L'allegoria [Umberto Cosmo]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Umberto Cosmo

Tratto da: Guida a Dante

Editore: La Nuova Italia, Firenze

Anno: 1967

Pagine: 160-170

1. L'allegoria

Il problema essenziale per lo studioso è penetrare quanto più intimamente gli è dato nello spirito del poeta. Una delle forme di esso fu quella allegorica e infatti come in ogni altra opera del Medio Evo l’allegoria e la dottrina hanno parte notevole nella Commedia. Ma avere parte non vuol dire, come da molti, da troppi anzi si pensa, che allegoria e dottrina investano tutta l’opera. C'è un’allegoria generale che appare evidente ne’ due primi canti, ci sono allegorie particolari che appaiono qua e là, come nella descrizione del nobile castello, davanti a Dite, nel veglio di Creta, nelle quattro e tre stelle che illuminano il cielo australe, nella valletta amena, davanti alla porta del Purgatorio, nei sogni di Dante e più largamente, riattaccandosi all’allegoria generale, nella rappresentazione scenica del Paradiso terrestre. Poco o nulla nel Paradiso celeste. Ma c'è una grande differenza tra l’allegoria com'è concepita nel Convivio e come risulta dalla Comedia. Nel Convivio il senso letterale delle canzoni commentate non è per lo scrittore che una bella menzogna, una fictio rettorica che adombra la verità che ci sta sotto. E la verità egli afferma essere quella che espone nel commento. Non così nella Commedia. Il viaggio è certo una finzione, ma una finzione che il poeta vuole e ha bisogno sia creduta una realtà. Se non fosse tale cadrebbe l’ingiunzione che Beatrice, Cacciaguida, san Pietro gli fanno di raccontare ciò che ha veduto in pro del mondo che mal vive. Cadrebbe il fine etico politico religioso che il poeta si propone e che deriva la sua virtù suggestiva dalla realtà rappresentata. Coloro che fanno della Comedia una visione e non un viaggio effettivamente compiuto — nella finzione artistica s'intende — distruggono, senza addarsene, la forza profetica di essa. È vano stillarsi il cervello per scoprire da per tutto sotto alla lettera reconditi significati che il poeta non ha pensato di celarvi. Quando egli ha creduto di dover metterci quel significato, ha pensato di richiamar l’attenzione perché esso non sfugga, e in altri casi ha porto egli stesso la spiegazione, o per lo meno il filo orientatore per trovarla. La spiegazione delle allegorie bisogna sempre cercarla nella parola del poeta.
L’allegoria fondamentale è quella delle due guide, e la spiegazione è nell’ultimo capitolo della Monarchia. Ma anche per le due guide non bisogna perder di vista che il poeta non le tratta come mere figure allegoriche. Virgilio e Beatrice non sono come Lucia, Lia, Rachele, la femmina balba simboli senza persona, ma creature rivissute fantasticamente dal poeta con tutte le loro note umane, e di là dal significato allegorico, o prima di esso, persone vive.
Con tale criterio sull’inquisizione allegorica, se non si coglierà proprio il centro del pensiero del poeta, non si andrà per lo meno lontano da esso. Quando, ad esempio, si vede il poeta nel suo colloquio con Forese identificare la selva ove si era smarrito con «la vita da cui lo volse Virgilio» (Purg., XXIII, 118), è vano cercare altri significati alla selva da quello indicato dalle parole di Forese. E per quanto eleganti e sottili possano essere le disquisizioni sulle tre fiere che tolsero al poeta il corto andare del monte, pare difficile che esse non abbiano rapporto con le tre faville che, secondo Ciacco, hanno i cuori accesi: invidia, superbia e avarizia (Inf., VI, 74-5; e cfr. anche ivi, XV, 68).
Ciò che soprattutto importa è di non perdere la realtà poetica in troppo sottili ricerche ermeneutiche, come per l’inquisizione di una continuata allegoria fecero uomini egregi e pure intendenti di poesia quali il Pascoli il Flamini il Federzoni. E si fanno i nomi di questi egregi appunto perché l’esempio di essi tenga lontano dal pericolo giovani tanto meno addottrinati e meno esperti. Del resto qui non si propongono spiegazioni di simboli come infallibili verità; se si facesse, si falserebbe la natura del libro, ch'è di guida nell’inquisizione. Qui si espongono soltanto i criteri onde quei simboli hanno a essere esaminati; la conclusione deve essere il risultato della propria ricerca. Una conclusione che non sia dedotta dalla parola del poeta o che solo la sforzi, una conclusione che non rientri nell’armonia di tutto il suo pensiero non può accostarsi a verità, anche se sorretta da dotte elucubrazioni concettuali derivate da questo o quel filosofo. Non è Tommaso o Bonaventura o Aristotile stesso che importi, è Dante. Tommaso, Bonaventura, Aristotile possono solo dar luce a intendere il poeta. La storia dell’esegesi dantesca è irta, purtroppo, di tali elucubrazioni sovrimposte alla poesia, e perciò distruggitrici di essa. E si capisce l’antipatia ch’essa ha suscitato contro la critica dantesca e contro la critica storica, come se tutta la critica dantesca si riducesse a vuote disquisizioni allegoriche, e la scuola storica fosse responsabile di una ricerca che, anche se fatta da uomini che si dicevano seguaci del cosidetto metodo storico, nel modo che era fatta storica non eta. Pure sarebbe esagerazione credere che tutto in essa sia ciarpame. Guardarsi dai suoi metodi è bene, ostentar di volerla ignorare è errore. Il problema è di saper cogliere in essa quanto, di là dalle fantasie ermeneutiche, ha veramente assodato.

La bibliografia sull’allegoria e sui simboli della D. C. è grandissima. Qui ci limitiamo a citate gli studi principali, rimandando per i lavori più antichi ai repertori bibliografici del De Batines e del Ferrazzi e alla Dantologia dello Scartazzini. G. Marchetti, Della prima e principale allegoria del poema di D., Bologna 1819; U. Foscolo, Discorso sul testo della «Commedia» di D., Londra 1825 (e quindi in Opere, a cura di F. S. Orlandini ed E. Mayer, Firenze 1850, vol. III, pp. 83-519); F. Berardinelli, Il concetto della «D. C.» di D. A., Napoli 1859; K. Witte, Ueber D. e Ueber das Missverstindniss D.s., in D. Forschungen. Altes und Neues, Halle 1869, pp. 1-20 e 21-65; V. Barelli, L’allegoria della «D. C.» di D. A., Firenze 1864; G. Casella, Della forma allegorica e della principale allegoria della «D. C.», in Opere edite e postume, con prefazione di A. D'Ancona, Firenze 1884, vol. II, pp. 369-95; G. Pascoli, Minerva oscura, Sotto il velame e La mirabile visione cit. (e v. L. Vatti, L’allegoria di D. secondo G. Pascoli, Bologna 1922); F. D’Ovidio, Le tre fiere, in Studi sulla «D. C.» cit., pp. 302-25 (e quindi in Opere cit., vol. II, pp. 3-40; cfr. E. G. Parodi, «B.S.D.I.», n. s., VII [1900], pp. 281-8); F. Flamini, I significati reconditi della «Commedia» di D. e il suo significato supremo, Livorno 1903-04, voll. 2 (22 ed. rifatta e intitolata Il significato e il fine della «D. C.», ivi 1916); Idem, Avviamento allo studio della «D. C.», Livorno 1905 (e 6a ed., ivi 1922); L. Filomusi Guelfi, L’allegoria fondamentale del poema, in Nuovi studi sulla «D. C.», Città di Castello 1911, pp. 1-79; L. Pietrobono, Il poema sacro... cit.; Idem, Dal centro al cerchio - La struttura morale della «Commedia», Tortino 1923; L. Valli, Il segreto della Croce e dell'Aquila nella «D. C.», Bologna 1922; Idem, La chiave della «D. C.» - Sintesi del simbolismo della Croce e dell'Aquila, ivi 1926 (cfr. P. G. Ricci, L’opera dantesca di L. Valli, «G. D.», XXXVII [1934], pp. 171-207); e G. SANTI, L'ordinamento morale e l’allegoria della «D. C.», Palermo 1923 (con ampia bibliografia).
Sulla posizione del Pascoli, del Pietrobono, del Valli, ecc. sono da vedere i seguenti saggi di M. Barbi: Per la genesi e l'ispirazione centrale della «D. C.», «S. D.», XVI (1931), pp. 56-67 (e quindi in Problemi fondamentali per un nuovo commento della «D. C.» cit., pp. 21-47); Ancora per la genesi e l'ispirazione centrale della «D. C.», «S. D.», XXIII (1938), pp. 5-28; Veltro, Gioachinismo e fedeli d’Amore: sbandamenti e aberrazioni, ivi, XXIII (1938), pp. 29- 46; e L'ideale politico-religioso di D., ivi, XXIII (1938), pp. 46-77 (e quindi in Problemi fondamentali... cit., pp. 48-68).
Per alcuni aspetti particolari dell’allegoria dantesca v. G. BUSNELLI, Il Virgilio dantesco e il «Gran Veglio» di Creta, Roma 1919 (estr. da «Civiltà Cattolica»); L. Pietrobono, Matelda, «G. D.», XXXIX (1936), pp. 91-124 (e quindi in Nuovi saggi danteschi cit., pp. 169-97); B. Nardi, Chi e che cosa è Matelda, in Nel mondo di D. cit., pp. 273-84 (identifica Matelda con la contessa Matilde di Canossa e ne fa il simbolo della «beatitudo huius vitae»); C. Granher, Mostri e simboli nell’«Inferno» dantesco, «Annali della Facoltà di Lettere, Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari», XXI (1953), parte II, pp. 45-66; S. Santangelo, Il Veglio di Creta, in Auutori diversi, Studi letterari - Miscellanea in onore di E. Santini cit., pp. 113-23; ecc.
Sul limite intrinseco a tutte le indagini sull’allegoria del poema, specialmente se effettuate con un’eccessiva, pedantesca sottigliezza, c sul rapporto fra allegoria e poesia restano fondamentali le pagine di B. Croce (La poesia di D. cit.; 4° ed. riveduta, pp. 9-32 e passim). Ma sono anche da consultare: L. Pietrobono, Allegoria o arte?, «G. D.», XXXVII (1934), pp. 93-134 (e quindi in Saggi danteschi cit., pp. 225-59); Idem, L’allegorismo e D., «G. D.», XXXVIII (1935), pp. 83-102 (e quindi in Saggi danteschi, cit., pp. 159-66); Idem, Struttura, allegoria e poesia nella «D. C.», in Nuovi saggi danteschi cit., pp. 245-77; e T. L. Rizzo, Valore dell’allegoria dantesca, «Atti dell’Accademia Pelotitana», Classe di scienze storiche e filosofiche..., LI (1938-39), pp. 57-63. Di particolare importanza è, come sempre, per la moderazione e l’equilibrio che lo caratterizzano, il saggio del Barbi su Allegoria e lettera nella «D. C.», in Problemi fondamentali... cit., pp. 115-40.
La finzione della D. C. presuppone un vero viaggio o è il racconto d’una visione? Sull'argomento v. B. Nardi, D. profeta, in D. e la cultura medievale cit., pp. 258-334; e G. B. SALINARI, Che cosa è la «D. C.»?, «Cultura Neolatina», III (1943), pp. 167-74.

2. Il Veltro

Ma se per i simboli meno importanti può bastare la semplice indicazione bibliografica, così che dalla conoscenza degli studi più importanti il lettore riesca a farsi un’opinione propria, non è così per il Veltro. È l'argomento dove le fantasie si sono pit sbizzarrite. Molti ricercatori infatti, per non dire la più parte, hanno intruso nella loro indagine le proprie simpatie, o addirittura passioni, politiche o religiose. E così, invece che dimenticare sé in Dante, si sono rifoggiati un Dante sul proprio modello. Di qui gli infiniti Veltri pullulati dalla fantasia dei critici, molti dei quali addirittura ridicoli. Chi studi Dante senza preconcetti deve convenire ch’egli non accennò con il Veltro ad alcuna determinata persona, ma solo a un inviato speciale che, in un giorno più o meno lontano ma certo, avrebbe ricacciato la lupa nell'inferno. Ogni congettura quindi per concretare cotesto inviato in una persona storica è vana. Il che non vuol dire che Dante non possa avere in qualche momento sperato, e per un momento essersi magari illuso, che questo o quel personaggio apparso sull’orizzonte della storia non avesse ad incarnare il suo sogno. Ma la discussione può vertere soltanto sull’essere genetico di questo personaggio, pontefice o imperatore, e potrebbe anche non essere alcuno dei due. Oscura già per se stessa, la profezia è resa anche più buia dal fatto che qui — contro l'abitudine e l'insegnamento del poeta — il senso letterale è sopraffatto dall’allegorico.
Con la profezia del Veltro si riconnette quella del «Cinquecento diece e cinque» e di Scipio, come si riconnettono gli accenni e le speranze a una più o meno prossima liberazione del Vaticano e dell’altre parti elette di Roma dall’adulterio (Par., IX, 139-42) o del mondo dalla cupidigia che tutti affonda (Purg., XX, 13-5; e Par., XXVII, 142-8). Meglio ancora: profezie e allusioni si riconnettono con tutta la visione politica e religiosa del poeta, e dipendono da essa. Visione che si venne naturalmente allargando man mano lo svolgersi degli avvenimenti portava la sua riflessione sopra di essi. Il momento capitale nello sviluppo del suo pensiero è segnato dall’epistola ai cardinali, dove Roma l’Italia la Chiesa si saldano nella sua mente in indissolubile unità: la vita dell’una è la vita delle altre. Epistola — sia detto tra parentesi — che per quanto vi è scritto su Roma basta a far cadere tutto quello che a proposito del canto II dell’Inferno si è arzigogolato sul guelfismo dell’uomo mentre scriveva i versi 22-4.
Nessun dubbio oscurò mai lo spirito di lui sulla fede che professava; anzi è lecito affermate che mentre con il procedere degli anni la sua opposizione ecclesiastica si faceva pit acuta, nel tempo stesso la sua ortodossia si precisava sempre più rigorosa. Opposizione ecclesiastica sempre più acuta, ortodossia sempre più rigorosa, e in conseguenza persuasione sempre più radicata della triste influenza del tralignare del clero sulla vita civile. Tra questi sentimenti si disegnano le scene della seconda metà del Purgatorio e del Paradiso. Poiché dunque il rinnovamento deve avvenire ed è esclusa ogni possibilità rinnovatrice per parte della Chiesa, anzi questa stessa deve essere rinnovata, il rinnovatore si concreta nella fantasia del poeta nella figura del Dux o di Scipio. E sempre l’annunzio dell’immancabile suo avvento viene dato dopo la fustigazione degli instituti ecclesiastici. Solo sulla fine del canto ov’è profetato l'avvento di Scipio, sull’entrare nel primo mobile che regola l’ordine dell’universo, il poeta si abbandona a una visione, che si può dire mistica, di palingenesi mondiale determinata dal raggiare dei cieli. Le persone scompaiono, campeggia l'influenza degli astri (Par., XXVII, 142-8).
Il problema del Veltro vuol dunque essere inserito nello studio della concezione etica politica religiosa che informa l’opera, e dei sentimenti, speranze o delusioni, che si generano nel poeta dallo svolgersi degli avvenimenti. Logicamente cotesta alternativa di sentimenti si dovrebbe riportare ai fatti che la determinano; ma ognuno comprende la delicatezza di questa ricerca. Critici valenti riportano infatti la stessa effusione sentimentale a fatti e anni diversi. Si pensi alla profezia di Forese (Purg., XXIII, 106-11). Un esempio tipico è la stessa profezia del Dux, indizio oscuro per gli uni della sperata e creduta imminente vittoria di Arrigo, e per gli altri segno non meno certo delle speranze sorte nel poeta alla morte di Clemente V e di Filippo il Bello, che per il modo ond’era avvenuta pareva dovesse lasciare libero lo svolgersi della storia da «ogni intoppo e ogni sbarro». In mezzo a coteste incertezze una cosa però non lascia dubbio: nessuna delusione riesce a distruggere nel poeta la certezza del non lontano rinnovamento. E non riesce perché egli appoggia la sua fede sul concetto metafisico sul quale ha costruito il suo mondo.

Anche sul Veltro la bibliografia è copiosissima. Un riassunto delle varie interpretazioni si può vedere nella cit. ed. maggiore del commento scartazziniano, vol. II, Purgatorio, pp. 801-17. Qui ricorderemo soltanto gli studi principali, e precisamente: G. Fenaroli, Il Veltro allegorico della «D. C.», Firenze 1891 (estr. dalla «Rassegna Nazionale»); R. Della Torre, Poeta Veltro, Cividale 1887-90, voll. 2; Idem, La fortuna del «Poeta Veltro» nel XIX secolo, Firenze 1901; A. MEDIN, La profezia del Veltro, Padova 1889; V. Cian, Sulle orme del Veltro, Messina 1897 (ripubbl. col titolo Oltre l’enigma dantesco del Veltro, Torino 1944; con importante bibliografia); A. Solmi, Il pensiero politico di D. cit., pp. 71-105; F. Ercole, Il pensiero politico di D. cit., vol. II, pp. 314-22; R. Benini, D. fra, gli splendori dei suoi enigmi risolti, Roma 1952; L. Olschki, D. «poeta veltro», Firenze 1953 (distaccandosi dalla maggioranza degli studiosi, che scorgono nel Veltro un imperatore o un pontefice — determinato o indeterminato —, o un ignoto, atteso rinnovatore del mondo e dell’Italia, o il medesimo Cristo 0, anche, Cangrande della Scala o Uguccione della Faggiuola, ecc., e riprendendo la tesi già sostenuta dal Della Torre e dal Benini, afferma che il Veltro è Dante stesso poiché l’oscurissimo verso «e sua nazion sarà tra feltro e feltro » conterrebbe un’allusione alla costellazione dei Gemelli o dei Dioscuri, i « pilleati fratres» dell’antichità, «rappresentati in molte immagini cristiane e pagane coi loro conici feltri», sotto la quale nacque il poeta: cfr. Par., XXII, 112-20; ma v., contro tale tesi, M. Porena, Una nuova chiosa alla profezia dantesca del Veltro liberatore, «Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei», Classe di scienze morali, storiche e filologiche, ser. VIII, VIII [1953], pp. 230-7); A. Vallone, Del Veltro dantesco, Alcamo 1955 («Lectura Dantis. Siciliana»: scorge nel Veltro un «uomo migliore» che renderà il «mondo migliore»; con bibliografia finale); e G. Getto, Il canto I del l’«Inferno», Firenze 1960 («Lectura Dantis Scaligera»; accoglie la tesi dell’Olschki, ribadendola con altri argomenti).
Sulla profezia del «Cinquecento diece e cinque», che appare per più ragioni connessa a quella del Veltro ed è da quasi tutti gli studiosi interpretata in senso politico, si vedano, oltre agli scritti dianzi citati, i seguenti: D. Guerri, «Cinquecento diece e cinque», in Di alcuni versi dotti della «D. C.» - Ricerche sul sapere grammaticale di D., Città di Castello 1901, pp. 115-76; R. Davidsohn, Il «Cinquecento diece e cinque» del «Purgatorio», «B.S.D.I.», n. s., X (1901), pp. 129-31; E. Moore, The DXV Profecy, in Studies in D. cit., ser. III, pp. 253-83; V. Zabughin, Quattro «geroglifici» danteschi... cit., pp. 547-63; A. Solmi, Il pensiero politico di D. cit., p. 98 (aderisce all’interpretazione di A. Regis, il quale prende in considerazione pure l’«un» e risolve le parole dantesche nella formula «I.D.X.V.», cioè «Imperator Domini Xristi Vicarius», corrispondente al titolo dato nei Medio Evo all’Imperatore romano-cristiano e forse, in particolare, ad Arrigo VII); F. Ercole, Il pensiero politico di D. cit., vol. II, pp. 372-7.
Sulla processione mistica del Paradiso terrestre e la profezia che in genere vi si riconnette si vedano, oltre alle numerose letture del canto XXIX del Purgatorio, E. Proto, L’Apocalissi nella «D. C.» cit.; E. G. Parodi, L’albero dell'Impero, in Poesia e storia nella «D. C.» cit., pp. 511-32; e L. Pietrobono, La donazione di Costantino e il peccato originale, in Saggi danteschi cit., pp. 167-80.

3. L’ordinamento morale

Intimamente connesso con il problema dell’allegoria è il problema dell'ordinamento morale dei tre regni. Su questo argomento si sono scritti e si continuano a scrivere volumi pregevoli per acume e per dottrina. Un difetto capitale vizia però gran parte di questi volumi. Il problema è come Dante ordinò i suoi regni, e l'ordinamento e i criteri di esso si hanno a dedurre dalla rappresentazione ch'egli ne fece e dalle spiegazioni che ci porge. Parrebbe dunque che non dovessero sorgere di gran questioni. Chi voglia spingere più oltre l'indagine può cercare donde il poeta abbia derivato il criterio per la propria costruzione, ma in cotesta indagine conviene abbia sempre presente che il criterio supremo all’artista è l'armonia e l'efficacia della rappresentazione. Dante non fu schiavo né di Aristotile né di Tommaso: servo, se mai, fu solo della propria arte. Tutti gli sforzi che si sono compiuti per mettere il suo sistema penale in perfetto accordo con i prefati dottori sono perciò sempre miseramente falliti. Si veda quante discussioni si sono fatte per costipare nella palude stigia i peccatori che, per seguire questo o quel dottore, mancavano alla serie. Eppure la parola del poeta è chiara: nello Stige non ci sono se non coloro cui vinse l’ira. Alla superficie dell’acqua quelli che furono pronti a sfogare il proprio sentimento, fitti nel limo quelli che covavano il rancore che li attristava. Che portarono, come dice il poeta, dentro di sé un «accidioso fummo», cioè un’ira impotente a sfogarsi.
Non si può correggere o integrare il poeta per riportarlo a un dato schema derivato da questo o quel dottore. E quando uno dei più acuti in questa materia e pit dotti interpreti, il Filomusi Guelfi, scrive di aver reso con nuovi ritocchi «la sua struttura morale del terzo regno (il ragionamento vale per tutti e tre i regni) più completa e più coerente con le dottrine teologiche», cotesta maggior completezza appunto e pi salda coerenza aumenta la nostra diffidenza. Nessuno nega la luce che da Tommaso e dagli altri dottori scolastici si può derivare all’intelligenza della Commedia. Ma integrare la poesia con la filosofia, anche se si traiti di un poeta filosofo come Dante, è un assurdo. Il mondo costruito dal poeta è quello che è. E se, ad esempio, nell’Inferzo manca un’esplicita sezione per i superbi e per gli accidiosi, come li intendono i teologhi, non c’è che fare. Le deficienze sistematiche che sono gravi al filosofo, non sono tali al poeta. E se deficienze ci sono, al critico non resta che registrarle.
Lo stesso si dica per i non minori sforzi che si sono tentati per ravvicinare il sistema penale del Purgatorio a quello dell’Inferno. Castelli di carta, ove per l’amor d’una perfetta rispondenza fra parte e parte, e del tutto con la dottrina di questo o quel dottore, si trascura la parola precisa del poeta. E chi si voglia persuadere della poca consistenza di tutti cotesti troppo rigorosi sistemi può vedere, ad esempio, il Busnelli e il Barone dimostrare l’inconsistenza dell'ordinamento dei beati proposto dal Filomusi Guelfi, e questi alla sua volta rendere la pariglia al Busnelli e al Parodi, che al Busnelli s’avvicina.
Il vero è che nella ricerca ansiosa di un’allegoria e di un ordinamento morale perfettamente sistematici i critici per troppo voler vedere hanno spesso veduto più di quello che il poeta ci mise. Conoscerli è utile perché si sono messi in luce particolari che alle viste mezzane possono facilmente sfuggire. Buona critica è cercar di conoscere e stare in guardia da ogni esagerazione sistematica.

Per l'ordinamento morale dei tre regni in genere v. L. Filomusi Guelfi, Studi su D., Città di Castello 1908; Idem, Nuovi studi su D. cit.; e Idem, Novissimi studi su D., ivi 1912; G. Santi, L’ordinamento morale e l’allegoria della «D. C.» cit. (con ampia e particolareggiata bibliografia); e S. Vazzana, Il contrappasso nella «D. C.» - Studio sull'unità del poema, Roma 1959; oltre alle cit. opere del Pascoli, del Flamini, del Pietrobono, ecc.
Per l'Inferno e il Purgatorio ctr. K. Witte, Dantes Stindsystem in Holle und Fegefeuer, in D. Forschungen cit., vol. II, pp. 121-60; e E. Moore, The Classification of Sins in the «Inferno» and «Purgatorio», in Studies in D. cit., ser. II, pp. 192-209.
Per l'Inferno: G. Todeschini, Dell’ordinamento morale dell’«Inferno» di D., in Scritti su D. cit., vol. I, pp. 1-114; F. D’Ovidio, La topografia morale dell’«Inferno», in Studi sulla «D. C.» cit., pp. 241-301 (e quindi in Opere cit., vol. I, pp. 379-468); G. Fraccaroli, Ancora sull'ordinamento morale della «D. C.», «G.S.L.I.», XXXVI (1909), pp. 109-22; G. Busnelli, L’«Etica Nicomachea» e l'ordinamento morale dell’«Inferno», Bologna 1907; W. H. Reade, The Moral System of D.’s «Inferno», Oxford 1909; e M. Baldini, La costruzione morale dell’«Inferno» di D., Città di Castello 1914 (e cfr. E. G. Parodi, «B.S.D.I.», n. s., XXIV [1917], pp. 90-104).
Per il Purgatorio: P. Perez, I sette cerchi del «Purgatorio» di D., Verona 1864 (e 3a ed., Milano 1896); W. W. Vernon, Readings on the «Purgatorio» of D., London 1889 (e 3a ed., ivi 1907); E. Moore, Unity and Symmetry of design in the «Purgatorio» in Studies in D. cit., ser. II, pp. 246-68; G. Busnelli, L'ordinamento morale del «Purgatorio» dantesco, Roma 1908; F. D’Ovidio, Sulla concezione dantesca del «Purgatorio», in appendice al vol. di E. Sannia, I comico, l'umorismo e la satira nella «D. C.», Milano 1909, vol. II, pp. 697-773.
Per il Paradiso: F. P. Luiso, La costruzione morale e poetica del «Paradiso» dantesco, «Rassegna Nazionale», CII (1898), pp. 299- 333; E. Proto, La concezione del «Paradiso» dantesco, «G. D.», XVIII (1910), pp. 64-97; G. Barone, Ancora sulla Gerusalemme celeste, Roma 1911; E. G. Parodi, La costruzione e l'ordinamento del «Paradiso» dantesco, in Autori diversi, Studi letterari e linguistici dedicati a P. Rajna, Firenze 1911, pp. 893-935 (e quindi in Poesia e storia nella «D. C.» cit., pp. 567-607); G. Busnelli, Il concetto e l'ordine del «Paradiso» dantesco, Città di Castello 1911-12, voll. 2 (cfr. U. Cosmo, Rassegna dantesca, «G.S.L.I.», LXIII [1914], pp. 342-92); G. Bindoni, Indagini critiche sulla «D. C.», Milano-Roma 1918, pp. 78-90; e B. Andriani, La forza del «Paradiso» dantesco - Il sistema del mondo secondo gli antichi e secondo D., Padova 1961.

Date: 2022-09-20