L’allegoria fondamentale della Divina Commedia [Michelangelo Alifano]

Dati bibliografici

Autore: Michelangelo Alifano

Tratto da: Nostra maggior musa. Introduzione alla lettera della Divina Commedia

Editore: Il Tripode, Napoli

Anno: 1963

Pagine: 163-192

Abbiamo visto che Dante riconosce in ogni scrittura almeno «due significati, quello letterale, che si spiega di per sè, e «non va oltre a ciò che suona la parola fittizia, si come nelle favole dei poeti», e quello allegorico, che contiene una qualche verità nascosta sotto bella menzogna: ed in ciò, egli segue i precetti retorici elaborati nel Medio-evo. Del resto, l’allegorizzare è un atteggiamento dello spirito, che nasce ogni qualvolta trasferiamo in una cosa concreta qualche nostra idea particolare o generale: così, ad esempio, il leone allegorizza (o anche simboleggia), la forza fisica, e la volpe, invece, l’astuzia maligna. Nessuna meraviglia, pertanto, se gli antichi pretesero di scoprire nei poemi di Omero sensi allegorici, chiari o reconditi che fossero, e se finanche Donato, nel suo commento all’Eneide tentò alcune interpretazioni allegoriche del poema virgiliano. Fulgenzio, poi, nella sua De Vergilii Continentia iniziò nel VI secolo dopo Cristo quel sistematico allegorizzamento della poesia di Virgilio, che ebbe tanta fortuna nel Medio-evo, sino ai tempi di Dante.
Ma l’interpretazione allegorica vera e propria di scritture letterarie fu opera del giudaismo e del cristianesimo: il Vecchio e il Nuovo Testamento divennero testi essenzialmente allegorici, nel senso che «la lettera era il corpo, l'allegoria invece l’anima del testo sacro». Lo scritto forse più famoso della Bibbia, il Cantico dei cantici attribuito a Salomone, è, letteralmente parlando, un canto di amore, l'esaltazione dell'amore acceso e sensuale di un uomo per una donna: per gli interpreti cristiani di esso, la donna invocata è la sapienza divina, e l’amore terreno; adombra l'amor divino che condurrà Cristo a morire sulla croce per la redenzione dei discendenti di Adamo. Le opere che interpretavano allegoricamente le Sacre Scritture ed i testi classici (e in modo particolare, come abbiam detto, Virgilio) furono nel Medio-evo assai diffuse, e contribuirono potentemente al sorgere di una poesia allegorica, che ha il suo capolavoro | nella Divina Commedia. Del resto, alle menti e più alla fantasia degli uomini dell'età di mezzo, che pur continuando a nutrirsi del sapere antico, conservavano qualche cosa di ingenuo. e di primitivo, tutto l'universo appariva sotto parvenze allegoriche: essendo infatti per essi le cose visibili simbolo decifrabile di quelle invisibili, esse celebravano allegoricamente la gloria di Dio creatore e signore dell'universo, ed ammaestravano gli spiriti alla conquista della beatitudine eterna. L'arte era perciò didattica ed insegnamento: dai «bestiarii» e «lapidarii» alle composizioni poetiche, dai rilievi scultorei della facciate e dei pulpiti delle cattedrali alle figurazioni pittoriche ed ai mosaici che adornavano edifici sacri e profani, era tutto uno spiegarsi di simboli e di allegorie celate sotto la finzione delle belle forme: se queste colpivano la fantasia della gente incolta, quelle parlavano eloquentemente agli spiriti addottrinati, che andando oltre il significato letterale delle rappresentazioni, ne coglievano il senso profondo, — cioè gli alti veri morali, scientifici, religiosi.
Quando pertanto Dante si accinse alla composizione del poema, era naturale che egli pensasse ad allegorizzare la materia di esso, conformemente a ciò che avevan fatto i suoi predecessori, tra i quali va ricordato Severino Boezio, autore del De consolatione philosophiae, dalla cui lettura Dante aveva tratto. (come dicemmo) non solo conforto alla perdita di Beatrice, ma anche incitamento all’acquisto del sapere, e Brunetto Latini, autore del Tesoretto, che si può considerare il primo esempio di poesia didattico-allegorica in volgare toscano. Ma quali sono i significati allegorici della Divina Commedia? E quale ne è, in modo particolare, l'allegoria fondamentale? Alla sensibilità di noi moderni, e secondo le nostre vedute per ciò che riguarda la natura della poesia, una ricerca sull’allegoria del poema dantesco apparirebbe inutile o per lo meno ingombrante. Un'opera di poesia è solo un'opera di poesia, e perciò essa non può nascondere sensi misteriosi ed astratti, a scoprire i quali occorre una chiave, che o viene offerta dal poeta medesimo o dobbiamo fabbricare noi, senza però avere il modello di quella vera. In tal modo, l’opera di poesia diventa una serie decifrabile a volte, ma altre volte indecifrabile, di rebus ed indovinelli più o meno divertenti, più o meno interessanti o insulsi. La lonza che Dante incontra all’uscire della selva «aspra e forte», è per noi una fiera agile e presta molto, dal mantello variegato, non del tutto cattiva e feroce, ma piuttosto tale da suscitare in chi la incontra una ragionevole speranza che essa non gli farà male: ma quando nella lonza vogliamo veder simboleggiata la incontinenza o la frode o la volubile patria del poeta, quella non è più una lonza, un'immagine concreta improntata del sentimento che le ha dato vita: è solo un'astrazione, un concetto neppure certo e sicuro, ma piuttosto ambiguo e nebuloso. Tutto ciò spiega la causa per cui, dopo le interpretazioni e le imitazioni del poema dantesco fatte nel secolo XIV, e parzialmente continuate nel secolo successivo, le quali tenevano in gran conto i significati allegorici di esso, quando nel secolo dei lumi si riprese lo studio di Dante, il Vico parlò della Divina Commedia come di una seconda Iliade, ponendo in ombra, anzi assoggettando gli elementi dottrinali di essa, e quindi anche le allegorie, alla poesia, che è sempre espressione (e nel caso specifico di Dante) espressione robusta ed energica del mondo intuitivo, fantastico, sentimentale del poeta, il quale si esprime per immagini corpulente e concrete; e Saverio Bettinelli potette arrivare alla conclusione che salvo pochi episodi, il resto del poema è una congerie di cose indigeste ed oscure. Dopo il Vico, e dopo la critica del Foscolo, il problema dell’interpretazione allegorica del poema perde ogni importanza, e sono aspramente combattute le interpretazioni allegoriche di Gabriele Rossetti e del Perez, mentre il De Sanctis avverte più tardi che «l’allegoria è una prima forma provvisoria dell’arte», la quale se per un senso ha dato a Dante il mezzo per fondere nell'intuizione cristiana tutti gli elementi della sua cultura, dall’altra gli ha tolto la libertà e la spontaneità della vita: però Dante, essendo essenzialmente poeta, e non maestro di scienza o di filosofia o di altro, si ribella inconsapevolmente alla allegoria, che investita dalla passione del poeta, «diviene se stessa», fa tutt'uno con l'immagine in cui è stata calata, presentandosi invece come materi grezzo e pesante, tutte de volte che resti distinta e staccata dall’immagine, perché è mancato il vigore sentimentale del poeta medesimo. (Le stesse cose, in fondo, ha ripetuto recentemente il Croce nel suo saggio notissimo sopra La poesia di Dante).
Oggi però non sono tutti d'accordo col De Sanctis e con il Croce: una critica più avveduta non ritiene di dover separare: nettamente l’allegoria dalla poesia per la ragione assai valida che nelle allegorie del poema, secondo la poetica propria di Dante, sono sì calate le sue idee e le sue aspirazioni politiche, morali, religiose, ma idee ed aspirazioni sono tanto permeate ed infuse del vigoroso sentire del poeta, che difficilmente si riesce a discernere quanto appartiene, nell'immagine allegorica, alla dottrina e quanto alla fantasia. Torto, semmai, sarebbe. quello di voler trovare ad ogni costo l’esatto significato di tutti gli elementi allegorici del poema: in fondo, ciò che conta è l’allegoria complessiva di esso, abbastanza chiara e trasparente, e questo sia detto senza pregiudizio della giusta osservazione del Barbi, che si devono considerare come semplici espressioni paraboliche o tropologiche molte figurazioni alle quali si è sempre dato un significato prettamente allegorico (come accade, ad esempio, per la « selva » del I dell'Inferno, il cui senso letterale non è la figura in sé, ma quello che esso significa). Per tornare alla lonza di cui abbiamo parlato sopra, la quale sarebbe allegoria della incontinenza o della frode, essa resta sempre una lonza, una immagine di lonza «agile e presta molto», e anche quando io sappia che essa rappresenta un concetto, resta quello che è, — una cosa concreta, un'immagine creata dalla fantasia del poeta e carica del sentimento del poeta. Le: allegorie del poema non sono mai, come vuole il De Sanctis, «materiale grezzo e pesante», perché in tutte è calato il pensiero ed insieme il sentire di Dante, e ciò conformemente alla retorica medioevale. Né vale opporre che di fronte alla tragedia amorosa di Paolo e Francesca, che suscita la umana pietà del mistico pellegrino, sgomento e sprovvisto del severo ausilio della legge morale, non c'è allegoria che tenga, perché nessun senso. nascosto abbiamo da scoprire nelle desolate ed ardenti parole della donna, e neppure nel pianto sommesso dell’uomo: anche quell'incontro in quel determinato cerchio ci riconduce necessariamente all’allegoria generale del poema, così come avviene per gli altri episodi in cui il poeta avrebbe espresso soltanto i suoi sentimenti «terreni», di uomo vivo e passionale.
Del resto, lo stesso Croce ha ammesso che «schema e poesia, romanzo teologico e lirica, non sono separabili, come non sono separabili le parti dell'anima sua, di cui l’una condiziona l’altra e perciò confluisce nell’altra, e in questo senso dialettico, la Commedia è sicuramente un’unità». Ancora un piccolo passo, e l’unità «dialettica» diventa unità effettiva: e questo si può fare, quando si neghi, come è stato negato, l'assunto fondamentale del Croce, non potersi, poeticamente parlando, portarsi dietro, nei mondi ultraterreni, cioè nell’eterno spaziale e temporale, i sentimenti e le passioni terrene. Nulla, infatti, vieta di pensare il contrario, come nulla impedisce, a chi lo vuole e lo ricerca obbiettivamente, di riconoscere in ogni parte del poema, anche in quelle dottrinali, l'impronta ed il sigillo della poesia.
Se tutto ciò è vero ed esatto, un'indagine particolare sui significati allegorici del poema, staccati a viva forza dal significato letterale di esso, avrebbe poco senso, sarebbe anzi cosa contraddittoria col nostro assunto, ma tuttavia una ricerca di tal genere non è inutile, non solo perché l'interpretazione allegorica della Divina Commedia è stata varia e diversa nel corso dei secoli, ma anche perché in un lavoro come il nostro, è bene distinguere l’allegoria dalla poesia.
In che consiste, dunque, l’allegoria fondamentale della Divina Commedia? Nei tempi immediatamente successivi a Dante, e per tutto il trecento, ed anche oltre, non mancò un concorde riconoscimento dei valori morali e religiosi espressi in esso allegoricamente, secondo quello che Dante aveva confessato in maniera esplicita nella lettera a Cangrande della Scala, e in parecchi luoghi della Divina Commedia. Nel mezzo del cammino della vita mortale, cioè intorno al trentacinquesimo anno di età, Dante si risveglia da quel lungo torpore dello spirito che gli aveva impedito, dopo la morte di Beatrice, di affissarsi nella contemplazione del vero e del giusto, e di vivere seguendo «Virtute e conoscenza». Ma pur dopo il risveglio, quando la luce della grazia lo indurrebbe ad avere orrore dei falsi diletti «che nulla promission rendono intera», che cioè non possono mi: mantenere la loro promessa di felicità, egli è impedito nella sua volontà di bene dalle prave disposizioni al peccato, inseparabili dall'uomo in conseguenza del peccato originale, che si possono riassumere nella incontinenza, nella violenza e nella frode, violatrici rispettivamente della temperanza, della fortezza e della prudenza, o nella lussuria, nella superbia e nella cupidigia, che sarebbero radice rispettivamente dei peccati di incontinenza, di violenza e di frodolenza. Perché dunque Dante possa, dopo l’'accecamento dei sensi ed il traviamento morale, trarsi fuori dalla selva del male e salire il colle dilettoso del bene, occorre l’aiuto della scienza umana e di quella divina: l'una, gli mostrerà i tristi effetti del peccato, — il disordine e l’infelicità durante la vita terrena, — la dannazione eterna nell’al di là —, e lo convincerà ad una prolungata meditazione ed espiazione del peccato medesimo, che si fondano sul pentimento sincero degli errori commessi; l’altra, lo guiderà alla contemplazione delle cose celesti, in che consiste la vera felicità. Il viaggio dunque per i regni d'’oltretomba che Dante immagina di compiere nella settimana santa del 1300, è allegoria di quell’itinerario alla mente di Dio, per il quale s'incammina chiunque riesca in qualsiasi momento della sua vita terrena, a districarsi dai beni fallaci del mondo e dai falsi piaceri, per affissarsi nella visione beatifica di Dio medesimo, e sentir placato alfine l'animo inquieto, — che è quasi «ombrifero prefazio» di quella felicità eterna che non può mancare, ed alla quale aspiriamo con tutte le forze quando siamo sorretti dalle virtù teologali della fede, della speranza e della carità. Però, tale in fondo agevole interpretazione allegorica del poema non piacque al Rossetti, come non è piaciuta al Pascoli e al Valli, i quali pretesero di scoprire «sotto il velame» dei versi considerati nel loro significato letterale, altre verità ed altre significazioni più o meno estrose, più o meno peregrine, ma quasi sempre poco convincenti. Il Rossetti ha avuto il merito che nessuno gli nega, di avere per primo elaborato un sistema completo di interpretazione allegorica della Divina Commedia, rinunziando in tal modo a mettere in luce i valori poetici di essa. Difatti, secondo lui la piana lettura dei versi è da respingere come «puerile e semplicistica»: di là dal significato letterale bisogna cogliere quello vero, — le idealità di Dante nel campo della morale, della religione e soprattutto della politica, che il poeta non poteva divulgare apertamente, per via degli innumerevoli e potenti nemici ed avversari suoi. Ed invero, partendo dalla persuasione che il poema fosse stato composto tra il 1313 e il 1321, cioè dopo la fine di Enrico VII di Lussemburgo ed il crollo delle speranze e delle illusioni che la discesa in Italia dell’infelice imperatore aveva fatto nascere nel cuore di Dante, appariva spiegabile al Rossetti la cura posta dal poeta nel celare sotto la veste allegorica ciò che egli pensava della Chiesa e dell'Impero, dei Guelfi e dei Ghibellini. (Non sarà a tale proposito inutile ricordare che una assai aspra battaglia si combatté nella prima metà dell'Ottocento tra gli interpreti di Dante che si professavano neo-guelfi e cattolici, ed i neo-ghibellini e anticlericali, gli uni celebrando Dante come ardente campione, «amoroso drudo», della fede cristiana e cattolica, gli altri scorgendo nel poeta l’'antesignano della Riforma protestante, un Lutero ante literam, ed il propugnatore della indipendenza dello Stato di fronte alle pretese temporalistiche del papato). È noto che il Rossetti prese le mosse dal Foscolo nella sua interpretazione della politica e del ghibellinismo di Dante, espresse allegoricamente nel poema, in un intrigo di simboli e di allusioni più o meno chiare: e questo fu bene ed utile ad intender meglio l’opera, al che contribuì pure il Troya col suo libro Del Veltro allegorico di Dante, in cui si rincalzava l’interpretazione politica del poema: ma mentre il Foscolo era sostenuto dal suo vivo senso storico, ed il Troya dalla vasta conoscenza che aveva del Medio-evo, il Rossetti fu tratto ad esagerare, ad ampliare il concetto primitivo, a costruire un edificio allegorico dalle fondamenta piuttosto deboli. Ma peggio accadde, quando egli pretese di scoprire nella Divina Commedia un linguaggio segreto adoperato dagli adepti di una setta che si chiamava dei «Fedeli di amore», e che aveva come suo programma l’avversione al papato e la instaurazione di una religione naturale senza dogmi e senza gerarchie ecclesiastiche; una specie di massoneria, che preludeva a quella storica, sorta e diffusasi in tutti i paesi dell'Europa nel secolo dei lumi. In verità, bisogna dire che il pensiero del Rossetti è involuto e poco chiaro: pur vantandosi di avere data «una ineluttabile dimostrazione » della verità del suo assunto, essere il poema di Dante l’espressione in linguaggio segreto ed iniziatico di una filosofia «occulta», le cui scaturigini sarebbero da ricercare nel neo-platonismo, finisce col cadere nel vago e nel nebuloso, oscillando spesso tra l’interpretazione politica, — il ghibellinismo di Dante, — quella religiosa, — l’avversione al papato, — e quella filosofica, — la sapienza iniziatica di Pitagora, di Plotino, di altri filosofi che ne ànno tramandata la sostanza e le manifestazioni esteriori.
Del resto, l'opera del Rossetti è fallace per due grossi errori, aver voluto attribuire a Dante una filosofia che assolutamente non è la sua, e avere alterato, anche se in buona fede, il significato del neo-platonismo. Giustamente, pertanto, la critica storica dantesca dell'Ottocento demolì l’interpretazione allegorica del Rossetti, dimostrandone gli errori storici, e giustamente il Pascoli si ispirò ad altre idee, quando egli tentò un’altra interpretazione del poema. Occorre dire subito che quando apparvero i saggi di essa, che sono essenzialmente tre, Minerva oscura, Sotto il Velame e La mirabile visione, si levò alto il coro di riprovazione dei dantisti, tanto remote erano le idee del Pascoli da quelle ormai correnti sul poema dantesco. Ma prescindendo dalla polemica tra il Pascoli ed i suoi avversari, che qui non interessa, diremo che per il primo la Divina Commedia nasconde sotto il velo del significato letterale una vasta allegoria morale-religiosa, la quale rappresenta il valore effettivo del poema, la sua originalità, la sua grandezza. A poterla però ricostruire e spiegare, il Pascoli à bisogno di porre la composizione dell’opera negli anni successivi alla morte di Enrico VII di Lussemburgo, come abbiamo avuto occasione di dire altrove, — il che non ci sembra accettabile per i motivi già espressi. Comunque sia di ciò, vediamo in che consiste secondo il Pascoli l’allegoria fondamentale del poema.
Ad una certa epoca della sua vita, ma certamente dopo la morte di Beatrice, Dante si trova nella selva oscura che è «il vestibolo ed il limbo dell’inferno»: simile a «parvolo» sprovveduto si lascia guidar solo dalla sua anima vegetativa, e travia dal diritto cammino, come dimostra tra l'altro la tenzone vituperevole con Forese Donati. La selva oscura è dunque simbolo del peccato originale, che pur cancellato dal sacrificio del Cristo, non preserva gli uomini dal peccato attuale, allegorizzato nelle tre fiere, contro cui Dante combatte la sua dura e tuttavia inutile battaglia, allorché risvegliato alfine del sonno, cioè da quel languor naturae che è triste retaggio del peccato originale, egli si trae fuori a fatica dalla selva stessa, e muove su per la piaggia deserta, verso la cima del bel colle vestito già dei raggi del sole. Ed invero, l’uscir dalla selva è possibile, perché non più parvolo e vile è Dante, quando sorretto dalle virtù cardinali di prudenza e giustizia, si dà alla vita attiva, raffigurata nella «piaggia diserta», ed anela a raggiungere la vetta del colle, che simboleggia la beatitudine della vita attiva in sé, mentre il Paradiso terrestre sarebbe figurazione della vita attiva, ma in quanto disposta alla contemplazione, ed il Paradiso celeste è simbolo della beatitudine di vita terrena che fruisce dell'aspetto divino con l'aiuto del lume divino. Purtroppo, il «corto andare» dalla piaggia al colle, cioè l'esperienza della vita attiva, è troncato dall'assalto non tanto della lonza e del leone, ma soprattutto della lupa, simbolo della frode, o meglio della incontinenza, o meglio dei tre vizi che accesero contro di lui i cuori dei suoi concittadini, superbia, invidia e avarizia. Se dunque per il riacquistato» libero arbitrio, dopo la notte della selva che non è vita di scienza e d’arte, ma viltà d’animo, difficultas et ignorantia, un puro e semplice vegetare, un non fare e un non vedere, egli alla luce del nuovo giorno si incammina su per la piaggia, sia pure con passo incerto e malfermo, perché le vie del mondo sono instabili e meno buone di quelle che conducono alla beatitudine, anche dalla piaggia, cioè dall'esercizio della vita attiva, è ricacciato nella selva dalla lupa, che ha tutti i tratti di una vulpecula foetoris venantium secura: il che significa che dopo la morte di Enrico VII, vittima dell'inganno di Clemente V, e dopo il trionfo dei Guelfi, Dante perde la speranza di giungere alla felicità di vita civile. Ma poiché chi ha buon volere ed è sorretto dalla grazia divina, non può né deve disperare di venire a capo di una impresa meritoria, a lui ruinante «in basso loco» si offre Virgilio, colui che onora scienza ed arte, colui che simboleggia lo studio dell’arte e la sapienza umana: e Virgilio gli dimostra che l'ascesa al colle, la conquista della beatitudine per mezzo della vita attiva, gli è impossibile, perché gli è impedita dalle fiere, — dal peccato attuale, che è suo, e che è del mondo corrotto e traviato. Se dunque egli non vuol giacere nel sonno e nella miseria, se non vuol essere ingenuo parvolo perduto dietro gli allettamenti del senso, deve morire al peccato, per rinascere a vita novella. Questa è la vita contemplativa, durante la quale si conquista la sapienza umana, che è principio e via alla sapienza divina. Alla vita attiva, che può condurre pur essa alla beatitudine, si ritornerà quando verrà il Veltro, il mistico imperatore che si ciberà soltanto di sapienza, amore e virtù, e sarà Cristo che si rinnova e toglie la culpa vetus, il peccato originale e quello attuale, perché invano Egli si è una volta incarnato, ed invano è morto sulla croce: il Veltro soltanto ricaccerà la lupa nell'inferno, riscatterà cioè gli uomini da ogni colpa e da ogni frode. Per ora, e cioè quando le condizioni politiche dell’Italia, e non dell’Italia soltanto, sono avverse ai buoni ed ai giusti, quando l'Impero non esercita più i suoi diritti e la Chiesa ha dimenticato gli insegnamenti del Divino Maestro, non resta che la contemplazione: dalla selva erronea della vita bisogna salire alla foresta «spessa e viva» del paradiso terrestre: dalla servitù e dalla oscurità del male occorre rinascere alla libertà ed alla grazia. Ma il corpo deve morire perciò misticamente, e dev’essere seppellito nella tomba d'inferno: questo il significato del viaggio attraverso il regno dei dannati, di coloro che sono morti alla grazia, e vivi soltanto nel peccato, vivi però di una vita che è morte dello spirito. Dante, dunque, esce dal «passo» che non lasciò mai vivo alcuno, che non fosse sorretto dalla buona volontà e dalla grazia: e quel passo è passaggio dalla morte alla vita, è come un secondo battesimo, che dà la morte mistica della carne, cioè del male e del peccato, e la resurrezione dello spirito. L’Acheronte, il primo dei fiumi infernali, è varcato con l'aiuto della grazia, cioè di Lucia, simboleggiata dal lume della luna piena, di quella stessa Lucia che più tardi, sotto forma di aquila, rapirà Dante misteriosamente, dall’antipurgatorio al vero regno delle anime purganti. E l’Acheronte è attraversato, secondo le parole oscure di Caronte, «con più lieve legno»: non nella barca sdrucita dove s’ammassano i morti alla vita eterna, ma con l’aiuto della Croce, che salva e redime.
Solo così Dante potrà vincere le tre fiere che non vinse sulla piaggia diserta, e che si trasformano nei vari cerchi dell'inferno in Cerbero «trifauce ma unicorpe, cane, vermo, fiera crudele e diversa», nel Minotauro, «bestia bicorpore», intorno a cui s'aggruppano i bimembri centauri, le arpie e le cagne biformi, e in Dite tricipite: simboli rispettivamente dei peccati d'incontinenza, del peccato di malizia che vuole il male con la violenza, e del peccato di frode che è mal pensare e mal volere. Ma a vincere la malizia che è violenza e frode, non basta l’aiuto dell’arte e della scienza e della sapienza umana e non bastano neppure le virtù con le quali il mistico pellegrino ha vinto Cerbero, la fortezza e la temperanza: occorre l'intervento di un messo del cielo, che non può essere altro che Enea: come una volta l’eroe troiano, eletto da Dio ad esser padre «dell’alma Roma e di suo impero», discese ai Campi Elisi armato non della spada inutile, ma della verga d’oro che infisse nella porta della città di Dite, per cui si poteva accedere ai campi Elisi, ora egli vince con la stessa verghetta che è simbolo delle quattro virtù cardinali, l'ostilità dei demoni, cioè la violenza e la malizia. Ciò vuol dire che al giusto viver civile è necessario che presieda l'autorità di chi tutto avendo, nulla può desiderare, e pertanto può dare a ciascuno il suo: l'autorità, dunque, dell’imperatore unico, simboleggiato nel Veltro, e prefigurato dal messo del cielo, Enea, il più giusto dei troiani.
Uscito vincitore dai mostri infernali, cioè dopo la contemplazione della perfetta ed ordinata vita civile, quale sarebbe sulla terra, ove non vacasse la sede imperiale, Dante sale su per i gironi di un monte in vetta al quale è la beatitudine della vita attiva, che predispone alla vita contemplativa. Lassù, nella foresta «spessa e viva», egli sogna bensì Lia, che è simbolo della vita attiva, e vede Matelda «che è di lei la compagna, come di Rachele è Beatrice, ma Lia non è laborans, e Matelda non è lippis oculis: l'una e l’altra colgono fiori, che è un’operazione sì, ma dilettevole, e Lia si specchia, sibben non come Rachele che siede tutto il giorno, e Matelda ha gli occhi, quelli occhi che avrebbero a essere lippi, ardenti e lucenti come di Venere trafitta da Amore». Lia e Matelda sono infatti simbolo della vita attiva, e non lavorano, e non hanno gli occhi lipposi: contemplano: sono, dunque, la vita attiva in quanto è disposta alla contemplazione. E su quella cima Dante troverà Beatrice, che è la sapienza di Dio, e Beatrice gli infonderà nel cuore la speranza di poter contemplare Dio ed i suoi profondi misteri, che è beatitudine suprema ed ineffabile. Ben s'intende perciò come all’apparire di Beatrice sul carro trionfale della Chiesa, Virgilio scompare d'un tratto: se «il mar di tutto il senno» s'era per poco sentito compagno a Matelda, che oltre a simboleggiare la vita attiva in quanto disposta alla contemplazione, è pure simbolo dell’arte in genere, e dell’arte del poetare in ispecie, e perciò quasi figlia a Beatrice nell’Eden, non c’è più motivo perché egli resti, quando appare Beatrice: essa è, infatti, quella sapienza che lui ricercò, ma non possedette.
Tale, per sommi capi, la interpretazione mistico-allegorica che del poema dette il Pascoli, e che noi naturalmente non staremo a confutare o a criticare, più o meno acerbamente come fu fatto, perchè... hic non est locus. Solo diremo che il Pascoli non convince troppo, o non convince punto, quando si sforza di far aderire alla sua interpretazione i tanti richiami del testo dantesco che discordano da essa assai manifestamente. D'altra parte, bisogna riconoscere che alcuni dei significati allegorici proposti dal Pascoli sono passati nella comune esegesi dantesca, come quella delle tre fiere, che simboleggiano la frode, la violenza e l’incontinenza, quello di Matelda, che rappresenta la vita attiva, come quello dello stesso Dante, «che è Enea nelle prime due cantiche, (e) diverrà Paolo, vaso di valore, nella terza», e quello di Beatrice, che è la sapienza divina. Ma ciò che più disturba e dà maggior senso di fastidio, è l’intenzione palese e dichiarata del Pascoli, di voler trovare ad ogni passo una concordanza di interpretazione mistica tra l’Eneide e la Divina Commedia: se è vero che per Dante il poema virgiliano è carico di sensi allegorici (né poteva essere altrimenti), è pur vero che alla pietas di Virgilio difficilmente Dante avrebbe potuto riallacciare il suo misticismo medioevale. I continui riferimenti ed i raffronti inesauribili che il Pascoli fa tra l’Inferno ed il Purgatorio da una parte ed il VI dell’Eneide, dal: l'altra, sono certamente fruttuosi di buoni suggerimenti, ma nessuna prova sicura si può ricavare da essi che Dante desse ai passi imitati del poema virgiliano i significati mistici escogitati dal Pascoli. Come avrebbe potuto un cristiano e cattolico ortodosso quale è Dante, vedere ad esempio in Miseno, che non può passare di là dall’Acheronte, se prima la sua spoglia mortale non sia stata seppellita, la condizione dell’uomo «parvolo» che se vuole rinascere alla grazia, deve prima essere «seppellito» misticamente nella tomba d’inferno? Ma non è il caso di insistere sui molti aspetti particolari della interpretazione allegorica del Pascoli che non possono essere accettati tranquillamente.
In quanto al complesso, al nocciolo di essa, diremo che appunto da essa il Valli ed il Pietrobono hanno sostanzialmente derivate le loro. Il primo, alla interpretazione mistica ha aggiunto quella politica, ritornando con ciò al Rossetti, ma rinunziando a vedere in Dante l’assertore di un ghibellinismo accesamente «laico» e ostile alla Chiesa ed al papato. (E tuttavia, verso la fine della sua opera egli indulge a credere che il pensiero politico-religioso di Dante si ricollega logicamente all’eresia mistica e ghibellina dei suoi tempi, senza però che questo ci autorizzi a considerare il poeta come adepto di qualche setta ostile alla Chiesa). Ma la novità d’interpretazione del Valli consiste in ciò, che egli pretende di scoprire il «segreto» della Divina Commedia, quel segreto che secondo lui Cangrande della Scala forse conobbe, ma che Dante portò sicuramente nella tomba con sé. Questo segreto si può enunciare in poche parole: «la redenzione della Croce deve essere completata dall'azione dell'Aquila». Tale concetto permea di sé tutto il poema, e si annida in tutte le figurazioni simboliche escogitate da Dante, nelle quali la Croce e l'Aquila sono contrapposte, anche se non una volta sola l'Aquila è nominata accanto alla Croce: «profuse le simmetrie della Croce e dell'Aquila, ma in esse l'uno dei due termini è sempre (con una sola eccezione) velato; per lo più, sono velati ambedue».
Per dimostrare la verità dell'assunto, anche il Valli, come già il Pascoli, si appoggia all'autorità di Sant'Agostino, che nel suo De Natura et Gratia spiega come esistano due poenalia, le quali sono conseguenza diretta del peccato, l'una, la ignorantia, che non ci fa comprender bene l’essenza delle cose, del mond e di Dio, l’altra, la difficultas, che non ci fa agir bene, vale a. dire, che il peccato porta con sé come pena, da una parte, la perdita della chiara visione del bene, dall'altra, la incapacità di «operare» il bene. Se a questo punto noi ricordiamo che per Dante le forme di vita sono due, quella attiva e quella contemplativa, concludiamo facilmente che tanto la prima quanto la seconda sono state corrotte dal peccato originale: la corruzione della prima si chiama difficultas, della seconda ignorantia. Ma io ha voluto porre come rimedi alle poenalia i due supremi istituti della Chiesa e dell'Impero: la Chiesa, pertanto, è desti nata a sanare l’effetto del peccato originale in quanto attiene alla vita contemplativa, mentre l'Impero è destinato a sanare l'effetto del peccato originale in quanto riguarda la vita attiva. In altre parole, la virtù santa della Croce redime gli uomini e sotto la guida della Chiesa li fa consapevoli del loro fine oltramondano, sanandoli così dalla ignorantia, mentre l’Impero li sana dalla difficultas di agire bene, per una virtù sacra che come la Croce, deriva parimenti da Dio, e che è raffigurata nell’Aquila: il tutto conforme, del resto, alle idee espresse da Dante stesso nel Monarchia. Tale concezione, la quale ha come idea capitale (giova insistere su ciò) che «l’opera della Croce è strettamente concatenata e connessa a quella dell'Aquila», viene espressa nel poema per coppie di simboli parallele tra loro, le quali sono state contate dal Valli diligentemente, e sarebbero almeno trenta, tranne che altri più accorti di lui non riescono a identificarne altre. Per ciò che riguarda in particolar modo i personaggi che celano significati allegorici, basterà accennare al Veltro, che è per il Valli naturalmente il futuro imperatore destinato a redimere gli uomini dalla difficultas nella quale essi sono impigliati, fin da quando cessò l’azione redentrice dell'Aquila, e cioè dopo la donazione di Costantino; al messo celeste vittorioso della ostilità dei demoni accampati sulla porta della città di Dite, che è senza dubbio Enea, il portatore dell’Aquila, il progenitore dell’alma Roma e del suo impero; a Catone, che quale custode del monte dove le anime si purgano e diventano degne di salire al cielo, cioè alla perfetta vita contemplativa, non può simboleggiare altro che «la perfezione della vita attiva», cioè l'Aquila che esercita le quattro virtù cardinali; a Lucia, che è simbolo della Giustizia Divina, la quale si riverbera nella giustizia umana dell'imperatore; a Lia, che allegorizza la vita attiva; a Beatrice che è «Sapienza rivelatrice» rifulgente della virtù della Croce; a Virgilio che impersona l'Aquila risanatrice della difficultas. Parimenti hanno significato allegorico chiaro e preciso le molte figurazioni sparse nel poema: la selva « selvaggia » rappresenta, come vuole anche il Pascoli, il peccato originale; la « piaggia » che si stende dalla selva alle radici del bel colle, simboleggia la vita attiva impedita dalla difficultas; il passaggio dell’Acheronte, la morte mistica di colui che è illuminato dalla grazia divina e sorretto dalla volontà di bene; il Veglio dell'isola di Creta, poggiante sul piede destro di terracotta e sull'altro di ferro, l'umanità presente sulla quale opera la redenzione della Croce, ma non quella dell'Aquila; l’albero del Purgatorio dispogliato per la seconda volta, la mancanza nel mondo dell’imperatore, e così via.
Molte e varie sono state le critiche mosse al Valli per questa sua interpretazione mistico-politica, secondo la quale l’ausilio della Chiesa non è sufficiente all'umanità, se non soccorre contemporaneamente quello dell'Impero: il primo, perché gli uomini recte sciant, il secondo, perché recte faciant: solo quando essi siano sanati dall’ignorantia per opera della Chiesa, e dalla difficultas per mezzo dell'Impero, potranno giungere alla felicità terrena ed alla beatitudine eterna: non si sale, dunque, al paradiso celeste senza l’aiuto dell'Impero. Tali critiche si possono riassumere nelle obiezioni mosse al Valli da Michele Barbi nel saggio «Per la genesi e l’ispirazione centrale della Divina Commedia»: se fosse esatta la sua interpretazione, Dante avrebbe scisso in due il regno del peccato, l’ignorantia e la difficultas, entrambe conseguenza del peccato originale, dando la prima da sanare alla Chiesa, la seconda all'Impero; l'Impero avrebbe nel mondo un posto uguale a quello della Chiesa, perché non solo esso sarebbe stato voluto dalla Divina Provvidenza a preparar l'avvento del Redentore, ma avrebbe il compito immanente di redimere a metà il genere umano, o meglio lo avrebbe già redento a metà prima della morte di Cristo; ma poi, essendo l’Impero venuto meno, il genere umano sarebbe ricaduto in uno stato di miseria, perché redento solo dalla Croce: onde la necessità del ritorno dell’Aquila a fianco della Croce. Non pare al Barbi che tutto ciò corrisponda alla concezione dantesca della vita e del mondo. L’istituzione dell’Impero ebbe per il poeta un fine esclusivamente mondano, e ad essa furono sufficienti mezzi ordinari; per la redenzione, invece, occorso un mezzo, soprannaturale, la venuta di Cristo: dopo il sacrificio della Croce, fu istituita la Chiesa, perché gli uomini potessero usufruire, mediante i sacramenti amministrati da essa, del perdono di Dio largito col grande miracolo della sua misericordia congiunta si con la sua giustizia. Non è pertanto necessaria una nuova redenzione, che dovrebbe essere operata dall’Aquila e dalla Croce: pur senza l'Aquila gli uomini possono raggiungere, col solo ausilio della Croce, la beatitudine celeste, di che è appunto testimonianza il mistico viaggio di lui, dalla «piaggia diserta» all’Empireo. Opinando diversamente, cioè seguendo il Valli, ci si caccia in deviazioni ed esagerazioni assai strane nell’interpretazione del poema in rapporto al pensiero politico-religioso del suo autore. Né vale opporre che il Monarchia e le Epistole politiche confermerebbero quanto Dante ha espresso simbolicamente nella Divina Commedia: se, infatti, nel primo è continuo ed incessante il motivo della necessità di un imperatore unico, che guidi gli uomini all'esercizio delle virtù cardinali, mediante le quali si raggiunge la felicità terrena, e nelle seconde l'imperatore è considerato quasi un messo del cielo, che restaurerà nel mondo la pace e la giustizia, in nessun luogo del trattato o delle epistole è detto che ad una nuova redenzione degli uomini, è necessaria l’azione contemporanea e congiunta dell'Impero e della Chiesa.
Ci sembra poi che non sia il caso di esporre con una certa larghezza l’interpretazione allegorica del Pietrobuono, il quale dissente dal Valli principalmente in questo, che per il primo la selva «selvaggia» simboleggia il nuovo peccato originale ripetuto da Costantino con la sua famosa donazione, onde la necessità di una nuova redenzione, che dovrà essere operata congiuntamente dalla Chiesa e dall'Impero, senza però che sia indispensabile attribuire soverchia importanza alle simmetrie della Croce e dell'Aquila, e vedere adoperato nel poema un linguaggio segreto col quale Dante avrebbe velato ai profani il suo più profondo pensiero politico-religioso. Ma anche contro il Pietrobono si osserva giustamente che Dante non distingue il peccato originale da quello attuale, la selva dalla piaggia: per Dante, il peccato che interessa è solo quello attuale, ed è appunto allegorizzato nella selva; o nella «fiumana ove il mar non ha vanto», o nel «passo che non lasciò giammai persona viva». Pertanto il Veltro non sarà, come voleva il Pascoli, e come vogliono, in fondo, anche il Valli e più ancora il Pietrobono, «un nuovo Messia, mandato da Dio per una nuova redenzione», o lo Spirito Santo che si incarnerà in un provvidenziale imperatore: il Veltro sarà un uomo virtuoso (e potrà benissimo esser pure rivestito della dignità imperiale), che cibandosi di amore e sapienza, potrà davvero ripristinare nel loro ufficio le due guide, i «duo remedia» stabiliti da Dio per sanare l’infermità rimasta negli uomini in conseguenza del peccato originale, e non guarita dalla Redenzione, perché questa non poteva guarirla del tutto e per sempre: se infatti la Redenzione avesse restituito l'uomo allo stato di innocenza, nel quale era prima del peccato originale, nessun merito egli acquisterebbe operando il bene, cioè tentando di sanare da sé, con l’esercizio delle virtù cardinali, la infermità stessa. In altre parole, l'evento della Redenzione resta per Dante unico ed irripetibile: chi, come il Valli ed il Pietrobono, pensa che sia necessaria una nuova redenzione che sarà operata da un virtuoso imperatore, d’accordo con il papa, non tiene conto di un fatto assai semplice, che Dante non ha bisogno di insegnare attraverso simboli abbastanza ambigui la dottrina ‘del peccato originale, delle sue conseguenze, della Redenzione, del battesimo: ciò che gli importa, è di dimostrare quanto, miserande siano le condizioni attuali della humana societas, derivate dal fatto che la Chiesa ha usurpato, per cupidigia di beni mondani, i poteri dell'Impero: quando i «duo remedia» opereranno entrambi virtuosamente, ciascuno entro la sfera dei poteri assegnati loro da Dio, gli uomini saranno buoni. Per ora, aspettando che venga il «Veltro» il quale ricacci la lupa nell’inferno, ogni uomo pur caduto nel peccato attuale, può riacquistare la grazia divina mediante i sacramenti di cui è ministra la Chiesa.
La interpretazione mistico- politica del poema, tentata dal Pascoli e dai suoi epigoni, e fatta segno ai colpi bene assestati della critica dantesca, non ha trovato altri seguaci, sicché uno degli ultimi esegeti della Divina Commedia, il Singleton, ha creduto cosa migliore ritornare alla vecchia interpretazione morale-religiosa. Bisogna dire, dello studioso americano, che egli stima doversi «una priorità assoluta di studio» ad uno degli aspetti del poema, quello allegorico, che sarebbe per lui il più importante, e che è stato, in genere, trascurato nelle indagini «poco convincenti, per non dire aberranti, di studiosi romantici e post-romantici». L'argomento della principale allegoria del poema è dunque per il Singleton la conversio animae de luctu et miseria peccati ad statum gratiae, come si esprime Dante stesso. nell'epistola a Cangrande. Non nella settimana santa del 1300, non proprio lui, il poeta, come suona il senso letterale, ma «chiunque», e in qualsivoglia momento, può vedersi in una oscura ed amara selva di peccato, e per grazia divina può muovere alla conquista del bel colle, e di lì elevarsi alla più alta. cima della perfetta grazia e della beatitudine celeste. Selva, colle, paradiso terrestre e paradiso celeste sono simboli, come simbolico è il viaggio di Dante per i regni oltremondani: il vero cammino a Dio si compie nella mente di chi è disposto a cominciarlo ed a condurlo a termine. Lodevole proposito, quello. del Singleton, di volere spiegare l'allegoria del poema, con Dante: stesso e con la cultura teologico-filosofica del Medio-evo, ma egli finisce col cacciarsi in un ginepraio, quando distingue nella struttura del poema «tre dimensioni»: la sua allegoria, il suo simbolismo e lo schema di analogia che si dispiega in modo impressionante nel suo centro, costituito dagli ultimi canti del Purgatorio; anzi, allegoria e simbolismo rientrano nella categoria dell’analogia. L'allegoria del poema, infatti, è costruita in modo che essa è immagine dell’allegoria di Dio, quale vediamo. rappresentata nel suo libro, la Sacra Scrittura, dove gli avvenimenti raccontati additano al di là di se stessi, verso altri avvenimenti, mentre il simbolismo è inteso come fatto ad immagine del mondo reale creato da Dio, — l’altro libro di Dio, in cui le cose sono anche dei segni. Al centro, invece, il poema rivela la propria analogia con la struttura della storia, che è, anche essa, opera di Dio: Cristo è venuto una volta a redimere gli uomini, ed è perciò morto sulla Croce, ma Egli dovrà venire un’altra volta, come mostra il ritorno di Beatrice a Dante sul : carro della Chiesa nel XXX del Purgatorio: Beatrice ed il suo ritorno adombrano la «seconda» venuta di Cristo, nel giorno del Giudizio finale. La verità proclamata nel poema è, dunque, la rivelazione di questa attesa del Cristo giudicante, nella quale ogni anima cristiana non può non aver ferma fede. In sostanza, il Singleton considera allegoria del poema l’esposizione, velata «dal significato letterale, della dottrina contenuta nelle Sacre Scritture; simbolismo del poema la rappresentazione, pur essa «velata» del mondo, che ci consente di vedere nelle cose visibili quelle invisibili; ma allegoria e simbolismo sono risolti in una analogia del poema con la struttura della storia, — che è la storia dell’uomo, dalla creazione del mondo alla fine del mondo, dalla caduta di Adamo, attraverso la Redenzione, sino al Giudizio universale. Tutta la storia, (e in questa è compresa la storia della dottrina cristiana, e la storia della natura) è per così dire, rivissuta e contemplata dal poeta atemporalmente, perché i fatti accaduti non sono accaduti una sola volta, ma l’accadimento di essi è sempre attuale, perché sempre attuale è Dio ed il suo dispiegarsi nella storia e nel mondo. In tale visione extra-temporale, un sol punto appare posto nel tempo: l'attesa del Cristo, allegorizzata nella grandiosa «sacra rappresentazione» descritta nei canti XXIX e XXX del Purgatorio, — vero centro motore (lo abbiamo già detto), e non solo in senso materiale, di tutto il poema. Converrà esporre, sia pure rapidamente, in che consiste questa sacra rappresentazione. Al mistico pellegrino (cioè a chi anela a raggiungere la pace dell'anima e la beatitudine ineffabile che offre la visione di Dio e la visione delle cose operate da Lui), appare di là dalle chiare acque del ruscello scorrente per «le selvatiche ombre» della gran foresta edenica, una solenne processione avvolta di luce e di canti: la aprono sette candelabri d’oro, che disegnano nell'aria con le loro fiammelle sette liste luminose, sotto le quali, come sotto un baldacchino trapunto d'oro, avanza la processione stessa; seguono ventiquattro seniori, ventiquattro vecchi, a due a due, coronati di fiordaliso; quindi quattro animali, «pennuti di sei ali»; poi un carro trionfale a due ruote, trainato da un grifone: tre donne danzano alla ruota destra del carro, quattro alla ruota sinistra; dietro il carro, incedono due vecchi dall'atteggiamento grave e dignitoso, poi altri quattro, umili alla vista, ed infine un vecchio che sembra dormire: tutti e sette, vestiti di bianco come i ventiquattro che precedono il carro, ma recanti in testa una corona di fiori rossi. Si tratta naturalmente di una processione simbolica, ché i sette candelabri rappresentano i sette doni dello Spirito Santo; i ventiquattro seniori sono i ventiquattro. libri canonici della Bibbia; i quattro animali «pennuti», i quattro evangelisti; il carro trionfale, la Chiesa di Cristo; il grifone, Cristo stesso nella sua duplice natura umana e divina; le sette. donne danzanti, le virtù teologali e quelle cardinali; i due vecchi. che vengono dietro il carro, San Luca e San Paolo; gli altri. quattro, i primi dottori della Chiesa; il vecchio solo, San Bernardo. Di sul carro, sotto una nuvola di fiori che cento angeli spargono intorno, si disvela Beatrice, in verde manto, «vestita di color di fiamma viva», con una ghirlanda d’ulivo posta sopra «candido velo»: ed anche Beatrice cela un significato simbolico, chè essa è certamente la sapienza divina.
Ma per quali vie il Singleton è giunto a vedere in Beatrice la seconda venuta di Cristo giudicante, e quindi nella processione del carro della Chiesa l’allegoria fondamentale del poema? Il critico americano distingue l’allegoria dei teologi dall’allegoria dei poeti: questa cela una verità morale «sotto bella menzogna», quella invece, aggiunge una verità nascosta ad un’altra verità espressa dalla lettera. Se invero Dante nell’epistola a Cangrande tace delle due specie di allegoria, nel Convivio aveva detto espressamente che i teologi intendono sì l’allegoria diversamente da come la intendono i poeti, ma che egli la intenderà «secondo che per li poeti è usato», cioè vedrà i significati veri della scrittura nascosti «sotto bella menzogna». San Tommaso, del resto, aveva già spiegato, rifacendosi a Sant'Agostino, che. nelle Sacre Scritture le parole contengono un primo significato che si può chiamare letterale o storico, perché esse significano dc le cose indicate o descritte o raccontate (significato che Sant’Agostino trova in verbis), e un secondo significato che si può chiamare spirituale (cioè allegorico), il quale si fonda su quello letterale, e si sovrappone ad esso, ma significa altra cosa (il significato che Sant'Agostino trova in facto).
Quando, dunque, Dante nell’epistola a Cangrande porta come esempio di allegoria il salmo In exitu Israel de Aegypto, nel quale la lettera significa l’uscita del popolo ebraico dall'Egitto, l’allegoria invece la Redenzione operata da Cristo, e conclude che il suo poema significa letteralmente lo stato delle anime dopo la morte, allegoricamente l'uomo che meritando o demeritando per la libertà dell’arbitrio è soggetto al premio, o al castigo della giustizia divina, egli non allude all'allegoria dei poeti, bensì a quella dei teologi. La prima, infatti, si fonda sopra «belle menzogne» inventate dai poeti, la seconda è nascosta sotto il significato letterale — sempre vero, e perciò storico —, delle Sacre Scritture. (Che poi esso debba esser considerato vero e storico, non fa meraviglia, quando consideriamo che non solo, ed a più forte ragione, le Sacre Scritture, ma anche molti fatti leggendari dei popoli antichi erano dagli uomini del Medio-evo ritenuti come veri ed inconfutabili). In sostanza, l’allegoria dei poeti è un allegoria «di questo in luogo di quello»: Orfeo che ammansisce le belve con la sua cetra, significa allegoricamente il sapiente che può domare cuori crudeli; l’allegoria dei teologi è un’allegoria di «questo e quello», di un senso più un altro senso: In exitu Israel de Aegypto significa dapprima un vero e proprio avvenimento storico, poi un altro avvenimento pur esso storico, ma simbolico, la nostra Redenzione per opera di Cristo: il primo senso è in verbis, l’altro è un senso in facto, nell'evento stesso.
Se le cose stanno così, il significato letterale del poema esprime un evento, — il viaggio di un uomo verso Dio attraverso i regni d'oltretomba, che non è «bella menzogna», appunto come il salmo che significa primamente l'evento storico dell’Esodo: il significato allegorico esprime «i vari riflessi del viaggio dell’uomo verso il suo fine proprio, non dopo la morte, ma qui, in questa vita»; perciò la principale allegoria del poema è un’allegoria di evento, di un evento dato per mezzo di parole, il quale riflette a sua volta un altro evento, ma entrambi sono viaggi alla ricerca ed al possesso di Dio. Dante è, dunque, l'uomo cristiano che contempla con l'occhio della mente e descrive come «sostanza di cose vedute» l’opera di Dio, — dalla creazione del primo uomo alla Redenzione; e nella storia, attraverso le miserie, e le altezze sublimi, i traviamenti ed i risorgimenti degli uomini, e quindi anche suoi, egli vede la possibilità e la necessità della conversione dell'anima dal lutto e dalla infelicità del peccato ad uno stato di grazia. Perché questo si adempia, occorre la volontà buona e la coscienza del proprio peccare, la conoscenza della parola di Dio rivelata e l’amore: l’amore che scende da Dio provvidente e misericordioso e giusto insieme, e risale a Lui, depurato di ogni residuo terreno. Cose tutte simboleggiate da Virgilio, da Beatrice e da S. Bernardo, che pur furono persone vere e storiche, e che prendono il posto della donna gentile del Convivio, la quale sotto bella menzogna rappresenta una «creata Sapienza», ma non la increata Sapienza del Verbo che si fa carne. Per salire a Dio ci vuole soltanto il Verbo incarnato che è sapienza ed amore: ed appunto sul mistero della Incarnazione è fondata l’allegoria del poema.
Questo è per il Singleton il fondamento concettuale su cui poggia l’allegoria del poema nascosta sotto il significato letterale, che non è «bella menzogna», bensì evento storico, e così viene risolto il problema che nasceva dalle argomentazioni del Barbi, il quale difendendo negli Studi danteschi il significato letterale della Divina Commedia contro le esagerazioni e le deviazioni dei simbolisti, concludeva che esso non è soltanto in funzione di riposti intendimenti, ma è racconto di un viaggio voluto da Dio perché Dante riveli per la salute degli uomini ciò che ha visto e ha udito, ma non coglieva lo stretto rapporto tra i due significati, il loro nesso inscindibile, perché l’un senso nasce dall'altro ineluttabilmente, essendo l’allegoria del poema una allegoria di teologi, un questo più quello. (Siamo, come è evidente, agli antipodi con le idee espresse dal Croce).
L'interpretazione del Singleton, che in fondo si ricollega alle altre dei primi lettori ed esegeti di Dante, ma si appoggia validamente alla conoscenza, e quindi alla testimonianza, della filosofia e della teologia medio-evale, che fu pure quella del poeta, non è del tutto soddisfacente, in primo luogo perché essa tien conto solo della allegoria fondamentale del poema (e ciò onestamente dichiara lo stesso autore), e poi, — e questo è più grave, prescinde dalla allegoria del I canto dell'Inferno, che avrebbe per lui carattere diverso da quella fondamentale. Così opinando, Dante sarebbe solo il mistico pellegrino che dimentico di ogni altro interesse mondano, va verso Dio, compie un itinerarium in mentem Dei, illuminato come egli è dalla sapienza divina, spinto dall'amore divino, sorretto dalla grazia divina che gli perviene dall'evento della Incarnazione. Dove sarebbero gli altri sensi della rivelazione, che il mistico pellegrino pur fa della «sostanza delle cose vedute»? Del resto, i limiti della interpretazione del Singleton sono una ben naturale conseguenza della distinzione che egli pone tra l’allegoria dei poeti e l’allegoria dei teologi (distinzione, in fondo, arbitraria, perché Dante non è un teologo, è un poeta); il Veltro, ad esempio, non è allegorico secundum theologos, e quindi non può esser considerato elemento dell’allegoria fondamentale: e tuttavia, come si può dire che esso non è parte integrante di quella? Tutto sommato, il Singleton, accentrando l’allegoria nella processione mistica e nel ritorno di Beatrice, che adombra il ritorno di Cristo giudicante, fa del poema l'annunzio e la rivelazione che è prossima la fine del tempo, della storia e del mondo: e perciò bisogna redimersi dal peccato e salire dalle cose terrene alla contemplazione di quelle divine. Proprio questo è l'intendimento nascosto di Dante?
Che durante tutto il sec. XIII, ma anche in epoca anteriore, fosse diffusa la credenza del prossimo avvento del regno dello Spirito, cioè della terza ed ultima età della storia e del mondo terreno, è certamente fuor di dubbio. Al sorgere e all’affermarsì di essa avevano contribuito scrittori ascetici e mistici, monaci ortodossi e sette ereticali; ad essa aveva dato un sostrato dottrinale Gioacchino da Fiore, il calabrese «di spirito profetico dotato», che aveva sinanche posto nell’anno 1260 l'avvento del regno dello Spirito; ad essa s’erano ispirati nelle loro pratiche religiose e per le loro esperienze mistiche o pseudo-mistiche tanto i Flagellanti, che erano passati per città e contrade del l’Italia centrale e settentrionale battendosi con verghe, confessando i loro peccati, «invocando la pace e la concordia in Dio», quanto gli Spirituali, cioè quei Francescani che ancora molti anni dopo il 1260, scelto come capo il cardinale Ubertino da Casale, avevano visto nel fondatore del loro Ordine l’angelo profetizzato da Gioacchino a bandire l’avvento del regno dello Spirito. Per tutto il secolo XIII, in realtà, s’era combattuta una lunga e dura e complessa battaglia tra colo che s’inebriavano ancora delle visioni del gran sogno escatologico del Medio-evo, tra i mistici cioè e gli spiritualisti, e la Chiesa romana, asserragliata nella gran fortezza dei suoi dogmi, difesa dal razionalismo aristotelico-scolastico, impervia alle esaltazioni religiose, collettive e sospettosa sinanche delle esperienze mistiche, e dell'ardore di carità e della professione di povertà del santo di Assisi. La condanna da parte di Bonifacio VIII dei francescani spirituali e il giubileo universale indetto dal medesimo papa nel 1300, avevano segnato il trionfo della Chiesa di Roma e la sconfitta delle correnti tumultuose, spesso confuse e contraddittorie, degli spiritualisti.
Ora, pure ammesso che un focherello residuo della gran fiamma mistica del Medio-evo investisse Dante, e lo inducesse a deprecare i mali della Chiesa dovuti a quei papi che avevano tradito gli ideali riformistici di Pier Damiano, di Ildebrando da Soana, dello stesso Gioacchino, non si può pensare che il poeta stimasse vicino l'avvento del regno dello Spirito e la fine del mondo, proprio dopo il 1300, all’epoca in cui veniva componendo il poema. E, del resto, dove mettiamo l’epistola di lui a Cangrande in cui si parla non già di una prossima fine del mondo, ma semplicemente della conversione dell'anima dal peccato alla grazia? Il Singleton sembra ritornare alla interpretazione del Pascoli, fondata sul preconcetto che il poema fu composto negli ultimi anni di vita del poeta, quando egli, nella quiete e nel raccoglimento che gli offriva l’ultimo rifugio, disilluso degli eventi e delle speranze, di cui s'era nutrito per tutto il tempo che era durata l'impresa di Enrico VII, niente altro sospirava che la patria del cielo, e mostrava la via che conduce ad esso. Se invece noi consideriamo la Divina Commedia come espressione del sentire complesso e magari talvolta incoerente e della concezione robusta e totale di Dante, intorno alla vita ed alla storia, la quale si fonda essenzialmente su quella tomistica, scolastica, dell'uomo Dante che non si trae da parte, per contemplare soltanto le verità eterne di fede, ma partecipa con tutte le forze della mente e del cuore alla vita dei suoi tempi, sperando nella vittoria del bene sul male e nel trionfo della giustizia e dell'amore, ed avendo ferma fede che non invano Cristo morendo sulla Croce ha riscattato gli uomini dal peccato, cioè dalla servitù, non potremo non concludere che l’allegoria fondamentale del poema è di natura morale-religiosa, ma anche politica.
Restano due punti da discutere e da chiarire: da chiarire per quanto sarà possibile, perché il poema di Dante è tale opera, che si può paragonare davvero ad un cangiante velo di Maya. Quando anche ci saremo addottrinati nella filosofia cristiana e nella teologia, e avremo scandagliato con tutti gli ausili della storia e della filologia l'animo e la mente del poeta, non ci riuscirà mai di coglierne l’intima essenza e le più vere intenzioni. Il primo punto è questo: l'elemento allegorico del poema è proprio del tutto distinto dal significato letterale, o, in fondo, il primo coincide col secondo ed è assorbito da esso? I simbolisti, dal Rossetti al Valli, rispondono che l’allegoria, essendo preminente, è distinta dalla lettera, e contiene il vero significato del poema; i positivisti relegano l’allegoria tra il ciarpame delle cose che furono credute una volta, ed ora non più; gli storicisti sono inclini a ritenere che l'allegoria resta assorbita dalla lettera, in ciò che concerne il significato generale del poema: è infatti evidente che anche la lettera, — contrariamente a quello che credeva il Rossetti —, esprime con molta chiarezza ciò che Dante pensa dei destini dell’uomo, della Chiesa, dell'Impero, della necessità di un ritorno al messaggio evangelico, della decadenza dei costumi, della corruzione del clero, e via di seguito: sentimenti, propositi ed ideali politici e religiosi, che egli incarna nelle vicende del suo viaggio per i regni d'oltretomba, il quale viaggio, naturalmente simbolico, è pur sempre la rappresentazione del cammino a Dio che ogni uomo può compiere da vivo, nonostante le condizioni avverse del mondo terreno: e la descrizione di esso è il mezzo scelto da Dante per annunziare a tutti che sarebbe tempo di pensare alle cose dell’anima ed alla vita eterna. Esatto. Però i simboli e le allegorie che non possono essere una cosa sola col significato letterale, restano: il Veltro, il Veglio di Creta, Matelda, il catto della Chiesa, il Dux, stanno lì, a tentarci, a spingerci a penetrare il loro senso riposto «sotto il velame», tranne che non si pensi col Croce che tali simboli costituiscono un elemento allotrio alla poesia, cioè una parte della struttura del poema, la quale si origina dalle concezioni politiche e religiose di Dante espresse in una maniera assai cara agli scrittori del Medio-evo, ai padri della Chiesa, agli esegeti delle Sacre Scritture, cioè allegoricamente. Bisognerà allora rassegnarsi a creare una frattura nel poema, rinunziando alla affermazione della unità di esso: per quanto il Croce medesimo ed altri, come il Sansone, protestino che la distinzione tra allegoria-struttura e poesia della Divina Commedia sia solo dialettica, la distinzione resta. Se non si vuol ciò (ed è meglio non volerlo, perché la distinzione fatta non porta a risultati concreti, cioè ad un migliore e più chiaro intendimento del poema), bisogna tornare alle vecchie interpretazioni, cioè vedere simboli ed allegorie celate sotto il significato letterale, o stare col Barbi, che opina essere il significato generale del poema contenuto nel significato letterale, e non dovere insistere eccessivamente sul significato nascosto dei simboli e delle allegorie, le quali in nessun caso sono portatrici di segreti inaccessibili ai non iniziati. Pur concedendo che l'illustre dantista abbia colto nel segno, perché in fondo le allegorie, le quali contengono necessariamente elementi dottrinali, sono sempre cariche della passionalità del poeta, e pertanto rivelano i suoi sentimenti, i suoi propositi, le sue speranze ed aspettazioni, già espresse a chiare note nella lettera del poema, ci resta sempre il dubbio che simboli ed allegorie contengano più di quanto non sia stato detto nella lettera. Non si vuole con ciò tornare alla interpretazione del Rossetti o del Valli: si vuole soltanto dire che se il problema dell’allegoria fondamentale della Divina Commedia si può dare per risolto secondo le indicazioni del Barbi (e con ciò abbiamo risposto al primo punto che era da chiarire), quando ci facciamo ad esaminare i vari simboli che contengono l’allegoria, sorgono molte incertezze e molte esitazioni. (Ed è questo il secondo punto da risolvere). Chi o che cosa rappresenta il Veltro? Quale è precisamente il significato della processione mistica del carro della Chiesa? e dell’albero dispogliato? e del Veglio di Creta? Si risponde con forse soverchia semplicità che è inutile indagare su tali simboli e sopravalutare la loro importanza, perché, in definitiva, essi sono elementi della cultura di Dante, volta a fini essenzialmente pratici: si dimentica però (ed è curioso il fatto che il Barbi non lo dimentica) che Dante stesso afferma nel De vulgari eloquentia esser l’habitus scientiarum condizione necessaria a far alta poesia. Perché dunque questa sia meglio intesa, soprattutto nel suo rapporto con le idee politico-religiose del poeta, da cui essa germoglia e vigoreggia, non è fuor di luogo tentar di penetrare il significato riposto delle figure simboliche a cui abbiamo accennato, non proponendo soluzioni cervellotiche, cioè forzando il pensiero del poeta, ed attribuendo a lui ciò che immaginiamo noi, ma riferendoci sempre alla concezione generale del poema, — in definitiva, alla visione della vita che fu propria di Dante. La selva, le tre fiere, Virgilio, il Messo celeste, Catone, Lucia, Matelda, Beatrice sono figure allegoriche abbastanza chiare ed intellegibili, se accettiamo la più semplice e la più persuasiva delle interpretazioni del poema, e se rinunziamo a distinguere le due specie di allegorie di cui parla il Singleton, quella dei poeti e l’altra dei teologi: la selva simboleggia il male in genere, e le tre fiere le «tre disposizioni» al peccato «che il ciel non vuole», frodolenza, violenza e incontinenza; Virgilio è la ragione e la sapienza umana, ed insieme l'autorità dell'Impero, ed il Messo celeste un angelo mandato da Dio a vincere la resistenza dei demoni; Catone è simbolo delle quattro virtù cardinali, mentre Lucia è la grazia divina che illumina ed apre gli occhi della mente, Matelda è la vita attiva innocente ed incorrotta, o la felicità terrena quale si può conseguire in questa vita operando virtuosamente; Beatrice la dottrina rivelata, che è fondamento della Chiesa. Men facile discorso offre il Veltro: esso nasconde un virtuoso imperatore o un papa o addirittura una nuova Incarnazione di Dio? Non vi è dubbio che Dante ha voluto adombrare in esso o un imperatore o un papa: ma meglio forse il primo, coerentemente a tutta la sua dottrina circa i poteri ed i compiti che spettano al Monarca unico. (Sembra ozioso ricordare che l’identificazione del Veltro con questo o quell'altro personaggio storico è quanto di più cervellotico si possa pensare, e si fa torto a Dante solo a proporla). Ma le maggiori incertezze riguardano il carro della Chiesa, considerata come corpo mistico e carismatico di Cristo, la società insomma dei fedeli credenti nelle Verità rivelate; il timone di esso è la Curia pontificia; le due ruote, il clero regolare ed il clero secolare, il primo dedito alla vita contemplativa, che si attua mediante l’esercizio delle tre virtù teologali, il secondo compartecipe alla vita attiva con i laici, e quindi esercitante le quattro virtù cardinali. Ma qualcuno non è d’accordo: nelle due ruote vede simboleggiate le due leggi, il Vecchio e il Nuovo Testamento, o anche la sapienza e la carità, oppure l'amor di Dio e l'amor del prossimo. L’albero poi, è certamente l'albero della scienza del bene e del male, che fu dispogliato «di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo» per la colpa di Adamo, che disobbedendo a Dio offese la giustizia, e che rinverdisce quando il grifone, cioè Cristo, lega ad esso il timone del carro, la qual cosa allegorizza gli effetti della Redenzione: ma esso simboleggia l'Impero o la giustizia divina? Non pare che debba intendersi l'Impero, perché allora non si spiegherebbe la calata dell'Aquila che ferisce il carro «di tutta sua forza», dell'Aquila che è senz’altro simbolo dell'Impero medesimo: due simboli per rappresentare uno stesso personaggio in uno stesso dramma (quale è quello a cui assistiamo) non servirebbe ad altro che a confonderci le idee.
Arrivati a questo punto, è tempo di trarre le debite conclusioni intorno alla allegoria fondamentale del poema. Riprendendo il discorso con cui si è aperto questo capitolo, diciamo che Dante, persuaso da Virgilio, cioè dalla ragione umana e dalla umana scienza, che è cosa impossibile vincere il peccato attuale — conseguenza ineliminabile di quello originale —, ed ascendere a Dio nelle condizioni politiche e religiose in cui si trova il mondo degli uomini agli inizi del sec. XIV, impossibile cioè esercitare le quattro virtù cardinali che sole conducono alla felicità terrena, e quelle teologali che ci indirizzano alla felicità celeste, dal momento che Impero e Chiesa sono venute meno ai loro compiti, e soprattutto perché la Chiesa ha voluto congiungere la spada col pastorale, — il potere temporale che non le compete con quello spirituale che finisce con l’esercitar male, Dante — si diceva — non trova altro mezzo per la salvezza sua e degli altri, che descrivere i regni d'’oltre tomba, — fare uno spirituale viaggio dalle bassure terrene sino alla gloria della Chiesa trionfante, contemplando dapprima gli effetti del peccato, quando esso non sia vinto e sconfitto, oltre che dalla grazia illuminante, anche dalla «benigna volontate», dalla volontà del bene, effetti che consistono nella infelicità della vita terrena e nella dannazione eterna. Tale è la sorte del genere umano, simboleggiato nel Veglio di Creta: solo Adamo fu innocente prima della sua disobbedienza a Dio, e solo la testa del Veglio è d’oro fino: dal momento che Adamo peccò, tutta la umanità peccò, e peccò in seguito con maggiore ardore e con maggiore cattiveria, e per questo le braccia ed. il petto del Veglio son d’argento, ed il resto del corpo di rame e di ferro, e l'un piede è pur esso di ferro (l'Impero) e l’altro di terracotta (la Chiesa). Quando, dunque, l'umanità decaduta dall’antico stato di innocenza potrà redimersi? Ferma è la fede di Dante nella venuta di un uomo virtuoso che vincerà il male ed il peccato simboleggiato nella lupa: ma forse si è più vicini al vero nel pensare che la venuta del misterioso Veltro. non è considerata dal poeta come evento storico futuro, bensì come speranza indefettibile, viva nel cuore di ogni cristiano, di un risorgimento morale, religioso e politico della umanità intera, il quale sarà possibile quando Chiesa ed Impero torneranno a compiere per intero la loro specifica missione. E dopo la contemplazione degli effetti del peccato, occorre la meditazione sui mezzi penitenziali necessari a riscattarsi da esso, a riacquistare la libertà morale (e la meditazione ha il suo compimento, nei rimproveri acerbi di Beatrice trionfante sul carro della Chiesa), dopo di che Dante muore misticamente e si libera dal peccato per rinascere alla vita di innocenza simboleggiata nella sua immersione ad opera di Matelda nelle lievi acque del Letè, e nell'offerta che «la bella donna» fa di lui alle quattro « belle » ninfe danzanti sulla ruota sinistra del carro. Ora soltanto, purificato sinanche dal ricordo del peccato, l'anima può avviarsi alla pienezza della beatitudine. Ma perché ognuno possa rag: giungerla e goderla, è necessario rivivere prima mentalmente la storia dell’uomo, dal peccato di Adamo al tradimento dei papi: ed è ciò che Dante fa, allegorizzando la processione mistica e l'albero dispogliato proprio lassù, nel Paradiso terrestre dove il primo uomo visse innocente e felice prima del suo peccato di disobbedienza a Dio. Non è necessario vedere simboli misteriosi e significati reconditi nella processione e nell’albero: concessa al Singleton che negli ultimi canti del Purgatorio è il centro di tutto il poema, non diremo però che l'essenza dell’allegoria consiste nell’aspettazione di Cristo giudice. Dante vuole dimostrare che pur dopo la caduta di Adamo, l’uomo può redimersi dal peccato con l'ausilio della Chiesa, depositaria e amministratrice dei Sacramenti; che se ciò non avviene, dipende dalla decadenza della Chiesa medesima: al carro, infatti, che la simboleggia, si avventa prima l'Aquila (cioè Costantino imperatore, il quale con la sua donazione, pur fatta con intento pio, recò grave danno alla sua funzione spirituale), e poi il dragone, cioè il demonio, che la trasforma in un mostro dalle sette teste, simbolo della corruzione della Chiesa, «divenuta ricca ed avida di potenza mondana»: sul mostro cavalca una meretrice dagli occhi mobili ed impudichi, cioè la curia papale dei tempi di Dante, che è pronta a fornicare con un gigante, ma soggiace alle battiture di questo «feroce drudo », non appena essa ha rivolto l'occhio cupido a Dante, e dal gigante è trascinato nella selva. (Inutile aggiungere che il gigante simboleggia la casa reale di Francia, e più precisamente Filippo il Bello). Il grifone in- tanto è risalito in cielo con i seniori, e Beatrice, la Verità rivelata, siede «in su la terra vera», pur sempre come guardiana del carro, vilipeso e corrotto, pur sempre circondata dalle sette ninfe (le sette virtù) che hanno tra mano i sette candelabri d’oro. Ciò significa che solo temporaneo è il traviamento della Chiesa: se essa è decaduta dalla purezza primitiva, intatte rimangono le dottrine, intatta la Verità, intatti gli effetti della Redenzione: occorre solo aspettare che venga il Veltro a ricacciare la lupa nell’Inferno, l’uomo virtuoso che libererà la Chiesa dalla cupidigia dei beni mondani e dalla fornicazione con i re della terra. L'allegoria del poema s’incentra nell'attesa non di Cristo giudicante, ma della venuta del Veltro (o del Dux di cui parla Beatrice), restauratore della giustizia, della pace, della legge umana e divina.

Date: 2022-09-20