Rappresentazione delle dottrine, della teologia e dell'allegoria [Francesco Flora]

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Dati bibliografici

Autore: Francesco Flora

Tratto da: Storia della letteratura italiana. Dal Medioevo alla fine del Trecento

Editore: Mondadori, Milano

Anno: 1966

Pagine: 224-233

1. Autorità della parola dantesca

Dante crede nella sua teologia, che per lui non è verità da conquistare, ma certezza raggiunta: e qui si piace sopra tutto di rappresentarla nel suo ritmo; né si sforza di sillogizzare o polemizzare per convincere se stesso o gli altri di una così tranquilla fede, ma vuol appunto collocare in questo paesaggio immenso della sua fantasia la bellezza del pensiero che si chiude in forma, la bellezza degli atti di fede e di carità che la religione ispira; vuol cantare la sublime rappresentazione del pene del pregare. E se egli dica i versi già citati: «Ciò che non muore e ciò che può morire Non è se non splendor di quell'idea Che partorisce, amando, il nostro Sire», come non accorgersi che la bellezza espressiva di un concetto ha dominato. Dante, assai più che non il concetto medesimo, accettato e posseduto nella pratica quotidiana della fede? Ecco un esempio che può servire come fondamento nella interpretazione dei canti dottrinali. E s’è detto a suo luogo come perfino le definizioni, della Fede o della Speranza, mostrano che il senso della rappresentazione sormonta su quello del concetto, che è materia quieta della credenza religiosa.
E anche le considerazioni morali e le sentenze han sempre una lor necessità poetica. Così quando nell’XI del Purgatorio esce a cantare per bocca di Oderisi d’Agobbio: «O vana gloria dell'umane posse! Com’ poco verde in su la cima dura», subito la sentenza s'è fatta una pianta dalla tenera cima: e tra poco, ricordato Giotto che oscura la fama di Cimabue, e Cavalcanti che oscura quella di Guinizelli, l’immagine arborea si allea con quella del vento e poi dell'erba; e il senso del tempo a un battito di ciglia. Ricordate?

Non è il mondan rumore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.

[...] mill'anni? ch'è più corto
spazio all’eterno, ch'un mover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.

[…]

La vostra nominanza è color d’erba
che viene e va; e quei la discolora
per cui ell’esce della terra acerba.

Ciò che fa la grandezza di uno scrittore è l’autorità della parola, che è tutt'uno con la necessità: e più il tono raggiunge quella necessità, più il poeta ha voce universale.
Non credo sia mai sorto un poeta che più di Dante abbia questa autorità della parola, che fa di un gruppo di sillabe una ragione d'assoluto. E appunto questa autorità spiega perché anche le sue terzine più comuni e cronistiche serbino un incanto, e perché anche dove egli cade in spiegazioni prosaiche serbi una forza e una dignità imperiosa, che ha resi proverbii quasi ciascuno dei suoi versi, giacché in quelli si prolunga la bellezza dei versi più eletti e l'altezza della tonalità generale. Autorità della parola poetica di Dante: il tono morale della pronunzia fa le sublimità della sua poesia, anche se egli dice di Taide o della trombetta di Malacoda: la totale adesione della parola in cui confluiscono i sensi visivi, plastici, musicali come espressione di una raggiunta verità del sentire.
Ma v’è anche in Dante, forse più che in altri poeti, – e per la ragione di quella autorità – una virtù, una calamita lirica che oltrepassa i sensi ideativi nell’atto stesso in cui limpidamente li ha espressi e crea una seconda vista poetica. Si ripensino i versi in cui Manfredi nel Purgatorio parla delle sue ossa sepolte «Sotto la guardia della grave mora»:

Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor del Regno, quasi lungo il Verde,
dov’ei le trasmutò a lume spento.

E qui l’incantesimo non è soltanto nella pietosa malinconia del re verso la sua spoglia mortale, né soltanto è nella posizione delle sillabe, nel rapporto melodico così graduato, per le singole more, così rilevato negli incontri delle lettere in una armonizzazione di accordi sensibilissimi a quel legame musaico di cui Dante parlò in un festo teorico: è anche – di là dal periodo significante della parola perfetta –, è, dico, in una magia delle cose evocate, che son pioggia, vento, regno, lume spento; e nella sostanza di queste parole come nel verbo «trasmutò»; e quel fiume che chiamato col suo nome, «quasi lungo il Verde», porta oltre l'immagine del corso fluviale il colore verde, un trasparente colore d'acqua e di selva, che qui s’aggiunge per un dono non più lessicale ma puramente vocale e figurativo.
Osservazioni affini potrebbero essere fatte sulle più diverse terzine dantesche; né soltanto su quelle che spiccano poeticamente rilevate come

Vapori accesi non vid’io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole d’agosto;

ma anche su versi comuni che talora sembrano annotazioni appositive:

Così ha tolto l’uno e l’altro Guido
la gloria de la lingua: e forse è nato
chi l’uno e l'altro caccerà del nido.

Ma l’aver noi assunto il Purgatorio quale centro esemplare a far meglio intendere il carattere di tutta la poesia dantesca ci offre ampia occasione a parlare della poetica di Dante e dei suoi giudizi artistici, perché l'una e gli altri sono espressi nel Purgatorio con un proposito che non si riscontra nelle altre due cantiche. Ma la poesia in atto conta più della poetica, e io non entrerò a riparlare della poetica dell'amore che dentro detta, quale nel Purgatorio Dante spiega a Bonagiunta coi versi divulgati e straziati, sui quali ci siamo soffermati parlando del dolce stil nuovo:

I’ mi son un che quando
amor mi spira noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando,

Io li considero come uno degli stimoli che il Ficino ebbe alla teoria dell'amore, sicché anche per questa via si può riaffermare quel protoumanesimo di Dante che altra volta ho asserito.
Accanto a questi sovrani versi sulla poetica delle nove rime, ove Dante non esita a rispondere con un «Io», ponendosi al centro se non al principio della nuova poesia, nel Purgatorio egli esprime, in parole dirette o implicite, più d’un giudizio artistico: su Guido Guinizelli, ad esempio, che il fuoco affina («il padre Mio e degli altri miei miglior che mai Rime d’amore usar dolci e leggiadre»), su Arnaldo Daniello, su Guittone, sul Notaro. Né soltanto su scrittori, ma su artisti figurativi, da Cimabue a Giotto: e splendono nella memoria i versi di Oderisi d’Agubbio:

Più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese:

e la luce di quelle miniature passa nelle parole di Dante per amore del libro e della pittura.
Ma ripeterò che l’incontro di Stazio e Virgilio, o anzi il riconoscimento di Virgilio da parte di Stazio, è una delle più originali liriche dantesche, ed è, ancora inviluppata in modi medievali, la grande professione che prelude all'Umanesimo, anzi la prima poesia dell’Umanesimo.
Se fino a quell'incontro Virgilio, maestro e autore e guida di Dante (che ha scavalcato secoli per ricongiungersi all'arte dei classici) potesse sembrare, e sia pure con un errore che a me sembra manifesto, ancora il Virgilio infantile del Medioevo, sebbene elevato all'altezza del genio dantesco, qui è il poeta e il profeta che annunziò secol novo.
Qui dunque l’Umanesimo della grande poesia è esaltato nel più alto grado.
Piuttosto, in fatto di poetica, converrà esaminare il rapporto che il Purgatorio più delle altre cantiche esplicitamente ci pone, tra l’allegoria e la poesia.
Spesso leggendo sottili e dotti discorsi o non meno sottili e dotte annotazioni sulla Commedia si prova l'impressione che i commentatori (e hanno come scusa la magia del testo) credano che veramente Dante abbia fatto il viaggio nell’oltremondo e ne abbia conosciuto i segreti e gli arcani sino alla spiegazione del dogma e alla visione di Dio, e abbia voluto rivelarli agli uomini, sia pure sotto il velame. I commentatori che con maggiore o minore abbandono cadono in questa superstiziosa credenza, confondono la verità dell’arte con le vicende accadute della cronaca, e cosi non attingono quella verità lirica che è tutta nella genuina dote del poeta (dirò nella genuina invenzione che si distingue dalla menzogna la quale non parla ma simula parole e non può mai giungere alla poesia): costoro non comprendono come Dante abbia veridicamente immaginato il suo viaggio, nella coerenza del suo sentire e della volontà di dire, in quel regno del desiderio o delle cose «avvenevoli», per usar l’aggettivo di Ludovico Castelvetro, in cui la poesia è vera o falsa secondo che l'artista esprima un sentimento vero o falso. E la verità o falsità di una poesia si riferisce alla forma e non già alla materia, che di cosa reale o di cosa immaginata, è alla pari dinanzi alla parola umana in cui l’uomo la nomina e costruisce e canta, facendone una realtà mentale che non esisteva né dentro la natura né dentro la cronaca degli avvenimenti.
Comunque essi sono affaccendati a ricercare quei misteri che Dante avrebbe conosciuti, e non sospettano che le allegorie di Dante, o spesso le sue rappresentazioni di un mondo allegorico, si spiegano o si considerano arcane per la mente dell’uomo, nei termini della cultura religiosa e filosofica dell’età in cui Dante visse. In ogni caso il senso letterale, anche se talvolta rimane difficile, è il solo nel quale possono ritrovarsi tutti i significati che paiono reconditi o che dichiaratamente sono detti incomprensibili per l’uomo, sicché, ad essere coerenti, non bisognerebbe neppure indagarli, ricordando ai mortali quanto son difettivi i sillogismi che in basso fanno batter l’ali.
E dal senso letterale si giunge ad una interpretazione tutta poetica della Commedia, che in poesia risolve ogni rappresentazione di sentimenti e di idee, fino all’astronomia e alla teologia. È vero che nel Convivio Dante lasciò famosi precetti che sembrano opporsi e nuocere alla interpretazione tutta poetica della Commedia là dove disse «le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi»; e prima il litterale, poi l’allegorico «che si nasconde sotto ’l manto di queste favole [dei poeti], ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna»; poi il morale, «e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture ad utilitade di loro e di loro discenti»; infine l’anagogico «cioè sovrasenso; e questo è quanto spiritualmente si pone una scrittura, la quale ancora sia vera eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne de l’etterna gloria».
Ma i vari sensi che Dante cerca non sono altro che velocissime comparazioni o analogie, amore che calamita e avvicina le cose lontane: di sotto ogni allegoria potreste far apparire il nascosto «come» della similitudine. E in quest’operazione non c'è l'intervento del freddo intelletto che vuol conferire alle parole un significato arbitrario; ma la spontanea associazione delle analogie.
E ciò che talvolta chiamiamo a torto allegoria, è una lingua metaforica o, per usare un'espressione della scuola, è un paragone continuato in un linguaggio interamente noto, e formato per via poetica, non già arbitraria; un paragone prolungato ove il «come» delle analogie è soppresso. E chi diceva la «selva del peccato» non pronunziava che una immagine, in cui l’anima in tante colpe e si intricate era paragonata a una selva. E chi diceva «aquila» (e avviene anche oggi) diceva spontaneamente impero: così i segni araldici, metafore primigenie, riprendono il loro primo motivo di favolette poetiche. Allo stesso modo si odono oggi anche più ardite espressioni che son diventate comuni quali «il fior degli anni», la «primavera della vita». I sensi figurati prevalevano sui primi significati propri.
Se Dante nel Convivio scrive che per cielo intende la scienza, c'è caso che ciò sia, prima che per una deformazione pratica, per una iniziale immagine lirica, simile a quella per la quale chi dica il cielo di una camera obbedisce ormai a una parola diventata termine pratico e sprovveduto di poesia, ma che ebbe inizialmente un valor poetico: e se nel Convivio dice occhi per dimostrazione, dapprima egli ha visto una immagine. È difficile cogliere in certe allegorie dantesche quel primo nucleo poetico di cui si parla; ma bisogna saper vigilare per distruggere appunto il moto arbitrario e abituale dell'allegoria e scoprire il moto lirico dell'origine. Qui non si tratta di negare che nella Commedia Dante abbia potuto immettere alcuni passi dottrinali e allegorici e non poetici soggiacendo alla teoria astratta, come immise fatti passionali che non sono interamente risolti in poesia; ma il nodo della questione è un altro: se cioè il carattere dottrinale e allegorico soffochi la poesia o la disperda ed anzi annulli. Qui si afferma la superiorità della poesia su ogni altro stato del cuore e della mente di Dante. E ciò non vieta di avvertire come talvolta – il carattere della prima visione (il gran paesaggio e l’armonia universale della Divina Commedia) si appesantisca dando origine a parti schematiche, tratti esterni, congegnati (non sentiti per legge spontanea), simili a quelli che nelle tragedie fecero introdurre nutrici e confidenti a narrar l'antefatto. Sono i passi stanchi di ogni ispirazione o meglio di ogni elaborazione poetica, e si trovano in Dante come in Omero che talora dormitat o in Virgilio o nell’Ariosto o nello Shakespeare, e a che nelle liriche più esigue di fugacissimi poeti. Poiché non v'è lirica, la più breve e fulminea che si possa concepire, nella quale un qualche tratto, parola o periodo, non sia sorda alla perfezione della forma: così come non v’è lirica, per breve e fuggitiva, che non presenti a chi legga o computi analiticamente, una struttura su cui si svolge la poesia: sia di Omero o Shakespeare, Keats o Baudelaire, Foscolo o Leopardi, o magari dei poeti che vollero ridurre la poesia all’esclamazione o alla pagina bianca. E che Dante abbia in alcuni punti soggiaciuto a una teoria che imponeva allegorie e velami, e per poco da poeta si sia fatto allegorista, non ha importanza.
L'allegoria è per definizione un fatto arbitrario, meccanico e astratto; ma talvolta diciamo erroneamente allegoria una lunga metafora che ha valor di poesia, proprio perché non è più un atto pratico ma quell’alone che sta tra la parola e il suo velo allegorico, come il carattere della metafora non è nell'essere una parola impropria usata invece di una propria, ma nel rapporto tra le due, in quello spessore vago della musica e del segno vocale.
Poniamo il caso della cosiddetta allegoria di Matelda. Ella è, sì, la donna che «si gìa Cantando e scegliendo fior da fiore»; ma la parola dantesca poeticamente allegorica (e cioè analogica, non già un volitivo gergo verbale) la dipinge come in una seconda vista, ove i gesti scrivono una segreta indefinita melodia. E la commozione del poeta non è nella semplice grazia di quella visione mattutina, ma nella trepida presenza di ciò che ella rappresenta, in rapporto al Paradiso terrestre € al Paradiso celeste: come una musica trascrive un fatto di natura e lo tramuta in una nuova forma. In una figura di donna che l'artista chiamò la Primavera e compose in un paesaggio di favola, vedrò non solo i lineamenti di una donna ma tutte le poetiche allusioni. E io chiesi più volte: paragonerete Matelda soltanto a una coglitrice di fiori e sia pure più diafana di quelle che appariranno nelle ballate del Sacchetti? Ella coglie i fiori in quel cielo, e per quei celesti fini: in uno spazio e in un giardino mitico; e senza quell’aura e quel giardino nati nell’invenzione di Dante, la figura della donna che canta e sceglie fiori non avrebbe quell'incanto.
La figura e il figurato non son due cose, come ha creduto anche il De Sanctis: son tutt'uno: nella figura è presente e lo intona di sé, anche il figurato, anche l’allegoria. E l’allegoria nella Commedia o è risolta interamente nell’immagine poetica e insomma non è più allegoria, o è rappresentata appunto come allegoria, come un mistero che assume una nota forma, e poniamo quella del grifone e in genere delle processioni apocalittiche del Purgatorio; ed è dunque il sentimento di vaghe e incomprensibili immagini rivelate.
Il grifone del Purgatorio è la rappresentazione di una allegoria: e questa è tessuta coi procedimenti stessi delle più note allegorie cristiane, cosicché il suo linguaggio non è astratto, ma iscritto nella tradizione della comune lingua e conoscenza. La processione dei ventiquattro seniori coronati di fiordaliso, e dopo i seniori quattro animali come li videro Ezechiele e San Giovanni, è una serie di allegorie chiesastiche che Dante fulgidamente investe della sua poesia: il loro significato è tutto nella rap- presentazione di arcani linguaggi, ignoti al poeta, anche se egli li raffigura come comprensibili al Dante che è protagonista della Commedia. E qui giova ripetere che non è lecito distrarsi mai dalla elementare e ovvia premessa che Dante rappresenta se medesimo come colui che per successive forme di purificazione, avvicinandosi a Dio, intende i misteri che ai mortali sono preclusi. Il fatto è che dei misteri egli non può rivelare la verità come sc la sapesse, e veramente fosse salito al cielo e avesse visto Dio: può soltanto dare la rappresentazione del senso del mistero e del loro arcano simbolo; tradurre in una raffigurazione come di fatto passato il desiderio di scoprire il mistero e di indiarsi.
L’allegoria dantesca non è né filosofia, né costruzione volitiva: è un linguaggio poetico. E come tale esso è chiarissimo, perché oltre di esso non c'è nulla da cercare; perché in esso è detto tutto quel che il poeta voleva comunicare e cioè la rappresentazione sensibile del mistero allegorico, che non cessa di rimaner mistero. Chi rappresenta la Trinità per cerchi concentrici e figure non intende spiegarne il mistero, ma solo effigiarlo nei modi umani, quelli che solo può conoscere.
Qual è l'allegoria della Commedia? Il viaggio dell'anima pei regni del peccato e della gloria celeste? Il suo fondamento è dunque la fede cattolica del catechismo; i suoi punti bui son quei medesimi temi che la fede dichiara inafferrabili dalla mente umana, e che la poesia sente dunque soltanto come l'immagine della Rivelazione divina.
E quando Dante invita a guardar la dottrina che si nasconde sotto i suoi versi, non intende già una dottrina ignota, che come tale sarebbe sempre celata s’egli non la svelerà, ma la comune dottrina delle scuole e della Chiesa. Invita cioè a sentire più profondo il respiro della figura ch'egli rappresenta; anzi è da dire che egli rappresenta una figura col presupposto che il suo lettore conosca anche il figurato, ed egli avvisa di non fermarsi all’esterno: quella di Dante è una fictio rettorica, simile alle preterizioni che affermano di tacere proprio quello che stan dichiarando: Cesare faccio.
Dante credeva al mistero, credeva alla Rivelazione, cioè al gran racconto della vita, della morte e dell'eterno, foggiato dal Cristianesimo come parola di Dio.
Dante ha voluto rappresentare come oscura e incomprensibile per la mente stessa degli uomini tanta parte del mondo che egli esprime: non perché egli la comprenda e la voglia nascondere a chi legge, ma perché è materia della fede comune, e la sua arcana oscurità è da lui formata secondo l’intima forma delle comuni credenze religiose. E non è già che la lettera ci sia per i profani – come diceva il De Sanctis – e che invece gli iniziati debbano leggere di là dalla lettera: è la lettera stessa che si approfondisce fino a svelare ogni segreto. Il mondo apparente e l’occulto sono una sola parola. Di là c'è il mistero.
Chi crede che Dante conoscesse i misteri a cui accenna e che sono ignoti all'uomo, sembra aver prima creduto, come abbiamo detto innanzi, che veramente Dante fece il viaggio per i tre regni e vide Dio.
Ed ecco che, per questa via, anche studi come quelli talora sconcertanti ai quali così strenuamente attese il Pascoli in Minerva oscura, La mirabile visione, Sotto il velame, ricercando i simboli della Divina Commedia, si mostran legittimi e utili, sol che la ricerca aiuti a illuminare il linguaggio della rappresentazione, e non converta, invece, la rappresentazione e la poesia in espedienti per l’allegoria. La ricerca a cui noi miriamo è sempre una ricerca di elementi poetici; e la conoscenza di tante dottrinali allegorie vale a farci approfondire il senso e il tono della parola poetica. Le figurazioni artistiche e religiose in cui la fede cristiana per dodici secoli espresse plasticamente la visione della vita oltremondana, avevano fatto della cosiddetta allegoria un linguaggio proprio e diretto: i racconti e i viaggi nel regno dei morti, da tutte le fonti cristiane e pagane affluivano allo spirito di Dante per assumere un nuovo significato poetico.
Che cos’è ad esempio l'aureola dei santi che noi vediamo senza stupore e subito intendiamo? Una allegoria della santità di una creatura che dal capo, suprema parte dell’uomo, che contiene i pit sensibili e visibili organi dei sensi e contiene l'invisibile sede della mente, si manifesta con irradiazione di luce. Ma questa allegoria è chiara e palese al punto d'essere diventata come un fatto naturale. E ogni artista lo esprime secondo l'ordine della sua pittura e scultura: un’ampia raggiera d'oro o un circolo sottile, intonati agli altri ritmi della forma. Cosi ciò che si chiama l’allegoria di Dante è una rappresentazione di allegorie il cui linguaggio è ben familiare alla sua età, o è una creazione lirica nel cui senso letterale cioè poetico è tutto adunato il mondo delle passioni, delle idee, delle dottrine, dei simboli, dei miti, delle immagini che battevano all’animo di Dante e nel suo genio tendevano a farsi un’armonia.
Le visioni dell'Apocalisse di san Giovanni; la lettera di san Paolo ai Corinzi in cui raccontò d’essere stato ratto insino al terzo cielo, ove udì arcane parole che all'uomo non è dato favellare; tutti i racconti che di quella Visio Pauli s’ebbero più tardi, e per esempio nel secolo XI, con ogni particolare sul viaggio oltremondano tra i reprobi dell'Inferno (ove Belzebù ha in bocca dannati), e tra i beati del cielo; le fantasiose e orride visioni d'Irlanda, come la Navigatio sancti Brandani all'Isola Perduta che le mappe medievali segnavano con precisione geografica nell'Atlantico, non lungi dalle Canarie; il pozzo rivelato dal Signore a san Patrizio (il Purgatorio di san Patrizio), ove poi Owen discese e conobbe la bocca dell'Inferno, per passar poi su per un ponte al Paradiso deliciano o terrestre; la Visio Tungdali con l’Inferno, e il muro e il prato del Purgatorio, e poi il Paradiso: le più varie visioni con le quai i cristiani elaborarono l’immagine corporea dell’oltretomba, sino a quella di Frate Alberico che popolò l’Inferno di spaventosissime pene, confluiscono, per vie segrete o consapevoli, nella Commedia e vi si affinano sino alla classica pienezza dell’arte. Dico secondo quell’arte latina che gli aveva fatto conoscere l’omerico approdo di Ulisse all’Erebo, la Via Lattea del ciceroniano Sogno di Scipione ove son beati gli uomini che giovarono all’umana civiltà; soprattutto il viaggio di Enea nell’Averno qual è narrato da Virgilio nell’Eneide, e quale Dante medesimo ricorda insieme al rapimento di san Paolo al cielo («Io non Enea, io non Paolo sono»).
Anche le arti figurative avevano, per così dire, sciolto le allegorie, popolando le chiese di affreschi in cui la rivelazione del mondo delle anime dopo la morte dei corpi era narrata e fatta concreta nei modi del colore: ‘con ingenua terribilità era rappresentato il giudizio universale con Cristo giudice; e a fianco del Signore la Vergine Maria, l’eterno femminino religioso, cinta dalla rosa dei beati. Le arti avevan già solidificati i simboli cristiani, avevan dato figura ad angeli e demoni, e alle anime umane separate dal corpo una figura come di luce e d’eco. Anzi, tra l’arte di Dante che sopra tutto nel Paradiso lavorò figure il cui corpo era solo un rilievo di luce, e l’arte dei pittori trecenteschi, si istituisce una spontanea affinità. Un medesimo estro sembra ispirare le preganti figure di Giotto, espresse nel disegno e nel colore, e le figure che Dante disegnò in una parola che tende per vie musicali alla luce. E affreschi veri e propri, figurati mediante suoni vocali, ma il cui senso emotivo non può esser per noi che un accordo di colori, splendono nel Paradiso dantesco; ed hanno non soltanto il medesimo gesto delle figure di Giotto ch'è nel rito cattolico, ma una medesima tenerezza d’arte.
Letto così, tutto il poema si riscatta alla poesia, o nella particolare tonalità delle tre cantiche, o nella varia sequenza dei singoli episodi e motivi e versi, risponde all'unità poetica dell'ispirazione dantesca. Il senso letterale assorbe e in sé contiene tutti gli altri sensi e le loro analogie, tutto il cuore e tutta la mente di Dante sotto la specie della poesia.

Date: 2022-09-21