La doppia eterodossia di Dante Alighieri [Juan Varela-Portas de Orduña]

Dati bibliografici

Autore: Juan Varela-Portas de Orduña

Tratto da: Tenzone. Revista de la Asociación Complutense de Dantología

Numero: XI

Anno: 2010

Pagine: 21-32

Vorrei incominciare queste riflessioni generali con due considerazioni intorno alle motivazioni e i titoli dei nostri convegni che con questo barcellonese iniziano. Quindi due considerazioni sul “sovversivismo” di Dante, o meglio su come applicare questa nozione all’opera e alla figura del poeta.
Prima di tutto, devo dire che sono molto diffidente di questa applicazione, della possibilità, cioè, che la nozione ideologica di “sovversivismo” o di “sovversione” sia utile per capire meglio l’opera dantesca. E sono diffidente perché usare questa nozione (o partire da essa) per lo studio dell’opera dantesca significa imporre su di essa uno schema ideologico, o meglio, un orizzonte ideologico, una concezione del mondo completamente aliena a quella che genera o in cui si radicano il pensiero, la vita e le opere del fiorentino. Per la nozione di “sovversione” ci vuole una concezione del mondo fondata sull’idea del contratto sociale, e specificamente sulla versione rousseauniana di questo mito, che getta le fondamenta del mondo moderno (o borghese) dal 700 in poi. Ci vuole quindi l’opposizione individuo-società o individuo-sistema e tutta l’ideologia della libertà essenziale dell’individuo come componente fondamentale dell’identità. Non mi soffermerò molto su questo punto per non fare un discorso troppo ideologico, e troppo campato in aria, ma non posso non avvertire del fatto che “Dante sovversivo” presuppone in fondo la credenza, la fede, anche se inconscia, nella libertà geniale del poeta che, se non si ribella, almeno non si lascia costringere dalle catene o tenebre medievali, e così nella sua laicità avant la lettre personifica il vero spirito umano o l’autentica natura umana. Credo perciò che dobbiamo essere attenti a non invischiare il testo, come direbbe Contini, con questo schema ideologico (schema che, per esempio, nel caso di Boccaccio costruisce senz’altro gran parte degli studi specialmente sul Decameron). Secondo me, non si scrive mai (non si vive mai) dal o nel vuoto liberale, dal o nel vuoto della natura umana (quella fede laica), ma si fa sempre da o in una norma più o meno consolidata. Il Boccaccio, per continuare con l’esempio, può essere sovversivo di fronte alla norma sacralizzata scolastica, ma non perché sia un illustre interprete della natura umana essenziale, bensì semplicemente perché la sua scrittura parte da un’altra norma, da un altro inconscio ideologico, la norma o ideologia dell’anima bella, che ha nozioni e orizzonti così storicamente determinati come quelli feudali (e infatti servirono in quel preciso momento storico per aggravare lo sfruttamento di contadini e lavoratori urbani).
Il caso di Dante, come si sa, è più complesso, ma per cercare di capirlo dobbiamo assolutamente rifiutare l’idea di un Dante liberale o moderno, e cioè non storicamente costruito, com’è costruita qualsiasi altra persona e qualsiasi altra opera letteraria. E si badi bene che dico costruita e non influenzata o condizionata. L’essenzialità di Dante, insomma, non si trova in ciò che sfugge alla (o che va al di là della) storia, al contesto, alle idee o alla tecnica letteraria, ma appunto è geneticamente radicata in tutto ciò. Non in un al di là, ma in un al di qua. E qui la seconda mia considerazione sul possibile sovversivismo o la possibile eterodossia di Dante. Si può essere sovversivo o eterodosso di fronte a una norma quando si ha un’altra norma a partire dalla quale scrivere, com’è il caso di Boccaccio. Ma Dante non ha, e storicamente non può ancora avere, un’altra norma in base alla quale scrivere, e soltanto può scrivere a partire dalla norma in crisi, anzi in rovina, del suo momento storico. E quindi, come si può essere eterodosso quando la norma ufficiale è completamente in crisi, quando non si sa bene qual è l’ortodossia? «Para ser heterodoxo, primero hay que ser doxo (Per essere eterodosso, prima bisogna ci sia un dosso)», ha scritto un noto filosofo spagnolo (Rodriguez Huéscar), si deve cioè avere una norma stabilita contro la quale reagire (poniamo, il Concilio di Trento), ma penso che non sia questo il caso del tempo di Dante, un tempo di mutamento ideologico, di cambiamento nella concezione del mondo, un tempo di crisi, secondo la nota definizione gramsciana, quando le vecchie idee non servono più ma ancora non ce ne sono di nuove che servano per spiegare e costruire un mondo nuovo. E perciò che non è facile parlare di eterodossia in Dante, appunto perché non è facile individuare un’ortodossia contro la quale Dante scriverebbe, il che, tra l’altro, è caratteristica che accomuna il tempo di Dante con il nostro.
La questione sarà così identificare innanzitutto di fronte a quale norma possiamo parlare di eterodossia, o persino di sovversione in Dante. Ed è in questo aspetto che credo interessante parlare di doppia eterodossia, di fronte cioè a due norme diverse. La prima sarebbe l’eterodossia di fronte all’ideologia sacralizzata feudale ufficiale, teoricamente almeno, secondo la quale il mondo è un vestigio divino e, conseguentemente, l’identità veniva conferita alla persona dal suo posto nella catena dell’essere e dal suo istinto verso Dio, «per lo gran mar dell’essere». Ma c’è un’altra possibilità, forse più stimolante: quella di considerare l’eterodossia di Dante di fronte alla nostra norma letteraria, quella che stabilisce che il testo letterario è manifestazione degli strati più intuitivi, emozionali, sentimentali, “scuri” della natura umana attraverso l’espressione di un singolo individuo essenzialmente libero. Come si può vedere, sono due eterodossie completamente diverse, anzi, come vedremo, contraddittorie, ed è proprio da questa contraddittorietà che scaturisce la grande ricchezza dell’opera dantesca. E senza dimenticare che, come dicevamo, sia il momento storico in cui Dante scriveva, sia in questo in cui scriviamo noi, sono tempi in cui la divaricazione fra quello che si crede di credere — o quello che si vuole credere — e ciò che veramente si crede — e anche fra quello che si crede e le condizioni reali di esistenza — è massima, come corrisponde a un tempo di crisi. E visto che quello che si crede di credere o si vuole credere si trova nelle parole, nelle idee verbalizzate, e quello che veramente si crede si trova invece nei fatti, nelle azioni quotidiane, possiamo forse capire perché l’eterodossia di Dante si trova non tanto nei contenuti — che rifletteranno piuttosto ciò che Dante crede di credere, cioè le verità coscienti più o meno ufficiali — ma soprattutto negli aspetti formali della sua prassi letteraria.
Nel primo caso, di fronte alla norma feudale, l’aspetto più eterodosso di Dante riguarda, secondo noi, la questione della legittimazione letteraria. A Dante non serve, o non basta, la legittimazione della voce letteraria tradizionale nella concezione sacralizzata feudale. Non gli basta sentirsi, o viversi, come un semplice vestigio della voce di Dio, e parlare quindi “nel nome del padre”. Non gli basta viversi come anello della catena dell’essere, come peregrino in via, ecc. C’è qualcosa — probabilmente di molto nebuloso — in questa esperienza psichica (in questo vissuto) che non va, che non concorda con quello che sta succedendo nella Firenze della fine del ‘200 e nella vita dello stesso Dante. Probabilmente, considerando la spiegazione di Beatrice nel primo canto del Paradiso, e tanti altri brani della Commedia, possiamo supporre che Dante fosse convinto di credere nella propria identità come vestigio divino, ma la sua prassi letteraria dimostra ben altro: Dante effettua un atto bizzarro e costosissimo da tutti i punti di vista come scrivere letteratura, spinto da una necessità, un desiderio che va al di là del sentirsi a posto nella gerarchia universale, e perciò sente la necessità di rinforzare in qualche modo la legittimità della sua voce letteraria, avendo così bisogno di creare una cornice narratologica del suo racconto che lo giustifichi, che renda lecita la sua narrazione, e perciò non assurdo lo sforzo materiale e psichico nel portarla avanti.
Si è soliti parlare della cornice del Decameron, e a pochi parrebbe strano spiegarne la complessa costruzione narratologica partendo dalla necessità di Boccaccio di giustificare un modo nuovo di narrare, non più exempla con prototipi figurali, ma storie con personaggi — characters — che servono come espressione e consolazione dell’anima vibrante dello scrittore e del lettore. Ma forse non si è considerato sufficientemente il fatto che la Divina Commedia — e anche, in misura minore, la Vita nuova — ha una cornice narratologica vera e propria, che agisce come risorsa legittimatrice della voce letteraria. Come si sa, spessissimo vediamo Dante nell’atto di scrivere dopo il suo viaggio, mettendo in pratica quella poetica della reminiscenza e della memoria che abbiamo esaminato altrove (Varela-Portas 2005). Noi a Madrid preferiamo, più che parlare di Dante autore e di Dante personaggio, parlare di Dante visionario e Dante “visionato”. Secondo me, questa denominazione ha il vantaggio molto importante di mettere in fuoco il fatto che tecnicamente entrambi sono personaggi, o, se si vuole, funzioni attuanti all’interno del testo. Dante visionario sarebbe così il personaggio che abbandona la verace via, cioè incomincia a sognare che si trova in una «selva oscura», finisce di sognare quando alla sua fantasia manca possa, e poi, dopo il viaggio di ritorno (Pinto 2003), svegliato, fa sforzi sovrumani per recuperare quello che ha visto, capire le immagini e trasmettere il loro significato. E tutto questo processo fondamentale è compreso nella stessa narrazione come parte legittimatrice di essa.
Il fatto che il viaggio dantesco sia un viaggio sognato è, secondo noi, decisivo. Perciò vorremmo ripassare molto brevemente il suo inizio. Se esaminiamo le quattro prime terzine, che appartengono appunto alla cornice narratologica, vedremo che la successione dei fatti è:

1. Dante abbandona la verace via;

2. Dante entra nella selva oscura;

3. In essa, Dante perde la diritta via.

Per capire bene questa successione si deve considerare che la «dritta via» del verso 3 e la «verace via» del verso 12 non sono ovviamente la stessa via, e che il «che» del verso 3 non è causale ma modale («mi ritrovai nella situazione di aver smarrito...», Pagliaro). E che, come abbiamo spiegato in altra sede (Varela-Portas 2000), in quel verso 12 «verace» significa, come in Vita nuova XXIII o in tanti altri brani (specialmente Purgatorio XVIII, 22: «Vostra apprensiva da esser verace / tragge intenzione...», ma anche Purgatorio X, 37; XV, 115; XXX, 130-131), appunto la via della percezione sensibile contraria alla via dell’immaginazione e del sogno. E così il verso 11 («tant’ era pieno di sonno a quel punto») ricupera il suo pieno senso letterale, come lo fanno pure altri versi, ad esempio Paradiso XXXII, 139 («Ma perché ‘l tempo fugge che t’assonna»), che non deve essere inteso in un senso traslato o metaforico.
Secondo noi, la resistenza da parte di una non piccola parte della tradizione critica a considerare il viaggio dantesco un sogno si deve alla paura a togliere al racconto dantesco la sua materialità, il suo realismo esperienziale, quando, a nostro avviso, la conclusione dovrebbe essere appunto quella contraria: è giustamente il fatto di essere un viaggio sognato quello che garantisce la sua esperienzialità, la sua veritè esperienziale. E qua la cosa sorprendente: il ricorso al sogno è un arma a doppio taglio, perché se da una parte garantisce, feudalmente, la verità dei fatti narrati come dettato divino, visto che le immagini ricevute nel sogno (se si tratta di un sogno infuso da Dio) hanno le stesse qualità ontologiche e semantiche (i quattro sensi e l’allegoria di teologi) che le parole delle Scritture o le visioni infuse, dall’altra garantisce, non più feudalmente, la verità, la legittimità della scrittura appunto per il fatto che è stato lui, Dante Alighieri di Firenze, la «singulare persona», cioè l’individuo, che ha fatto quel sogno, e ha fatto poi lo sforzo di ricuperarlo mnemonicamente, di ricostruire il suo significato, e di spiegarlo ai lettori. Tutti i numerosi e brillanti brani della Commedia in cui Dante si presenta, si mostra, nel momento della memoria-scrittura («o mente che scrivesti ciò ch’io vidi», Inferno II, 8), e quindi tutto ciò che abbiamo chiamato la cornice della Divina Commedia, hanno il ruolo fondamentale di ricollegare la verità delle immagini infuse da Dio, quindi la verità della voce divina, all’esperienza dell’io, dell’individuo Dante Alighieri. Ho detto altrove (Varela-Portas 2006: 145) che in questo modo Dante, oltre a un poeta e un profeta, diventa un notaio di Dio, e con questa espressione ho voluto mettere in risalto appunto la eterodossia per me fondamentale in Dante: il fatto che, per la prima volta nella storia della cultura occidentale, la voce di Dio abbia bisogno della garanzia, della legittimità, conferita dalla voce dell’individuo. Non più Dio che avalla la verità individuale, ma l’individuo che avalla la verità di Dio.
Ed è perciò che la sovversione — la coupure ideologica — nella Commedia, e il grande passo in avanti rispetto alla Vita nuova, è la costruzione di un senso letterale rigorosamente coerente come esperienza vissuta, ma senza, attenzione, derogare una virgola il valore allegorico — gnoseologico e di conseguenza poetico — di quel senso letterale. Si consideri che nella letteratura di visioni e sogni, e pure nella teologia simbolica, il senso letterale era sempre radicalmente sussidiario del significato allegorico, in modo che le allegorie si disponevano soltanto in funzione del senso che si voleva trasmettere senza riguardo della loro coerenza sintagmatica. La Vita nuova manca ancora di coerenza letterale e le sue immagini, anche se ricavate dal libro della memoria, vengono disposte usando, come ha scritto Maria Corti, «ben poco una memoria esistenziale, costruita su un tempo esistenziale, e molto invece su una memoria stimolata e prodotta dall’immaginazione e dalla poetica di Dante» (Corti 1993: 8). Nella Commedia, invece, Dante si preoccupa costantemente di produrre una sensazione di realtà nel suo racconto e di ricollegarlo al momento della scrittura, cioè a un momento suppostamente al di là della fictio letteraria (in una finzione che si finge vera, secondo la nota formula singletoniana). Persino nel momento meno realista, quello della trasumanazione, Dante fa appello a una esperienza possibile nel mondo del lettore, quella del raptus (si ricordi: «però l’essemplo basti a cui esperienza grazia serba», Paradiso I, 27), e tutta la vicenda del Paradiso segue le regole codificate di quella esperienza certo non comune, ma neanche inverosimile. La verosimiglianza diventa così la conseguenza della necessità di legittimare la voce di Dio attraverso l’esperienza vissuta dall’individuo. Ed è chiaro che questo aspetto mostra la rovina dell’inconscio sacralizzato feudale e l’inizio storico di un nuovo senso dell’identità, fondato non più sull’appartenenza a un ordine universale, cosmico, come vestigio divino, ma sul valore e la virtù della propria individualità, anche se questa non ha ancora nozioni con le quali tematizzarsi a livello cosciente e deve tematizzarsi con nozioni sacralizzate in certo senso riformulate (appunto quelle di “valore” e “virtù”).
Ma siamo arrivati in questo modo a ciò che costituirebbe, a nostro parere, l’eterodossia della Commedia rispetto alla nostra norma letteraria: cioè il fatto che quel senso letterale, anche se coerente e persino autonomo, ha come funzione principale di trasmettere una verità oggettiva, non sottomessa a relatività. In altre parole, la Commedia permette l’esegesi, ma non l’interpretazione, e nell’esegesi può esservi errore ma mai opinione. Il senso letterale porta a un significato che si deve stabilire con rigore analitico e per il cui stabilimento ci sono parametri oggettivi che garantiscono la riuscita esegetica. Ciò che per noi — che ci muoviamo nel relativismo postmoderno secondo il quale un io proteiforme e decostruito diventa il parametro rettore di ogni verità — risulta veramente difficile accettare nella Commedia è l’analiticità del suo senso letterale come mezzo di passaggio verso l’allegoria, e pertanto la rigorosa razionalità della sua costruzione letteraria. Ci si consenta di ricordare che cosa intendiamo per analiticità: il fatto che ogni immagine della Commedia, cioè ogni gesto, ogni azione, ogni mito, ogni storia personale o storica, ogni paesaggio, ogni similitudine, ecc., può e deve essere scomposta, smontata, in elementi minori — compresi quelli impliciti — che saranno quelli che serviranno per il transfert verso il senso allegorico. E così, ad esempio, Minosse viene costituito come personaggio mitologico strutturale dell’Inferno appunto perché la sua triste storia con Pasifae, il toro e Dedalo preannuncia la dinamica morale della prima cantica, dal momento in cui la parte razionale dell’anima umana (Minosse) perde il controllo sull’appetito concupiscibile (Pasifae) e irascibile (il toro), scatenandosi un processo in cui la incontinenza (la passione di Pasifae) diventa bestialità (generazione del Minotauro) e finalmente malizia o astuzia con la razionale ma fraudolenta costruzione del labirinto che occulta il Minotauro (si veda Lopez Cortezo 1995 e 2008). Analogamente, il paragone della peripezia vissuta da Dante e Virgilio con quella fiabesca della rana e il topo all’inizio del ventitreesimo canto dell’Inferno si può scomporre nei diversi momenti del rapporto rana-topo Virgilio-Dante per capire le relazioni fra parte razionale dell’anima e parte irrazionale che ascolta la ragione (Varela-Portas 1995). O, per proporre un ultimo esempio, questa volta inedito, nell’ampia similitudine analitica di Paradiso XV, 13-27 dobbiamo individuare

1) la notte tranquilla e pura («Quale per li seren tranquilli e puri»),

2) l’illuminazione che pare una stella che cade («e pare stella che tramuti loco»), ma che

3) in realtà, sono vapori caldi che naturalmente ascendono («discorre ad or ad or sùbito foco»), senza che

4) nulla si perda nel luoco dove si produce («se non che da la parte ond’ e’ s’accende / nulla sen perde...»);

5) che è momentanea («esso dura poco»);

6) e che muove gli occhi che erano fermi in un movimento di attenzione e sorpresa («movendo li occhi che stavan sicuri»).

Così dissezionato, il fenomeno naturale diventa spiegazione iconica del fenomeno spirituale del martirio, rappresentato dalla luce di Cacciaguida che scende per la croce del cielo di Marte. Il quale fenomeno sembra a primo sguardo una caduta, una semplice morte (2), ma, al di sotto di questa apparenza c’è un’ascensione immediata alla beatitudine provocata da un intensissimo slancio di amore e affetto (3), come spiega Tommaso nella Somma Teologica II, q. 66, a. 12, per cui, anche se sembra una trasmutazione (e tecnicamente veniva denominata inmutazione o destruzione dell’oggetto fisico che si offre in sacrificio), nulla si perde nell’anima del martire o sacrificato (4), in modo che il sacrificio ha innanzitutto un valore di testimonianza che provoca sorpresa a ammirazione (6).
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, e sono stati la motivazione fondamentale della nostra ricerca a Madrid ormai da più di venti anni, ma in realtà quello che mi interessa in questa sede non è descrivere il meccanismo dell’allegoria analitica nella Commedia, ma cercare di spiegare perché oggi risulta così difficile assumerla e capirla. Con la allegoria analitica Dante propone all’intelletto lettore un esercizio gnoseologico simile a quello che si dovrebbe fare davanti al libro della natura e davanti alle Scritture per arrivare alla verità. Un esercizio di analisi razionale che denunci l’immagine dei suoi elementi accidentali e poi ricolleghi quelli essenziali con concetti intellettuali (denudatio e copulatio), passando, tramite l'immaginazione, dal sensibile all’intellettuale, come è ben noto. Ora, la cosa che mi preme sottolineare qui è la differenza radicale di questa concezione della lettura con quella nostra di oggi. Secondo la nostra norma letteraria, la lettura è una comunicazione fra soggetti che può darsi perché entrambi, scrittore e lettore, condividono una stessa natura umana, e così dalle loro esperienze soggettive si può risalire verso sentimenti, emozioni, idee, insegnamenti universali o almeno intersoggettivi. La lettura diventa così un rapporto fra individui attraverso l’universale Spirito Umano (e perciò la stessa essenziale “letteraturità” si trova in Omero come in Dante, in Joyce, in Baricco o nel Mahabaratta), e ciò fa sì che la lettura sia un esercizio di interpretazione, di comunicazione intersoggettiva, e non una ricerca oggettiva della verità. Dante, a mio giudizio, non si rivolge a un individuo lettore ma a un intelletto lettore, che deve, come fa il personaggio, evolversi nelle sue capacità conoscitive (e perciò morali), nel percorso di lettura dalla selva oscura alla luce divina.
Ed è così che possiamo percepire l’intrinseca contraddittorietà fra queste due eterodossie fra l’altro complementarie. Perché il fatto sorprendente della Commedia è che la legittimazione della scrittura ha basi ideologiche assai diverse da quelle che legittimano la lettura. Mentre nella scrittura non basta la legittimazione schiettamente feudale, e c’è il bisogno di aggiungere una legittimazione fondata in un modo nuovo di capire la identità, conseguenza della nascita di un nuovo modo di produzione non ancora dominante ma senz’altro di grande impatto nella vita dei Comuni italiani, la lettura non si concepisce ancora come un rapporto interpersonale, come sì sarà già invece con Boccaccio, ma ancora come un esercizio, un allenamento gnoseologico proposto all’ intelletto del lettore (senza perciò dimenticare che la concezione dantesca dell’ intelletto comprende le facoltà che oggi consideriamo emozionali o affettive, all’interno della grande questione del desiderio che serve di slancio al percorso gnoseologico). Con la prima eterodossia Dante si piazza a cavallo fra due modi di produzione e due concezioni del mondo e dell’essere umano, e segna, come abbiamo accennato, la prima apparizione storica di una nozione — quella dell’identità fondata sull’ individualità — che fin’ oggi è stata nelle fondamenta delle società capitalistiche. Con la seconda eterodossia, Dante ci mostra che la nostra concezione della letteratura non è naturale, scontata, logica e universale, ma storicamente radicata e costruita, e che, perciò, va unita a un preciso modo di capire il mondo e a una determinata società. In questo modo la lettura e lo studio di Dante diventa un continuo autoesame e una costante presa di autocoscienza sulle proprie nozioni inconsce che fondano il nostro mondo, e ci urge a fare gli sforzi necessari per non imporre al testo nozioni e concezioni che gli sono radicalmente aliene.

Riferimenti bibliografici

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Date: 2022-10-03