Sul carattere dell’allegoria dantesca [Gianni Grana]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Étienne Gilson

Tratto da: Atti del Congresso internazionale di studi danteschi

Editore: Sansoni, Firenze

Anno: 1966

Pagine: 213-220

1. Sezione 1

Per contenermi nel breve lasso di tempo assegnato, riduco il discorso a un prospetto quasi schematico: mi limito a fare il punto critico, in qualche modo, sul problema dell’allegoria nella Comedia, integrando spunti o motivi già toccati, come vedo, in alcune relazioni. È noto che lo studio di questo fondamentale problema soffre ancora di un interesse inadeguato nella critica italiana, riluttante a proporsi il tema con la necessaria convinzione, dopo gli interventi polemici del Croce, efficaci per certi aspetti, veramente improduttivi per altri. La svalutazione crociana dell’allegoria come criptografia, metodologicamente giustificata e in parte motivata dagli eccessi, a loro volta eccessivamente censurati, delle esegesi allegoristiche, si inseriva nella più larga rescissione di struttura e poesia, e non aveva il pregio della novità, se si pensa solo, sorvolando la tradizione cinque-settecentesca, ad alcuni momenti cardinali della critica dantesca dell’ottocento, dal discorso foscoliano alle lezioni desanctisiane. Quanto più utili le contemporanee osservazioni del Gentile nel saggio su «La profezia di Dante». Non sorprende il semplicismo di un così drastico rifiuto, ribadito in seguito, che riusciva solo a eludere un problema già trascurato anche dalla nostra critica positivistica, con le debite eccezioni dal D'Ancona al Comparetti, e che agli inizi del secolo doveva ricevere dal Flamini una cospicua sistemazione: ancora fruibile, ad onta dei «significati reconditi». Ed è ovvio che i suggerimenti più folti derivano proprio dai cosiddetti allegoristi, meglio di tutti per larghezza di dottrina e capienza di visuale storica il dimenticato F. Perez, e poi il Pascoli e i suoi epigoni più o meno conseguenti, le cui costruzioni ermeneutiche spinte oltre limite e spesso imputabili d’arbitrio, specie nelle pericolose chine esoteriche, erano pure rispettabili nei casi meno avventurosi, se non altro come tentativi di approssimazione alla spiritualità dantesca e, pet così dire, alla stessa genesi mentale del Poema.

2. Sezione 2

Non per nulla, mi pare, la critica non italiana ha manifestato e manifesta ben altro interesse al problema, come in genere all’allegorismo e al simbolismo medievali, e una disposizione più attiva a una ricerca storico-filologica, intesa a restituire intanto l’allegoria dantesca alla sua propria e remota prospettiva culturale. Indispensabile acquisto per la ricognizione critica di una tecnica ideativa dei segni, di figure significanti, così strettamente ancorata a un abito intellettualistico e a una intuizione spirituale e religiosa del mondo, e così tipica di tutta una civiltà, pet quanto irraggiungibile a noi, se non con una mediazione storica e critica appunto. Un repertorio onomastico è certo privo di senso, ma anche la sola indiscriminata enumerazione (dall’Ozanam all’Hauvette, al Mandonnet, al Gilson, al Pézard, al Maritain ecc; dal Moore e Gardner, Grandgent, Fletcher, a Eliot, Lewis, Singleton ecc.; dal Kraus al Vossler, a Cuttius e Auerbach ecc., tralasciando gli assertori dell’esoterismo dantesco), può dare il senso di una persistenza e continuità sintomatica di interessi, non importa se anche priva di cautele, come pare. E naturalmente presuppongono anch’essi gli studi in prevalenza non italiani sulle idee estetiche e sulle poetiche medievali, e in particolare sulle interpretazioni simbolistiche e metafisiche dell’universo. Occorre ricordi tra i più affini, o meno distanti dai nostri interessi, dopo Huizinga ecc., il Glunz, il De Bruyne, il Curtius stesso? Credo del resto che non capiti solo per caso che in questo stesso Congresso siano studiosi non italiani, anzitutto Gilson Singleton Renucci, a trattare specificamente, da punti di vista diversi, temi che si ricollegano al nostro.

3. Sezione 3

Volendo ora fissare delle linee metodologiche, sembra superfluo avvertite che i moderni concetti critici, le nostre abituali formule teoriche, i nostri schemi pratici, frutto di una esperienza secolare, debbono servirci a illuminare con attuale sensibilità storica tecniche conoscitive e abitudini esegetiche a noi estranee, non ad oscurarne la no- zione per chiudere la partita con facili reiezioni. Una preliminare discussione teorica su metafora, simbolo, allegoria, con le opportune distinzioni concettuali, permetterà di circoscrivere storicamente l’ambito della ricerca e di individuare la peculiarità di quei complessi procedimenti inventivi, per poi reintrodurli nel raggio della nostra sensibilità, ed eventualmente delle nostre ossessioni estetiche. Fino a quando si confonderà, come spesso ancora oggi succede, o non si farà la debita e netta distinzione tra esegesi allegorica e concepimento allegorico della poesia, l’allegoria seguiterà ad essere per noi nient'altro che un ingenuo artificio: o tutt'al più resterà un atto pratico, una pia intentio didascalica e moralistica. Mentre diverso è il figurare emblematico, con ispirata significazione etica e metafisica, generato nell’atto che forma la parola poetica, e altra cosa è l’analisi logica spesso congetturale e gratuita di sensi riposti nel contesto della fabula già fatta, la «bella menzogna». Sforzi ermeneutici di cui Dante stesso, si sa, aveva dato esempio commentando allegorice e a posteriori le proprie rime.
Né meno arrischiate sono le generalizzazioni retoriche, evidentemente non legittimate dal fatto che si rinvengono originariamente nelle consuetudini classiche e medievali, e per cui si include l’allegoria nella metafora o nel simbolo e di tutti e tre i termini si fa uso estensivo e indistinto, onde la metafora è un’allegoria raccorciata, o l’allegoria è una metafora allargata o continuata (secondo la classica formula ripresa dal Barbi e dal Flora), o magari una « metafora dimezzata » (il Vallone, ora, con assai più precise e minuziose suddistinzioni); e tanto più agevolmente si identificano allegoria e simbolo, termini intercambiabili di una medesima relazione associativa tra figura e figurato, dove entrano allo stesso titolo mito e personificazione, metafora e similitudine, favola e parabola. Generalizzazioni che spiace ritrovare persino nelle pagine di uno studioso come il Nardi che dava, come esempi di «figurazioni allegoriche dotte» e di «comparazioni ingegnose» di tipo astratto duecentesco, anche le figure del prologo della Comedia e, se non ricordo male, quelle della sacra foresta. Qui, evidentemente, sfuggono i caratteri storici dell’allegorismo medievale, e soprattutto le necessità interne dell’allegoria dantesca.
Le discussioni post-crociane, occupate nel dibattito su poesia e struttura, hanno dato nondimeno qualche impulso anche al progresso del nostro problema; pur risolto all’alternativa tra allegoria o lettera, dove uno dei termini esclude l’altro, scontata l’equazione lettera-poesia, la preoccupazione maggiore di alcuni critici, in mezzo alla polemica antiallegoristica con i pascoliani, fu allora di superate la tradizionale scissura, con una strenua reductio ad litteram dell’allegoria nella Divina Commedia, con l'impegno di erodere lo spazio astratto dell’allegoria come artificia ed enigmata, per recuperatlo all’immediata evidenza della lettera. Ricordo specialmente il Barbi che, ripigliando dal Flamini le classificazioni scritturali tomiste, consentiva a riconoscere nell’allegoria dantesca un linguaggio parabolico o tropologico che Tommaso diceva contenuto sub litterali, come senso strettamente legato alla figura. E si tratta naturalmente di intendersi, dal momento che anche Dante aveva scritto nel Conv. II «che sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi», tutti gli altri. Era un progresso, non una soluzione soddisfacente, dove in fondo resisteva sempre il pregiudizio crociano che respingeva l’allegoria come estrinseca alla poesia, come «vacuità poetica o bruttezza», e che inficiava anche un commento così fine come quello del Momigliano.

4. Sezione 4

Più penetrante e proficuo era invece lo studio dei rapporti tra allegoria e simbolismo, compresenti nella Commedia. Distinzione specialmente ricorrente nella critica non italiana, e che risale a una tradizione filosofica secolare (il Gadamer oggi difatti la dà per «ovvia», come «risultato dello sviluppo filosofico degli ultimi due secoli»). Essa ci pone nel vivo del problema, dei procedimenti ideativi del poeta. In questo senso, un contributo notevole è fornito da un recente studio del Pagliaro (concettualmente legato, ritengo, al saggio Symbol und allegorie del Gadamer appunto), il quale esercita più opportunamente l’assorbimento alla lettera nell’ambito del simbolo come sensus poeticus, della lettera cioè includente tutte le implicazioni simboliche proprie della finzione poetica. E però devo dire che in tal modo l’allegoria è ancora respinta come non poetica, poiché viene a ritrarsi con le sue connotazioni «estranee» (così il Pagliaro), in momenti di «caduta» quasi sporadici o di «slittamento», come dice, quando l'intenzione concettuale soverchia, con l'imposizione esterna di un significato, l’intuizione figurativa già per sé significante, ed è perciò aperta all’arbitrio esegetico. Nonostante tali esclusioni, forse teoricamente motivate, è senza dubbio uno sforzo cospicuo di redimere l’allegoria nella Commedia, non solo alla intuitiva immediatezza delle immagini, ma anche alle concrete significazioni simboliche della poesia dantesca, che tuttavia mi pare non risulti così caratterizzata adeguatamente nella specifica tensione metafisica e teologica, operante nella figurazione allegorica. E non a caso il Pagliaro esclude che la Commedia sia profezia e rivelazione. Se mai più giustamente, a mio parere, egli stesso aveva veduto, in un saggio precedente di alcuni anni, l’allegoria della Commedia come «metodo di espressione».
Credo che il centro del problema sia piuttosto in un’altra e connessa alternativa, quella tra allegoria e realtà, se sia vero cioè che sussiste antinomia irriducibile nella Commedia tra l’allegoria, vista come astrazione concettuale e mistica, e la tensione storica e mondana, potremmo dire, che feconda il realismo dantesco. Ora proprio favoriscono una più esatta nozione e un più sicuro accordo spirituale alcuni contri- . buti, in particolare quelli più noti del Gilson e dell’Auerbach, che riproponevano pure distinzioni diverse tra simbolismo e allegoria (e per il Gilson, tra «deux familles de symboles»), ma richiamando insistentemente l’attenzione sull’identità storica e reale, non soltanto fattiva o fittizia, delle figure simboliche dantesche, ricavate dalla storia, dall’esperienza personale, dall’eredità culturale dell’età sua. E non vorrei dimenticare gli accenni, in questo senso, anche di critici nostri, come il D’Ancona, il Comparetti, il Foscolo Benedetto. Sulla scia di una tradizione «figurale», classica e medievale, di cui l’Auerbach traccia di lontano il percorso, integrando una sua precedente interpretazione di Dante come «poeta del mondo terreno», su uno sfondo culturale contiguo alla Commedia dantesca, e familiare al poeta (la figura come profezia reale nei padri della chiesa), l’originale formula esegetica, nella sua apparente limitazione, rappresenta certamente un acquisto metodologico di grande rilievo, per una caratterizzazione strutturale e storico-filologica dell’allegoria dantesca. Tanto più che per esplicita dichiarazione, – mi riferisco naturalmente al saggio Figura —, il senso «figurale» si identifica precisamente con quello allegorico come era inteso da Dante e dai suoi contemporanei, e pet quanto riguarda Dante stesso l’esaurisce tutto, venendo a distinguersi dall’allegoria classico-pagana (qui si soccorrono anche le note pagine del Curtius) e dall’astratto allegorismo didascalico-moralistico medievale. In pratica quindi l’interpretazione figurale del. Auerbach contribuisce bene a serrare i due termini apparentemente inconciliabili di un’ambivalenza, a individuare nella sua genesi culturale la storicità e quindi realtà della visione dantesca, nella stessa ispirazione escatologica, religiosa e profetica che sostanzia il poema, nel quale le terrestri figure del mondo storico-reale, con la tipica fusione di realismo e spiritualità («‘umbra’ di ciò che è autentico, futuro, definitivo e vero», dice ottimamente l’Auerbach), adempiono la propria verità reale, giudicata sul piano divino della salvazione, nella visione rivelata e reale dell’oltretomba.

5. Sezione 5

Il superamento del dualismo tra lettera-poesia e allegoria, raggiunto anzitutto in una prospettiva storico-culturale, nell’unica reductio ad unum legittima, integra i termini nell’unità spirituale della coscienza cristiana, per cui visibilia e invisibilia rerum erano entrambi inerenti alle cose reali, effetto di una sola causa. Il realismo religioso di Dante, si sa, non può intendersi se non in questa duplice dimensione. Così l'ipotesi ormai consolidata di una intima e studiosa mimesi biblica, nella Commedia, ha trovato convalide interessanti anche nel Pézard e nel Singleton, il quale ultimo, riproponendo la definizione del poema dantesco come «analogia del poema di Dio», il poema creato nella natura e quello rivelato nelle Scritture, ha avvertito che «l’allegoria nel poema di Dante è soltanto la sua maniera di essere visione totale». La discussione ormai si è spostata su un’altra alternanza del resto non nuova, però nell’interno della concezione allegorica (per cui il Singleton parla di «due specie di allegoria»), distinzione proposta come è noto da Dante stesso nel Conv. II, fra l’allegoria «per lo modo de li poeti», inclusa nella fictio poetica come le «fabule» classiche, e quella teologica o biblica, che è rivelazione di verità storico-reali in facto allusive a verità soprareali in verbis, secondo la formulazione agostiniana. Non potrei qui addentrarmi in una fervida discussione (e tanto meno fornire giustificazioni e prove, che rinvio a uno studio in corso di elaborazione). Ma non dubiterei, d’accordo col Pézard e col Singleton, che in quello che per autodefinizione è «poema sacro», Dante si stacchi dallo spirito dell’allegoria classica e profana «inclusa ne le favole de li poeti», e attinga alle fonti dell’allegoria teologale per il tramite scritturale, conforme alle note esegetiche e alla relativa esemplificazione dell’Epistola contestata. E sarebbe se mai da invertire la vecchia opzione del Flamini, riqualificata in un certo modo dal Pagliaro, e ora vedo anche dal Gilson e dal Meersseman. Il che, s'intende, non preclude affatto, anche in questo caso, la tendenza sincretica dantesca a fondere e riplasmare genialmente forme e figure di tutta una tradizione classica e medievale. Né tanto meno implica, quindi, che Dante vada trattato da teologo anziché da poeta, o che adotti un astratto modus dicendi teologico anziché un concreto modus poetico.

6. Sezione 6

La larga revisione già avviata rende ormai possibile, proprio per questa via, la restaurazione di un nuovo criterio esegetico auspicata di recente dal Battaglia. Ultimo ed essenziale passo da compiere, traendo le conseguenze logiche, è di riassumere l’allegoria come elemento attivo di poetica, se vogliamo dire, dalla struttura nella forma; reintegrarla, quando e dove si produce, non solo come contenuto virtuale di poesia, secondo l’indicazione del Battaglia stesso (corrispondente del resto ai risultati sin qui raggiunti, nelle proposte eminentemente strutturali cui ho accennato — nel che forse è il loro limite), ma in definitiva come forma interna, diciamo pure come «schema semantico» (Singleton), che però determina una tensione espressiva propria del modus dicendi poetico. Già il Pézard, osservando che l’allegoria per Dante non è artificio ma «le plus grand art de l’écrivain» e che di «un art tout théologique» Dante ha fatto «pour des fins encore théologales un art littéraire systèmatique», non esitava a scorgervi fuggevolmente «un mode d’expression, une langue sacrée» (e anche il Gilson aveva parlato di «un language sacré»), che nella parola profonda suggerisce l’inafferrabile.
L’allegoria nella Commedia non si risolve al figurato, al concetto, ma individuata, direi incarnata nella figura e nell'immagine sensibile, comprende l’intuizione fantastica che la suscita o risuscita, anche se mediata dalla tradizione. Non si tratta dunque di scoprire sporadicamente poetizzata l’allegoria, come la didascalica e l’oratoria, mediante le formule pratiche con cui il Croce sopperiva alle strozzature della sua estetica. Accolta la norma polisemica come canone linguistico, l’allegoria nella Commedia, così delimitata (sappiamo bene tutti che non tutto è allegorico nel poema) e così riposta, non solo fra le consuetudini tarde di una cultura, ma anche fra le necessità profonde dello spirito di Dante, sorpassa la meccanicità di un mero procedimento pratico e tecnico. Informando la concezione stessa del Poema, quell’imitatio Dei che non contraddice ma anzi esige l’imitazione della realtà, investe l’operazione inventiva e stilistica, si realizza visualmente come fantasia figurale e stile allusivo, nell’impulso spirituale che promuove la qualità poetica del linguaggio, ispirato alla severa parola di Dio, di un'arte per rima educata ed esemplata sui maestri ma conformata all’arte divina. In questa direzione, qui appena accennata, a me sembra possano prodursi fruttuose verifiche filologiche e critiche, oltre quelle già tentate parzialmente (cito per es. il Getto per il Paradiso), non certo per incoraggiare una nuova ermeneutica allegoristica o esoterica, ma uno studio delle figure e forme allegoriche, esaminate con gli indispensabili sussidi storici e retorici, nella loro propria e complessa fattura di segni polivalenti, ossia reali e significanti.

Date: 2022-09-21