Mito, allegoria e pensiero scientifico nell'Inferno [Alessandro Ghisalberti]

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Dati bibliografici

Autore: Alessandro Ghisalberti

Tratto da: Dante e il pensiero scolastico medievale

Editore: Edizioni di Sofia, Milano

Anno: 2008

Pagine: 33-34; 37-45

La Commedia dantesca, incentrata sull’esplorazione conoscitiva e sull’attraversamento redentivo del triplice regno ultraterreno, ha richiesto l’invenzione poetica di un mondo mai visto, ma le cui fondamenta affondano nelle tradizioni della teologia cristiana, nelle storie bibliche, nei poemi epici della classicità, nelle autorità dei filosofi antichi e medievali, nella letteratura geografica e apocalittica di varia provenienza, in un materiale sedimentatosi nel tempo e che nel corso del secolo XIII si è rinnovato grazie all’incontro dell’occidente cristiano con la cultura filosofica e scientifica greca, araba ed ebraica.
Per formarsi un'idea della molteplicità dei livelli di significato presenti nel tracciato poetico della Commedia ci si può rivolgere all’Epistola XIII a Cangrande, dove Dante riflette sulla poetica dell’opera. Sua prima caratteristica è la polisemia, il suo distendersi sul piano dei quattro sensi, letterale, allegorico, morale, anagogico:

Il significato di codesta opera non è uno solo, anzi può definirsi un significato polisemos, cioè di più significati. Infatti il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’altro è quello che si ha da quel che si volle significare con la lettera del testo. Il primo si dice letterale, il secondo invece significato allegorico o morale o anagogico (...) E benché questi significati mistici siano definiti con diversi nomi, generalmente si possono tutti definire allegorici, in quanto si differenziano dal significato letterale ossia storico .

La materia della Commedia sottoposta ai quattro sensi è fondamentalmente teologica, in quanto incentrata sul viaggio nei tre regni dell’oltretomba per raggiungere la contemplazione di Dio, in profonda analogia con l’Itinerarium in Deum di Bernardo di Clairvaux, dei maestri di San Vittore, di Bonaventura da Bagnoregio; è dunque la teologia stessa, sapere coesteso con la rivelazione, a condividere la polisemia indicata da Dante.
I quattro sensi appartengono all’esegesi biblica medioevale e non sono esplicitati per virtuosismo o erudizione, bensì perché tutti insieme hanno il potere di dischiudere alla mente gli arcana sapientiae, di sostenere il percorso dalla «selva oscura» alla graduale ascesa a Dio, sino all'unione totale della mente con la divinità. I quattro sensi sono pertanto essenziali a ogni individuazione del campo teologico, ma l’Epistola XIII procede oltre e, nello spiegare come rendere ragione del costrutto teologico, si appella al procedimento raziocinativo, che attesta l’imprescindibilità del ricorso alla filosofia per una puntuale comprensione degli assunti teologici. Il poema diventa sacro in virtù dell’evolversi dell’allegoria e della filosofia in teologia, fino a renderlo espressione di una poesia ‘cristiana’ in grado di tradurre nella potenza del linguaggio e dell'immaginario poetico i contenuti della speculazione teologica.

[...]

1. Esegesi e allegoria: le figure di Marzia e dei giganti

Una delle figure che Jean Pépin ritiene tra le più interessanti a proposito dell’esegesi allegorica dantesca, in questo caso a livello antropologico, è quella di Marzia, la moglie di Catone l’Uticense , di cui si parla nel Convivio e in Inferno, IV, 128. Commentando i versi 136-139 della Canzone anteposta al trattato 4 del Convivio, a proposito della quarta età dell’anima (il senio, dopo la senectus), Dante dice che l’anima si prepara a tornare a Dio «sì come a quello porto onde ella si partio quando venne ad intrare nel mare di questa vita», e ringrazia Dio per i frutti dell’età passate:

E che queste due cose convengano a questa etade, ne figura quello grande poeta Lucano nel secondo de la sua Farsalia, quando dice che Marzia tornò a Catone e richiese lui e pregollo che la dovesse riprendere guasta: per la quale Marzia s'intende la nobile anima. E potremmo così ritrarre la figura a veritade. Marzia fu vergine, e in quello stato significa l'adolescenza; poi si maritò a Catone, e in quello stato significa la gioventute; fece allora figli, per li quali si significano le vertudi che di sopra si dicono a li giovani convenire; e partissi da Catone, e maritossi ad Ortensio, per che si significa che si partì la gioventute e venne la senettute; fece figli di questo anche, per che si significano le vertudi che di sopra si dicono convenire a la senettute. Morì Ortensio; per che si significa lo termine de la senettute; e vedova fatta — per lo quale vedovaggio si significa lo senio — tornò Marzia dal principio del suo vedovaggio a Catone, per che si significa la nobile anima dal principio del senio tornare a Dio. E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo.
E che dice Marzia a Catone? “Mentre in me fu lo sangue”, cioè la gioventute, “mentre che in me fu la maternale vertute”, cioè la senettute, che bene è madre de l’alte vertudi, sì come di sopra è mostrato, “io” dice Marzia “feci e compiei li tuoi comandamenti”, cioè a dire, che l’anima stette ferma a le civili operazioni. Dice: “E tolsi due mariti”, cioè, a due etadi fruttifera sono stata. “Ora” dice Marzia “che ‘l mio ventre è lasso, e che io sono per li parti vota, a te mi ritorno, non essendo più da dare ad altro sposo”; cioè a dire che la nobile anima, cognoscendosi non avere più ventre da frutto, cioè li suoi membri sentendosi a debile stato venuti, torna a Dio, colui che non ha mestiere de le membra corporali. E dice Marzia: “Dammili patti de li antichi letti, dammi lo nome solo del maritaggio”; che è a dire che la nobile anima dice a Dio: “Dammi, Signor mio, ormai lo riposo di te; dammi, almeno che io in questa tanta vita sia chiamata tua”. E dice Marzia: “Due ragioni mi muovono a dire questo: l’una si è, che dopo me si dica ch'io sia morta moglie di Catone; l’altra che dopo me si dica che tu non mi scacciasti, ma di buono animo mi maritasti”. Per queste due cagioni si muove la nobile anima; e vuole partire d’esta vita sposa di Dio, e vuole mostrare che graziosa fosse a Dio la sua operazione .

Dante offre un’esegesi molto articolata della breve narrazione di Lucano (Pharsalia, II, 326-345), condotta in modo particolarmente originale e senza precedenti: Marzia viene assunta come figura dell’anima dell’uomo nobile, del perfetto cristiano; i suoi stati in rapporto al matrimonio simboleggiano le quattro età dell’anima: il periodo di verginità prematrimoniale di Marzia sta a significare l'adolescenza dell’anima; il matrimonio con Catone, la gioventù; i figli avuti da Catone, le virtù della giovinezza; il matrimonio con Ortensio, la senectus; i figli nati da questo secondo matrimonio, le virtù che convengono alla senettute; la vedovanza da Ortensio significa il serio; il ritorno di Marzia vedova a Catone, il ritorno dell’anima a Dio, con l’unica aspirazione, di non voler alla fine essere chiamata altrimenti che “sposa di Dio”. Tutta questa complessa allegoresi è sviluppata da Dante sulla base della dichiarazione: “E potemo così ritrarre la figura a veritate”, sulla base cioè di un esplicito programma ermeneutico che mira a ritrarre (cioè a riportare, ricondurre) la figura (ossia una rappresentazione che non è in sé compiuta, non ha raggiunto il compimento), “a veritade”, alla sua piena verità. Con l’Auerbach, si riconosce la non perfetta sovrapposizione tra allegoria e figura, essendo la prima prevalentemente orientata a esaurirsi nei significati ultimi, in ciò che è chiamata a raffigurare (e non in ciò che essa è per se stessa), mentre la seconda conserva il personaggio storico: «È la struttura figurale che conserva il fatto storico mentre lo interpreta rivelandolo, e che lo può interpretare soltanto se lo conserva» .
Dante conserva lo spessore storico di Marzia, sia ponendola nel Limbo (Inferno, IV, 128), accanto a donne romane illustri, sia nel considerare i fatti della sua vita come altrettanti momenti qualificanti la vicenda storica, anche se per l’interpretazione figurale essi significano le quattro età dell'anima. Questo senso ultimo non comporta l’abolizione del senso storico, esattamente come accade per la figura di Catone Uticense, da Dante indicato come l’uomo terreno più degno di significare Iddio e, nella Commedia, fatto custode del purgatorio: l’uomo giusto e impassibile, alfiere della libertà, che è guardiano del purgatorio, così che discerna le anime autenticamente assetate della liberazione da ogni retaggio di peccato, è da Dante ammesso alla vita eterna; gli è attribuita la salvezza di Cristo, che gli ha meritato, come per i Patriarchi dell'Antico Testamento, la liberazione dal Limbo. Il corpo di Catone, deposto in Utica, nel giorno del giudizio finale risplenderà in tutto fulgore, sarà cioè nello stato di paradiso, come ribadisce l’espressione di Paradiso, XIV, 37-39: «Quanto fia lunga la festa / di paradiso, tanto il nostro amore / si raggerà dintorno cotal vesta».
Catone non è una semplice allegoria, o un semplice simbolo; egli adempie pienamente ai caratteri della profezia figurale di Auerbach, di una figura storica che, nella Comedia, è svelata .
Più direttamente collegata con il tema mitologico, calato in un contesto di grande rilevanza cosmologica, è la rielaborazione dantesca delle figure dei giganti nel canto XXXI dell’Inferno. Il primo dato che colpisce il lettore è l'accostamento di personaggi di derivazione dalla letteratura classica, greca e latina, con altri personaggi di derivazione biblica: a giganti per così dire pagani, che sono Briareo, Efialte, Anteo, Dante aggiunge Nembrot, di cui si parla in un testo della Bibbia (Gen 10-11). Questo dato fa sorgere un primo interrogativo: le figure, a parte i caratteri individuali, sono omologate in tutto e per tutto, o c'è qualche incidenza legata alla differente provenienza, alle diversità delle fonti da cui il poeta attinge?
Va poi ricordato un ulteriore aspetto problematico: Briareo è nominato da Virgilio, nell’Eneide (VI, 287), come “centumgeminus” “centuplo”, ossia dotato di cinquanta teste, di cinquanta toraci e di cento braccia; Dante provoca Virgilio, e gli chiede di mostrargli il gigante dalle cento braccia (Inferno, XXXI, 97-99); ma Virgilio soprassiede, va oltre, limitandosi a dare, quasi di sfuggita, una notizia (vv. 103-105), da cui si comprende che Briareo è uguale a Efialte, ossia che ha solo una testa, un torace e due braccia (vv. 87-88). Dall’analisi delle descrizioni si ricava che Dante raccoglie tutti i giganti sotto un unico tipo, senza distinguere tra i giganti della mitologia classica, che hanno dato l’assalto alla dimora degli dei, e il Nembrot del racconto biblico. Per quanto riguarda quest’ultimo, nel De vulgari eloquentia (I, 7), viene spiegato che Nembrot, considerato un vero e proprio gigante, aveva progettato la torre di Babele al fine di raggiungere Dio, cercando così non di uguagliare, ma di superare il suo creatore, in divergenza da quanto dice il libro della Genesi, dove non si parla di torre di Babele in riferimento a Nembrot, né di una sua opposizione a Dio. La sua equiparazione coi giganti classici, che pure avevano tentato la scalata alla dimora degli dei, è frutto di una assimilazione antica, ma che Dante molto probabilmente riprende da Agostino: Dio aveva punito Nembrot decretando per lui e per i suoi la confusione delle lingue; infatti egli è “anima confusa”, parla incomprensibilmente, non può capire il linguaggio altrui.
Invece di ricondurre i giganti classici alle figure bibliche, si assiste alla caratterizzazione della figura biblica di Nembrot sulla base delle azioni attribuite ai giganti dalle mitologie, ossia della rivolta dei giganti pagani agli dei, del loro tentativo di raggiungere gli dei, mettendo un monte sopra l’altro. In questo caso, si potrebbe quasi affermare che il testo letterario pagano illumina la comprensione del testo biblico. Si tratta di un risvolto dalla portata allegorica, che vuole caratterizzare secondo schemi letterari un’azione altamente riprovevole sul piano morale, e che viene esemplarmente stigmatizzata dalla punizione finale. Infatti, parlando globalmente, si constata in Dante, come già è stato rilevato da Peter Dronke, l’emergere di una precisa opera di ‘demitologizzazione’ delle figure dei giganti, di ridimensionamento delle caratteristiche anormali e un po’ divinizzanti di questi personaggi superdotati. Oltre a mettere Virgilio in difficoltà a proposito di Briareo, come ho già ricordato, nell’ottavo canto del Paradiso Dante assume una posizione negativa nei confronti dell’antico mito di Tifeo, secondo il quale il corpo del gigante giace sotto la Sicilia e i suoi contorcimenti sono all’origine delle eruzioni vulcaniche. Dante propone una spiegazione scientifica del fenomeno vulcanico e veicola il mito nell’ambito del naturale. L'armonia, caratteristica prevalente della creazione, non tollera presenze incontrollate e incontrollabili, in un ordine all’interno del quale tutto è disposto “in pondere, numero et mensura” dall’architetto dell’universo. Dante è in qualche modo sollevato di fronte alla constatazione che quei fenomeni sono cessati:

Natura certo, quando lasciò l’arte
di sì fatti animali, assai fé bene
per tòrre tali essecutori a Marte.
E s’ella d’elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
più giusta e più discreta la ne tene;
ché dove l’argomento de la mente
s’aggiugne al mal volere e a la possa,
nessun riparo vi può far la gente .

Per concludere la serie di esempi volti a documentare l’atteggiamento di Dante di fronte alle tradizioni mitologiche che presentano significativi intrecci con l'antropologia e la cosmologia, richiamiamo la figura di Fetonte, le cui avventure vengono desunte dal Poeta dalle Metamorfosi di Ovidio. Fetonte, figlio del Sole e di Climene, ottenne dal padre dopo insistenti richieste il permesso di guidare il suo carro, ma non seppe poi trattenere l’impeto dei cavalli che, accortisi della nuova debole mano che li reggeva, uscirono dal loro cammino usuale, incendiando parte del cielo, finché Giove non fulminò l’avventato auriga, facendolo cadere nell’Eridano. A quella bruciatura imprevista del cielo dovrebbe la sua origine la via Lattea: «Maggior paura non credo che fosse / quando Fetòn abbandonò li freni, / per che ‘l ciel, come pare ancor, si cosse» (Inferno, XVII, 106-108). Nel Convivio Dante precisa che l’attribuzione dell’origine della Via lattea all’episodio di Fetonte fu fatta arbitrariamente dai Pitagorici; si tratta di una versione mitologica, che Aristotele ha superato mediante una spiegazione scientifica, che toglie ogni consistenza reale al mito, pur affascinante a livello di fantasia:

Per che è da sapere che di quella Galassia li filosofi hanno avute diverse oppinioni. Ché li pitagorici dissero che il Sole alcuna fiata errò ne la sua via e, passando per altre parti non convenienti al suo fervore, arse lo luogo per lo quale passò, e rimasevi quella apparenza de l’arsura: e credo che si mossero da la favola di Fetonte, la quale narra Ovidio nel principio del secondo di Metamorfoseos. Altri dissero, sì come fu Anassagora e Democrito, che ciò era lume di sole ripercusso in quella parte, e queste oppinioni con ragioni dimostrative riprovaro. Quello che Aristotele si dicesse non si può ben sapere di ciò, però che la sua sentenza non si truova cotale ne l’una traslazione come ne l’altra. E credo che fosse lo errore de li traslatori; ché ne la Nuova pare dicere che ciò sia uno ragionamento di vapori sotto le stelle di quella parte, che sempre traggono quelli: e questo non pare avere ragion vera. Ne la Vecchia dice che la Galassia non è altro che moltitudine di stelle fisse in quella parte, tanto picciole che distinguerle di qua non le potemo, ma di loro apparisce quello albore, lo quale noi chiamiamo Galassia: e puote essere, ché lo cielo in quella parte è più spesso, e però ritiene e ripresenta quello lume. E quella opinione pare avere, con Aristotele, Avicenna e Tolomeo .

Il riferimento alla traduzione nuova dei Meteorologica di Aristotele, a opera di Guglielmo di Moerbeke, corrisponde a quello che esattamente Aristotele dice; la traduzione chiamata Vecchia è quella eseguita da Gherardo da Cremona, e non conteneva quello che Dante le attribuisce; Dante riferisce in realtà un’opinione presente alla lettera nell’esposizione dei Meteorologica fatta da Alberto Magno, il quale dipendeva dalla translatio vetus di Gherardo da Cremona, ma subiva anche l’influenza di Avicenna e di Tolomeo. È stato dunque Alberto Magno, seguito da Tommaso d’Aquino, a permettere a Dante di situare la spiegazione mitica dell’origine della Galassia; ciò non impedisce che lo stesso mito venga riproposto poeticamente nelle forme dell’allegoria i verbis, propria delle narrazioni poetiche e mitologiche.
Nell’Epistola XI, Dante richiama il mito in un’ottica moralizzante, rivolgendosi ai cardinali italiani con l’invito a riportare il papa da Avignone a Roma8. Nel XVII canto del Paradiso, Dante paragona il proprio stato d’animo a quello di Fetonte, quando questi si presentò a sua madre Climene, ansioso di sapere se era vera la notizia giuntagli, e cioè che non era veramente figlio del Sole: allo stesso modo Dante è ansioso di sapere dal suo trisavolo Cacciaguida quale destino futuro gli è riservato. Fetonte è indicato (Paradiso, XVII, 3) come «quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi», ossia colui, il cui esempio rende i padri restii ad accondiscendere in fretta alle preghiere dei loro figli.

Date: 2022-09-20