Francesco d'Assisi nella Commedia [Erich Auerbach]

Dati bibliografici

Autore: Erich Auerbach

Tratto da: Studi su Dante

Editore: Feltrinelli, Milano

Anno: 1963

Pagine: 221-235

Pochi passi del Paradiso sono così noti e generalmente ammirati come il canto undicesimo; né ciò può sorprendere, perché esso tratta di san Francesco d’Assisi e i versi sono particolarmente belli. Eppure l'ammirazione per questo canto non può essere del tutto spiegata a prima vista. Francesco fu una delle figure pit suggestive del medioevo. Tutto il XIII secolo, al quale appartiene la giovinezza di Dante, era per così dire pieno di lui; fra i personaggi dell’epoca Francesco è quello di cui sono stati più chiaramente tramandati il carattere, la voce e i gesti. La natura solitaria e insieme popolare della sua religiosità, la dolcezza e l’asprezza della sua persona, l’umiltà e la ruvidità del suo atteggiamento non furono dimenticate; la leggenda, la poesia e la pittura s'impadronirono di lui e ancora molto tempo pi tardi pareva che ogni frate mendicante per le strade portasse in sé qualche cosa di lui e moltiplicasse la sua immagine. Senza dubbio la sua comparsa contributi molto a ridestare e ad accentuare la sensibilità per ciò che vi è di peculiare e di marcato nell’individuo: appunto quella sensibilità di cui la Commedia dantesca è il massimo monumento. Dall’incontro fra i due; ossia dall’apparizione del santo nella Commedia, ci si dovrebbe quindi aspettare uno di quei momenti culminanti, nella rappresentazione concreta della vita, che nel poema sono così numerosi; nella biografia di Francesco, che a quel tempo era già diventata per metà leggendaria, Dante trovava larghissimo materiale per comporre questo incontro. Ma lo strano è che a questo incontro Dante non arriva.
Quasi tutti i personaggi della Commedia compaiono direttamente. Dante li incontra nel luogo che il giudizio di Dio ha loro assegnato, e lì si svolge uno scambio immediato di domande e risposte. Con Francesco d'Assisi le cose vanno diversamente. Dante lo vede proprio alla fine del poema, sul suo seggio nella rosa bianca fra i beati del Nuovo Testamento; ma non parla con lui, e negli altri passi dove è nominato egli non compare personalmente: neppure là dove si parla di lui più per esteso e a fondo, appunto nel canto undicesimo del Paradiso. Non è Francesco che parla, ma altri raccontano di lui. Se ciò è sorprendente, ancor pit sorprendono la cornice e il modo del racconto.
Nel cielo del Sole Dante e Beatrice sono circondati da un cerchio di spiriti beati che danzano e che, interrompendo il loro movimento, si presentano come Padri della Chiesa e maestri di sapienza; uno di essi, Tommaso d'Aquino, nomina e definisce se stesso e i suoi compagni (è qui anche il famoso passo su Sigieri di Brabante) e subito la danza ricomincia. Dante non ha capito il senso di alcune parole di Tommaso: io ero un agnello del gregge di Domenico, dove si trova un buon pascolo se non ci si smarrisce; Dante ha bisogno che questo verso — “’ ben s'impingua, se non si vaneggia” (e anche l’altro passo su Salomone) — gli sia spiegato. Tommaso, che come tutti i beati possiede la visione diretta della luce eterna e che attraverso questa conosce anche i pensieri di Dante, soddisfa il desiderio inespresso e di nuovo il canto e la danza s’interrompono affinché Tommaso, aiutato da Bonaventura, possa commentare le proprie parole. Questo commento abbraccia tre canti. Nel primo, l’undicesimo, Tommaso narra la vita di san Francesco e accompagna il racconto con un lamento sulla decadenza del proprio ordine, il domenicano; nel secondo, all’inverso, il francescano Bonaventura racconta la vita di Domenico e conclude con un biasimo per i francescani; il canto tredicesimo contiene, nuovamente per bocca di Tommaso, il commento all’affermazione riguardante Salomone. Dai due canti sugli ordini monastici Dante e il lettore devono imparare che entrambi gli ordini furono creati per lo stesso scopo, che essi si completano a vicenda e che in entrambi i casi la vita del fondatore era stata perfetta, la deviazione dei successori scellerata; che dunque in essi si avanza bene se si segue l’esempio dei fondatori e non si è sviati. Entrambi i canti sono un commento, hanno carattere didascalico, sono bene inseriti nell’interpretazione dantesca della storia e contengono uscite polemiche non solo contro i due ordini ma anche contro il papato e il clero in generale. Del commento fa parte anche l'esposizione della vita di Francesco: essa è parte di un commento che si estende per parecchie centinaia di versi, a proposito di un'espressione incidentale che occupa un verso e che poteva essere chiosata anche pit in breve. Questa è dunque la cornice: Tommaso, il grande dottore della Chiesa, commenta ampiamente una propria affermazione. Questo atteggiamento, questa attività, corrispondono alla sua persona; ma questa cornice corrisponde alla biografia di Francesco d’Assisi? Per la sensibilità moderna certamente no. Noi abbiamo imparato, senza dubbio, a intendere la maniera del commento medievale sulla base dei suoi presupposti; sappiamo che essa derivava dal particolare metodo didattico del tempo; forse abbiamo osservato anche altre volte che nell’intrico della parafrasi esegetica si può trovare inopinatamente un fiore di cui il tronco, ossia il testo, non faceva sospettare la presenza; il fenomeno, anzi, non sembra limitato alla sola letteratura, se si pensa a certe iniziali ea certe sequenze. Ma qui, quando Dante vuole raccontare la vita di san Francesco? Non poteva trovare una cornice meno didascalica, meno scolastica?
Non è tutto. La biografia esposta da Tommaso contiene ben poco di tutti quei particolari incantevoli e così estremamente concreti che la leggenda francescana ci ha conservato. È vero che i punti principalissimi, la nascita, la costruzione dell’opera e la morte, sono narrati secondo la tradizione, ma non c’è alcun tratto particolare che possa servire alla vivacità aneddotica; e anche i dati principalissimi sono esposti in maniera quasi protocollare in ordine cronologico: nascita, voto di povertà, fondazione dell’ordine, conferma di papa Innocenzo, seconda conferma di Onorio, missione, stimmate, morte. Le pitture murali di Assisi raccontano molto di più, e raccontano in stile molto più colorito e aneddotico, per non parlare delle varie versioni letterarie della leggenda. E c'è di più: in Dante la biografia, oltre alla cornice esterna del commentario di cui essa è parte, ha anche un motivo conduttore interno, che è un motivo allegorico. La vita di Francesco è rappresentata come matrimonio con una figura femminile allegorica, la Povertà. Noi sappiamo che questo era un motivo della leggenda francescana; ma era necessario farne il motivo dominante? Come specialisti dell’arte o della letteratura medievale noi abbiamo imparato a poco a poco e con qualche fatica che per determinati gruppi della cultura medievale l’allegoria significava qualche cosa di diverso che per noi, di più reale; e che nell’allegoria si vedeva una forma concreta del pensiero, un arricchimento delle sue possibilità d'espressione. Ma ciò non ha impedito a uno dei suoi pit solleciti e più comprensivi riscopritori, al Huizinga, di definirla con un certo disdegno “il parassita uscito dalla serra della tarda antichità.” Pur riconoscendone il significato noi non possiamo più sentirne spontaneamente il lato poetico. Ed ecco che Dante, che fa parlare direttamente tante persone, ci presenta la figura più viva dell’epoca precedente, Francesco d'Assisi, sotto la veste di una narrazione allegorica. Qui egli non usa il metodo che quasi tutti i poeti posteriori avrebbero usato e in cui egli fu il primo maestro, cioè non rappresenta l’uomo stesso con le sue parole e i suoi gesti, nel modo più concreto e più personale. Il dottore della Chiesa Tommaso racconta le nozze del santo con la Povertà per ché Dante capisca che cosa significa dire che nel gregge di Domenico si trova un buon pascolo se non ci si smarrisce. Se si pensa ai noti carmi allegorici della tarda antichità e del medioevo, alle opere di Claudiano o di‘ Prudenzio, per esempio, di Alano di Lilla o di Jean de Meun, si trova certamente poco di comune fra esse e la vita di Francesco della Commedia. Quelle opere contengono masse di personaggi allegorici, ne descrivono la figura, il vestito, l’abitazione, li fanno discutere e combattere fra loro. In alcune di esse compare anche “Paupertas,” ma come vizio o compagna del vizio. Qui Dante presenta una sola persona allegorica, appunto la Povertà, e la collega con una personalità, storica, ossia concretamente reale. È una cosa del tutto diversa: egli attira l’allegoria nell’attualità, la connette strettamente alla storia. Indubbiamente questa non è un’invenzione di Dante: tutto il motivo gli era stato fornito dalla tradizione francescana che fin dal principio conteneva le nozze con la Povertà come figura dell’attività del santo. Subito dopo la sua morte fu scritto un: trattato dal titolo Secrum commercium Beati Francisci cum Domina Paupertate e del motivo si ritrovano continui riecheggiamenti, per esempio anche nelle poesie di Jacopone da Todi. Ma esso non è svolto a fondo con coerenza e si dissolve in molti particolari didattici o aneddotici; non è mai tenuto fermo per un’esposizione concreta della vita. Il Sacrum commercium non contiene niente di biografico: in sostanza è uno scritto didascalico in cui la Povertà tiene un lungo discorso. La raffigurazione della chiesa inferiore di Assisi, che un tempo era per lo pit attribuita a Giotto, presenta anch'essa le nozze al di là di ogni biografismo concreto: Cristo unisce il santo con la Povertà, lacera e macilenta, mentre ai due lati cori angelici su vari ordini partecipano alla cerimonia. Ciò non ha niente a che fare con la vita pratica del santo, che è esposta in un altro ciclo iconografico. Dante invece fa tutt'uno: alla celebrazione delle nozze unisce quella scena efficace, quasi stridente, in cui Francesco sul mercato di Assisi rinuncia in pubblico all’eredità paterna e restituisce al padre persino i vestiti. La rinuncia all’eredità e lo svestimento, che altrove costituiscono sempre l'oggetto vero e proprio della descrizione, in Dante non sono esplicitamente menzionati e vengono inclusi nelle nozze allegoriche; qui Francesco si allontana dal padre per amore di una donna; di una donna che nessuno vuole, che tutti evitano come la morte. Egli si unisce a lei sotto gli occhi di tutti, sotto gli occhi del vescovo e del padre. Qui l’aspetto particolare del fatto, come il suo significato generale, è rappresentato con colori pi stridenti di quelli che avrebbe avuto se vi fosse stata espressa la semplice rinuncia a qualche cosa: egli rifiuta i beni paterni e si allontana dal padre non perché non vuole possedere qualche cosa, ma perché desidera e vuole possedere un’altra cosa; lo fa per un amore, per un desiderio che involontariamente suscita il ricordo di altri fatti simili, di giovani che abbandonano la famiglia per seguire donne cattive che hanno acceso ai loro desideri. Quasi sfrontatamente, sotto gli occhi di tutti, Francesco si unisce con una donna che tutti disprezzano, e la descrizione che segue, come vedremo, fa ancora pensare a una donna cattiva. Qui dunque si celebra uno strano matrimonio, ripugnante secondo i concetti comuni, una cerimonia odiosa, accompagnata dalla lite col padre, celebrata in pubblico e rappresentata a colori stridenti, e appunto per questo anche più significativa della restituzione degli abiti, la quale non suscita immediatamente quelle idee di abiezione e di santità come le nozze con una donna disprezzata. E qui sorge il ricordo di un altro che un tempo aveva celebrato simili nozze, che si era unito anche lui con una donna disprezzata e reietta, con la povera umanità ripudiata, la figlia di Sion, che aveva rinunciato volontariamente alla sua parte di eredità per seguire il suo amore per la donna ripudiata. L'idea che la vita e la sorte di Francesco d’Assisi presentassero certe concordanze con la vita di Cristo, ossia il motivo dell’imitazione e della conformità, fu sempre amorevolmente coltivata dalla tradizione francescana. Questa idea ispira la biografia di Bonaventura ‘ed era espressa anche in pittura, innanzi tutto nella chiesa inferiore di Assisi dove a cinque raffigurazioni della vita di Cristo ne sono contrapposte cinque della vita di Francesco. La conformità si ritrova anche in molti particolari, per esempio nel numero dei discepoli, nella vita in comune con essi, nei vari miracoli e soprattutto nelle stimmate. Dante non segue il motivo nei particolari e anzi non dà affatto particolari, ma lo elabora volutamente nelle nozze mistiche: non nei singoli tratti, dunque, ma nella concezione generale e decisiva; sia pure in modo tale che al lettore medievale esso si rivelava più immediatamente che al lettore odierno.
La biografia narrata qui da Tommaso d'Aquino comincia con una descrizione della posizione di Assisi. “Da quella costa,” continua poi Tommaso, ‘nacque al mondo un sole splendente come questo al suo sorgere; però chi parla di quel luogo non dovrebbe dire Ascesi ma Oriente.” Questo gioco di parole può servire soltanto a sottolineare il confronto fra la nascita di Francesco e il sorgere del sole; ma secondo una concezione molto diffusa nel medioevo “sol oriens,” “oriens ex alto” è Cristo stesso (secondo Luca, 1, 78 e il simbolismo della luce in alcuni passi di Giovanni ); questo simbolo si fonda su miti molto più antichi del cristianesimo, che avevano solide radici nei paesi del Mediterraneo ed. erano soprattutto connessi con le nozze mistiche. Nella concezione del figlio del Sole come redentore del mondo, destinato alle nozze mistiche, si mescolavano per Dante la nascita del Signore, le nozze dell’Agnello e la visione della quarta Egloga di Virgilio, che per lui e per i suoi contemporanei era una profezia di Cristo. È indubbio dunque. che nel paragone col sole nascente, al quale seguono subito dopo le nozze mistiche come prima conferma della forza solare del santo, egli volesse evocare ed elaborare il motivo della conformità o imitazione di Cristo. Il paragone col sole nascente è un’introduzione quanto mai solenne, che fa efficace contrasto coi toni crudi, brutti e ripugnanti delle nozze. Il contrasto è già preparato a distanza, e non credo che ciò sia casuale. Il motivo delle nozze mistiche infatti è precedentemente accennato in breve per due volte, la prima volta in maniera molto ‘graziosa, la seconda con sublime solennità, e in entrambi i casi con tutto il mirabile splendore della bellezza di cui è capace Dante. La prima volta il motivo appare come immagine, alla fine del canto X, nel paragone fra la danza degli spiriti beati e l'orologio del mattutino:

Indi, come orologio che ne chiami
Nell’ora che la sposa di Dio surge
A mattinar lo sposo perché l’ami,

Che l’una parte l’altra tira e urge
Tin tin sonando con st dolce nota,
Che ’l ben disposto spirto d’amor turge;

Cosi vid’io la gloriosa rota
muoversi...
(vv. 139 sgg.)

Qui il motivo è soltanto accennato in un paragone, ma è fatto concreto in tutta la sua grazia gioiosa, nella sua dolcezza; qui come nel passo seguente lo sposo è Cristo, e la sposa è la Chiesa, ossia la cristianità. Nel secondo passo, subito prima dell’inizio della vita di Francesco, esso diventa più drammatico, più profondo e pit significativo: qui si parla delle nozze della Croce. All’inizio della sua spiegazione Tommaso vuole chiarire a Dante i fini della Provvidenza. La Provvidenza, egli dice, mandò due capi (Francesco e Domenico) affinché la Chiesa potesse seguire con maggior sicurezza e fedeltà la sua via verso Cristo; e questa proposizione finale suona così:

Però che andasse ver lo suo diletto
La sposa di colui ch’ad alte grida,
Disposò lei col sangue benedetto,

In sé sicura ed anche a lui più fida...
(Par., XI, vv. 31 sgg.)

Questo passo non è più grazioso, ma è solenne e sublime; per Dante tutta la storia universale successiva a Cristo è racchiusa nell'immagine della sposa che va verso l’amato. Anche qui è molto forte l’aspetto gioioso, il movimento di giubilo delle nozze; vi compare, è vero, l’amato tormento di quelle nozze sulla Croce, che furono celebrate ad alte grida col sangue benedetto; ma ora “è compiuto,” e il trionfo di Cristo è deciso.
I due preannunzi, l’uno grazioso, l’altro solenne e sublime, entrambi pieni di letizia nuziale, come pure il passo del sole nascente, stanno in netto contrasto estetico con le nozze che essi preparano. Questa festa comincia con un tono aspro, con una stonatura, con la contesa col padre, con le dure rime in “guerra” e “morte.” E la sposa non è nominata né descritta, ma è tale che nessuno le vuole aprire la porta del piacere, come alla Morte. Mi sembra molto opportuno intendere l’apertura della porta del piacere nel senso più proprio, come fatto sessuale, spiegando quindi “porta” come la porta del corpo femminile. L’altra spiegazione, sostenuta da vari commentatori, secondo cui si tratterebbe della porta della casa di chi nega l’ingresso alla Povertà o alla Morte, è bensì confortata da vari passi di testi diversi, dove è detto che nessuno vuole aprire alla Morte o alla Povertà che bussano, ma non si addice a un contesto nuziale e non spiega a sufficienza la “porta del piacere”; inoltre Dante, se non avesse inteso proprio questo senso, avrebbe certo evitato di suggerire l’interpretazione sessuale che appare ovvia: essa conviene perfettamente all’impressione dell’amara ripulsa che qui vuole suscitare. Nessuno dunque vuole la donna che Francesco sì è scelta, essa è disprezzata e scansata, da secoli aspetta invano chi l’ami — uno degli antichi commentatori, Jacopo della Lana, sottolinea anche esplicitamente che essa non ha mai detto di no a nessuno, — ma Francesco, il sole nascente del monte Subasio, si unisce in pubblico con questa donna, il cui nome non è ancora fatto ma la cui descrizione deve suscitare in ogni lettore l’immagine di una prostituta vecchia e spregiata, brutta e tuttavia assetata d’amore. Da allora egli l’ama ogni giorno più forte. Da pit di un millennio essa è stata privata del suo primo marito (Cristo, che però non è ancora nominato), nel frattempo visse disprezzata e abbandonata finché non è comparso’ Francesco; non le giovò l’aver dato tranquilla sicurezza al pescatore Amiclate, suo compagno di un tempo, in occasione della visita di Cesare (da Lucano); e neppure l'essere salita con Cristo sulla Croce, costante e fiera, quando anche Maria “rimase giuso.” Ora è chiaro chi essa sia, e ‘Tommaso dice anche il nome; ma anche qui l’aspetto sublime ed eroico della “Paupertas” non è privo di un sentore grottesco e amaro. È già piuttosto bizzarro che una donna salga con Cristo sulla Croce ; anche pit bizzarra è la costruzione dell’allegoria per indicare come furono «acquistati i primi compagni. Comunque s’intendano i versi 76-8, non del tutto chiari sintatticamente, è però chiaro ‘il senso generale: l’amorosa concordia del matrimonio fra Francesco e Povertà suscita in altri il desiderio di partecipare a questa felicità; dapprima si scalzò Bernardo (di Quintavalle), e cominciò “a correre dietro a tanta pace, e pur correndo gli sembrava di essere troppo lento”; poi si scalzano anche Egidio e Silvestro e seguono lo sposo: a tal punto piace loro la sposa!
Alla visione grottesca e orrida dell'unione sessuale con una donna disprezzata, che si chiama Povertà o Morte e mostra anche nel fisico questi contenuti, si accosta qui un’immagine che per le tendenze del gusto posteriore sarebbe stata inopportuna e insopportabile; il seguito devotamente estatico dei primi discepoli è rappresentato come un amo- roso inseguimento della donna di un altro. Nel medioevo cristiano, all’inizio del XIV secolo, immagini di questo genere avevano certa- mente la stessa efficacia che avrebbero avuto più tardi, ma l’effetto era di un tipo diverso. Il lato concreto, intensivo e plastico che è compreso in immagini erotiche — andar dietro a una donna, congiungersi carnalmente con lei — non era considerato sconveniente, ma si vedeva in esso, come nell’interpretazione del Cantico dei cantici, una raffigura zione concreta della spiritualità. Per la sensibilità posteriore l’intrecciarsi di elementi così diversi, la mescolanza della più indegna carnalità e della suprema dignità spirituale, appare certo difficilmente accettabile, e anche oggi, quando si è molto pit disposti ad ammirare nell’arte moderna forme anche estreme di mescolanza degli stili, è raro che si comprendano in tutto il loro contenuto passi di questo genere in un poeta antico e universalmente venerato come Dante; per lo più non ci si presta attenzione e si passa oltre. È vero che sarebbe anche peggio se si volesse interpretarli nel senso di un estremismo anarchico, quale si manifesta nella nostra epoca, spesso per ragioni molto oneste e molto serie; spesso Dante è “espressionistico” fino all’estremo, ma questo suo espressionismo vive di una tradizione molto composita e sa quello che vuole e deve esprimere.
Il modello di uno stile in cui la massima sublimità andava unita alla massima degradazione, dal punto di vista di questo mondo, era la storia di Cristo, e ciò ci riporta al nostro testo. Francesco, il seguace di Cristo, vive ora con la sua amata e con i suoi compagni, tutti cinti del cordone dell’umiltà: anche lui, come la sua amata, è di aspetto estremamente vile e di umile origine, ma manifesta regalmente al papa la sua “dura intenzione,” di fondare cioè un ordine monastico. Anche lui, infatti, come Cristo, è il più povero e disprezzato degli uomini e nello stesso tempo è un re; e se nella prima parte della biografia si insiste sui lati spregevoli, nella seconda, che parla delle conferme papali, della missione, delle stimmate e della morte, sono accentuati il trionfo e la trasfigurazione. Regalmente egli espone al papa il suo piano e ne ottiene l’approvazione; la schiera dei minoriti cresce, dietro a costui, la cui vita dovrebbe essere piuttosto cantata in gloria del cielo; lo Spirito Santo corona la sua opera attraverso papa Onorio; e dopo avere cercato invano il martirio fra i pagani egli riceve da Cristo stesso, in patria, sull’aspro monte fra il Tevere e l'Arno, l’ultimo sigillo che conferma la sua consacrazione: le stimmate. Quando piacque a Dio di ricompensare la sua umiltà con la morte, con la beatitudine eterna, egli raccomandò la sua amata all’amore fedele dei suoi fratelli, suoi legittimi eredi; e dal grembo di lei, della Povertà, sorse la sua anima preclara per tornare al suo regno; per il corpo egli non volle altra bara che il grembo della Povertà. Tutto si conclude con un movimento ritmico-retorico che segna il passaggio alla rampogna contro i nuovi domenicani; Tommaso esorta Dante a misurare sulla grandezza di Francesco quella dell’altro capo, Domenico, che ha fondato l’ordine al quale Tommaso stesso apparteneva: “Pensa oramai qual fu colui...”

Senza dubbio “Paupertas” è un’allegoria. Eppure tutti i particolari concreti della vita povera — come li elenca per esempio il Sacrum Commercium — non avrebbero suscitato quel deciso fremito di orrore che sorge da questo matrimonio, descritto con poche parole ma incisivamente, con una donna vecchia, brutta e disprezzata. L’amarezza, il lato orrido, fisicamente e moralmente ripugnante di questa, unione, rivela in tutta la sua forza concreta la grandezza della santa decisione; esso rivela anche la verità dialettica che solo l’amore è capace di attuare in questa decisione. Nel Sacrum Commercium è lodato un convito nel quale appare, successivamente, che i confratelli hanno soltanto mezzo vaso di terra per lavarsi le mani, nessun asciugamano, soltanto acqua per bagnarvi il pane, soltanto erbe selvatiche da mangiare col pane, non hanno sale per salare le erbe amare né un coltello per pulirle e tagliare il pane. Questo elenco e questa descrizione non può non generare un certo fastidio: suona pedante, meschino e ricercato. È già diverso il racconto di un singolo atto drammatico dello spirito di povertà, di quelli che ricorrono spesso nella leggenda del santo: per esempio la scena in cui egli vede attraverso la finestra i fratelli che mangiano a una tavola troppo ben adornata: prende il cappello e il bastone di un po’ vero, si avvicina alla porta chiedendo a voce alta la carità e domanda, come un povero pellegrino, di poter entrare a mangiare; quando i fratelli meravigliati, che naturalmente lo riconoscono, gli danno il piatto richiesto, egli si siede nella cenere e dice: “modo sedeo ut frate minor.” ‘Questa è una scena che esprime bene ciò che propriamente colpiva nella sua figura, ma non tutto il significato della sua vita. Per esprimere questo sarebbero occorsi molti aneddoti simili, ciascuno dei quali sarebbe stato come una pietra in un edificio: così procedeva lì tradizione biografica e leggendaria, ma nella Commedia non cera spazio sufficiente. E questo non era neppure il suo compito. Gli aneddoti della leggenda erano noti a tutti; più ancora: Francesco d'Assisi, in tutta la sua personalità, era da gran tempo una figura ferma e conclusa nella coscienza di tutti i contemporanei. Diversamente che nel caso di molti altri personaggi, meno noti o più discussi, che compaiono nella Commedia, qui Dante aveva per oggetto una figura stabilmente delineata, e il suo compito era di rappresentarla in modo che essa, senza perdere di concretezza, apparisse nel pit ampio contesto del suo significato. La concretezza della persona del santo doveva essere conservata, ma non era questo il fine vero e proprio dell’esposizione: essa doveva entrare a far parte dell'ordinamento in cui ogni persona è di sposta dalla Provvidenza. L’aspetto personale-concreto del santo doveva essere subordinato al suo ufficio ed essere mostrato soltanto attraverso il suo ufficio. Per questo Dante non narrò un incontro col santo, nel quale questi poteva per esempio mostrarsi o esprimersi in modo a lui peculiare, ma scrisse una vita, un racconto agiografico; Dante non poteva esprimere in propria persona la grande importanza che attribuiva all'attività dei due fondatori di ordini monastici: lo fa attraverso i due grandi dottori della Chiesa che sono usciti dagli ordini, Tommaso e Bonaventura. Nelle due biografie la persona è subordinata all’ufficio, o piuttosto alla missione alla quale le persone erano chiamate. Nella parte su Domenico, splendido di sapienza cherubica, il cui ufficio era di predicare e insegnare, e la cui persona non poteva avere un'efficacia popolare come il serafico e ardente Francesco, i dati propriamente biografici passano molto in secondo piano e sono sostituiti da una serie di immagini: sposo della fede, agricola di Cristo; vignaiolo, combattente per il seme della Sacra Scrittura, torrente impetuoso sui campi degli eretici, ruota della biga della Chiesa. Sono tutte immagini indicanti l’ufficio. La biografia di Francesco si tiene molto più stretta alla vita, ma anch’essa è sorretta’ dall'idea dell'ufficio: qui c’è una sola immagine, svolta fino in fondo, quella delle nozze con la Povertà, che in pari tempo dà alla vita la sua forma conclusa e la colloca sotto il segno dell’ufficio. Anche nella biografia di Francesco dunque il punto decisivo è l’ufficio, al quale la vita concreta si deve subordinare, e appunto a ciò serve l’allegoria della Povertà: essa unifica la missione del santo e l'atmosfera peculiare della sua persona, la quale è intensificata all’estremo ma sempre sotto il segno dell’ufficio, come voleva la natura stessa di Francesco, la cui forte e travolgente concretezza personale non “vaneggiava” mai ma si riversava tutta nel suo ufficio. “Francesco,” dice Dio al santo in un passionale tedesco, “prendi le cose amare per le dolci e disprezza te stesso per potermi riconoscere.” Prendi le cose amare per le dolci... C'è una cosà più amara dell’unione con quella donna? In questa unione sono comprese tutte le cose amare, tutto quel che si può pensare di amarezza e di disprezzo per se stesso, insieme con l’amore che è pit forte di ogni amarezza, pit dolce di ogni dolcezza e che è conoscenza di Cristo.
Senza dubbio “Paupertas” è un’allegoria; ma non è introdotta come tale, e tanto meno descritta; non apprendiamo niente sul suo aspetto, niente sul suo vestito, che di solito nelle allegorie sono descritti; dapprima non ci è detto neppure il suo nome. In un primo tempo sappiamo soltanto che Francesco ama una donna, contro l'opinione del mondo, e che si unisce con lei; l'aspetto di lei è indicato solo indirettamente, ma con tanto maggiore efficacia, dal fatto che tutti la evitano come la morte e che da tanto tempo essa aspetta, abbandonata e disprezzata, qualcuno che l’ami. Essa non parla neppure, come nel Secrum Commercium o come le allegorie di Penuria, Colpa, Cura e Angustia nell'ultimo atto della seconda parte del Faust di Goethe; essa è soltanto la taciturna amata del santo, stretta a lui da un legame più stretto e pit vero di quello che unisce Cura a Faust. Così il contenuto didascalico che è proprio dell’allegoria non ha affatto la forma dell’ammaestramento dottrinale rivolto alla coscienza, ma è un fatto reale. Come donna di Francesco la Povertà sta nella realtà concreta; ma siccome Cristo fu il suo primo sposo, la realtà concreta di cui si tratta è altresì parte di un grande contesto storico e dogmatico. “Paupertas” unisce Francesco a Cristo, istituisce la posizione del santo come “imitator Christi.” Fra i tre motivi che nel nostro testo accennano all’imitazione — “sol oriens,” nozze mistiche, stimmate — il secondo, le nozze mistiche, è il più importante in quanto esso fonda gli altri due e la posizione di Francesco in generale. Come secondo sposo della Povertà egli è seguace o imitatore di Cristo.
Il compito di seguire o imitare Cristo, che si pone per tutti i cristiani, è fondato su molti passi del Nuovo Testamento. Nei primi secoli della Chiesa militante, attraverso la testimonianza del sangue dei martiri, risultò che quel compito aveva un adempimento non soltanto morale, nell'osservanza dei comandamenti e nell’imitazione delle virtù, ma anche esistenziale, mediante la sofferenza di un uguale o di un simile martirio. Queste forme esistenziali dell'imitazione di Cristo, dell’imitazione della sua sorte, restarono oggetto di aspirazione anche in seguito; una forma di essa era considerata anche la morte eroica nella lotta contro gli infedeli. Nella mistica del XII secolo, soprattutto attraverso Bernardo di Chiaravalle e i suoi scolari cistercensi, sorse una tendenza estatica che attraverso l'abbandono nella passione di Cristo, ossia in maniera sostanzialmente contemplativa, cercava di conseguire un’'imitazione esistenziale del Redentore, e nella quale l’intima esperienza della Passione, “unio mystica passionalis,” era considerata il grado supremo dell'abbandono contemplativo. Francesco d’Assisi è un continuatore della mistica passionale cistercense in quanto nella sua figura, e soprattutto in essa, l’esperienza della Passione appare come “ultimo sigillo”; ma la via per giungervi è in lui molto più attiva e vitale che nei cistercensi: l’esperienza non si fonda soprattutto sulla contemplazione, ma sulla povertà e l’umiltà, sull’imitazione della vita povera e umile di Cristo. Francesco dette alla spiritualizzazione mistica dell’imitazione una base immediatamente fondata sulla Scrittura, immediatamente accessibile a chiunque e immediatamente pratica: appunto l’imitazione della pratica povertà e umiltà di Cristo. Questo rinnovamento concreto dell’imitazione esistenziale spiega anche il fatto che egli fu ritenuto degno dai contemporanei del miracolo delle stimmate; nessun altro ravvivò così radicalmente il concetto dell’imitazione esistenziale.
Si vede bene ora che Dante non poteva rappresentare con tanta semplicità e immediatezza la sostanza della figura del santo altrimenti che mediante le nozze mistiche con la Povertà, che è alla base della sua iImitatio Christi.” Essa soltanto pone Francesco nel contesto storicou-niversale di cui, secondo la concezione di Dante, egli fa parte; un contesto che al suo tempo aveva un’estrema vitalità. Per l'epoca medie- vale e fin addentro nell’età moderna un fatto significativo o un personaggio significativo erano “significativi” nel senso vero e proprio; significavano l'adempimento di un piano; l'adempimento di qualche cosa di preannunciato, la ripetizione ratificante di una cosa già avvenuta e l'annuncio di una cosa che avverrà. Nel precedente saggio su “figura” ho cercato di mostrare come la cosiddetta interpretazione tipologica dell’Antico Testamento, che vede nei suoi avvenimenti profezie reali che si adempiono nel Nuovo Testamento, e in particolare quella della venuta e del sacrificio di Cristo, avesse creato un nuovo sistema d’interpretazione della storia e della realtà in generale, che dominò nel medioevo cristiano ed ebbe un influsso decisivo su Dante; l’interpretazione figurale crea fra due fatti, che appartengono entrambi alla storia, un nesso in cui uno dei due non significa soltanto se stesso ma significa anche l’altro, mentre quest’altro comprende ed adempie il primo. Negli esempi classici la seconda parte che adempie la prima è sempre la venuta di Cristo con gli avvenimenti connessi che portano alla redenzione e alla rinascita dell’uomo; e l’insieme è un’interpretazione complessiva della storia universale precristiana orientata verso la venuta di Cristo. L’imitazione esistenziale, che qui ci interessa a proposito delle nozze mistiche di Francesco con la Povertà, è in certo senso una “figura’ capovolta: essa ripete certi tratti caratteristici della vita di Cristo, la rinnova e la incarna sotto gli occhi di tutti e rinnova quindi anche l'ufficio di Cristo, come buon pastore che il gregge deve seguire. "Io fui degli agni della santa greggia / Che Domenico mena per cammino, dice Tommaso, e Francesco è definito “archimandrita.” Figura e imitazione costituiscono insieme una concretizzazione della compiuta concezione teleologica della storia, al cui centro sta la venuta di Cristo; questa segna il confine fra l’antico e il nuovo Patto; si ricordi che alla fine dei tempi il numero dei beati dell’antico e del nuovo Patto, mostrati da Dante nella bianca rosa dell’Empireo, sarà esattamente pari, e che dalla parte del Nuovo Testamento soltanto pochi seggi restano liberi: la fine del mondo è dunque prossima. Ma fra i santi del Nuovo — Testamento, nella bianca rosa, Francesco occupa un posto particolare, — di fronte ai grandi patriarchi dell'Antico, e come questi erano stati anticipatori, così lui, lo sposo della Povertà segnato dalle stimmate, è quello che eccelle fra i tardi imitatori di Cristo, chiamato a guidare il gregge sulla retta strada, a sostenere la sposa di Cristo affinché essa possa andare sicura e fedele verso il suo amato.
Per il lettore medievale, che ci viveva in mezzo, tutti questi nessi erano riconoscibili a prima vista; le idee della ripetizione anticipatrice o imitativa gli erano familiari come al lettore moderno, per esempio, il concetto di sviluppo storico; essi s’immaginavano come una ripetizione esatta, ma ingannatrice, della venuta di Cristo persino l’apparizione dell’Anticristo. Noi abbiamo perduto la comprensione spontanea di questa concezione della storia e siamo costretti a ricostruirla mediante ricerche. Ma essa accese l’ispirazione di Dante, di cui possiamo ancora sentire l’ardore; nonostante la nostra avversione per le allegorie, nel canto undicesimo del Paradiso ci sentiamo afferrare dalla realtà del vivente, di un vivente che vive solo qui, nei versi del poeta.

Date: 2022-09-20