Dante anagogico [Vittorio Cozzoli]

Dati bibliografici

Autore: Vittorio Cozzoli

Tratto da: Lectura Dantis 2002-2009. Omaggio a Vincenzo Placella per i suoi settanta anni

Editore: Università degli Studi di Napoli "L'Orientale", Napoli

Anno: 2011

Pagine: 315-339

Un caro saluto a tutti i presenti e un grazie particolare al professore Placella per l'occasione offertami di trattare, pur nei limiti qui consentiti, la questione sulla quale lavoro da un trentennio e che, con una formula di cui mi sono servito per dare il titolo al mio primo volume dantesco, chiamo «IL DANTE ANAGOGICO».
Il titolo della presente relazione, genericamente espresso con tale formula, prevede un sottotitolo che specifica un aspetto conseguente, così formulabile: «La questione dell’anagogia dantesca».
In realtà quella dell’anagogia di Dante non è per me una ‘questione’, risultando chiaro il suo fondamento e il modo del suo porsi e significare; lo diventa, però, nel momento in cui desidero aprirla, nella sua novità, anzi, nella sua ‘novitas’, ai lettori, anche specialisti, della sua opera. Non sempre infatti il ‘secondo Dante’ e il ‘secondo la dantologia’ coincidono.
So, infatti, quanto essa non sia ancora oggi né intesa ‘secondo Dante’, né debitamente affrontata come una questione, di essenziale pertinenza per l’ermeneutica, per l’esegesi, per l’allegoresi dantesca. In sostanza, per il commento che Dante ancora attende dai suoi commentatori, occorre liberare il significato spirituale (l’allegorico vero e proprio e l’anagogico) dall'«Aegypto» della retorica intesa unicamente in funzione letteraria e di molta metodologia critica di stampo storicistico.
A questo proposito vale per me — per quanto mi riguarda in questo lavoro di ‘ri-novamento’ dell’esegesi dantesca, e che mi conduce in territori ancora inesplorati — quanto Dante afferma nell’incipit del Monarchia:

[...] e per non essere un giorno incolpato di avere sotterrato il talento, desidero non solo accumulare, ma dare frutti per la pubblica utilità e rivelare verità che nessuno ha mai tentato (Mn. I, i).

Tra le ‘verità’ che finora ancora non sono state correttamente intese, vi è quella, qui essenziale, che riguarda la persona di Dante: la sua speciale condizione, che possiamo indicare come mistico-carismatica.
È questa infatti che non solo fonda il ‘Dante anagogico’, ma consente, soprattutto, di rinnovare il senso reale della ‘lettera’ e di tutto il suo sistema polisemico.
Ma dire questo è porre la questione sine qua non per la comprensione di Dante, sia litteraliter che allegorice.
Perciò mi servo del termine ‘questione’ proprio considerando il fatto che, in genere, per la dantologia l’anagogia dantesca non è una questione, ma un fatto tecnico-retorico, oppure ideologico-culturale. Così essa rimane non intesa nella sua realtà, e dunque nella sua significazione, che è spirituale.
Infatti il problema dell’allegoria e della specifica anagogia, senza essere posto come autentica necessaria questione, viene aperto e chiuso con un tecnico riferimento ai processi retorici o a quelli dell’esegesi biblica medievale o delle tecniche previste dalla retorica classica utilizzate durante quel Medioevo, di cui Dante stesso è espressione.
Al contrario, il mio porre la ‘questione’ è dovuto al fatto che l’anagogia dantesca, come vedremo, ha necessario riferimento al ‘Dante anagogico’: dunque non ad un complesso di modelli retorici ed esegetici, ma alla specifica realtà di un uomo, Dante, il quale merita un'attenzione ed una considerazione più approfondita, proprio a partire da quanto dice di sé lungo la propria opera.
È sull'uomo Dante, sulla sua persona che dobbiamo intrattenerci, volendo impostare correttamente la ‘questione’ dell’anagogia dantesca.
Siamo autorizzati a farlo da Dante stesso, sulla base dell’incessante, forte ed esplicita autotestimonianza circa la propria personale condizione. Questa, come vedremo, diviene, con i suoi luoghi privilegiati, l’unico autoaccessus alla comprensione della propria opera, e del suo messaggio.
Si potrà capire, per mezzo di questa ‘via nova’, quanta e quale sia per Dante l'importanza e la cura data all’autoesegesi. La quale deve essere tenuta in debito conto dalla filologia, alla quale auguro di farsi dantescamente ‘nova’.
Il motivo dell'autotestimonianza di Dante e di autoaccessus a Dante è assai più profondo di quello che normalmente si intende, cioè come supporto dato da un autore perché sia correttamente intesa la propria opera.
Infatti, indirizzando il lettore alla giusta interpretazione, il ‘Dante anagogico’ è ben cosciente di «dottrina dare la quale altri veramente dare non può» (Co. I, ii). E capiremo il perché, a partire dalla considerazione della «novità» di Dante, della sua specialissima novitas.
Certo, parlare della ‘novità’ di Dante, dopo secoli di dantologia, potrebbe apparire o incosciente, o provocatorio, ma, chiariti i termini in cui si pone questa ‘novità’, apparirà quanto feconda sia la novità del ‘Dante anagogico’, o meglio, ‘mistico-carismatico’, che si fonda su quanto egli stesso dice, nominando «la novitade de la mia condizione» (Co. II, vi). Su questa «novitade» della speciale e carismatica sua «condizione» bisognerà lavorare molto attentamente. Anche questa «novitade» e questa «condizione» vanno intese polisemicamente.
Dunque, è riduttivo porre l’attenzione all'uso dantesco del «novo» in rapporto alla sola dimensione letteraria, come appunto sarebbe ponendolo in relazione alla sola novità stilistica stilnovistica. Ne è prova il dialogo tra Dante e Bonagiunta (Purg. XXIV, vv. 49-63; in particolare i vv. 55-62).
È su un altro piano che ci si deve porre nell’impostare la questione anagogica. Così facendo, si comprende che tutta l’opera di Dante si compie ‘viaggiando’ dalla realtà «nova» ai «novissimi», cioè dall’«incipit vita nova» all’«explicit comedìa».
La propria speciale condizione, che già abbiamo anticipato come mistico-carismatica, dona a Dante una diversa esperienza della ‘realtà nova’ — si intenda quella dello spirito come realtà in-visibile — rispetto a quella concessa ai comuni uomini dalla naturale quotidiana esperienza.
È giunto il tempo di indagare, guidati da Dante stesso, la «novità» della sua persona, senza cercare, per ora, more filologico, altre fonti, esterne a quelle che sono la fonte primaria di Dante: la propria, fortemente testimoniata, esperienza, da cui l'insistenza nell’autoesegesi come chiave di accesso alla polisemica significazione della propria opera.
Dunque, il riferimento va ora posto sia alla speciale condizione della sua persona, sia ai vari e numerosi eventi che connotano incessantemente la sua vita, e che possiamo chiamare correttamente carismatici, i quali, insieme, danno all’anagogia dantesca un fondamento ben altrimenti che retorico.
Ecco perché intendo, con il mio lavoro, aprire la questione anagogica dantesca, ponendo una rinnovata interrogazione su quei passi che indicano tutto questo non come momento accessorio o estraneo, in quanto unicamente privato, alla vita di Dante scrittore, ma come momento fondante la propria concezione della realtà e dell’opera. La quale di tale realtà è altissima testimonianza.
Qui, dunque, si fonda il rapporto, così necessario, tra Realtà (l'esperienza speciale e carismatica) e Fictio (la sua raffigurazione).
Qui si fonda la sua polisemia, il rapporto tra lettera e allegoria, di cui l’anagogia è parte necessaria per il compimento della significazione. Da qui viene a Dante le realizzazione della propria intentio profundior. Che altro sarebbe senza riferimento alla propria missione scrittoria: apocalittica, in quanto rivelativa della realtà del cosiddetto aldilà, e profetica, in quanto politica (rivelazione degli esiti della storia, del necessario rapporto tra tempo ed eterno, tra giustizia e giudizio).
Duro tutto questo da accettare da parte di un dantismo storicistico ed ideologicamente non aperto alla realtà «nova» e «novissima». Ora occorre presentare un poco meglio il ‘Dante anagogico’, il Dante secondo Dante.
Non è, perciò, il caso di aprire un discorso sui rapporti tra filologia ed ideologia, tra ideologia ed epistemologia, tra epistemologia ed esegesi. Basta ricordare che una filologia degna di tale nome non ha altro compito che quello di rispettare, nella sua pienezza ed autenticità, l'intentio profundior che mosse lo scrittore a fondare, secondo questa, la più corretta lettura dell’opera.
Si lascia infatti ancora in esilio (qui si comprende il perché vero dell’autoprofetico «Se mai continga [...] con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta», Par. XXV, 1 e 7-8) la parte più bella e significativa della sua opera, quella «altra», che emerge da una lettura del livello più profondo, spirituale, anagogico della sua opera. Il quale livello viene teorizzato e fortemente difeso da Dante: ancora copertamente in Vita Nuova e in molte della Rime e più scopertamente nel Convivio e nella Comedìa, giungendo, infine, a sottolinearlo particolarmente nell’Epistola XIII a Cangrande.
Accettando l'indicazione autoesegetica data da Dante, il mio lavoro intende seguirla nei momenti privilegiati del proprio autoaccesus, soprattutto là dove offre ai ‘suoi’ lettori una guida sicura per consentire loro di seguirlo, di livello in livello, fino al termine del proprio polisemico «altro viaggio». Il quale può divenire il viaggio stesso della nostra intelligenza.
Sappiamo bene quanto gli stia a cuore, e non per motivi retorici, rivolgersi ai ‘suoi’ lettori, al punto da invitare a «riveder li vostri liti» coloro che — senza esoterici riferimenti — non siano, o non «in simile grado», fedeli d’Amore, oppure ancora non sappiano come mettersi «per l'alto sale» dell’anagogica significazione. Infatti, «perdendo me, rimarreste smarriti» (Par. II, 6).
Non a caso lo dice. Non è neppure un caso che, proprio nel sonetto conclusivo della Vita Nuova — e sottolineo questo «Nuova», quella che rende tale la personale carismatica novitas — parli di «intelligenza nova» (V.N. XLI, Sonetto Oltre la spera che più larga gira, v. 3), intendendo quella che è causata da un ‘vedere nuovo’ - dato dagli ‘occhi’ dello spirito — che si concluderà con la finale «vista nova» (Par. XXXIII, 136).
Tutta l’opera di Dante, se lo si nota con la dovuta attenzione, corre intorno a questo termine, per cui si passa dalla trattazione della vita resa «nova» dalla conoscenza della realtà «nova», ai «novissimi» (Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso). Anche in questo senso il ‘viaggio’ di Dante è anagogico.
Il suo «altro viaggio» non è frutto di fantasia, ma reale viaggio carismatico (di cui Dante non nasconde le precise fenomenologie) che concede la conoscenza di tutta la realtà: la «nova» e la «novissima». Solo così la realtà viene ri-unita nell'unità sua.
La realtà «nova», rifacendoci al latino, è quella ‘ultima’, quella oltre la quale non ve n'è altra concepibile, cioè quella dello spirito. E Dante dello spirito ha carismatica esperienza.
Dal momento dell’«apparuit iam beatitudo vestra», la sua vita è resa nuova. Questa realtà, gloriosamente sconcertante, proiettata in Beatrice, diviene la fondante il suo divenire il ‘Dante anagogico’. Ma Dante sa bene che non verrà creduto confessando apertamente, e certamente con ingenuità, la propria straordinaria esperienza; perciò la vela, la scherma.
La realtà dell'esperienza lo induce a raffigurarla mediante una proiezione, cioè iniziando quella fictio che diverrà altissima con la Comedìa.
La ‘lettera’ dell'esperienza fonda la ‘allegoria’ della sua manifestazione.
Per far questo Dante si appropria dei modelli stilnovistico-cortesi in modo da celebrare, cantare, servire, indicare agli altri uomini (e studiosi) che non intendono, questo amore del tutto nuovo, il solo che può rendere veramente nuova la vita. Per far intendere più compiutamente la «vita nova» su questo piano di «intelligenza nova» rinvio al mio commento alla Vita Nuova, il primo che possa dirsi coerente con l’anagogia, carismaticamente fondata, propria di Dante.
Esprimendomi così come finora ho fatto, ho chiara coscienza dei rischi cui vado incontro anche sul piano cosiddetto scientifico, critico, filologico in senso storicistico. Ma, considerando il fatto che la natura del documento storicamente inteso non possa valere per altri più sottili e profondi documenti, che sono di natura spirituale, ne deriva che Dante ci debba informare non altrimenti che allegorice intorno alla realtà del proprio esperire lo spirito.
Sa bene che non tutto può essere spiegato né dimostrato. Perciò in Convivio così dice: «Né si maravigli alcuno se queste cose e altre ragioni che di ciò avere potemo, non sono del tutto dimostrate» (Co. II, v).
E come potrebbe dimostrare la realtà del suo carismatico «altro viaggio», che è realtà e non altissima fantasia, così che si intenda come l'altissima fictio sia fondata su realtà di esperienza?
Come potrebbe dimostrare quanto va dicendo di sé, quando parla de «la novitade de la mia condizione, la quale, per non essere da li altri uomini esperta, non sarebbe da loro intesa come da coloro che ‘ntendono li loro effetti ne la loro operazione» (Co. II, vi)?
Come potrebbe dimostrare per tutti quelle realtà, che appaiono piene del loro valore solo per pochi, se così afferma: «a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia» (Co. I, i)?
Il rischio che si corre, parlando delle cose sacre, le più finemente anagogiche in quanto carismatiche, con chi le rifiuta arrivando anche ad averne fastidio, è testimoniato dal Vangelo quando invita a non dare le cose sacre ai cani perché non si rivoltino contro.
Non è, dunque, per caso o per retorica necessità il fatto che Dante, confessando apertamente la propria straordinaria esperienza ‘paradisiaca’ (il «fu’ io»), si occupi di coloro che non credono a quanto testimonia, e così scriva, quanto a sé ed alla propria condizione carismatica:

Se poi latrassero contro la disposizione a elevarsi per il peccato di chi parla, leggano Daniele, dove troveranno che anche Nabuccodonosor per volontà divina ha visto alcune cose contro i peccatori, e le dimenticò. Infatti ‘chi fa sorgere il suo sole sopra i buoni e i cattivi, e piove sui giusti e gli ingiusti’, ora pietosamente per conversione, ora severamente per punizione, manifesta, più o meno, come vuole, la sua gloria a coloro che vivono per quanto male (Ep. XIII, 28).

Il passo serve a Dante — esule, inquisito e braccato, non asceta, ma preso dalla propria missione scrittoria «in pro del mondo che mal vive» — per ricordare ancora una volta che la sua esperienza è altamente carismatica.
Seguendo san Tommaso, che tratta dei carismi (nella q. 171 alla fine della Secunda Secundae), sappiamo che ciascuno di essi va inteso come una «gratia gratis data», da Dio concessa non per la sola santificazione personale di chi ne ha dono, ma per il bene della Chiesa e delle altre anime. Perciò Dante esprime giustamente il proprio pensiero, la propria intentio profetica, confermando l'Autorità dalla quale proviene la propria condizione carismatica, quando così scrive ai Cardinali d’Italia:

Sì, è vero: io sono una delle ultime pecorelle dei pascoli di Gesù Cristo; è vero, io non abuso di nessuna autorità pastorale visto che non sono ricco. Ma questo vuol dire che sono quel che sono non grazie alle ricchezze, ma per grazia di Dio e ‘lo zelo della sua casa mi divora’ (Ep. XI, 5).

Se letto, questo «per grazia di Dio», nel contesto di tutta la sua vita e di tutta la sua opera, non può non aprire altrimenti la questione anagogica dantesca.
La quale inizia col primissimo manifestarsi nella vita di Dante delle fenomenologie riconducibili a quelle descritte dai grandi mistici esperienziali, siano essi santi e non.
Con l'incipit della «vita nova» inizia il ‘Dante anagogico’, che tale diviene a partire dalla sconcertante visione della «mirabile» Beatrice, cioè della ‘realtà beatrice’, quella dello spirito, dal quale unicamente può venire la beatitudine dei beati, come mostrerà in Paradiso.
Per quanto possa risultare incredibile agli uomini, che comunemente mancano di questa esperienza di visione-veggenza, Dante ‘vede’ la Beatrice, cioè la realtà che sola può dare la beatitudine. Possiamo anche definire questa realtà come ‘la parte divina’ dell’anima. Che proietta in una donna reale, la Beatrice storica.
Perciò Beatrice è «donna» da intendersi duplicemente: sia come la giovane donna fiorentina amata da Dante, sia come proiezione della propria anima. Interessanti e importanti risultano, da questo momento, gli scambi tra lettera e allegoria.
A questo proposito Dante è esplicito quando definisce l’anima come «la donna che nel dificio del corpo abita» (Co. III, viii).
Precisando ulteriormente il ‘legame’ tra anima e spirito, Dante ricorda che dei due «fassi un'alma sola» (Purg. XXV, 74).
È perciò assai preciso Dante quando parla di quella Beatrice beata che vive «in terra con la mia anima» (Co. II, ii). Ma in altri passi è ancor più preciso; se ne abbia un esempio in questo, che ci aiuta a cogliere la stretta relazione donna-anima: «Però dice qual donna, cioè qual anima» (Co. II, xv).
Dante intende la fiorentina Beatrice come significante di un significato che è lo Spirito, il proprio spirito, la cui identità è di luce. Perciò, correttamente, la chiama «gloriosa». Anzi, più giustamente, «la gloriosa donna de la mia mente»: come a dire che è questa la «donna» che diviene «domina» della sua mente. È «domina» in quanto lo è dell'anima (parte animante-animale), rispettando l'ordine gerarchico secondo Dio.
La documentazione autoesegetica diventa chiara rileggendo noi, con speciale attenzione, il secondo paragrafo della Vita Nuova, dove gli ‘spiriti’ del corpo si lamentano della supremazia che ora su Dante ha la gloriosa innamorante bellezza dello ‘Spirito’.
Dante, però, sa bene che un'esperienza così carismaticamente straordinaria non avviene nei comuni uomini, la cui «mente» da altro può farsi dominare. Di più, essi non riconoscono la mente così come fa Dante, quando così scrive: «Onde si puote omai vedere che è mente: che è quella fine preziosissima parte de l’anima che è deitade» (Co. III, ii).
L'esperienza sconcertante della «Beatrice» lo guida, dunque, alla conoscenza piena e completa della realtà antropologica dell'uomo, intesa come unità di corpo anima spirito, cioè come espressione della realtà tutta: visibile e invisibile, materiale e spirituale, temporale ed eterna, umana e divina. Cioè unione di aldiquà-sensi e di aldilà-spirito. A unire corpo e spirito è l’anima, che fa da ponte tra i due. È l'anima a produrre le immagini.
Non è facile, in ogni tempo, parlare di anima e spirito, soprattutto distinguendo tra anima e spirito, visto che, tra gli altri, gli stessi carismatici san Paolo e santa Teresa d’Avila ne trattavano con prudenza, se non con tremore, proprio perché ne avevano conoscenza esperienziale. Conoscevano la realtà del verba deficere.
Dante, però, quando ci dice che delle due realtà, l’anima e lo spirito, «fassi un'alma sola» (Purg. XXV, 74), assegna all'anima il compito proprio di ogni essere animale, cioè l'essere animato, ed allo spirito quello proprio delle attività intellettuali più alte, fino alle più anagogicamente, misticamente, fini.
Ci vorrebbero ora, a sostegno del ‘Dante anagogico’, i grandi mistici a dirci qualcosa di più sul rapporto che l’anima ha col corpo e quello che ha con lo spirito; oppure, più correttamente, quello che lo spirito ha con l’anima.
Dato che Dante non lo nasconde, solo un commento anagogico, del tutto ‘novo’, potrà adeguatamente dirci di più su questi aspetti delle relazioni spirituali presenti nella sua opera, che, sempre più, si evidenzia come opera di un dottore («dottrina dare»).
A noi ora interessa, parlando del ‘Dante anagogico’, ricordare quanto importanti siano le particolari fenomenologie vissute durante l'esperienza della «vita nova». E questo, a partire da quegli strani «sonni» che danno in speciali «sogni» in cui si manifestano «visioni» (non è il caso ora di approfondire la questione della visio in somniis o in veglia e neppure quella della realtà delle visione o della veggenza nelle loro diverse manifestazioni). Di queste potrebbero un poco più importare quelle — e non sono poche — che diventano profetiche circa la propria vita e che Dante cerca di capire, in questo aiutato dalle sue guide (Amore in Vita Nuova e Virgilio-Beatrice-Bernardo nella Comedìa).
Tuttavia, qualora fossero lette ed intese solo psicologicamente e non spiritualmente, esse risulterebbero riduttive rispetto alla loro realtà e, soprattutto, rispetto alla funzione che hanno nell'opera di Dante, intesa anche e soprattutto «in pro del mondo che mal vive». Non è scorretto ricordare che il «mal vive» dipende anche da difetto di dottrina («dottrina dare, la quale altri veramente dare non può», Co. I, ii), di ammaestramento («Detto è che per difetto d'ammaestramento gli antichi la veritade non videro de le creature spirituali», Co. IL, v) intorno alla realtà «nova» e «novissima».
Si deve perciò leggere con ri-novata attenzione quanto Dante dice a proposito di Beatrice, in vita e in morte. Si dice ‘in morte’ perché anche questa può essere letta come espressione di un'altissima fenomenologia mistica. Sono state, infatti, ormai ben studiate tanto la nascita quanto la morte mistica. E a quest'ultimo proposito mi soffermo su un punto assai importante per l'intelligenza del ‘Dante anagogico”.
Se, come si è detto, allegoricamente, o meglio anagogicamente, si accetta Beatrice come proiezione dello spirito di Dante, allora si risolve facilmente la crux, per la quale Dante lascia ad altri la celebrazione della ‘morte’ di Beatrice in quanto, se lo facesse, egli si farebbe «laudatore di se medesimo». Perciò lascia ad altro chiosatore il compito, che potrebbe essere il mio ora.
Il considerare Dante e Beatrice come la stessa persona, o meglio Beatrice come parte della totalità di Dante, rinvia ad un particolare non trascurabile in chi legga allegoricamente nel senso qui indicato Beatrice. Il «Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice» (Purg. XX, 73), nel Paradiso terrestre, sottolinea quel «ci» che rinvia ad un «noi» non altrimenti intelligibile.
Il ‘Dante anagogico’ è questo Dante che non può essere inteso per vie storico-filologiche, ma per altra via, mistico-carismatica.
Infatti il rapporto tra la propria carismatica esperienza personale e la sua resa allegorica viene da Dante associata ad un versetto biblico, preso dal salmo CXHI: «In exitu Israel de Aegypto». Tra i mille possibili, questo, tre volte reiterato, viene elevato da Dante allo status di chiave ermeneutica.
Mi pare che fino ad oggi non si sia sufficientemente dato valore a questo dato. È un fatto incontestabile: ogni volta che Dante sottolinea la propria polisemia, sempre si serve di questo versetto, così altamente simbolico.
I luoghi della citazione, ben conosciuti, sono: Co. II i, 6; Purg. II, 46-48; Ep. XIII, 7.
A noi interessa far emergere dalla spiegazione del rapporto lettera-allegoria quanto faccia riferimento all’anagogia, soprattutto all’anagogia che riguarda personalmente Dante.
Ciò significa comprendere il fatto che, quando Dante allude, autotestimoniando anagogicamente, all'uscita dell'anima dal corpo, con preciso riferimento alla propria esperienza, lo fa servendosi di questo versetto.
L'uscita, l’in exitu dell'anima dal corpo, può accadere in due modi: ordinario, con la morte che separa definitivamente il corpo dall'anima; straordinario, con una uscita temporanea (in qualche modo riconducibile ad una morte mistica, carismatica).
Questo può essere dato — per fare un esempio preso dalla fenomenologia mistica straordinaria — da stati particolari, che vanno dai vari gradi di ‘estasi’ (che, secondo san Tommaso, può essere di due tipi: «affettiva» e «di conoscenza»), al ‘ratto’, fino a particolari altri stati di veggenza.
Torniamo all’«In exitu Israel de Egypto», poiché riguarda direttamente il ‘Dante anagogico’.
Dante, riferendosi all’allegoria, in Convivio — e mi scuso per il ripetere cose risapute — dice che sempre

lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inclusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico (Cv. II, i).

È assai importante questa sottolineatura della preminenza del letterale, poiché serve anche da base di riferimento per la realtà degli episodi mistico-carismatici di cui è protagonista. Essi sono la ‘lettera’ di Dante. Perciò, quando nell'Epistola XIII a Cangrande assegna all'anagogia la funzione di indicare l'in exitu dell'anima dal corpo, così scrive: «[...] se a quello anagogico, significa l'uscita dell'anima santa dal servaggio di questa corruzione alla libertà della gloria eterna» («si ad anagogicum, significatur exitus anime sancte ab huius corruptonis servitute ad eterne glorie libertatem», Ep. XIII, 7).
In che senso tutto questo fa riferimento alla persona di Dante, al ‘Dante anagogico’?
Lo si può meglio intendere ritornando alla Vita Nuova.
Scelgo un paio di passi di preciso riferimento a stati per i quali è appropriato parlare di esperienza «in exitu».
Il primo fa riferimento ad un episodio che così descrive:

Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non ne rimasero in vita più che li spiriti del viso; e ancora questi rimasero fuori de li loro istrumenti [...] (V.N. XIV).

Ciò muove l’amico a chiedere spiegazioni a Dante, il quale risponde con parole apparentemente enigmatiche: «Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare».
Non è il caso di sottilizzare per cercare un'altra spiegazione per questo straordinario «in exitu», sul quale, appena dopo, Dante torna con queste parole esplicative: «[...] cioè quando dico che Amore uccide tutti li miei spiriti e li visivi rimangono in vita, salvo che fuori de li strumenti loro». Parole queste cui fa seguire immediatamente, come necessarie qui più che altrove:

E questo dubbio è impossibile a solvere a chi non fosse in simile grado fedele d'Amore; e a coloro che vi sono è manifesto ciò che solverebbe le dubitose parole: e però non è bene a me di dichiarare cotale dubitazione, acciò che lo mio parlare dichiarando sarebbe indarno, o vero soperchio.

Infatti inutile sarebbe per chi non gli crede e superfluo per chi crede alla realtà della sua esperienza «in exitu».
L’altro cenno, a proposito dell'esperienza «in exitu» del ‘Dante anagogico’, si trova nel paragrafo XXIII della Vita Nuova, là dove la strana ‘assenza’ di Dante fa dire ai presenti: «Questi pare morto».
Al Dante che in quegli speciali momenti «pare morto», ma morto ancora non è e non ha ancora subito i primi due novissimi, morte e giudizio, è concesso il provvidenziale «altro viaggio» per avere esperienza dello «status animarum post mortem» (Ep. XIII, 8). Per questa via e per questo modo può dare immagine visibile a realtà invisibili, data la condizione smaterializzata degli spiriti.
E questo per ricordare, a sé e ai suoi lettori, che gli uomini sono spiriti incarnati, chiamati al compimento ultimo della propria libera scelta, che Dio conosce ab aeterno e l’uomo compie, rendendola concreta nel tempo, per mezzo di quella scelta della diritta via, «diritta via» della giustizia (dando a questa un valore più spirituale che strettamente giuridico), che può essere smarrita o ritrovata o perduta per sempre.
Questo è Dante, il ‘Dante anagogico’, quello che conosce per esperienza carismatica la realtà di cui parla incessantemente, riunendo, alla fine in un tutto, il principio di tali esperienze fatte in «vita nova» con il loro compimento avvenuto con la divinizzazione in Dio.
Non è qui possibile iniziare una campionatura delle esperienze anagogiche cui fa riferimento Dante e che vanno colte litteraliter quanto alla loro realtà, ma allegorice quanto alla loro resa, cioè nella fictio. Cosa che può essere riferita a quella confessione di mistico e di scrittore chiamato a dire l’indicibile, come leggiamo nel XXIII del Paradiso, a proposito del «figurando» (Par. XXIII, 61):

Ma chi pensasse il ponderoso tema
e l’omero mortal che se ne carca
nol biasimerebbe se sott’esso trema
(Par. XXIII, 64-66)

Con queste parole, vengo a me ed al mio personale «ponderoso tema», che consiste nell’aprire una «via nova» a Dante, dando credito alla realtà del ‘Dante anagogico’ e, per conseguenza, cercando di dare documentazione di quanto egli, a questo proposito, dice di sé nella propria opera.
Il mio contributo, sul qual si potrà continuare la ricerca, può essere veramente inteso come nuovo. Cioè secondo Dante.
Da parte mia devo, dunque, confessare di aver avuto il coraggio di credere in quella «via nova», in quella «vista nova» e in quella «intelligenza nova», di cui Dante parla sul finire della Vita Nuova, la cui novitas, intesa secondo Dante, divenendo «luce nuova» (Co. I, viii), fa riferimento alla realtà ultima della Realtà, cioè alla realtà dello Spirito, oltre la quale non vi è altro da concepire (Ep. XIII, 33), né da perseguire. Sigilla, infatti, l'Epistola a Cangrande con queste parole: «Vedere Te è il fine» (Ep. XIII, 33).
È questo, e solo questo, il fine del suo «altro viaggio», cioè quel «viaggio anagogico», col quale Dante, guidato da Virgilio (proiezione della sua anima naturale non ancora divinizzata), da Beatrice (proiezione dell'anima divinizzata, cioè del suo spirito in quanto ‘divino’) e da Bernardo (proiezione della sua personale condizione mistico-carismatica straordinaria) giunge alla divinizzazione, compiendo così la propria missione scrittoria e profetica. Quest'ultima è, dunque, da intendersi sia in chiave apocalittica (in quanto rivelatoria delle realtà spirituali, le perenni e l’Eterna), sia in chiave politica, che non può essere scissa da quella apocalittica.
Essendo il mio lavoro, per tutti questi aspetti, veramente nuovo, non ho potuto valermi di studi precedenti, sia pure come fonti secondarie rispetto a quanto Dante, come fonte primaria, dice di sé. Ho dovuto perciò muovermi con particolare attenzione sul piano delle conseguenze metodologiche. Ritengo possa essere considerato scientifico almeno il contributo consistente nell'aver reperito i luoghi in cui nella propria opera Dante dichiara, apertamente o velatamente, la propria personale «diversitade».
So bene che tutto questo potrebbe muovere a resistenza chi abbia della scientificità e della realtà una concezione diversa da quella di Dante. Tuttavia è Dante stesso il primo a comprendere quanto fossero, al proposito, «dubbiose» le proprie parole anagogicamente allegoriche (in quanto proiezioni di esperienze straordinariamente carismatiche), a partire dalle iniziali della Vita Nuova.
In questo giovanile libello, il proprio può apparire come «alcuno parlare fabuloso» (V.N. II), ma, in difesa della realtà di esso, si servirà di altre parole, come queste:

[...] e però dico che questo dubbio io lo intendo solvere e dichiarare in questo libello ancora in parte più dubitosa; e allora intenda qui chi dubita, o chi qui volesse opporre in questo modo (V. N. XII)

oppure invita il lettore dubitoso a rileggere quanto dice in Convivio quando sottolinea «la radice de l’una delle diversitadi ch'era in me» (Co. II vii), oppure quando scrive:
Dico adunque: Io credo, canzone, che radi sono, cioè pochi, quelli che intendano te bene. E dico la cagione, la quale è doppia. Prima: però che faticoso parli — ‘faticosa’ dico per la cagione che detta è —; poi: però che forte parli — ‘forte’ dico quanto a la novitade de la sentenza —. Ora appresso ammonisco lei e dico: Se per avventura incontra che tu vadi là dove persone siano che dubitare ti paiano ne la tua ragione, non ti smarrire, ma dì loro: Poi che non vedete la mia bontade, ponete mente almeno la mia bellezza (Co. II, xii).

Dice questo là dove inizia ad aprire la verità allegorica della Canzone Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete.
È dunque, ora di aprire un discorso non generico sull’allegoria, ma specifico sull’allegoria dantesca ed in special modo sulla sua ‘anagogia’, veramente nuova, con la quale parla del proprio essere il ‘Dante anagogico’. È l’anagogia che ci porta in alto nell’intelligenza spirituale di Dante.
A tutt'oggi, infatti, manca una corretta e piena trattazione intorno all’allegoria anagogica, così che, per conseguenza, manca un commento filologicamente corretto dei significati anagogici sottesi a tutta l'opera di Dante.
Dicendo ‘tutta’, si intende rivolgere l’attenzione non alla sola Comedìa, ma anche alla fondante Vita Nuova, al Convivio che la porta ‘rationaliter’ più in là. Non vanno dimenticate certe specialissime ‘allegorie’ anagogiche proprie delle Rime, nonché essenziali cenni presenti nel Monarchia. Non è possibile, rispettando gli spazi oggi consentiti, arrivare all'indicazione ed all'analisi di tanti luoghi così specifici, meritevoli dell'attenzione di una filologia veramente «nova».
A conforto di questa tesi, tuttavia, può essere detto che oggi anche le scienze cominciano ad avere un diverso e meno ideologico approccio alle fenomenologie mistiche straordinarie.
Un segno importante, riguardo al nuovo atteggiamento scientifico, è dato dal rifiuto di considerare tali fenomenologie come unicamente prodotte da alterazioni patologiche. Le metodologie scientifiche, coerentemente col proprio statuto epistemologico, non possono uscire dall'ambito loro proprio e ‘sentenziare’ intorno alla realtà smaterializzata, dello Spirito. Gli stessi mistici si mostrano assai prudenti (e non solo per umiltà) quando, per riferire le altissime esperienze, devono usare le limitanti e limitate parole umane.
Lo scienziato epistemologicamente corretto sa che, non potendo uscire dal limite della fisicità, non vuole andare al di là della sua scientifica leggibilità.
Proprio questo è ben compreso e comunicato da parte di Virgilio a Dante, che sta guidando fino al limite dell’intelligenza razionale, che «da sensato apprende». Muovendolo al di là del sé razionale ed avvicinandolo alla «realtà beatrice» (cioè l’anima divinizzata e proiettata nella figura di una donna), così può dirgli: «Quanto ragion qui vede, / dir ti poss’io; da indi in là, t'aspetta / pur a Beatrice, ch'è opra di fede» (Purg. XVIII, 46-48). La questione del «da indi in là» e l’anagogica.
Lo spirito, per il quale guida è Beatrice, richiede altri modi di conoscenza, di esperienza. Se Virgilio lo aiuta a conoscere secondo le leggi dell'anima naturale, Beatrice gli insegna altre leggi, quelle dell'anima divinizzata, secondo la conoscenza soprannaturale propria dello spirito.
La realtà, di cui Dante tratta, è una, e nella sua totalità fatta di visibile e di invisibile, di materiale e di spirituale, di temporale e di eterno, di umano e di divino.
Anche la realtà antropologica, coerentemente, secondo questo schema, è concepita e vissuta da Dante come una, nella triplicità delle sue dimensioni: visibile il corpo, invisibili l’anima e lo spirito.
Didatticamente, si può dire che l’anima fa da ponte tra corpo e spirito. E lo si intenderebbe più a fondo se leggessimo anagogicamente anche il Purgatorio, regno temporaneo della purificazione dell'anima, dato che il Paradiso e l'Inferno sono perenni nell’eterno.
Per Dante l’unità dell’uomo si fonda sul modello col quale Dio l’ha creato, cioè con quel perfetto equilibrio tra corpo-anima-spirito, che fu sperimentato dal solo Adamo, nelle poche ore di sosta nell’Eden, come leggiamo nel XXVI del Paradiso.
È infatti con queste parole che Dante, rientrato nell’Eden dove ha ri-guadagnato la divinizzazione (ma non ancora l’indiazione) gli si rivolge: «O pomo che maturo / solo prodotto fosti» (Par. XXVI, 91-92).
Qui «maturo» fa riferimento a quella unità in perfetto equilibrio (equilibrio tra corpo-anima-spirito) che si perdette a causa dello squilibrante «trapassar del segno», cui conseguì l'in exitu dall’Eden. La maturità è questo perfetto equilibrio, così difficile da raggiungersi da parte dell’homo viator.
Fuori dall’Eden l’uomo fa esperienza della perdita dell'originario equilibrio (l’unità di quella «forma», «orma», «norma» che si nomina all’inizio del Paradiso) e sperimenta lo squilibrio per cui, per malo uso della libertà, può divenire «selva». Ciò accade quando il corpo si ribella allo spirito e chiede prepotentemente, dis-misuratamente, il suo.
Gli istinti-alberi del corpo, creati buoni e per il bene, capovolgono il loro senso e scopo, non più ponendosi come mezzi al servizio dello spirito. Cosa questa che san Paolo spiega assai bene, indicando la legge dell’uomo de-caduto dall’originaria condizione.
Non a caso Dante dice che questa «selva», che ognuno sperimenta in sé, non solo è «selvaggia, aspra e forte», ma ha anche il duro potere di rendere «oscura» l'intelligenza.
Quest'ultima perde progressivamente il suo rapporto con la realtà «nova», la quale è per sua natura luminosa, e chiede di essere nuovamente restituita alla ‘gloria’ originaria.
«Selva» diviene il corpo, quando, rottosi l'equilibrio originario, e sostituendosi alla «gloriosa donna de la mia mente», la donnadomina, domina con i suoi istinti l'intelletto e impedisce all'uomo di vedere la luce e goderne. Di più, se gli fosse possibile impedirebbe, negandola, l’esistenza stessa dello spirito, la sua presenza reale.
Per questo Dante nel suo Convivio scrive:

chè non altrimenti sono chiusi li nostri occhi intellettuali, mentre che l’anima è legata per li organi e incarcerata per li organi del nostro corpo (Cv. II, iv).

Non dice questo perché la sua fonte è Platone, ma perché conosce per personale esperienza, grazie all’«in exitu», cosa è anima-spirito («un'alma sola», Purg. XXV, 74) e cosa corpo: solo grazie a questa esperienza carismatica conosce la differenza qualitativa della conoscenza tra ‘per mezzo del corpo’ e ‘fuori del corpo’.
Il corpo rende in-visibile il visibile; lo tiene come prigioniero, tanto da muovere Dante (in quanto mistico già ‘esperto’ delle straordinarie fenomenologie carismatiche) a desiderare spesso, come accade ai grandi mistici, quell’«in exitu Israel de Agypto», che sperimenta a partire dalla puerizia e dalla prima giovinezza. Qui si comprende il valore del finale «l’ardor del desiderio in me finii» (Par. XXXIII, 48).
Tuttavia, perduti l’«in exitu» e gli episodi carismatici dopo la morte di Beatrice, essi saranno salvificamente a lui ri-donati in modo da poter compiere («in pro del mondo che mal vive») il suo carismatico «altro viaggio».
È questo il motivo per cui Dante richiama la necessità dell’«in exitu» nei luoghi più importanti dei suoi riferimenti all’anagogia.
L’«in exitu» è il modo straordinario che consente il ritorno nella realtà alta dello spirito, nell’altus/profondo dello spirito. Cioè in Cielo.
Per Dante tutto questo, di cui andiamo parlando, non è pura fictio, ma è realtà, e proprio da ciò viene la fortissima insistenza sulla necessità di un'intelligenza allegorico-anagogica.
A richiamare i suoi lettori si applica non solo teoricamente là dove (soprattutto in Convivio) esplica la dottrina allegorica (Co. IL i), ma soprattutto in quei luoghi dove esplicita — spesso, tuttavia, schermando, a partire dalla Vita Nuova — il riferimento alla propria fenomenologia mistico-carismatica straordinaria.
Fino ad oggi non si è ancora posta realmente la questione dell’anagogia in Dante, né, tanto meno, quella della speciale condizione personale di Dante. Più spesso la si è colta in termini di pura retorica e così si è finito per ridurne l’importanza. Infatti la si è ridotta o emarginata, o in toto negata.
Per questo dicevo che «Dante» è prepotentemente tornato tra noi, ma non tutto, poiché la parte più bella e «nova» della sua opera ancora viene lasciata in esilio, non lasciandogli dire quello che era sua intenzione comunicare secondo la sua intentio profundior. Cioè ricordare agli uomini, testimoniando per carismatica conoscenza, la loro identità di spiriti incarnati ed il loro ‘novissimo’ fine.
C'è un altro aspetto da considerare circa la questione anagogica e la specifica anagogia dantesca: quello per cui Dante non fa coincidere la propria anagogia con quella tipica dell’esegesi biblica medievale. Non la nega, anzi ortodossamente se ne serve, non trovando contrasti tra la propria esperienza anagogica («nova» e «novissima») e quella dei novissimi (Inferno, Paradiso).
È sempre veritiero a questo proposito, dato che si è sempre preoccupato di dare fondamento al «litterale» (Co. II, i), indicando come ‘letterale’ la straordinarietà delle proprie esperienze (Ep. XIII). Non è un caso che nell’Epistola ai Cardinali d'Italia, facendo riferimento alla propria missione profetico-scrittoria, così dica di sé:

[...] sì, è vero: io non sono una delle ultime pecorelle dei pascoli di Gesù Cristo; è vero, io non abuso di nessuna autorità pastorale visto che non sono ricco. Ma questo vuol dire che sono quel che sono non grazie alle ricchezze ma per grazia di Dio e ‘lo zelo della sua casa mi divora’ (Ep. XI, 5).

Il richiamo risente dell’incessante ammonimento profetico della Chiesa carismatica alla Chiesa istituzionale, cosa che rinnova un contrasto, o un invito alla collaborazione, già presente, a partire dagli inizi stessi della Chiesa (con la disputa tra Pietro e Paolo, ma anche presente nel Vangelo di Giovanni).
Quella dantesca è un'allegoria da considerare con attenzione. E prima di entrare nella questione del ‘Dante anagogico’, con i riferimenti necessari che Dante fa circa sé, è forse opportuno riconsiderare quale allegoria possa essere idonea a Dante.
In genere, studiando l’allegoria di cui si occupa l’esegesi biblica medievale, ci si rifà agli studi di Henri de Lubac oppure a certi altri condotti dai domenicani sul sistema esegetico di san Tommaso, evitando di giungere a certe esasperazioni intorno al letteralismo o all’allegorismo.
Comunque sia, l’allegoria, fondata sulla lettera, prevede tre successivi livelli: l’allegoria vera e propria, la tropologia e l’anagogia. Dante stesso ne dà conferma nel Convivio e nell'Epistola XII.
Certo, c'è stato chi ha voluto invertire la posizione della tropologia e dell’anagogia, con ragioni giustificanti tale inversione, così da mostrare il perché finale di un livello piuttosto che dell'altro. Basterebbe riandare alle dispute medievali tra francescani e domenicani, ma in termini danteschi la questione è risolvibile proprio a partire dalla retta impostazione della sua allegoria. Che potrebbe essere così espressa: Dante va dalla terra in Cielo, e questo salire è la sua anagogia, ma poi torna dal Cielo in terra a profetizzare intorno ai tralignamenti, e questo è la sua tropologia.
C’è da aprire nuovamente il discorso, posto dal ‘Dante anagogico’, intorno alle due parti della triplice allegoria.
Per avvicinarci in modo più approfondito ad essa, ora vorrei fare due riferimenti.
Il primo all’Enciclopedia dantesca, cioè alla voce dedicata al termine ‘anagogico’; il secondo al Dictionnaire de Spiritualité, di cui più avanti mi servirò. L'Enciclopedia dantesca dedica alla voce ‘anagogico’ poco più di una colonna, contro, per fare un esempio, le più di cinque concesse alla voce ‘anafora’, che la precede. Già questa è una spia dell’atteggiamento, o non ancora inteso o violentemente riduttivo, di molta dantologia verso l’anagogia dantesca.
Secondo l’estensore della voce, l’anagogico è «termine tecnico», col quale si designa

quel procedimento interpretativo (senso allegorico) per il quale il testo della Scrittura, letto alla luce delle verità supreme, diviene uno strumento di superiore conoscenza.

Afferma anche che «Dante lo chiama sovrasenso», ma non lascia meglio comprendere come vada ciò inteso, lasciando il lettore in una condizione di dubbio interpretativo. Il che significa: o intenderlo come un senso riposto sopra un altro di base (con fondamento storico-letterale, ideologico-culturale) attraverso un’arbitraria attribuzione aggiuntiva di significato, che in sé la lettera non avrebbe; oppure come un senso posto a livello più altus, nella lettera stessa e che ne è costitutivo integrale ma nascosto.
Quest'ultima è la posizione di Dante (vedi Co. II i): «sempre lo letterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi»). Pertanto, per essere inteso secondo il ‘Dante anagogico’, la pienezza del suo sistema polisemico richiede al suo lettore un'intelligenza «nova», spirituale.
Torniamo alla voce dell’Enciclopedia: essa chiude la breve trattazione intorno all’anagogico con queste parole: «È probabile che Dante non ritenesse in definitiva di poter attribuire alla sua opera il più tipico dei sensi biblici». E questo nonostante l'esplicita dichiarazione di Dante a proposito della propria intentio.
Su questo non poter attribuire alla sua opera un significato anagogico Dante potrebbe sorridere, vedendo quanto scarso credito e quanta scarsa attenzione viene data a tutta la propria autotestimonianza, donata come indispensabile autoaccessus, nonché alla propria insostituibile autoesegesi. Il problema, come si può ben capire, è assai più che di natura metodologica.
Il discorso si fa qui sottilmente filologico e potrebbe indurre più di un lettore a ricordare certi avvertimenti di Dante a chi non capisce quello che va dicendo, pregandolo, come in Convivo, di lasciar perdere.
Dante richiede, anche alla nostra filologia, di essere fedele, più che al proprio statuto scientifico, storico-culturale, al proprio compito originario, che è quello di restituire ai lettori un’opera nella originalità dell’intentio profundior che l’ha originata.
Nel caso di Dante ciò induce a considerare nuovamente la sua opera, rispettandone la totalità e la pienezza. Nel caso di Dante, l'attenzione deve essere posta sulla totalità della sua produzione e sulla pienezza della sua polisemica scrittura.
La quale, a rettamente considerare secondo Dante, è tutta posta sotto il segno della novitas, iniziandosi essa con la «vita nova» e concludendosi con la trattazione dei novissimi: Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso.
Tra noi e Dante la distanza o la vicinanza sta nella maggiore o minore condivisione del concetto di Realtà. Ma sappiamo bene: quelle che per Dante sono delle realtà, non lo sono più per una cultura, come la nostra, a dominanza più scientista che scientifica.
Perciò, se la filologia opera con un metodo a base marcatamente storicistica e scientista, si trova epistemologicamente privata degli strumenti necessari per indagare una realtà che, pur essendo ugualmente reale, è altra rispetto a quella fisica.
Perciò manca degli strumenti per porsi in corretta lettura dei significati allegorici propri di Dante, che ha in comune con l'universo medievale molta della simbologia, ma rispetto a questa ha a disposizione la personale esperienza, carismatica, delle realtà che sono di fede.
Lo si ripete, perché ancora una volta necessario: Dante è la fonte prima delle proprie conoscenze della realtà ‘altra’, la in-visibile; non è il risultato di una trascrizione poetica di altre fonti. Quando opera in questo modo, lo fa ad esperienze avvenute, in modo da poter comunicare le proprie per mezzo di un immaginario accessibile ai propri lettori.
Dante, infatti, dà forti segnali di autotestimonianza mistico-carismatica, tali da porre la sua stessa allegoria sotto la categoria della «allegoria dei mistici», diversa sia da quella dei retori sia da quella dei teologi o biblica.
Con quest’ultimo modello di riferimento è possibile superare quello, tradizionalmente accettato, della distinzione tra ‘allegoria dei poeti’ (retorica) e ‘allegoria dei teologi’ (biblica).
Dovendo noi affrontare l’anagogia, che è uno dei modi dell’allegoria, o meglio, dovendo noi affrontare più specificamente quella dantesca, la bipartizione precedentemente richiamata non basta.
Seguendo le indicazioni date dalla voce «allégorie» del Dictionnaire de Spiritualité, possiamo fare riferimento ad una triplice distinzione tra le modalità dell’allegoria: «allégorie des retheurs», «allégorie de la Bible», «allégorie des mystiques».
Dopo aver ripetuto inizialmente la definizione che dell’allegoria dà sant'Agostino, cioè un «tropus ubi ex alio aliud intelligitur» (De Trin. XV, 9, 15), la voce passa a trattare l’allegoria dei retori, citando la definizione che Quintiliano dà attraverso l’«aliud verbis, aliud sensu ostendit» (Inst. orat. VII, 6); ad essa l’estensore della voce fa seguire le precisazioni sull’allegoria della Bibbia o spirituale.
Qui si pone una distinzione fondamentale rispetto a quella dei retori: quest’ultima è verbale, la biblica o spirituale è reale; cioè, quella dei retori sta nelle parole, quella biblica nei fatti cui alludono. Per questa via si intende in modo nuovo, o «novo», il rapporto tra realtà e fictio, nel quale si ritrovano, accomunati, gli uomini di tutti i tempi.
Il riferimento alla realtà dello spirito, se è tale, non appartiene solo agli uomini del Medioevo cristiano, ma anche ai credenti ed agli uomini spirituali di ogni tempo. Tra questi ultimi emergono i mistici esperienziali, i quali esprimono le loro fenomenologie attraverso un linguaggio particolare (ampiamente studiato nei nostri anni), caratterizzato dalle indicazioni date circa i modi ed i livelli dell'esperienza stessa, sia pure «ad modum recipientes» (Ep. XIII, 20).
Detto questo, possiamo avvicinarci all’allegoria dei mistici per meglio avvicinarci a quella dantesca, tenendo, però, ben presente che questa non coincide, come parrebbe ai più, con quella dei poeti.
La voce del Dictionnaire de Spiritualité dice che la ‘allegoria dei mistici’ «tient de litteraire et de l’allégorie biblique», cioè partecipa delle caratteristiche sia retorico-letterarie, sia biblico-spirituali.
A meglio intendere, precisa che la ‘allegoria dei mistici’ non può consistere solo nelle metafore verbali, in quanto le parole dei mistici, quelle in cui si esplica l’allegoria, hanno un valore che presuppone una rivelazione privata e certe segrete relazioni con Dio; nello stesso tempo, tuttavia, non può coincidere con l’allegoria biblica, visto che il carattere privato delle comunicazioni mistiche è tale da indurre a prudenza (psicologica, oltre che teologica) chi le riceva. Rimane, tuttavia, sconcertante il fatto che solo Dante, all'infuori degli scrittori biblici canonici, si serve coscientemente della polisemia biblica. Anche su questo aspetto ci sarà da indagare.
Certo, la prudenza! Non si dimentica, infatti, che gli stessi grandi mistici-dottori (resi tali da carismatica missione scrittoria) invitano a non vedere ovunque allegorie. Questo insegnano, come Dante fa nel Convivio, san Tommaso, santa Teresa d'Avila e molti altri.
La voce del Dictionnaire de Spiritualité precisa ancor meglio questa allegoria propria dei mistici. Così la traduco: «Come le due altre, l'allegoria dei mistici introduce una cosa dal campo ideale nel campo del mondo sensibile per ricondurla, attraverso il veicolo della metafora, dal campo del mondo sensibile a un nuovo campo ideale». Occorre, nel nostro caso, che è Dante, evitare l'equivoco di identificare l'ideale con lo spirituale (che viene dall'esperienza dell'”in exitu” dal corpo).
Ciò significa portare un'esperienza dello spirito nel campo della sensibilità, fisica o corporea che sia, attraverso la parola metaforizzata, in modo da ricondurre quest’ultima alla sua significazione spirituale, altrimenti indicibile.
È il discorso della successione dei momenti generativi: l’esperienza in spirito è la realtà da esprimere; solo a posteriori la sua creativa trascrizione avverrà per mezzo di una fictio.
Qui sta il problema del ‘Dante anagogico’: nel comprendere che la realtà esperita viene poi scritta attraverso la più alta fictio mai espressa.
Perciò il mistico, che esprime la propria esperienza, ha in sé la fonte prima del proprio vedere, conoscere.
Le risorse per esprimere tale carismatico ‘vedere’ variano da mistico a mistico, ma esse si esaltano nei mistici chiamati a missione scrittoria. La categoria dei mistici scrittori o quella degli scrittori mistici tendono a confondersi, anche se non a coincidere.
Tutto questo, sia pur detto in grande sintesi, serve per far intendere che l’allegoria di Dante, di cui l’anagogia è parte integrante, può essere avvicinata a quella propria degli uomini resi mistici dai doni carismatici di Dio.
Lo stesso Dante sa bene che pochi avrebbero dato credito all’autotestimonianza circa le fenomenologie carismatiche, di cui gli excessus mentis sono solo una delle forme da lui sperimentate, essendovene altre (le visioni in somniis si alternano a quelle ‘in veglia’). Sa che i più inclinano ad intendere come fantasiose o fantastiche le sue ‘visioni’ e il suo «altro viaggio», cioè accettandolo non come realtà ma come espedienti poetici, squisitamente letterari, negandogli quel credito che viene riconosciuto dalla Chiesa quando canonizza i propri Santi, e che, pur canonizzando, riconosce come private le rivelazioni del mistico.
Dante non era né asceta, né era riconosciuto per particolare santità. Di più, era perseguitato da una Chiesa non certo disposta a dare credito alla sua profezia politica né, meno ancora, alla sua speciale condizione carismatica ed alla verità del suo ‘altro vedere’. Ma questo doversi proteggere dall’incomprensione o dagli attacchi dei suoi nemici era cominciato assai prima delle questioni politiche. Era iniziato negli anni della prima infanzia e della giovinezza, quando la sua vita era stata sconvolta dall’«apparuit beatitudo vestra», dalla esperienza della «gloriosa donna», della ‘realtà beatrice’, proiettata stilnovisticamente nell'amore per una donna, chiamata Beatrice, senza che gli altri avessero coscienza del «che si chiamare». Da qui prese ad autocommentarsi, a scrivere opere che altro non erano che un autocommento di straordinarie esperienze.
Dante diviene «Dante» per questa via, «nova» e «novissima». Assai importante è, dunque, quanto espresso all’inizio del Convivio, dove si leggono queste parole, assai conosciute, ma forse non intese più a fondo, cioè secondo il ‘Dante anagogico’:

E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo' che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e spassionata, questa temperata e virile esser conveniente (Cv. I, i).

Veramente decisivo è questo passo, per intendere il ‘Dante anagogico’, cioè il Dante che conferma le esperienze mistico-carismatiche della propria «vita nova», ma sente la necessità di dirle in modo tale da non farle apparire un parlare «fabuloso», ma uno degno di essere trattato razionalmente, secondo ragione, e quindi di renderlo altrimenti intelligibile.
Col Convivio Dante rinviava all’inizio stesso della propria vita, resa appunto «nova» dalla visione della realtà «nova», cioè ultima, che è lo spirito, che viene proiettato in Beatrice, resa così figura della realtà «Beatrice» presente in ogni uomo.
Tale non potrebbe essere né la realtà del corpo né quella dell’anima, dato che né l'uno né l’altra danno beatitudine, ma passeggeri, non appaganti soddisfacimenti e stati emotivi, come gli innamoramenti passionali.
Per questo Dante parla di amore «nuovo» in un ambito, quale quello stilnovistico, che pensava di aver fissato una nuova condizione e un nuovo linguaggio dell'esperienza d'amore.
La novitas di Dante è ancor più sconcertantemente nuova di quella stilnovistica, del cui linguaggio, tuttavia, si serve, ben comprensibilmente, per più di un motivo. L'amore «nuovo» di Dante supera qualitativamente quello stilnovistico: psicologico quest’ultimo, spirituale il suo.
È lo «spirito novo» che rende l’anima non più solo animata e animale, ma in qualche modo ‘divina’, cioè simile al Dio che ha voluto creare l’uomo simile a Sé, facendone uno spirito incarnato. A questo riconoscimento Dante vuole condurre i suoi lettori, per condurli poi assai più «in là».
C’è, insomma, una questione anagogica dantesca che riguarda la sua persona, cioè quella sua speciale condizione che gli consente di esprimersi con parole come queste, testimonianti

la novitade de la mia condizione, la quale, per non essere da li altro uomini esperta, non sarebbe da loro intesa come da coloro che ‘ntendono li loro effetti ne la loro operazione (Cv. II, vi).

Questo lo autorizza a dire quello che ad altri non è concesso:

L'altra è quando, per ragionare di sé, grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina [...] muovemi desiderio di dottrina dare la quale altri veramente dare non può (Cv. I, ii).
Così si rivolge a coloro che nel suo e nel nostro tempo non intendono le diverse forme del vedere nella loro totalità e mancano dell'esperienza del vedere ‘in spirito’.
Per questo Dante deve essere evangelicamente prudente. Sa che il consiglio di non dire a tutti le realtà più profonde e sacre non è solo un comandamento necessario per distinguere il dire essoterico da quello esoterico, ma un nascondere la propria esperienza, che sarebbe assai da pochi intesa e condivisa. Rinvia, perciò, al «Voialtri pochi» del canto II del Paradiso.
Così, quando in Convivio, per confermare quanto rivelato di sé nella Vita Nuova, scrive «E avvenga che duro mi fosse ne la prima entrare ne la loro sentenza, finalmente v’entrai entro, quanto l’arte di grammatica ch'io avea e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere» (Co. II, xii), dà conferma, anni dopo, alla realtà della fenomenologia mistica, che lo pose in relazione alla realtà dello spirito. Ed è ciò che fa di Dante il ‘Dante anagogico’ non ancora riconosciuto, lasciato ancora in esilio.

Date: 2022-09-20