I sensi delle scritture (Conv., Il, 1, 2 sgg.) [Bruno Nardi]

Dati bibliografici

Autore: Bruno Nardi

Tratto da: Nel mondo di Dante

Editore: Edizioni di Storia e Letteratura, Roma

Anno: 1944

Pagine: 55-61

I grammatici non distinguevano se non due sensi secondo i quali una scrittura si potesse interpretare: il senso letterale e quello allegorico. E quest’ultimo si cercava quando il senso letterale era, pei grammatici, una «bella menzogna», come dice Dante, intessuta di «parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti». Così, per esempio; «quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sè muovere», le parole d'Ovidio non possono prendersi alla lettera; la loro verità non è nel senso letterale, ma nascosta sotto il manto della favola, cioè sotto «bella menzogna», giacchè il poeta «vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno ‘vita di scienza ed arte; e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre».
Ben altrimenti intendono i quattro sensi biblici i teologi. Pur sapendo che s'incontrano anche nei libri sacri parabole come quelle evangeliche e perfino un apologo come quello raccontato da Ioatham nel libro dei Giudici (IX, 9- 15), essi si guardan bene dal considerare come favoloso il racconto biblico, sia che si tratti della creazione del mondo o della cacciata d'Adamo dall’Eden, sia che si narri come accadde la moltiplicazione dei linguaggi o come gli Ebrei passarono il Mar Rosso a piede asciutto, come Giona stette tre giorni vivo in corpo al cetaceo o come Cristo risuscitato da morte ascese al cielo. Tutti questi fatti meravigliosi sono, pei teologi medioevali, avvenimenti realmente accaduti, così come suonano le parole del testo sacro. Il senso letterale è detto da essi anche «senso istoriale», e in esso, prima che in altro senso, va cercata la verità.
Ma secondo un'antichissima credenza, la quale rimane anc’oggi in non poche superstizioni volgari, si attribuì talora alle cose e agli eventi naturali ed umani il potere di significare altre cose ed altri eventi diversi da essi. Su questa credenza religiosa che attribuiva alle cose e agli avvenimenti un valore di segni, quasi parole d'un linguaggio divino; si fonda l’uso di taluni antichi scrittori cristiani di attribuire ai personaggi dell'Antico Testamento e alle azioni da quelli compiute un valore significativo e simbolico in rapporto alla fede cristiana, alla vita morale e alla beatitudine eterna. In tal modo al senso letterale o storico si sovrapposero tre sensi spirituali o mistici: quello allegorico, se mei fatti narrati pareva fosse adombrato qualche mistero della fede; quello morale o tropologico, se si riteneva che contenessero un qualche comandamento o precetto morale; e infine quello anagogico, se vi si scorse un riferimento alla vita eterna . Questo quadruplice senso scritturale ammesso da tutti i teologi prima e dopo S. Tommaso, fu riassunto nei due ben noti versi mnemonici:

Littera gesta docet; quid credas, allegoria;
moralis, quid agas; quo tendas, anagogia.

Nell’Epistola a Cangrande, VII, 20-22, si legge che «debbono attribuirsi alla Commedia i quattro sensi scritturali, che per altro vengon ridotti a due principali: quello letterale o storico, e quello spirituale o mistico, che vien detto pure allegorico in senso ampio. Ma poi l’autore suddivide quest’ultimo alla maniera dei teologi, in senso propriamente allegorico, in senso morale o tropologico e in senso anagogico:

Primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus. Qui modus tractandi, ut melius pateat, potest considerari in hiis versi bus: «In exitu Israel de Egipto, domus Jacob de populo barbaro, facta est Iudea santificatio eius, Israel potestas eius». Nam si ad litteram solam inspiciamus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Egipto, tempore Moysis; si ad allegoriam, nobis significatur nostra redemptio facta per Christum; si ad moralem sensum, significatur nobis conversio animae de luctu et miseria peccati ad statum gratie; si ad anagogicum, significatur exitum anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem. Et quanquam isti sensus mistici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi.

Il D’Ovidio, che del linguaggio teologico non aveva: alcuna pratica, sentenziò che questo dell’Epistola a Cangrande è un «bel pasticcetto», anzi una «parodia» di quello che Dante avea detto con tanta chiarezza nel Convivio, e ne deduceva che per attribuite quell’Epistola al poeta, si dovrebbe «dire che gli anni lo avessero talmente stordito da fargli mettere la confusione ed il buio dove aveva già visto così chiaro» . La verità è, che la parte dello stordito qui la fa proprio il D’Ovidio. Il quale non s’è accorto, che l’autore dell'epistola applica all’interpretazione della Commedia la teoria dei quattro sensi biblici, esattamente come l’intendevano Tommaso e tutti i teologi medievali. Anzi che nell’Epistola il pasticcetto è invece nel Convivio, ove Dante comincia col distinguere coi grammatici il senso letterale o fittizio dal senso allegorico, e a questa distinzione sovrappone poi quella dei quattro sensi biblici dei teologi. Della qual confusione Dante stesso, un po’ più esperto teologo che non sia il D’Ovidio, non tardò ad accorgersi; e, dopo aver definito il senso allegorico alla maniera dei grammatici, osserva: «Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato». Con che egli avrebbe dovuto rinunziare a parlare del senso morale e anagogico, inutili a lui che in. tendeva seguire l’uso dei grammatici. Ma il gran desiderio: che ha di distribuire ai miseri qualche briciola caduta dalla. mensa «dove lo pane de li angeli si manduca», lo spinge a frequenti digressioni, anche se queste non. son sempre strettamente necessarie, e qualche volta perfino ingombranti. E veramente del senso tropologico. e anagogico Dante non fa mai uso nel commento alle sue canzoni, che è commento letterale e allegorico nel senso dei grammatici.
Piuttosto resta da vedere se alla Commedia poteva applicarsi la teoria teologica dei quattro sensi. Intanto è notevole che, secondo il parere di S. Tommaso , a nessuna scrittura umana può attribuirsi altro significato che quello: letterale, sia che le parole debbano prendersi in senso proprio, sia che debbano prendersi in senso figurato o metaforico, com’è il caso nelle favole dei poeti, I sensi mistici o spirituali di cui parlano i teologi, non derivano propriamente dal senso letterale, ma dal fatto che le cose e gli avvenimenti narrati dalle parole sono ordinati in sé a significare qualcosa che concerne la fede, oppure la vita cristiana, o la salvezza eterna. Ora ordinare il corso degli eventi storici, per esempio, la fuga dall’Egitto a significare la redenzione del Cristo, oppure la conversione dell'anima dalla miseria del peccato alla grazia, o infine il passaggio dell’anima da questa vita alla gloria eterna, è proprio soltanto di Dio. Perciò l’Aquinate esclude che alle scritture dettate dall’uomo si possano attribuire siffatti sensi spirituali. Ma, del resto, giova udire dallo stesso autore dell’Epistola in che cosa consisterebbe il senso spirituale da cercare nella Commedia:

Et ideo videndum est de subiecto huius operis, prout ad litteram accipitur; deinde de subiecto prout allegorice sententiatur. Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum sumpti, status animarum post mortem simpliciter sumptus; nam de illo et circa illum totius operis vertsatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est.

Veramente, a volere esser precisi, il «subiectum totius opetis litteraliter tantum: accepti», non è lo «status animarum post mortem», ma il viaggio di Dante Alighieri fiorentino attraverso i tre regni d'oltre tomba, pei quali egli può conoscere quello che è lo «status animarum post mortem». Il pronome personale «io» domina dal primo canto dell'Inferno all'ultimo del Paradiso. Ma se il senso letterale ha per oggetto lo «status animarum», è evidente che da esso non può più distinguersi il senso allegorico, che dovrebbe consistere nel mostrare la giustizia divina nel premiare e punire ciascuno secondo i meriti, poiché questo coincide esattamente collo status in cui ciascun’anima st trova; e, ad ogni modo, anche questo senso anagogico verrebbe a coincidere con quello che l’autore dell’Epistola spaccia per senso letterale.
La confusione che abbiamo costatata nel Convivio, tra sensi grammaticali e sensi teologici, e che l’autore dell'Epistola aveva schivato, riappare nell’applicazione che questo fa dei sensi teologici alla Commedia, alla quale era difficile attribuirli, mentre l’autore del Convivio, accortosi a un certo momento della confusione, aveva dichiarato esplicitamente di volere attenersi all’uso dei grammatici, ed aveva rinunziato ai sensi dei teologi.
L’autore del Convivio è autore anche dell'Epistola a. Cangrande? Il dubbio è grave e giustificato. Ma checchè se ne pensi, questo è certo, che nelle canzoni del Convivio gli unici sensi da tener d'occhio sono quello letterale e quello allegorico come l’intendono i grammatici; e che il senso allegorico, che anche l’autore dell’Epistola riconosce: alla Commedia, non ha nulla che vedere coi sensi scritturali da lui prima ricordati, e si può agevolmente ricondurre al senso allegorico dei comuni componimenti poetici assai frequenti nel medio evo.
Qualsiasi tentativo di cavare dal poema dantesco i sensi mistici che i teologi ebrei e cristiani solevano ricavare: dalla Bibbia è un tentativo semplicemente cabalistico.

Date: 2022-10-03