Dante e la forma poetica della teologia [Inos Biffi]

Dati bibliografici

Autore: Inos Biffi

Tratto da: La poesia e la grazia nella "Commedia" di Dante

Editore: Jaca Book, Milano

Anno: 1999

Pagine: 1-14

Dopo la morte di Dante, Giovanni del Virgilio — poeta e docente universitario bolognese , col quale Dante fu in relazione di amicizia negli ultimi anni della sua vita (tra il 1319 e il 1320) — lasciò un epitaffio latino, in realtà non mai inciso, che incomincia così: Theologus Dantes: «il teologo Dante». Ma leggiamo tutto il testo:

Theologus Dantes, / nullius dogmatis expers
Quod foveat claro/ philosophia sinu,
Gloria Musarum,/ vulgo gratissimus auctor,
Hic iacet, et fama/ pulsat utrumque polum

Il teologo Dante, che non ignorò alcuna delle verità
nutrite al senso preclaro della filosofia,
gloria delle Muse, poeta carissimo alla gente illetterata,
qui giace, e la sua fama risuona dall'uno all’altro polo .

Dantes theologus: eppure egli non è mai stato un «magister in sacra Pagina», non ha insegnato teologia e non ha scritto opere propriamente di teologia, paragonabili per esempio alla Summa Theologiae di Tommaso o al suo Scripturm super Sententiis.
La domanda che senso possa avere la definizione di Dante “teologo” pone, forse contrariamente a quanto si può immediatamente pensare, qualche problema.

Soprattutto se attribuiamo — com’è ovvio — la qualifica di teologo a Dante in quanto autore della Comedia, che certamente e primariamente va definita un’opera di poesia, e di poesia somma.

In un recente ed eccellente commento alla Commedia — in riferimento alla quale, certamente, Dante è definito teologo — si osserva: «La Commedia non è un trattato di teologia, come non è una serie di singoli commoventi fatti storici. Non si può studiarla e comprenderla come tale. È un grande testo poetico» . L'intenzione della Commedia «non è di esprimere sensazioni o di raccontare avventure, bensì di plasmare con la poesia l’esistenza stessa» . Dante appare «il grande innamorato di ogni grande forma e di ogni raggiante bellezza» .
Il mito e la storia, l’allegoria e la lettera, il simbolo e la verità, il fantastico e il reale, il passato e il presente, il dogma e la filosofia, l'immaginario e il dottrinale, l’astratto e il vissuto, l’universale e il particolare: tutto nella Commedia appare con l’impronta della poesia o la proprietà dell’estetica.
Ma riconosciamo subito: tutto è, drammaticamente, disposto e unificato dentro «il viaggio», del quale si parla subito, fin dal canto introduttivo (Inf, I, 91: «A te convien tenere altro viaggio»): «viaggio» che, incominciando come una discesa, riprenderà poi e si svolgerà come un «salire» (v. 121: «se tu vorrai salire»), per giungere fino a «l’alto seggio» (v. 128: «quivi è [...] l’alto seggio»).

Ma dire questo, è come dire la forma o l’impianto anagogici che reggono tutta la Commedia di Dante, il cui moto, attraente e unificante, si comprende “cronologicamente” — soprattutto dal profilo della “cronologia spirituale” — a partire dall’Inferno, per proseguire col Purgatorio, ma “realmente” a partire dal Paradiso.
Propriamente, infatti, la ragione di questa anagogia appare nell’ultimo canto del Paradiso:
— quando quel movimento, o quella anagogia — che è poi «l'amor che move il sole e l’altre stelle» (Par, XXXII, 145) — giunge al suo termine con l’esperienza della visione, esperienza mistica;
— dove, lasciate indietro la ragione (Virgilio) e la fede (Beatrice), a far da guida è ormai il dottore mistico Bernardo;
— dove, percossa la mente dal fulgore che soddisfa il desiderio — «la mia mente fu percossa/ da un fulgore in che sua voglia venne» (vv. 140-141) —, la parola si abbrevia — «Omai sarà più corta mia favella» (v. 106) —, si rivela non bastevole o fioca rispetto al «concetto», a quanto la mente ha concepito e visto — «Oh quanto è corto il dire e come fioco/ al mio concetto» (vv. 121-122) -, e, allo svelarsi del mistero dell’Unità e Trinità divina e dell’Incarnazione, la facoltà della visione è sopraffatta — «A l’alta fantasia qui mancò la possa» (v. 142);
— e dove la narrazione si scioglie e finisce, perché quello che è stato veduto è diventato inenarrabile, mentre il desiderio e la volontà, l'impulso e la libertà di Dante coincidono, senza frattura e senza dissidio, e raggiungono lo stato della «suprema stabilità e pace dell’animo, proveniente dalla sua assimilazione al volere divino» , che sono stati la mèta del laborioso viaggio.
Se non si arriva al Paradiso, o, addirittura, se non si parte dal Paradiso, il cammino di Dante risulta necessariamente un «sentiero interrotto», così come si troverebbe intralciata e troncata l’anagogia.
Senza dubbio, ogni canto ha la sua estetica e la sua dottrina; si pone come grado di quella anagogia, e può essere letto, considerato e gustato già in se stesso: pensiamo, per esempio, ai ripetuti e felici commenti a canti e a figure dell’Inferno. E quanto vale per i singoli canti, vale più ancora, ed è più vero, per la prima e la seconda Cantica intiere, che hanno un loro singolare pregio artistico e un proprio valore teologico.
E tuttavia, se non si procede o non si sale fino al Paradiso — luogo, soprattutto, della «poesia teologale» —, quella bellezza e quella dottrina giacciono incompiute, quasi “provvisorie”; la gradualità è lasciata a mezzo e, di conseguenza, non provveduta della bellezza e del senso dell’intero.
Senza l’ardua Cantica del Paradiso — con la sua luce, la sua gloria, il suo fervore, e insieme col disagio dell’esaurimento della scrittura e del suo venir meno della «fantasia» a motivo dell’excessus — la Commedia di Dante rimane depauperata del suo senso ultimo e della sua estetica compiuta.
Il mondo dantesco è tutto mosso dal desiderio di Dio, che attira a sé come «desiderato» — a «la rota che tu sempiterni/desiderato» (Par., 1, 76-77) —, e l’espressione fa venire in mente quanto Aristotele afferma nella Metafisica , e a cui Dante si riferisce nel Convivio : Dio — il Primo Motore — «muove come ciò che è amato», o quanto scrive Boezio, che Dante cita nella Monarchia :

O felice il genere umano,
se l’amore, che regge il cielo,
regge anche i vostri animi!

O felix bumanum genus,
si vestros animos amor,
quo caelum regitur, regat! :

verso che si ritrova, come tradotto alla lettera, nell’espressione deli canto del Paradiso, v. 74: «amor che ’l ciel governi» .

Da questo profilo la Comedia è, in se stessa, una anagogia, dove ad accompagnare, a fare da «duca» — come Dante chiama Virgilio: «lo duca mio» (Purg., II, 20) — è allora Dante medesimo ed è la sua opera.
E sempre da questo profilo appare la prima sintonia o il primo carattere teologico della Commedia, di là dalle questioni, se possa dirsi teologo Dante per la sua Commedia.
Ad avere movimento anagogico, o a essere ascensione, è la teologia stessa, per sua natura. Essa incomincia con la condiscendenza della Rivelazione o con la comunicazione del mistero, e la sua passione è quella di dire Dio nella provvisorietà del tempo, reso tuttavia disponibile all’eternità, e nella precarietà dei concetti, fatti però portatori di incontenibile verità.
Tommaso definisce suggestivamente la teologia «quaedam impressio divinae scientiae in nobis» — quasi un frammento in noi e un pregusto di scienza divina e di visione —, nella consapevolezza che il teologo definitivamente è colui che gode della contemplazione beatifica, colui che ha concluso l’anagogia e il cui sguardo ardente, levato in alto, infine può vedere.
Viene in mente il verso: «Lucevan li occhi suoi più che la stella» (Inf., II, 55): sono gli occhi di Beatrice, inondati del fulgore di Dio — Dante, abbiamo già sentito, parlerà nel Paradiso della sua mente «percossa / da un fulgore» (Par., XXXIII, 140-141) —: gli occhi di Beatrice figura della fede e quindi della teologia che, a sua volta, mira a essere, come Beatrice stessa, «beata e bella» (Inf., II, 53).
Ma il pensiero va anche allo sguardo, ardente e intenso, di fra Tommaso d’Aquino al Cristo crocifisso nell’affresco del Beato Angelico, presso il convento fiorentino di San Marco, che lo scrittore francese Veuillot chiamò «una delle cose straordinariamente belle del mondo» . E qui pensiamo alla terzina dantesca:

la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa
(Par., XXXIII, 97-99).

Ed è significativo che il medesimo Tommaso, parlando dei teologi, li abbia paragonati agli «occhi» della Chiesa .

Ma possiamo, nel mettere in evidenza l’anagogia della Commedia di Dante e quella della teologia, considerare un’opera teologica per eccellenza, uno dei capolavori dello «splendore del vero» , la Summa Theologiae del Dottore Angelico, nel cui stesso piano e impalcatura troviamo l’animazione anagogica, cioè nel reditus, o nel “ritorno” a Dio — dopo l’exitus o l’“uscita” da lui —: l'universo e in esso particolarmente l’uomo, immagine di Dio, con il suo intelletto e la sua libertà , sono colti nel loro «tendere» a Dio — «motus in Deum», «[Christus] via nobis tendendi in Deum» —, restando Dio tutto, in sé, come principio e come fine, la sostanza della teologia e il motivo della sua anagogia, come lo è nella Comedia di Dante.
Ed esattamente: la prima impronta teologica della Commedia credo si debba avvertire in questo movimento di anagogia, ragione prima per la quale perfettamente conviene a Dante la definizione di “teologo”. Aggiungendo un'ulteriore spiegazione per questa attribuzione a Dante, sempre a partire dalla conclusione dell’anagogia, cioè la visione ultima di Dante, al finire del Paradiso.

Questa visione della «luce etterna» — «O luce etterna» (Par., XXXIII, 124) — si risolve in una certa contemplazione della Trinità divina e, come dipinta in essa, della «nostra effige» — «dentro da sé [...]/ mi parve pinta della nostra effige» (vv. 130-131): è il mistero dell’incarnazione.
«Il volto che appare a Dante luminoso — commenta in proposito Guardini — non è semplicemente il ‘volto dell’uomo’, bensì il volto di Cristo. E non quello del ‘Cristo eterno’ nel senso di qualche mitologia dell’umanità che si assolutizzi o della divinità che si umanizzi per necessità, ma è il volto di Gesù di Nazareth, nato a Betlemme, morto sul Golgota sotto Ponzio Pilato, risorto dal sepolcro e salito al cielo dal Monte degli Ulivi. Questa storicità cristiana [...] si esprime nella Divina Commedia» .
L'anagogia della Comedia, cioè il suo senso ultimo e trascendente , si conclude, così, con la visione dei «due misteri principali della fede»: l'Unità e Trinità di Dio, l'incarnazione, la passione e la morte di nostro Signore Gesù Cristo. Ora — dichiarava Gesù —: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17, 3).
È la sostanza o la materia semplicemente della teologia, tutta dedita all’intelletto di questa fede, e tutta attraversata dal desiderio di andare oltre e pervenire alla visione, com'è della Commedia. L’accoramento di vedere Dio, che Dante sente nei «peccatori infino a l’ultima ora», «per forza morti» (Purg., V, 52-53), ma usciti di via «a Dio pacificati, /che del disio di sé veder n’accora» (vv. 56-57).

Appare una suggestiva ed eloquente analogia, ancora, tra l’esito anagogico della Commedia e dell’avventura di Dante e l’esito del teologo Tommaso d’Aquino – se non della sua Summa Theologiae, che ha il genere dell’oggettività, e non anche quello della soggettività o della sua storia, dei suoi “Esercizi”, com’è nell’opera di Dante.
Dante confessa – lo abbiamo visto — che con la «luce eterna» o il fulgore che percuote la sua mente nella visione della Trinità e dell'incarnazione, «l’alta fantasia» si estenua, la parola si fa più corta e inadeguata al contenuto della visione. Finisce la scrittura e la Commedia.
Proprio come per Tommaso che, dopo un'esperienza singolare nel giorno di san Nicola del 1273, non riuscirà più a scrivere. A Reginaldo, il suo compagno carissimo, che lo pregava di portare a termine la Somma di Teologia, Tommaso rispondeva: «O Reginaldo, proprio non posso. Dopo ciò che ho veduto e mi è stato rivelato, tutto quello che ho scritto mi pare paglia. Non posso più scrivere nulla. Spero che verrà presto la fine della mia vita, com’è venuta la fine della mia scrittura» .

Questa, dell’anagogia, che a sua volta contrassegna essenzialmente la teologia, ci sembra la prima ragione per parlare di teologia della Commedia e, come Giovanni del Virgilio, di «Dantes theologus».
Ma questa connotazione teologica di Dante può essere fatta anche con altre considerazioni sulla Commedia, la sua struttura, il suo significato e i suoi contenuti. Anzitutto rilevando, più immediatamente, la partitura teologica della Comedia, come risulta dalle tre Cantiche: l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso — a parte la raffigurazione con cui sono concepite e che significano il modo proprio, cioè estetico e poetico, di fare teologia da parte di Dante — sono verità della teologia, o del «dogma» — come lo chiamava Giovanni del Virgilio — cristiano («Dantes theologus, nullius dogmatis expers»).
L'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso della Commedia sono i “Novissimi” della fede che conclude nella visione; o sono la sua escatologia, pur nell'immaginario osservata irreprensibilmente secondo il Credo, lontana com'è la concezione dantesca dell’oltretomba rispetto a quella virgiliana o ad altri viaggi nel regno dei morti.
Ma sarebbe facile — e venne abitualmente svolta —, a mostrare il carattere teologico della Comedia, l’analisi di singoli temi di teologia cristiana presenti nei canti danteschi, incominciando da quello che ne anima e ne descrive il movimento, che è l’itinerario personale di Dante nei tre mondi, o meglio, che è l’esperienza cristiana dalla conversione alla visione.
Certo, l’esperienza personale di Dante, che si trova precisamente datata e situata lungo il corso della sua vita e nel contesto esatto di una cronologia. La Commedia non è né un insegnamento puramente astratto, né una didattica di verità come poteva essere quella impartita dai teologi nelle loro “Somme” di scuola. La Commedia è un vissuto, che coinvolge Dante, il suo proposito e la sua determinazione: un vissuto di conversione attraverso un percorso che, se presenta i caratteri della libertà dell'invenzione poetica, non meno offre i segni forti di una radicale partecipazione, che ci vieta di interpretare la Commedia come un “divertimento” o un “giuoco”, pur non mancando di essere anche tale.
Dante, nella sua vita, non appare lo stesso quando, a mezzo del suo cammino, inizia il suo «fatale andare» (Inf., V, 22) e quando lo finisce.
Questo «andare» appare estremamente serio.
Guardini osserva: «La peregrinazione di Dante [...] non ha nulla dell'avventura, ma è profondamente seria, poiché vi si gioca il destino eterno della persona. Essa avviene per grazia e consenso di Dio, ma anche nel segno della sua giustizia e del suo incondizionato comando. Perciò tutto in essa è raccolto e conciso. Mai una calma divagazione o una febbrile scoperta. Sempre risuona la esortazione: ‘Avanti, il tempo è breve!’ [...]. Un moto possente percorre il poema» , «La Divina Commedia appartiene alle opere poetiche esistenziali [...]. Tutto il cammino della Divina Commedia è [...] un progredire verso una conoscenza sempre più chiara, una purificazione sempre più profonda e una energia interiore sempre più efficace» .

Per questo — e sono nuovi tratti teologici — l’itinerario di Dante può essere assimilato e precisato rispetto a due altre forme di vissuto cristiano: quella degli Esercizi ignaziani : dalla prima settimana, dedicata particolarmente all’indagine della coscienza, alla memoria del peccato e della contrizione, fino alla quarta, dove a illuminare e a rasserenare sono i misteri della gloria di Cristo, mentre intanto è avvenuta la risoluzione e i cambiamenti di vita. Anche gli Esercizi non mirano a una didattica, ma registrano un vissuto. Il loro autore parla del «sentire et gustare res interne», in una connivenza, che largamente appare quella di Dante, via via che passa, e lascia che si esprimano e si liberino, talora fino all’estremo, i suoi sentimenti e risentimenti, le sue passioni e i suoi giudizi e pregiudizi, ancora in cammino verso la pacificazione, anche se questa pacificazione liberante certamente aspetta la perfezione dell’escatologia avverata. E lo sarà, anche per Dante, dopo la sua morte, dal momento che la realtà del suo cammino non è ancora avvenuta con i tratti della verità, anche se questa, mediante la creatività poetica, lo ha toccato profondamente.

Ma anche possiamo paragonare il cammino di Dante dall’ Inferno al Paradiso, passando per il Purgatorio, al percorso impegnativo e travagliato, che la teologia spirituale cristiana ben conosce e che, lasciata la connivenza col peccato, incomincia con la via purgativa, per giungere a quella contemplativa e unitiva: e che l’esito del viaggio sia unitivo, lo attesta con ogni evidenza l’ultimo canto della Commedia, da noi già ampiamente richiamato.
In ambedue i casi siamo di fronte al fatto cristiano principale: la trasformazione della vita e la sua consonanza alla volontà di Dio, attraverso un’infinità di peripezie, che Dante evoca, sullo sfondo e nel richiamo vivo della grande storia e della storia più minuta.
Ma, detto questo, sull’esperienza e sulla «memoria» personale dantesca, che anima e regge la Commedia, occorre subito dire che esse si svolgono all’interno di un oggettivo, che è insieme l’oggettivo valore umano e l’ortodosso e universale mistero cristiano, indissociabilmente uniti, riconosciuti e professati, per cui il viaggio di Dante per i tre regni offre i caratteri dell’esemplarità e della validità, che oltrepassa il suo caso e la sua vicissitudine, per diventare interpretazione classica e cifra tipologica, in cui ci si ritrova, e dove si fondono etica ed estetica.
«L’opera di Dante — nota Guardini —, come le cattedrali del Medioevo e le Somme dei filosofi scolastici, si prefigge il gigantesco compito di costruire quel mondo strutturato, in cui la ricchezza dell’esistenza perviene all’unità. Essa vuole trovare un ordine in cui ogni cosa abbia il proprio posto [...] precisamente una ‘gerarchia’ [...], la quale, secondo la definizione di san Bonaventura, significa che il singolo ha in sé il proprio significato, ma insieme esiste per gli altri; che ogni cosa si fonda sulla precedente e insieme fonda la seguente, e che, esprimendo se stessa, manifesta il Tutto» .
O, come scrive von Balthasar, Dante «sembra farsi posto fra i grandi costruttori di cattedrali medievali nei quali, per un’ultima volta, estetica ed etica coabitano in modo così indivisibile, si postulano e si promuovono a vicenda» .
L'esperienza di Dante, in questa «immensa peregrinazione» riceve, dunque, illustrazione e valore, oltre lui stesso. La storia medesima, in cui tale esperienza si trova immersa o correlata, con le sue vicende, antiche o recenti, comprese quelle mitologiche, si trova come trasfigurata e posta sotto l'insegna dell’universalità umana e dei caratteri cristiani e secondo il definitivo giudizio di Dio: «Dante dovrà misurare tutta l’esistenza com’essa è nell’eternità. Egli dovrà percorrere l'Inferno, il mondo della purificazione e l'ordine delle sfere celesti per conoscervi la storia e la vita degli uomini, ma non più in speculo et in aenigreate, bensì giudicate da Dio e perciò manifestate» o «Nella storia di Dante, si riassume la storia di tutti gli uomini, lo smarrimento del poeta è quello dell’umanità intera disorientata e smarrita nel difficile cammino che conduce alla giustizia e alla pace sulla terra, alla visione di Dio e alla beatitudine celeste nella vita ultraterrena» .
Anche per questo la Commedia appare teologica e Dante teologo.

Oltre a ciò, sarebbe facile circoscrivere e analizzare una molteplicità di argomenti di teologia, di figure teologiche, di linguaggi della fede presenti nella Divina Commedia.
E particolarmente interessante e illustrativo sarebbe l’attento studio appunto del linguaggio di Dante, specialmente dei suoi verbi teologici, dove il poeta rivelerebbe insieme l’acuta percezione, che lo assimila al teologo, e il suo genio creativo linguistico e poetico.
In tal caso, si rivelerebbe tematicamente la teologia di Dante: la sua dottrina su Dio e la Trinità, sull’universo e la creazione, sul peccato e la grazia, su Maria e sulla Chiesa, sulle virtù teologali, e su tanti altri temi, che rivelano la formazione sia filosofica sia teologica di Dante.

Un altro suggestivo modo di accesso a Dante teologo sarebbe lo studio delle figure dei teologi nella Commedia. Esso manifesterebbe come Dante comprendeva e stimava la teologia, proponendola nel canto di quanti l’avevano variamente ed esemplarmente esercitata.

Ancora: l'argomento di Dante teologo potrebbe essere accostato con l’analisi delle fonti della teologia, e filosofia, di Dante, così come si possono individuare nella sua opera, o indagando della sua formazione teologica: come Dante si è iniziato alla conoscenza e al gusto della teologia, resa poi da lui, non nella modalità dell’insegnamento di un magister in sacra doctrina, ma nella modalità più originale e non comune possibile a lui grazie al suo genio poetico.
D'altra parte, la grande tradizione specialmente cattolica di studio e di commento alla Commedia ha già ampiamente illustrato questi aspetti, non senza la provocazione di vivacissime discussioni .

Infine, Dante teologo non potrebbe non significare anche la teoria dantesca della teologia: come egli concepisce la teologia, rispetto agli altri tipi di sapere: il tema che i teologi di professione abitualmente trattano all’inizio delle Somme o dei trattati di teologia. Anche Dante ne ha trattato e anche questo tema fu oggetto di studio e discussione, e noi ne accenneremo più avanti .

Ma ora dobbiamo tornare all’affermazione con cui abbiamo incominciato:
«La Commedia non è un trattato di teologia, come non è una serie di singoli commoventi fatti storici. Non si può studiarla e comprenderla come tale. È un grande testo poetico» . E allora sorge la domanda: “È possibile una teologia in poesia?”.
Prima di rispondere ascoltiamo una pagina di Gilson in un lucido saggio, Poésie et théologie dans la Divine Comédie , e in sintonia con la considerazione precedente: «La Divina Commedia è un’opera essenzialmente poetica, non teologica: essa non è una Somma ma un poema [...]. La verità vi è presente per la sua bellezza»; abbiamo nella Divina Commedia «il primato del poetico sul teologico» . «Il bello non è presente in essa nella forma dello splendore del vero, come nella Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, ma la verità vi si trova come la materia, la cui trasfigurazione poetica ottiene la bellezza. Se non ci inganniamo, è questa sensibilità appassionata della bellezza del vero (scientifico, filosofico e teologico) il marchio proprio di Dante. E il caso sembra effettivamente unico, almeno nella tradizione letteraria dell'Occidente, dove, com’è doveroso, il Vero primeggia sul bello dappertutto, salvo che nella poesia» .
«Osservo e ricerco invano nel Medioevo — scrive sempre Gilson — un altro spirito, comparabile o no, quanto a genio, a quello di Dante, che sia stato posseduto come lui, allo stesso grado, dall’amore appassionato della bellezza letteraria e da quello della verità del sapere, in ogni forma. Vedo molti amici delle Lettere, come Petrarca, ma essi non amano molto né la scienza né la filosofia. Vedo anche filosofi e teologi di altissima classe, e in questo assai superiori a Dante, per esempio san Tommaso d’Aquino, ma invano si cercherebbe in loro questo amore della bellezza plastica e dello stile che sembra fondersi naturalmente in Dante in un identico amore della bellezza della verità» .

La prima questione è dunque se sia possibile una teologia espressa e realizzata nella forma della poesia: se si possa associare il genere poetico con il genere teologico. O, com'era detto dai medievali, il modus dicendi teologico con il modus dicendi poetico.
La questione è stata espressamente posta e dibattuta dai teologi medievali e successivi.
Ma prima di vedere il dibattito, premettiamo una riflessione sul- la figura della teologia .

Date: 2022-09-20