetico zelo muove lo sdegno di san Pietro contro colui che usurpa in terra il soglio pontificale? Anche la sua violenta invettiva termina col presagio che la divina provvidenza verrà tosto in aiuto al genere umano:

Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
de’ nostri successor parte sedesse,
parte dall’altra del popol cristiano;
nè che le chiavi che mi fur concesse
divenisser signaculo in vessillo
che contra battezzati combattesse;
nè ch’io fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci
ond’io sovente arrosso e disfavillo.
In vesta di pastor lupi rapaci
si veggion di qua su per tutti i paschi:
o difesa di Dio, perchè pur giaci?
Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s’apparecchian di bere: o buon principio,
a che vil fine convien che tu caschi?
Ma l’alta provedenza che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo,
soccorrà tosto, sì com’io concipio .

Nel ricordo di Scipione messo in bocca di san Pietro, di «quel bendetto Scipione giovane» che francò Roma dalla minaccia cartaginese , c’è tutto lo spirito della Divina Commedia, ove il poema virgiliano è considerato quasi un libro sacro, la Bibbia dell'impero, e la visione d’Enea è messa quasi sullo stesso piano della visione di san Paolo.
La stessa profetica certezza d’un imminente rinnovamento vibra nelle parole di Folco : il papa non pensa più alla liberazione della Terra Santa, bensì ad ammassar fiorini, il maledetto fiore che produce e diffonde pel mondo Firenze, la figlia di Satana.

La tua città, che di colui è pianta
che pria volse le spalle al suo fattore
e di cui è la’nvidia tanto pianta,
produce e spande il maladetto fiore
c’ha disviate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore.
Per questo l’Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, sì che pare a’lor vivagni.
A questo intende il papa e’ cardinali:
non vanno i lor pensieri a Nazarette,
là dove Gabriello aperse l’ali.
Ma Vaticano e l’altre parti elette
di Roma che son state cimitero
alla milizia che Pietro seguette,
tosto libere fien de l’adultèro.

Ma se alla gente di chiesa son dirette le più aspre invettive del poema sacro, come a quella che ha maggior colpa dei presenti disordini, per aver posto mano alla predella, non son risparmiate per questo amare rampogne agli ultimi imperatori che, per cupidigia delle cose di Germania, han lasciato che il giardin dell’imperio sia deserto, mentre Roma, vedova e sola, dì e notte chiama il suo Cesare che l’ha abbandonata alla mercè degli avidi pastori della chiesa. Giusto giudicio divino è dichiarato l’assassinio d’Alberto tedesco, perché con esso Dio ha voluto punire la colpevole negligenza dei principi d'Asburgo e incuter timore al loro successore . E mentre Rodolfo imperatore, «che potea sanar le piaghe c’ hanno Italia morta», sconta la sua grave negligenza in Purgatorio , Alberto è ricordato per primo tra i re perversi che, pur essendo-cristiani, meriteranno d’esser condannati, al giudizio finale, dai popoli che non conobbero il cristianesimo. La rassegna di siffatti principi ci offre uno sguardo panoramico delle corti dell’Europa cristiana quali apparivano alla coscienza morale di Dante :

Che potran dir li Perse a’ vostri regi,
come vedranno quel volume aperto
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?
Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto,
quella che tosto moverà la penna,
per che’l regno di Praga fia deserto.
Lì si vedrà il duol che sovra Senna
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.
Lì si vedrà la superbia ch’asseta,
che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
sì che non può soffrir dentro a sua meta.
Vedrassi la lussuria e ’l viver molle
di quel di Spagna e di quel di Boemme,
che mai valor non conobbe nè volle.
Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme
segnata con un’I la sua bontate,
quando ‘l contrario segnerà un’emme.
Vedrassi l’avarizia e la viltate
di quei che guarda l’isola del foco,
ove Anchise finì la lunga etate:
e a dare ad intender quanto è poco,
la sua scrittura fian lettere mozze,
che noteranno molto in parvo loco.
E parranno a ciascun l’opere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia
nazione e due corone han fatte bozze.
E quel di Portogallo e di Norvegia
lì si conosceranno, e quel di Rascia
che male ha visto il conio di Vinegia,
Oh beata Ungheria se non si lascia
più malmenare! e beata Navarra
se s'armasse del monte che la fascia!
E creder de’ ciascun, che già, per arra
di questo, Nicosia e Famagosta
per la lor bestia si lamenti e garra,
che dal fianco dell’altre non si scosta.

Fra tutti i principi cristiani «sviati dietro al malo esemplo» dei pastor della chiesa, tengono un triste primato i discendenti di Ugo Capeto, «radice della mala pianta che la terra cristiana tutta aduggia» . I re di Francia erano stati i primi a disconoscere la giurisdizione universale dell'impero e ad opporsi alla missione di pace e di giustizia dell’Unto di Dio sul mondo intero.
E come i re, anche i feudatari e i signori della padana, da quando le città si ribellarono alla maestà imperiale, han tralignato dai loro antenati quali «solea nei valore e cortesia trovarsi». Ora ogni tristo può passare per quei luoghi senza arrossire; e se qua che signore dabbene vi si trova ancora, si sente talmente a disagio da pregar Dio di trarlo a miglior vita . E non solo la casa di Calboli è rimasta senza erede del valor di Rinieri, ma tutta la Romagna, «tra ‘l Po e ’l monte e la marina e ’l Reno», è ripiena

di venenosi sterpi, sì che tardi
per coltivare omai verrebber meno.

Quando ripensa a quello che furono i nobili romagnoli de’ suoi tempi, e ricorda
le donne e’ cavalier, gli affanni e li agi
che ne ’nvogliava amore e cortesia,
là dove i cuor son fatti sì malvagi,

lo spirito di Guido del Duca non sa esprimere migliore augurio, se non che le famiglie signorili della sua terra s’estinguano presto; e intanto il pianto gli serra la gola e gli toglie di parlare più oltre .
E che dire degli abitanti della valle dell'Arno, dalle pendici dell'Appennino alla foce? Essi fuggono la virtù come si fugge per ribrezzo una biscia:

Ond’hanno sì mutata lor natura
li abitator della misera valle,
che par che Circe li avesse in pastura.
Tra brutti porci, più degni di galle
che d’altro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.
Botoli trova poi, venendo giuso,
ringhiosi più che non chiede lor possa,
e da lor disdegnosa torce il muso.
Vassi caggendo; e quant’ella più ‘ngrossa,
tanto più trova di can farsi lupi
la maladetta e sventurata fossa.
Discesa poi Per più pelaghi cupi,
trova le volpi sì piene di froda
che non temono ingegno che le occupi .

Il centro di Questa sventurata valle è occupato Una trista da selva ; Firenze, la città fondata dal diavolo , la grande città il cui nome si spande per l’inferno più di qualsiasi sinistro altra , e che paga a Dite più sinistro tributo. Usurai e ladri, seminatori di discordie e traditori, due eretici e ben cinque sodomiti d’alto rango rappresentano largamente, fra i dannati della rispettiva categoria, le diverse classi sociali del popolo fiorentino. Eppure non era così, due secoli prima, quando Firenze, dentro l’antica sua cerchia di mura, se ne stava in pace, cinta di piccolo territorio, sobria e pudica, non ancora guasta dalla smodata brama di guadagni, dalla discordia civile e dalla raffinata lussuria. Il magnanimo vecchio Cacciaguida proietta sullo schermo di quelli che furono i suoi tempi, l'ideale di vita laboriosa raccolta e tranquilla che piace al nipote:

Bellincion Berti vid’io andar cinto
di cuoio e d’osso, e venir dallo specchio
la donna sua sanza il viso dipinto;
e vidi quel de’ Nerli e quel del Vecchio
esser contenti alla pelle scoperta
e le sue donne al fuso ed al pennecchio.
Oh fortunate! ciascuna era certa
della sua sepultura, ed ancor nulla
era per Francia nel letto diserta.
L’una vegghiava a studio della culla,
e, consolando, usava l’idioma
che prima i padri a le madri trastulla;
l’altra, traendo alla rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
de’ Troiani, di Fiesole e di Roma .

Ora invece una gente nuova, venuta dal contado, ha contaminato la pura razza dei fiorentini, obbligati per questa invasione a

sostener lo puzzo
che villan d’Aguglion, di quel da Signa
che già per barattare ha l’occhio aguzzo .

Ora sfacciate Cianghelle e intriganti Lapi Saltarelli tengono il posto delle oneste madri di famiglia e dei disinteressati uomini di governo d’un tempo .
E la cagione di questa decadenza? Ancora una volta la gente di chiesa, «la gente ch’al mondo più traligna» . Essa, osteggiando l'impero, ha impedito che questo esercitasse in Italia la funzione moderatrice del «cavalcatore de l’umana volontà» , al quale Dio ha ordinato di tenere a freno la cupidigia.
La stessa gente di chiesa, da che ha posto mano alla predella e ha impedito a Cesare di sedere in la sella, è stata cagione della rovina delle altre città italiane, ove ha aizzato le discordie civili, anzi di tutta l’Italia, ostello di dolore, nave senza nocchiero in gran tempesta, non più donna di province, come quando era corretta dagli sproni, ma bordello:

Ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei che un muro ed una fossa serra.
Cerca, misera, intorno dalle prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
Che val perchè ti racconciasse il freno
Iustiniano se la sella è vota?
Sanz’esso fora la vergogna meno .

Tale visione che Dante ha del suo tempo, culmina nell’apocalittica figurazione della pianta edenica due volte derubata, del carro della chiesa trasformato in mostro dalle sette teste, sul quale «secura, quasi rocca in alto monte», siede la «puttana sciolta colle ciglia intorno pronte» . E quindi subito la promessa del liberatore, e il comando a Dante di farsene annunciatore senza paura e senza ambagi:

Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com’om che sogna.
Sappi che ’l vaso che’l serpente ruppe
fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.
Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aquila che lasciò le penne al carro,
per che divenne monstro e poscia preda;
ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’intoppo e d’ogni sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque .

Dopo la figurazione apocalittica nell’Eden, la visione profetica di Dante si trasforma in un raptus di lui al cielo. Se nella discesa entro il barato infernale e nella salita su pe’ balzi del Purgatorio gli era bastata la guida di Virgilio che aveva cantato l’andata d’Enea all’Eliso, ora solo la donna beata nella luce di Dio può condurlo su, di cielo in cielo, a contemplar la gloria di colui che tutto muove, nell’Empireo. Per visitare il regno de’ morti gli era bastato di calcare le orme d’Enea; per ascendere al cielo, egli deve affidarsi a san Paolo nel suo rapimento fino al trono di Dio. E all’Apostolo egli effettivamente pensa, come abbiamo visto, quando dichiara di non sapere se soltanto coll’anima oppure in anima e corpo Dio lo aveva innalzato col lume della sua grazia, traendolo fuori «dal mortal mondo». Come san Paolo anch’egli ha visto e udito cose misteriose «quae non licet homini loqui», «che ridire nè sa nè può chi di là su discende»
V’è di più. Come san Paolo era predestinato da Dio, ugualmente predistinato è lui, Dante, profeta del grande rinnovamento. A chi come a te – esclama il glorioso vecchio Cacciaguida – è stata mai dischiusa due volte la porta del cielo? E Beatrice gli annunzia, nell’Eden:

Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano .

«Prima che tu a queste nozze ceni», l’assicura ancora Beatrice, indicandogli il «convento delle bianche stole» e il gran seggio nel quale sederà l’anima augusta dell’alto Arrigo . Dante, insomma, non soltanto spera, come ogni cristiano, ma è certo della sua salvezza, che gli è annunziata da questi due spiriti beati.
Ora egli sapeva bene che la predestinazione è un mistero imperscrutabile, noto soltanto a Dio. Noi stessi che vediamo l’essenza divina, — dicono gli spiriti beati che forman l’immagine dell'Aquila, — «non conosciamo ancor tutti li eletti» . I predestinati, secondo il comune insegnamento dei teologi medievali, non hanno alcuna conoscenza certa né di trovarsi in grazia di Dio né della salvezza che sperano. Soltanto ad alcuni, per un singolare privilegio, ciò è stato rivelato, affinché la certezza della beatitudine eterna dia ad essi forza e fiducia a proseguire in qualche magnifica impresa e a sopportare le avversità della vita . Questa rivelazione appunto è stata fatta a Dante, perché ne prendesse animo a denunciare i mali che travagliavano l’umanità e ad annunziare il rimedio che Dio aveva deciso di porvi. Chi mai senza questa interiore certezza della sua predestinazione avrebbe osato accingersi a scrivere la Divina Commedia?
Poesia, e poesia altissima, è certamente il poema dantesco, come permeati di poesia sono i libri profetici della Bibbia; ma il motivo centrale che anima siffatta poesia è un motivo morale e religioso, sì che chi considera la visione dantesca e il rapimento del poeta al cielo come finzioni letterarie, travisa il senso di quello che per Dante è, prima di tutto, «poema sacro», perché inteso a narrare la meravigliosa rivelazione concessa allo spirito del poeta da Dio.
Si deve dunque credere colle donnicciole di Verona, che Dante scendesse davvero all’Inferno, e davvero salisse all’Empireo? Non precisamente questo; bensì che Dante credette gli fossero mostrati in visione l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso terrestre, come veramente sono nella realtà; gli fosse concesso per grazia di discendere nella città di Dite, di guadagnare la vetta della montagna edenica, e di sentirsi rapito al cielo sino a vedere il trionfo di Cristo e a pregustare la beatitudine eterna. Se non che, ammettendo una simile «allucinazione», non «s’ introdurrebbe nel genio di Dante una troppo grande mistura di demenza», in contrasto «alla limpidezza e consapevolezza della mente e dell’animo di lui?» . Quanto all’«allucinazione», credo che non sia gran che più straordinaria di quella di chi vede gli «oggetti» della propria esperienza, posti fuori dell’atto dell’esperienza stessa. E posta questa prima illusione, che è poi quella della coscienza comune, non vedo quale demenza ci sia ad ammettere l’esistenza di altri «oggetti» di là dall’esperienza ordinaria, dei quali sia possibile una più profonda esperienza. Questa più profonda esperienza è quella religiosa. Come tutti ci rappresentiamo un mondo fisico e lo pensiamo dapprima posto fuori di noi, così ci rappresentiamo in varie fogge certe cause di questo mondo fisico, e pensiamo che dall’azione di queste cause dipenda l’esistenza degli oggetti che ci circondano e la nostra stessa esistenza. Come nell’affermazione d’oggetti posti fuori di noi c'è un’affermazione, cioè un pensiero, incompleto, rudimentale fin che si vuole, ma un pensiero, così c’è un pensiero nell’affermazione d’un primo motore immobile, d’un Dio creatore, d'una provvidenza divina, d’un governo divino del mondo, e in tutte quelle affermazioni che si connettono con queste o con altre consimili. E che importa che il pensiero umano non si fermi in queste posizioni, e che anzi da queste stesse affermazioni nascano problemi per risolvere i quali è condotto ad altre e più persuasive affermazioni, per le quali l’«oggetto» dell’esperienza si risolve nell’atto stesso dell'esperienza e la causa prima cercata fuori si scopre entro di noi? Questa è appunto la natura del nostro Spirito «che a sommo pinge noi di collo in collo» ; sì che quello che prima ci apparve vero, ora è superato da una più alta verità. E che altro è la storia se non questo svolgimento del pensiero attraverso successive posizioni e momenti? E che altro è il pensiero se non questo continuo superamento di posizioni divenute insostenibili, se non questa ascesa verso più ardue vette? Che altro è pensare, insomma, se non risolvere un problema?
Si dirà, ed è stato detto, che la religione è identica col mito, cioè coll’universale fantastico, e il mito è una filosofia fallace che viene rettificata dalla filosofia vera, la quale libera il concetto puro da ogni elemento fantastico . Ma il concetto puro è un limite verso cui tende lo spirito umano; e mentre questo crede di raggiungerlo ad ogni momento, appena si posa in esso «come fera in lustra», un nuovo dubbio, un nuovo problema viene a turbare la quiete del pensiero che stava per addormentarsi e lo costringe a ripigliare la marcia. Se il concetto puro fosse conquistato una volta per sempre, il moto del pensiero s’arresterebbe. Questa è la ragione perché nella storia della filosofia, ogni pensatore si propone di liberare le dottrine di chi l’ha preceduto da qualche elemento o residuo di mitologismo. Così ha fatto il Croce per Vico e per Hegel. «E forse è nato», anzi senza forse, chi pretende di snidare dal sistema della «Filosofia dello spirito», non pochi residui di mitologismo, quello, per esempio, della «vera filosofia».
«La teologia è filosofismo», dice il Croce, «perché opera con concetti vuoti di ogni contenuto storico ed empirico e trasforma il mito in domma» . Ma se il mito della creazione d’Adamo, della sua disobbedienza a Dio e della sua cacciata dal Paradiso conteneva talune affermazioni, ciò significa che queste bastavano a risolvere quei dati problemi che lo spirito umano s’era posto ad un certo momento del suo sviluppo, e che quei problemi e le rispettive soluzioni rispecchiano quel preciso momento nel quale quei problemi si affacciarono allo spirito e quelle soluzioni lo appagarono. E quelle soluzioni fecero sorgere nuovi dubbi e cercare nuove risposte. Ora non è questo succedersi di sempre nuovi problemi e di sempre più soddisfacenti soluzioni, in questo continuo e progressivo chiarificarsi, che consiste lo svolgimento dello spirito umano, la sua storia? E allora come può dirsi che il mito del peccato originale; della cacciata d’ Adamo dal Paradiso, dell’incarnazione del figlio di Dio per redimerlo, e altri e consimili miti dei quali milioni e milioni di uomini per millenni si sono appagati per risolvere il problema del male, dell’origine e dei destini dell’umanità, e che essi via via hanno modificato e perfezionato, adattandoli all’accresciuto grado di civiltà e di cultura, siano «concetti vuoti d’ogni contenuto storico ed empirico»?
In realtà filosofia e teologia son la stessa cosa: vi son tanti miti in Platone e in Aristotele quanti ve ne sono in sant’Agostino e in san Tommaso; e la dottrina dei due pensatori cristiani segna un effettivo progresso su quella dei due greci. La religione non ha bisogno di risolversi in filosofia, perché è essa stessa una filosofia, cioè una visione della realtà che appaga in un certo momento storico lo spirito umano. L’opposizione tra religione e filosofia di cui talora si parla, e il superamento della religione per opera della filosofia, non sono altro che opposizione tra due pensieri o due sistemi di pensiero, e superamento d’una concezione della vita, meno chiara e meno persuasiva, da parte d’una E concezione più rispondente ai bisogni dello spirito. Il cristianesimo s’oppose dapprima all’ intellettualismo filosofico dei greci, ma poi fini coll’assorbire e risolvere «in sè, cioè in una nuova e più alta visione della vita e del mondo, il platonismo e l’aristotelismo. E quando, più tardi, l’aristotelismo e il platonismo sembrarono risorgere contro la teologia cristiana, in realtà si trattava di nuove esigenze del pensiero che la teologia medievale era incapace di soddisfare.
Se demenza era il credere, da parte di Dante, che Dio gli aveva svelato «la cagion che il mondo ha fatto reo» e insieme l'imminente venuta d’un messo di Dio a ricondurre l’umanità sulla retta via; se demenza era il sentirsi predestinato ad annunciare la nuova redenzione, dobbiamo confessare che di demenza è impastata la psicologia religiosa; e dementi furono del pari Mosè, Zarathustra e Maometto, dementi Geremia, Ezechiele e san Paolo, non meno del protomartire Stefano e dell’autore dell’Apocalisse, dementi i più grandi spiriti dell’islamismo e del cristianesimo medievale; dementi quanti attestarono la risurrezione di Cristo e la sua ascensione alla gloria del cielo, e la loro fede accesero nel cuore delle moltitudini; dementi, insomma, quanti si son creduti investiti d’una missione ed han sentito gravare sulle loro spalle un fato divino.
La differenza che v’è tra una finzione poetica, poema o romanzo che sia, e la visione dantesca, è questa, che chi narra le avventure d’ Ulisse, d’Enea o di Renzo e ‘Lucia, ha coscienza che quello che narra è finzione poetica, cioè «bella menzogna»; Dante invece tratta gli oggetti della sua visione come realtà.
Si dirà che talora Dante stesso invita i lettori a mirare «la dottrina che s’asconde sotto ’l velame de li versi strani» , e ad aguzzare «ben li occhi al vero», perché la mente possa «trapassar dentro» al velo che Io ricopre . Se non che questa avvertenza Dante fa solo a proposito di talune apparizioni che non hanno altra realtà che quella allegorica. Ma il viaggio dantesco e il rapimento che lo conclude, prima del significato allegorico vogliono averne uno letterale o «istoriale».
Non solo per Dante, come per ogni credente del suo tempo, sono una realtà, e non semplice rappresentazione poetica, i tre regni d’oltre tomba, ma essi occupano un determinato spazio nell’universo, in connessione colla rimanente realtà naturale. Perciò si discuteva tra i teologi sul sito ove si trovano l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso terrestre e quello celeste. E come comunemente s’ammetteva che i beati godono della visione beatifica di Dio nell’ Empireo, così i più ritenevano, secondo un'antica opinione, che il luogo dei dannati fosse una cavità sotterranea intorno al centro della terra che era anche il centro dell’universo. Della quale opinione Guglielmo Alverniate, che fu vescovo di Parigi, dà questa ragione fisica, che ritengo getti non poca luce anche sul concetto di Dante:

In medio terrae est ultimitas elongationis a luce, similiter densitatis et grossitiei; nec est somniare corpus grossius vel magis resistens lumini; quare si sedes prin- cipis tenebrarum in mundo isto est, ibi eam esse necesse est; quare, quemadmodum terra est faex omnium corporum et locus ille faeculentior ac vilior, ita habitatores loci illius quasi faex sunt omnium substantiarum spiritualium, si locus eorum ibi est, et ipse etiam (princeps tenebrarum) faex vilissima in imo loci illius resideat .

E molte congetture teologi e cosmografi avevano fatto parimente intorno al sito del Paradiso terrestre. Dante accoglie la tesi, attribuita a Beda e diffusa dalla glossa ordinaria di Valafredo Strabo, secondo la quale l’Eden è posto su una montagna ergentesi fino alla luna, in un luogo circondato dall'oceano e situato nella regione opposta alla terra abitata .
Appunto perché la cavità infernale e la montagna dell’Eden sono una realtà fisica sulla terra, Dante ha dovuto porsi il problema della loro formazione miracolosa. La terra da pria emergeva dalle acque nell’emisfero australe. Perché? Perché l’emisfero australe è la parte più nobile del mondo. Siffatta affermazione Averroè aveva tratto a fil di logica dai principî posti da Aristotele. Questi, nel De caelo , aveva comparato le diverse parti del mondo alle parti dell'organismo umano, distinguendo in esso una destra e una sinistra, un alto e un basso. Destra è la parte del mondo dalla quale ha principio la circolazione diurna del cielo, cioè l’oriente; sinistra, l’occidente. Stabiliti questi due punti di riferimento, ne viene che il polo antartico corri- sponda, nell’uomo, alla testa, e il polo artico ai piedi; perciò il primo si trova di sopra (sursum), e il secondo è di sotto (deorsum). Ora, come alle parti superiori del corpo umano corrispondono le più nobili facoltà dell’anima, così l'emisfero antartico possiede più nobile e forte virtù . In esso sono, secondo Dante, le «quattro stelle non viste mai fuor ch’alla prima gente» , le quali, colle loro influenze, determinano nell’uomo quelle buone disposizioni naturali su cui si fondano le quattro virtù cardinali . È naturale quindi che la prima terra emersa, apparecchiata ad accogliere l’uomo, si trovasse nell'emisfero australe. Ma la caduta di Lucifero sconvolse il globo terrestre; e in questo sconvolgimento, la terra si spostò verso l’emisfero boreale, si formò la cavità infernale e la montagna dell'Eden s'aderse al cielo .
Allo stesso modo per spiegare l’origine di talune: rovine infernali, il poeta ricorre allo scotimento della terra per la morte di Cristo , attestato dal Vangelo di san Matteo , e che perciò è, per lui, fatto reale e non immaginazione poetica. Né sono immaginazione poetica le pene dei dannati e delle anime purganti che gli son mostrate. «Come si può far magro là dove l’uopo di nodrir non tocca?» domanda egli alle sue guide, all’uscita del sesto girone del Purgatorio, dopo aver visto le sembianze smunte di Forese, di Bonagiunta e del ghiotto papa Martino. Per soddisfare alla qual domanda, Stazio sciorina un’ingegnosa teoria filosofica, ricavata dagli scritti d’Alberto Magno, e storicamente importantissima, sull’origine dell’anima umana e sull’attività che questa spiega nella formazione del corpo terreno, di qua, e di quello aereo, di là, nell’Inferno e nel Purgatorio . Realtà fisica è altresì il vento di cui risuona la selva edenica, sì che l’aere vivo s’impregna della virtù di quelle antiche piante, e la diffonde su «l’altra terra», lungi dal Paradiso Terrestre. E Dante n’è tanto persuaso, che si serve di siffatta dottrina per risolvere il problema fisico, come possano nascere sulla nostra terra nuove piante «sanza seme palese» .
E costituisce un problema fisico, per lui, anche il suo rapimento al cielo: com’è possibile, con un corpo terreno, che tende per natura al basso, verso il centro della terra, salire al di sopra dei due corpi leggeri quali sono l’aria e il fuoco?
A risolvere il qual problema, Dante muove dalla dottrina dell’«impeto primo» che, secondo lo pseudo aristotelico libretto De bona fortuna, v'è in ogni cosa, a guisa d'istinto naturale, verso quella mèta che ad essa è stata assegnata nell’ordine cosmico voluto da Dio, il quale è il fine supremo a cui tutte le cose tendono e tutte muove come bene da esse desiderato . Quest’«impeto primo» che fa di tutte le cose altrettante frecce scagliate dall’arciere divino verso un eterno bersaglio, spinge anche l’anima umana a staccarsi dalla terra per ricongiungersi a Dio suo principio. A questo ritorno, come l’aveva chiamato Boezio , s’oppone il peccato che inchioda il nostro affetto alle cose terrene e tarpa le ali al desiderio naturale. Ma quando l’uomo ha riconquistato la piena signoria di sé ed è ormai libero da ogni affetto terreno, non è più possibile per lui restar sulla terra; la sua ascesa al mondo divino è cosa naturale come il precipitare d’un ruscello «d’alto monte... giuso ad imo» , come il muoversi del fuoco verso l’alto «per la sua forma ch’è nata a salire» .
Altro problema fisico, connesso col dubbio che al cielo egli possa esser salito in anima e corpo, è quello accennato nel canto secondo del Paradiso (34-42): posto che Dante sia salito al cielo anche col corpo, come ha potuto il suo corpo penetrare le sfere celesti che sono incorruttibili, e come una dimensione ha potuto occupare lo spazio tenuto da un’altra dimensione? Ciò non è forse contrario al principio fisico dell’impenetrabilità dei corpi? Come avevano insegnato i teologi, l’impenetrabilità dei corpi impossibile in natura, non lo è per l’onnipotenza divina; tanto vero che Cristo risuscitato poteva penetrare attraverso le porte chiuse e le mura, e, salito al cielo, ha potuto attraversare le solide sfere planetarie, il cielo stellato e quello cristallino .
Come se ciò non bastasse, il poeta trova alla sua entrata nel primo cielo la soluzione di due altri problemi naturali lungamente dibattuti nelle scuole filosofiche. Il primo concerne l’armonia delle sfere, il secondo le macchie lunari.
Venerandi pensatori pagani, Pitagora, Platone, Cicerone e Macrobio, avevano affermato che i cieli producono coi loro moti una divina armonia; e questa dottrina non era dispiaciuta a taluni scrittori cristiani, come Origene, sant’Ambrogio e l’autore della piccola enciclopedia De imagine mundi che sembra sia Onorio d’Autun. Ma essa era stata rifiutata da Aristotele, da Averroè, da Alberto Magno e da san Tommaso. Se non che tra i commentatori del De caelo Simplicio aveva mostrato com’essa potesse sostenersi. Inaccessibile all’udito di chi è rivolto alle cose della terra, la musica celeste è percepita dagli uomini divini che hanno i sensi purificati «aut per bonam sortem aut per vitae bonitatem». Dante, senza troppo curarsi di quel che ne pensassero Aristotele e Tommaso, convalida quest’antica dottrina colla testimonianza della sua vera esperienza.
Molto parimente s'era discusso intorno alle macchie lunari. Ora finalmente il poeta può conoscere la verità dalla bocca di Beatrice che, riprovata l’opinione già accolta da lui nel Convivio, espone in proposito la teoria di Giamblico e di Filone, inserita nello schema neoplatonico di derivazione del molteplice dall’Uno .
Le varie Utopìe e Icarìe e Città del sole furon pensate, da chi le immaginò, come finzioni per rappresentare un ideale morale; l’oltretomba dantesco è pensato invece come realtà effettiva, ove la giustizia trova piena e concreta attuazione: sebbene invisibile ad occhi terreni, offuscati dal peccato, la realtà del mondo celeste è complementare della realtà del mondo terreno. E su questa complementarità si fondano i rapporti e gli scambi che ogni credente afferma intercorrere tra l'una e l’altra.
Abbagliato dall’oceano di luce, nel quale si sente rapito e sommerso, l’uomo di Dio prova una nuova esperienza difficile a esprimere con parole tratte dalla volgare esperienza degli uomini: egli sente trasumanarsi, cioè elevarsi ad una forma di vita più alta dell’umana, quale sarà la vita dei beati «a cui esperienza grazia serba» . Ma, pur trasumanato, egli resta uomo, e vede e ode con sensi purificati e affinati, coll’occhio e coll’udito interiore della fantasia che, anche negli spazi celesti reca con sé l’immagine della terra e di Firenze, così lontane e così vicine al cuore del poeta.
Su questa nuova e più alta esperienza di vita, nel distacco dal «mondo reale», mentre la coscienza si raccoglie nelle sue intime profondità, sorge una nuova e più spirituale forma d’arte, della cui novità Dante stesso è consapevole. I fantasmi si fanno più leggeri, più delicati, eterei; ricordi più che realtà percepite; realtà resa evanescente impalpabile immagine, attraverso la catarsi del ricordo, ed espressa dalla magica virtù di parole «per musaico legame armonizzate» .
In questo supremo raccoglimento dello spirito, che i mistici chiamarono estasi, mentre le tempeste del cuore si placano e la sembianza del mondo terreno impallidisce per la distanza, il profeta del Veltro sale al regno di Dio, a ritemprar la speranza che le recenti vicende avrebbero sicuramente divelto dal suo animo, se essa avesse avuto men salde radici. Che importa se la subdola politica del Guasco aveva mandato a vuoto l’impresa d’Arrigo, e se il mal volere degli uomini si ostinava contro i disegni della Provvidenza? La volontà divina, palese per molti segni e a lui chiaramente manifestata, avrebbe ben presto avuto ragione di tutti gl’intoppi. «Contra spem in spem» , la fiducia di Dante, come quella d’ Abramo, non è scossa dagli avvenimenti che si svolgono nel tempo e sui quali veglia l’eterno consiglio di Dio. E ad alimentar questa fede nel soccorso che non può mancare a quelli che sperano in lui, Dio ha concesso per grazia all’uomo che in esso s’abbandona, d’ascendere dall’«infima lacuna dell’universo» alla gloria dei beati, di levarsi ancor «più alto verso l’ultima salute» , fino a contemplar la divina essenza faccia a faccia, e a vedere in essa il corso delle umane vicende. In questa suprema apparizione della luce eterna, lo spirito del poeta raggiunge il fine di tutti i desideri, ed acquista la certezza della sua predestinazione:

Io credo, per l’acume ch’io soffersi,
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
È mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.
Oh abbondante grazia ond’io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
cio che per l’universo si squaderna;
sustanze ed accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perchè più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli alla ’mpresa,
che fe Nettuno ammirar l'ombra d’Argo.
Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile ed attenta,
e sempre di mirar faciesi accesa.
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta .

Ma fu veramente un profeta, Dante? Notiamo subito che, come Tommaso d’Aquino nega il dono della profezia al «calavrese abate Gioachino» che Dante invece ritiene dotato di spirito profetico, così a non riconoscere al poeta fiorentino la qualità di vero profeta son proprio coloro che da un pezzo vanno schiamazzando: — Dantes noster est!— cioè quelli che più degli altri gli «dovrien dar lode» e, invece, gli rimproverano le troppo frequenti invettive contro i pastor della chiesa, come dettate da ira, e gli dan «biasmo a torto e mala voce», mostrando per lui quel benevolo compatimento che merita un uomo di tanta altezza morale e di sì grande fede. E quasi a distogliere l’attenzione del lettore da quello che è l’intento principale della Commedia e a far dimentare questo fondamentale aspetto dell'anima dantesca, si son dati dattorno ora cercando di spuntare con sottili e astuti accorgimenti ermeneutici i troppo acuti strali scoccati da sì poderoso arco l), ora studiandosi di dar risalto alla pretesa fedeltà del poeta alla filosofia tomistica, anche là dove s’accennaa dottrine più volte e notariamente combattute da san Tommaso . Per costoro la visione dantesca è semplice finzione e artificio letterario.
Altri non negano che Dante s’attribuisse una missione affidatagli dall’alto, ma ritengono il rinnovamento da lui annunziato una generosa utopia, una poetica illusione smentita dagli avvenimenti, per non aver veduto con occhio «realistico» le vere forze che s’agitavano nel mondo sociale e politico in cui visse, e, delle quali un Villani, un Dino Compagni e magari dell’intrigante Lapo Salterelli conoscevano il giuoco assai meglio di lui. Sognatore certo fu Dante, per costoro, ma profeta no.
Ora a me pare che, se riflettiamo, con animo sgombro da pregiudizi su quello che rappresentano nel quadro storico della religione d’Israele i grandi uomini ispirati e i veggenti dell'Antico Testamento, Dante ne continui veramente la tradizione e il linguaggio, sì da meritare d’esser considerato profeta com’essi furono. E del resto, per esplicito accenno del poeta, non solo la sua ascesa al cielo è assomigliata al ratto di san Paolo, ma anche la visione apocalittica nell’Eden vien ricollegata all’Apocalisse neotestamentaria e alla rivelazione fatta ad Ezechiele, nel quadro delle quali Dante inserisce il motivo della pianta due volte dirubata e quello dell’aquila che lasciò le penne al carro, onde questo si trasformò in mostro . E come l’Apocalisse cristiana intenzionalmente svolge e completa i motivi della rivelazione fatta al figlio di Buzi, così la visione dantesca sviluppa la visione del rapito di Patmo e quella d’Ezechiele.
Giova poi osservare che, come i profeti biblici parlano in nome di una diretta rivelazione di Dio e rappresentano l’ispirazione individuale, la quale, pur traendo alimento dalla vita religiosa di tutto un popolo, si afferma all’infuori dell’istituto sacerdotale e talora in contrasto con esso, allo stesso modo Dante, laico, fatto ardito dalla visione concessagli per singolare grazia divina, non teme di denunciare nella mala condotta dei pastori della chiesa la cagione che il mondo ha fatto reo e di scagliare contro di essi le sue amare invettive.
E come i profeti dell'Antico Testamento annunzia- vano il prossimo avvento dell’Unto del Signore che avrebbe restaurato il trono di David, così Dante presagisce la restaurazione dell’impero romano e la riforma della chiesa, liberata dall’adulterio e ricondotta alla sua divina missione di guida degli uomini alla felicità eterna, per opera d’un messo di Dio che il poeta non esita a chiamare il nuovo Messia, il Cristo, l’Unto di Dio , e ad annunziarne l’apparizione colle commosse parole del Battista: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati dal mondo» .
Si dirà che appunto in questo Dante, a differenza degli antichi veggenti, non è stato profeta, ma, se mai, falso profeta, poiché il suo sogno di restaurazione imperiale svaniva per sempre nel momento stesso in cui era annunciato, per il fallire dell’ impresa d’Arrigo, e la chiesa continuava ancora per lungo tempo a trescare coi re della terra, facendosi nel Rinascimento perfino più mondana di quel che non fosse stata per l’innanzi. Si può rispondere che altrettanto accadde per la restaurazione del trono di David, annunziata come imminente dagli antichi profeti. Non che veder risorto il regno d’Israele, il popolo ebreo si vide piombare addosso una sciagura più tremenda dell’altra, la deportazione, una lunga servitù, la distruzione del tempio, finché ogni speranza di risurrezione politica non parve tramontata per sempre, o non si manifestò che per mezzo d’effimeri tentativi votati all’ insuccesso. Ma sulla rovina delle speranze politiche si levò, nel cielo della’ coscienza umana, la stella luminosa che guidò da lontani paesi i re magi a Betlem.
Altrettanto può dirsi della profezia di Dante. V’è in essa una percezione esasperata, se si vuole, ma chiara della decadenza religiosa e politica e delle cause che l’hanno prodotta; v’è l’esatta intuizione di quello che mancava al buon governo degli uomini, della confusione dei due poteri, di cui l’uno sopraffaceva e oscurava l’altro, e soprattutto dei danni derivati dall’assenza d’un’autorità temuta e rispettata che tenesse a freno la cupidigia dei partiti e delle città . Le quali, mentre vedevano il vigoroso risorgere della vita economica per opera di laboriosi artigiani, si mostravano incapaci pe di stabilire un durevole assetto politico fondato sulla giustizia e la concordia civile. Onde le lotte fratricide È «tra quei che un muro ed una fossa serra», tra le città e i borghi limitrofi, ognuno dei quali tendeva a sopraffare l’altro, e quell’anarchia nella quale la vita del comune doveva esaurirsi e soccombere, mentre si formavano quelle dittature che, consolidate in principati, ebbero almeno il merito di creare ordinamenti stabili, e di iniziare il processo di unificazione regionale e di risoluzione dell’antagonismo fra la vecchia classe feudale e la nuova borghesia.
Di fronte a questa dolorosa situazione e al disordine che regnava nel mondo, che valore aveva il sogno «dantesco di restaurazione imperiale?
Taluni hanno scorto in esso una pura e semplice utopia, un miscuglio ibrido di sacro e di profano: un Se sogno, insomma. Altri invece ritengono che la teoria politica dantesca poggiasse su qualcosa che non era sogno, ma esisteva effettivamente nella coscienza politica italiana e nel diritto pubblico, cioè sul concetto che s’aveva ancora dell’impero. E che l’idea imperiale fosse ancora viva nella coscienza dei glossatori e dei civilisti è stato solidamente dimostrato, né si può si mettere in dubbio ; com’è certo del pari che la supremazia dell’impero riconobbero i comuni, anche dopo Legnano, e le signorie che all'impero chiedevano diplomi e privilegi e spesso giuravano fedeltà. Ma non è men certo che la dottrina dei diritti imperiali, affermata dai giuristi alla fine del secolo XIII e nel secolo successivo, era ormai in ritardo sul corso degli avvenimenti politici, da quando la Francia s’era sottratta definitivamente all’autorità dell'impero a quando il comune di Firenze prendeva risolutamente posizione contro Arrigo VII. Come ammette lo stesso Dante, dopo la morte di Federico II l’autorità imperiale in Italia era divenuta di fatto nulla, sicché il nipote del Barbarossa fu, per lui, l’ultimo imperator dei Romani, non ostante che dopo di esso fossero eletti Rodolfo d'Asburgo, Adolfo di Nassau e Alberto Tedesco . E che cosa conta un diritto che non si riesce a far valere? Lo stesso Arrigo VII, per essere riconosciuto e incoronato dal papa, aveva dovuto far promessa di fedeltà e sottomissione alla chiesa, come prima di lui avean fatto Rodolfo, Adolfo e Alberto . Utopistica dunque era la dottrina di Dante non meno di quella di Bartolo e degli altri civilisti contemporanei.
Ed utopistica era non solo in rapporto alla realtà presente dell'Europa e dell’Italia in particolare, ma altresì se riferita al passato, cioè al tempo degli Ottoni e dello stesso Carlo Magno, anzi perfino se riferita al secolo degli Antonini; poiché neppure nel periodo della sua massima estensione l’impero romano arrivò mai a coincidere col mondo allora conosciuto, e ne rimasero fuori la Germania, la Persia, l’India e l’Etiopia, senza contare le terre ancora sconosciute o mal note. Né i giuristi, come Bartolo, spinsero mai l’utopia fin dove la spinse Dante; il quale più che alle fonti giuridiche attingeva al poema virgiliano, ove trovava conferma al suo concetto. Da Virgilio appunto egli sapeva che Dio aveva detto: «A costoro — cioè a li Romani — nè termine di cose nè di tempo pongo; a loro ho dato imperio senza fine» . E nell’Epistola ad Arrigo VII citava quei versi dell’Eneide :

Nascetur pulcra Troyanus origine Caesar
imperium Oceano, famam qui terminet astris,

a dimostrare che «Romanorum gloriosa potestas nec metis Ytalie nec tricornis Europe margine coarctatur. Nam etsi vim passa in angustum gubernacula sua contraxerit, undique tamen de inviolabili iure fluctus Amphitritis attingens vix ab inutili unda Oceani se circumgi dignatur» .
Eppure chi legge la Divina Commedia, come chi legge la Repubblica di Platone o il Vangelo ove l'avvento del regno di Dio fra gli uomini è prospettato imminente, avverte, al di là dell’utopistica rappresentazione d’avvenimenti irreali, un alto concetto etico e civile che vibra nel canto immortale, come nei ragionamenti di Socrate e nel discorso della montagna.
L’illusione di Dante sta nell’aver prospettato nel corso del tempo, d’un tempo più o meno vicino o lontano, un’idea eterna che, per sé, è fuori del tempo e non agisce sulle vicende umane se non come aspirazione a superare un limite questo può ben ricacciarsi sempre più in là, finché si resta nel corso del tempo, ma superarsi giammai. Il «regno di Dio», finché l’uomo è sulla terra, come dicono i teologi, non è meno utopistico del sogno dantesco; Gesù stesso l’ammise: «Regnum meum non est de hoc mundo».
Una monarchia universale fondata sulla ragione, e ordinata a moderare colla giustizia i rapporti tra le comunità ad essa inferiori e ad assicurare una perpetua pace feconda di opere; città e regni soggetti all’impero e intenti a organizzare la vita civile «per diversi offici», secondo le diverse capacità e attitudini dei cittadini; classi sociali distinte sul «fondamento che natura pone», e premurose di assicurare nella giusta misura il fabbisogno a un tranquillo e riposato viver di cittadini; una nobiltà costituita sulla virtù anzi che sulla nascita e sul censo, e tale da insegnare col suo esempio il valore e la cortesia al popolo; famiglie patriarcali come quelle fiorentine del tempo di Cacciaguida, quando la cupidigia di guadagni e il lusso eccessivo non le aveva ancora guastate; e per tutti una vita che non s’esaurisca nella ricerca dei beni materiali, ma permetta, a chi n’è capace, d’attendere altresì al perfezionamento dello spirito per mezzo dell’arte e della scienza, sì da realizzare quell’ ideale di vita felice assegnato all’uomo sulla terra dall’ Etica aristotelica; infine, accanto a questi istituti soggetti all'impero, la chiesa di Cristo, libera da ogni cupidigia terrena e rivolta solo alla sua missione evangelica, d’additare agli uomini la via del cielo, insegnando colla dottrina e coll’esempio il distacco dai beni della terra; e ordini monastici al suo servizio, come strumenti per combattere l’eresia, per diffondere nel mondo la luce del Vangelo, per soccorrere coloro che soffrono, con opere di cristiana carità, per lenire i dolori che nessuno conosce con parole di speranza e di conforto, per assolvere chi ha peccato, per elevare lo spirito, nel raccoglimento della solitudine, alla contemplazione della vita eterna: — tutto questo è moralmente bello, e non solo «quelli ch’anticamente poetaro», ma le anime assetate di giustizia in tutti i tempi « forse in Parnaso» sognarono un simile stato felice dell’umanità.
Ma si tratta d’un sogno, perché da siffatto stato di terrena felicità è del tutto esclusa la cupidigia. Ora la cupidigia, che Dante ritiene scatenata nel mondo dall'invidia di Lucifero , e che nella sua contrapposizione alla volontà buona e alla carità è il più grave osta- colo all’attuazione della giustizia e della pace tra gli uomini, e alla signoria universale dell’ impero , altro non è, in ultima analisi, se non il complesso dei desideri umani nati dai naturali bisogni che spingono l'uomo a procacciare quello che occorre a soddisfarli, l'έπιϑύμία di Platone, le ϰοιναί ϰαί ϕσιϰαί έπιϑυμίαι dell’Etica nicomachea, le quali possono e debbono esser frenate dalla virtù della continenza, ma non soppresse. La cupidigia costituisce un momento essenziale e insopprimibile della dialettica della vita, una forza della storia. Soppressa la cupidigia, la stessa giustizia che è ordinata a frenarla, non ha più ragione di essere e sfuma. Se Adamo non avesse peccato, Cristo non avrebbe potuto redimere il genere umano; e se Cristo doveva morire per la salvezza dell’uomo, ci volevano bene i giudei che lo mandassero a morte, come dice il poeta romanesco. Si può desiderare e adoperarsi a che la cupidigia sia moderata dalla giustizia, e che gli ordinamenti politici coincidano colla morale, l’utile coll’onesto, che è aspirazione di tutti i tempi; ma il fatto che questa sia ancora un’aspirazione ben lontana dall’essere appagata, e che di continuo si parli di leggi «inique», o «tiranniche», e di continuo si prospettino ordinamenti civili più perfetti di quelli esistenti, e ci si sforzi di vederli attuati, senza riuscirvi mai interamente, sì che dopo tanto affannarsi s'è costretti ad esclamare: — «Tu solo, o ideale, sei vero!» —; tutto questo dimostra che ogni sistema politico è inadeguato alla perfetta attuazione della moralità, la quale non conosce gli accomodamenti cui ogni ordinamento politico è costretto a ricorrere.
Dante fu vero profeta, non perché i suoi disegni di riforma politica ed ecclesiastica si siano attuati (riconosciamo, anzi, che, dato il corso naturale degli avvenimenti, erano inattuabili, quali si son rivelati), ma perché, come tutti i grandi profeti, seppe levare lo sguardo oltre gli avvenimenti che si svolgevano sotto i suoi occhi, e additare un ideale eterno di giustizia come criterio per misurare la statura morale degli uomini e il valore delle loro azioni. Siffatto ideale ha anch’esso la sua realtà nel processo dialettico dello spirito, che non potrebbe avanzare se non ponesse dinanzi a sé una mèta cui tendere. Nell’assolutezza dell’idea, posta al di là dello spazio e del tempo, lo spirito proietta l’infinità del pensiero e dei suoi inappagati desideri: «Fecisti nos, Domine, ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te» . E nell’anelito a ricongiungersi a Dio, l’irrequeta anima umana tende a liberarsi dalle angustie dello spazio e del tempo, per ritornare al suo principio che scopre non fuori ma dentro di sé: «In semet reditura meat, mentemque profundam circuit» , «sì come ruota ch’igualmente è mossa» intorno al perno che la sostiene. In questo ripiegamento dell’anima su se stessa per risalire alle occulte scaturigini dell’essere, in questa capacità di astrarsi dalle mutevoli apparenze dei sensi, consiste appunto quello che gli antichi dissero rapimento ed estasi.
«Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas; et si tuam naturam mutabilem È inveneris, transcende et te ipsum... Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur» . L’uomo avvezzo a intender l'orecchio alle sommesse voci che salgon dalle abissali profondità della coscienza e a fissar lo sguardo nella luce che splende entro i riposti pen netrali dell’anima, non si sgomenta se il mondo esterno si sfascia intorno a sé, poiché ha trovato ciò che gli basta e non può essergli rapito: Dio.

Date: 2022-10-26