Allegoria e lettera nella Divina Commedia [Michele Barbi]

Dati bibliografici

Autore: Michele Barbi

Tratto da: Problemi fondamentali per un nuovo Commento della Divina Commedia

Editore: Sansoni, Firenze

Anno: 1955

Pagine: 115-140

Un altro punto che-occorre chiarir bene, se si vuol comprendere in tutto il suo valore di sovrana opera poetica la Divina Commedia, è quello relativo ‘al senso letterale e all’allegoria. Anche di questo argomento mi è avvenuto di toccare qua e là incidentalmente ; ma giudico opportuno e necessario fissar meglio gli elementi essenziali della questione e segnare più precisamente la via che mi sembra da tenere per giungere a conclusioni accettabili, fuori di ogni equivoco e di ogni preconcetto.
Già ebbi a rilevare come, dopo un periodo, coincidente col prevalere, nel campo della critica letteraria, della tendenza positivistica, durante il quale le questioni relative al significato letterale e all’allegoria del poema parvero abbandonate, si tornasse poi a trattarle, —specialmente dal Flamini e dal Pascoli — con rinnovato ardore; ed io stesso, che avevo prima riconosciuta la necessità di questa ripresa, potei, da principio, compiacermene, ritenendola utile ad una più compiuta e profonda comprensione del poema. Ma ben presto gli allegoristi, tratti dal gusto delle loro ricerche, si abbandonarono è un pericoloso giuoco; e parvero dimentichi di aver da fare con una grande opera di poesia, tanto furono presi dalla passione di scovar sensi reconditi e di mettere in luce la «dottrina» che doveva esser nascosta — secondo loro — perfino in quelle parti del poema dove la fantasia del poeta ci si mostra, nel suo lavoro creativo, più libera qualsivoglia impaccio di intendimenti dottrinali o di preconcetti derivanti dalla rettorica e dal gusto medievale.
Naturalmente, tali eccessi produssero una reazione. Ne fu il più autorevole rappresentante Benedetto Croce : che, rifacendosi alle idee del De Sanctis, con originale approfondimento, cercò distinguere, nella Commedia, disegno concettuale e poesia, «romanzo teologico e lirica»; e, pur separando la allegoria dalla struttura teologica e morale, considerò allegoria e struttura elementi estranei alla poesia, e lavoro sterile l’adoprarsi a penetrare i significati che sotto la ‘lettera’ il poeta abbia voluto porre .
Non credo che la via tenuta dal Croce abbia condotto a conclusioni giuste. Anzitutto, occorre porre ben chiaro che il poema non è affatto né «la commedia dell'anima», come la volle definire il De Sanctis, né un «romanzo teologico», né uno dei tanti poemi allegorico-didattici’ di cui è ricca la letteratura medievale: ecco è, invece, una ‘profezia’, una ‘rivelazione’; sia nella lettera, sia nell’allegoria. Occorre anche, e più, precisare che cosa intendessero il poeta e i suoi contemporanei per lettera e per ‘allegoria’; quali rapporti fra l’una e l’altra intercedono nella concezione e nella stesura dell’opera dantesca; che cosa propriamente vi appartiene alla allegoria e che cosa invece appartiene alla lettera: per rivendicare infine la predominante importanza della lettera e il suo valore essenziale e pressoché esclusivo nei riguardi della poesia .
La Divina Commedia è una profezia, una rivelazione. Dante, attraverso le battaglie politiche, nel periodo della sua partecipazione alle lotte cittadine e, più ancora, negli avvenimenti e nelle meditazioni dell’esilio, è giunto ad avere, della vita contemporanea e dei mali che la travagliano, una visione propria, più ampia e più profonda che qualsiasi altro del suo tempo. Egli vede la società cristiana traviata e senza pace per il disordine morale e civile, politico e religioso di tutti i suoi gruppi e di tutti i suoi organi: corruzione e infelicità insieme. E arriva a individuarne la causa: la società non ha più chi la guidi; non ha più la duplice guida dell’ Impero e della Chiesa che la Provvidenza assegnò al genere umano per dirigerlo ai due fini, di felicità temporale in terra e di beatitudine eterna in cielo, posti dal Creatore alla vita dell’uomo; e non l’ha più perché il Pontefice ha voluto usurpare l’autorità e le cure temporali dell’ Imperatore e sostituitosi a lui ha abbandonato il proprio compito spirituale; onde, senza più timori né ritegni dietro il malo esempio, s’è disfrenata, nella Chiesa e nella società, la cupidigia dei falsi beni terreni, nemica di giustizia e di pace. Non però l’anima cristiana del poeta s’induce a dubitare della bontà divina: anzi, dal fondo del suo sconforto e dallo stesso meditare sul desolato spettacolo sorge e fiammeggia una gran luce di speranza, che si fa certezza e fede indefettibile: ‘Non sarà sempre così! Verrà dall’alto un rimedio, un provvedimento straordinario; le due guide riprenderanno ciascuna, distinte e concordi, il proprio ufficio; e il mondo pacificato tornerà ad incamminarsi, dietro ad esse, verso quella duplice felicità che Dio segnò all’uomo e di cui il Redentore gli riaprì la via’.
Questa grande speranza, ch’è anche fede e sete e amore di giustizia e di pace, non meno che il dolore profondo per il mal fare cui vede abbandonarsi persino chi ha ricevuto lo specifico dovere d’ insegnare altrui la via che mena a Dio, penetra ed infiamma lo spirito di Dante a tal punto ch’egli si sente, come gli antichi profeti d’ Israele, investito dell’altissima missione di rivelare «in pro’ del mondo» il male presente e le sue cause, e il futuro immancabile rimedio della giustizia e bontà divina; e la fantasia del poeta s’innalza ad una superba grandiosa immaginazione: come già ad Enea troiano, come già a Paolo di Tarso, così a lui Dante il Signore della terra e del cielo concede di violare il mistero della morte e di penetrare nei regni dell’oltretomba, per attinger forza e autorità alla propria missione dalla diretta conoscenza delle pene eterne e delle sofferenze espiatorie e dell'eterna gioia che immancabilmente ci procura dopo la Morte terrena la nostra terrena milizia. Naturale, quindi, che l’alta inspirazione del poeta-vate là dove e quando si effonde come afflato profetico assuma il linguaggio ch’ è proprio delle profezie e il mistero delle allegorie e dei simboli.

Quando, a proposito della Commedia, si parla di senso allegorico, occorre andar cauti, per non confondere cose che vogliono esser temute ben distinte sia secondo le idee del tempo sia secondo l’intendimento del poeta. Non si creda di poter senz’altro applicare al poema quanto Dante scrive intorno ai vari sensi delle scritture nel Convivio (II I 2 sgg.); e anche ciò che si legge nella Epistola a Cangrande (XIII 20 sgg.) va preso con la debita discrezione. Intanto, dalle sue stesse parole è lecito desumere che non dappertutto si devono vedere altri sensi oltre il letterale, e che tali sensi vanno appostati, sotto la lettera, solo là dove sia necessario ed opportuno. E d’altronde, se è pur certo che i contemporanei e il poeta medesimo credevano utile esercizio d’ingegno l’assottigliarsi per penetrare reconditi significati anche là dove una tal ricerca non era suggerita o imposta dalla natura dell’argomento, non perciò dovremo noi andar contro il gusto nostro odierno, che ci porta naturalmente a ricercare nell’opera d’arte sovrattutto quanto appunto ha valore di arte. Il resultato di certe acrobazie di sottigliezza non può essere, in fondo, se non di trarci lontano o di distaccarci da quello che, in un poema tanto complesso come il dantesco, n’è lo spirito animatore, e, confinandoci in una visione ristretta e unilaterale, di farci perdere il godimento della grandezza sovrana della concezione.
È vero che nel Convivio il poeta presentò il senso letterale come una «bella menzogna»; ma non è il caso di applicare una tal definizione alla ‘lettera’ della Commedia. Nel trattato è quello veramente il valore che Dante volle dare al senso letterale, per far credere ai lettori di essersi innamorato non già di una donna in carne e ossa, bensì della filosofia; e quindi tutto ciò che dice della ‘donna’ vuole s’intenda come racconto fittizio, di là dal quale si debba scoprire un senso di verità. Ma nel poema le cose stanno ben altrimenti. Non è ‘bella menzogna’ per il poeta, né tale egli vorrebbe certo apparisse agli occhi nostri, ciò che ci narra di un suo viaggio pl regni d’oltretomba. Vuole, anzi, che questo ci apparisca come un viaggio realmente da lui fatto per speciale grazia e concessione divina. Non può esser menzogna, per il poeta credente, quello che è il soggetto stesso dell’opera nel senso letterale, e cioè, secondo che egli medesimo lo definì nell’epistola a Cangrande, lo «status animarum post mortem simpliciter sumptus» (Epist., XII 24).
Né bisogna poi credere che tutto quanto è espresso per via di simboli e di figure faccia parte necessariamente e assolutamente del senso allegorico. A questo proposito è da tener presente ciò che san Tonmaso insegna circa il senso parabolico o tropologico:

Sensus parabolicus sub literali continetur: nam per voces significatur aliquid proprie et aliquid figurative, nec est literalis sensus ipsa figura sed id quod est figuratum. Non enim cum Scriptura nominat Dei brachium, est literalis sensus quod in Deo sit membrum huiuscemodi corporale sed id quod per hoc membrum significatur, scilicet virtus operativa». (Summa th., I, i, 10, 3).

Ora, quando, a proposito del I canto, si parla comunemente di allegoria fondamentale del poema (e meglio sarebbe chiamarla, se mai, figurazione iniziale), si tira a significazione allegorica troppo di quella che è semplicemente espressione parabolica o tropologica, e che appartiene, come tale, al mero senso letterale. Così, ad esempio, ciò che Dante dice della selva in cui si trovò smarrito è una semplice maniera di dire figurata per significare il proprio traviamento morale; e quando dalla figura noi passiamo a vedere, nell’immagine della selva, siffatto traviamento, non usciamo affatto dall'ambito del senso letterale per entrare in quello allegorico, dacché, giusta la definizione dell’Aquinate, il senso letterale non è la figura in sé, ma quel che è in essa figurato, vale a dire quello che essa significa. E ciò è tanto vero che, per richiamare lo stesso fatto del traviamento, il poeta altrove ha potuto servirsi, senza incongruenza, di altre figure, quando proprio non lo abbia espresso con la nudità di quello che i retori chiamano linguaggio proprio. Vedi Inf., II 108 e XV 50, dove all’ immagine della selva è sostituita quella di fiumana o di valle; e in Purg., XXIII 117, dove, indicando Virgilio a Forese, il poeta, fuor di ogni velo di linguaggio figurato, dice «Di quella vita mi tolse costui». Ed espressioni proprie e figurate ritornano promiscuamente nella scena del Paradiso terrestre, in cui Beatrice gli rimprovera i suoi trascorsi ed egli stesso li confessa.
Anche altre più complesse figurazioni, le quali pur si collegano in un modo o nell’altro al senso allegorico del poema, appartengono, in quanto si prendano a sé, al linguaggio parabolico, che Dante ha familiare in conformità col gusto del tempo e per la consuetudine con le Sacre Scritture e con le opere ascetiche; e rientrano, quindi, nel senso letterale. Valga ad esempio la figurazione delle tre fiere che impediscono l’andare su al ‘ bel monte’. Si tratta, certo, di impedimenti intrinseci, che si oppongono alla liberazione dell’anima dallo stato di smarrimento morale in cui si trova: e ben videro i primi interpreti figurato in esse il peccato; ch’ è, in fondo, il distacco dell’anima dal Bene sommo a cagione della «concupiscentia carnis», della «concupiscentia oculorum» e della «superbia vitae» , nelle quali si riassume tutto ciò che nel mondo ostacola all’uomo «la strada di Deo». L’averci veduto, con Giacinto Casella, le «tre disposizioni che ’l ciel non vole», per legare più strettamente la figurazione con l’allegoria fondamentale del poema, ingenerò confusioni di varia specie facilmente evitabili . Dal fatto che il poeta abbia ornato di simboli l’opera sua non ne consegue che essi sieno parti costitutive dell’allegoria fondamentale, connaturata, per così dire, alla stessa inspirazione del poema: possono, al più, alcuni, apparirci come particolari illustrazioni.

Quale sia il vero senso allegorico nascosto sotto la lettera Dante stesso ce lo insegna, come ci è avvenuto più volte di rilevare, nell’ultimo capitolo della Monarchia. Il poeta ha inteso ritrarre lo stato di smarrimento e di traviamento della società cristiana del suo tempo (selva) e mostrarne la causa nella mancanza delle due guide che la Provvidenza assegnò al genere umano quando lo volle redento in Cristo. Ha inteso proclamare la necessità del ritorno delle due guide al proprio distinto ufficio e che la società, sotto di esse e pet l’opera loro distinta e concorde, riprenda il retto cammino che conduce alla felicità terrena e alla beatitudine celeste (raffigurate nel. Paradiso terrestre e nel Paradiso, celeste), secondo i due fini posti da Dio alla vita umana. Ha inteso annunziare che il ripristino delle due distinte guide nella pienezza, ciascuna, dei propri e distinti uffici è prossimo; per opera d’un uomo a ciò straordinariamente destinato dalla Provvidenza (raffigurato nel Veltro e nel DUX), il quale caccerà via dal mondo la cupidigia (la lupa), corruttrice della vita famigliare e civile e politica d’ogni ceto sociale, e corruttrice della stessa Chiesa di Cristo, e anzi soprattutto di essa, ne’ suoi organi e ne’ suoi capi.
Questa idea, e dei mali del mondo e della loro causa, fattasi sentimento di dolore e amore, e speranza e fede nella divina bontà, permea senza sforzo la potente fantasia: e ben lungi dal rallentarne l’impeto creativo o da intorbidarne l’espressione, ne rafforza anzi la virtù poetica e ne illumina di luce più viva le immagini, e trasporta tutto su di un piano più elevato e più efficace all’alto fine; e muove il poeta-vate, presso al termine della grande opera, a dire, con sicura coscienza del proprio merito senza iattanza,

«Con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta; ed in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello».
(Par., XXV, 7-9)

Definita e considerata cost, l’allegoria fa corpo con la poesia; e viene a costituire, per così dire, l’anima e il succo del poema. Con che non si dice, e non si vuole intendere che Dante, nel corso del suo lavoro, fosse ossessionato dal pensiero di porla presente ed operante in ogni singolo episodio o discorso né che, conseguentemente, al lettore incomba l’obbligo di andarla appostando e scovando per ogni dove. E anche se qualche complessa figurazione simbolica ci invita a ricercare e a penetrate oltre la lettera, non dobbiamo, neppure in questi casi, abbandonarci alle nostre più o meno sottili esercitazioni d’ingegno dimenticando quello ch’è sempre l’essenziale, la poesia; e gioverà anzi contentarsi di arrivare a scoprire, se e in quanto esistano i legami che congiungono siffatte figurazioni a quella che sola può dirsi l’allegoria fondamentale. D’altronde, neppur bisogna credere che, in un’opera così vasta, non possano esserci parti opache o perché troppo strettamente legate a dottrine e pregiudizi ormai superati o perché la fantasia non è riuscita a fare entrare nell’onda dell’ispirazione certi elementi culturali o morali.
Quello che fu l’intendimento più alto del poeta, ripeto, si fonde senza sforzo e senza lasciar residui nel vivo fuoco della poesia; e insieme con esso, e in indiscutibile unità con esso, nelle linee della costruzione poetica entrano e si fondono gli altri elementi ch'egli vi fa confluire dagli eventi della propria vita e del suo tempo, e dalla storia prossima e remota di Firenze e d’altrove, e da tutto ciò che fu oggetto del suo interesse o amore od odio. Al fondo della costruzione egli ha addirittura posto la storia del proprio personale smarrimento e dei vani tentativi da lui con le sole sue forze fatti per ritornare su la via retta, e degli impedimenti che si sono opposti, e della Grazia intervenuta a trarlo in salvo e farlo «puro e disposto a salire a le stelle» e degno, infine, della visione di Dio e della Incarnazione redentrice. Anche se rappresentata per via di figure (la selva, le tre fiere, Virgilio, Beatrice, Paradiso terrestre, Paradiso celeste) questa storia fa parte, ripeto, del senso letterale del poema, ed è errore considerarle come allegorie e, peggio, come l’allegoria fondamentale. Nell’ambito dell’allegoria — e diciamola pure allegoria iniziale perché ci è data dai primi due canti presso che tutta o almeno nelle sue linee essenziali — si entra solo in quanto il poeta ha voluto adombrare in sé stesso la società cristiana del suo tempo, e Virgilio e Beatrice assumono il significato dell’autorità imperiale e dell'autorità pontificia, le quali, l’una con gli argomenti della scienza umana e l’altra con gl’insegnamenti della verità rivelata, debbono guidare gli uomini per la strada «del mondo» e «di Dio» rispettivamente alla felicità temporale ed all’eterna.

Rivelazione e, traverso essa, insegnamento: che comprendono «e cielo e terra», ciò ch’ è stato e ciò che sarà, storia individuale e dell’umanità; sì che venivano a trovarvi loro luogo naturalmente quegli alti problemi di scienza che avevano affaticato e affaticavano ancora la mente del poeta e quante curiosità si erano svegliate nel suo spirito durante il corso della vita, specialmente quando si era profondato, a conforto, nella meditazione dei misteri della natura e della fede, al di là e al di sopra della storia degli uomini. La viva fiamma della poesia investiva cotesti problemi per trasformarli, anch'essi, in elementi della costruzione fantastica: e pur quando il calore dell’inspirazione non riuscì a vincere la frigidità intrinseca di certe dottrine, noi sentiamo che sono state investite dal solo lato possibile di poesia, e che nella costruzione non ci stanno come dati di mera speculazione intellettuale ma ci vivono come sentimenti che fanno soffrire o sgomentano e esaltano, e, per così dire, come catarsi della implacabile volontà di sempre nuove e ulteriori verità.
Così, ad esempio, si spiega il fervore con che torna a proporsi la questione delle macchie lunari: che nella Commedia è riportata e congiunta a quella più alta delle influenze celesti sul mondo della Materia; mentre nel Convivio era rimasta una questione semplicemente di fisica. Così s'intende come l’assillante problema del limite posto da Dio alla conoscenza umana possa avere inspirato l'alta poesia dell’episodio di Ulisse: al quale Dante fa ben dire che il «volo» verso l’isola del Paradiso terrestre fu «folle»; ma ne ammira e n’esalta l’aspirazione di ampliare e approfondire le proprie conoscenze connaturata nell’anima umana, e ne glorifica l’ardire eroico ‘onde cercò d’appagarla. Il cristiano impone, sì, tregua e limite e silenzio ai perché ostinatamente ripullulanti dalla inesauribile curiosità della ragione; ma egli non lo nasconde questo ripullulare, e lo manifesta in parole che mostrano la viva sofferenza che la curiosità non sodisfatta gli ha dato e gli dà. Si ricordi: «solvetemi, spirando, il gran digiuno / che lungamente m’ ha tenuto Li fame, /non trovandoli in terra cibo alcuno», a proposito della giustizia divina , su la quale più altre volte ha portato il discorso. Si ricordi la insistenza sul mistero della predestinazione; e non per «sottolineare la difficoltà del problema, ma proprio per segno del vano ardore con che se l’è posto più volte invano .

Più intimamente e più direttamente che questi elementi dottrinali confluivano e si connettevano alla trama e all’alto intendimento del poema i casi della vita del poeta e la storia de’ suoi tempi, ch’egli aveva appassionatamente vissuta e sempre viveva, e la storia dei tempi passati, ch’egli sentiva come preparazione o contrapposto al mondo contemporaneo. Gli avvenimenti e gli affetti che i suoi incontri con le anime dei tre regni richiamano e provocano, le ammirazioni e le condanne, i crucci e la gratitudine, i piacevoli ricordi e le tristi memorie, le umane compiacenze e gli amari rimpianti, i problemi d’umanità e quelli morali e politici e religiosi che l'esperienza personale e la cultura acquisita propongono alla coscienza — tutto questo è sorgente di vera poesia, anche per il gusto moderno; e costituisce la novità e la bellezza e la grandiosità della Commedia: dove, come ben vide il Foscolo, il protagonista è Dante stesso, sia nell’azione generale sia nei singoli episodi.
Di quanto viva esperienza vibra l’episodio di Francesca! La mente del poeta tocca il fondo misterioso dov’è nascosta la impercettibile linea che divide spesso il bene dal male. Quel purissimo amore che «s’apprende al cor gentile», l’amore del ‘saggio ’ Guinizelli e del ‘dolce stil novo’, l’amore che Dante stesso aveva celebrato come principio d’ogni virtuosa operazione, può pure, insensibilmente, per un nulla, per la lettura d’un libro, trascorrere in affetto peccaminoso! E ne sorge il problema: come la creatura razionale, «per volar su nata», possa cadere, e talora senza remissione, per disposizioni date dalla natura stessa.
Così nell’episodio di Farinata si rispecchia la coscienza del cittadino innamorato della sua città; e con la esaltazione dell’amor patrio sui sentimenti partigiani di vendetta s’accompagna e s’unisce un alto sentimento di giustizia umana. La reverenza sempre professata verso una generazione non molto lontana nel tempo ma già trasfigurata in una luce leggendaria d’eroismo e di poesia non impedisce che s’apra intera la franchezza di Dante nobile e ch’egli con austera fermezza affermi la tradizione familiare e la propria passione di parte guelfa: ma l’avere Farinata, nel caldo della vittoria e della vendetta e della suggestione comune, saputo imporre freno a tutti i sentimenti di violenza e far fronte sùbito ai suoi commilitoni, egli solo contro tutti, questo è sentito tale atto di magnanimità e d’amore da far perdonare qualsiasi errore precedente che abbia recato danno a Firenze e da far ritenere opera di giustizia, e desiderare apertamente, che gli Uberti siano pubblicamente riaccolti nel numero dei buoni cittadini. È verità grande; ed è sentimento non frequentissimo neppure oggi: che l’odio di fazione impedisce la giustizia e la pace, e, quindi, l’avanzare civile dell’intera comunità.
La figura di Ulisse proietta nella lontananza del mito la magnanima sete di conoscenza che Dante ha pur sentita tante volte; e che, anche frenata e magari condannata in nome del religioso ossequio onde il credente accetta il limite posto dalla Provvidenza all’umano sapere, pur tuttavia lo commuove d’ammirazione per quanto di eroico è implicito in ogni anche «folle» ardimento dell’intelletto umano. «Natural sete» anche la scienza; e «ultima perfezione de la nostra anima» (Conv., I i 9 e 1).
Con affettuosa reverenza è disegnata la paterna figura di ser Brunetto, che al poeta «nel mondo ad ora ad ora» insegnava «come l’uom s’eterna»; con sentimento di dolce amicizia è protratto a lungo il colloquio con Forese e intessuto di ricordi confidenti e di velati rimorsi, e commosso di dolci pensieri vòlti alla vedova di Forese che «con suoi prieghi devoti» ha ottenuto ch'egli non sostasse nell’Antipurgatorio e alla sorella Piccarda, che, pur essendo stata tratta di convento a forza, è tra i beati del Paradiso. Dall’orgoglioso Filippo Argenti al bestiale Vanni Fucci e a Bocca degli Abati traditore politico sono parecchie le figure che l’antipatia o l’odio o lo spregio fa scolpire al poeta nell’Inferno potentemente vive: così come si rivelano profondamente sentiti nella propria esperienza certi fremiti e certe sofferenze ch’egli presta altrui in rapidi scorci; il «tremare per ogni vena» al superbo Provenzano, il «mendicare a frusto a frusto» al buon Romeo.
Ma a che riandare singoli episodi? In tutti è riflesso, e trasformato in viva luce di poesia, l’uno o l’altro aspetto dell’anima di Dante. Affetti, memorie, cultura, meditazioni, in una parola tutto il suo vasto e complesso mondo interiore, sentimentale e intellettuale, egli fa confluire nel poema: e ne costituisce la ‘lettera’. A questa è naturale che si volga soprattutto la nostra attenzione: anche se, a voler comprendere l’opera nella sua pienezza, non dobbiamo né possiamo trascurare quell’ insieme di elementi dottrinali e simbolici e retorici che, nell’intenzione del cittadino e del cristiano congiunti al poeta, rispondono piuttosto al fine pratico di muovere la mente e la volontà dei contemporanei a quella rigenerazione morale e civile, politica e religiosa, cui egli intendeva. Per quanto legato al suo tempo; anche questo insieme è pur manifestazione spontanea d’un medesimo genio poetico, e parte integrale d’uno stesso capolavoro: ed ha un suo valore espressivo, oltre che indica in quali «grotte» l’ingegno poetico acquistò quell’«habitus scientiarum» che Dante trattatista riteneva necessaria condizione a far alta poesia (De vulg. EI., II IV 10): quella cultura, cioè, che dalla sua stessa coordinata ampiezza riceve la capacità di comporsi a sintesi e di farsi, così, sentimento e fantasia. Soltanto che occorre non sopravalutarne l’importanza di fronte alla vastissima tela di fatti e immaginazioni e affetti e drammi che si svolge attraverso le tre cantiche con arte eterna; e occorre distinguere, ripeto, quanto appartiene veramente alla ‘allegoria’ e quanto è ‘lettera’.

A intendere il rapporto che intercede tra la «lettera» e la «allegoria», e l’importanza fondamentale che la «lettera» mantiene sempre rispetto alla «allegoria», niente può servite meglio che il considerare più particolarmente i due personaggi che hanno, accanto al poeta, una parte più continua nell’azione e la preminente nell’allegoria insita nel concepimento stesso del poema: Virgilio e Beatrice.
La giovane gentildonna fiorentina e l’antico poeta latino non sono concepiti come simboli di idee o di principi astratti; bensì prendono vita, nella creazione artistica, come persone reali; e soltanto nell’alone di luce che si diffonde da questa loro salda realtà si viene a profilare il significato ch’essi assumono, attraverso l’interpretazione allegorica, in rapporto con il carattere di rivelazione e di profezia del poema.
L’una e l’altro dànno modo a Dante di congiungere e di conciliare coll’alto fine generale due altri intendimenti: che vengono raggiunti in pieno, non già per quello che Beatrice e Virgilio rappresentano allegoricamente ma proprio per i loro moti di vita umana personali significati col nudo linguaggio delle parole prese nel loro senso corrente o con modi tropologici e parabolici, ossia per ciò che è «lettera». Introducendo Beatrice, egli scioglie il voto fatto nella chiusa della Vita nova, di dire di lei «quello che mai non fue detto d’alcuna»: nella figura di Virgilio dà forma ed espressione a quello che fu l’altro suo grande amore in tutta la vita, l’amore del sapere; pet cui poteva ammirare, attraverso l’opera di lui, quanto di dottrina aveva saputo raggiungere l’antichità e celebrare la potenza dell’intelletto umano anche fuori dal lume della rivelazione divina. L'amore che aveva inspirato le rime, conservate poi nel giovanile «libello», e l’amore della scienza, che figurandolo nella «Donna gentile» del Convivio aveva quasi posto in antitesi con quello, sono nella Commedia conciliati e come fusi col fine e nel fine, non più di carattere personale, che il poeta si proponeva: la «Donna gentile» cede il posto a Virgilio; e Beatrice e Virgilio, nell’atto stesso in cui sono elevati a simboli di altissime idee, e di sovrane autorità, acquistano, dalla ricreazione fantastica, tutte le molteplici doti di umanità vivente.
Proprio qui nel poema — più che nel giovanile libretto in cui i suoi contorni di donna sfumano quasi in quelli dell’«angiola giovanissima» — Beatrice ci appare con chiari e saldi tratti di persona reale, pienamente determinata in ogni suo atto e sentimento ed in ogni menomo moto dell’anima. Il manto teologale non le pesa affatto sulle spalle: meglio che manto, è velo attraverso il quale mantengono intero il loro risalto, se pur non vogliam dire che ne acquistino uno maggiore, le delicate linee della figura femminile.
I sostenitori della realtà storica di Beatrice troppo hanno concesso agli allegoristi, forse per renderli meglio disposti a consentire sul punto fondamentale della loro tesi; o fors’anche, tutti intesi a ciò che meglio potesse giovare alla loro opinione, usarono poca prudenza nel determinare il significato allegorico della donna beata; e soprattutto adoperarono talvolta parole capaci di ingenerare equivoco, in quanto esprimono soltanto con pericolosa approssimazione la verità. Il parlar di ‘trasfigurazione’, di ‘divinizzazione’ di Beatrice; il dir che ella, nella Commedia, presenta due aspetti, l'umano e il divino, il caduco e l’eterno; il dir che essa ha in cielo ‘una ‘funzione altissima’, che è una ‘potenza divina’ individuata nell’anima che fu al mondo l’‘angiola giovanissima’, ecc. ha anche aperto la via ad erronee interpretazioni. Fra l’altro, ha portato ad affermare che Beatrice si viene sempre più distaccando dalla realtà, dalla vita, per perdersi nelle trascendenze simboliche del poema: mentre è vero proprio il contrario. Come la Laura del Petrarca, così anche Beatrice, dopo morta, è più viva di prima. Non già che non cerchi di distaccar sempre più l’anima del poeta dagli affetti terreni: questo, naturalmente, ella vuole più che mai; ma non vuole, con ciò, straniarlo dalla vita. La quale non è tutta vani allettamenti del senso, o piaceri mondani: v’ha, anche in terra, una vita dello spirito; e questa Beatrice si studia con ogni mezzo di ravvivare nel suo «amico». Nel più attivo interessamento per tutto ciò che concerne la salute spirituale e nella sua continua trepidazione di donna beata per lui che vive ancora la pericolosa vita del mondo , e in quell’affetto, sia pure più di sorella e di madre che d’ innamorata, per l’uomo ancora smarrito dietro false immagini di bene, v’ è qualche cosa di più compiutamente vivo che nell’atteggiamento della ‘gentilissima’ verso il giovane delle rime giovanili e della Vita nuova. Allora la gentildonna fiorentina, per quanto riguardava Dante, era viva solo per gli effetti che, nella propria almeno apparente impassibilità, ella operava su di lui con lo sguardo e col saluto: resi vani, ora, dalla morte i riserbi verecondi, Beatrice può corrispondere, in visione, col suo fedele, e discendere in suo soccorso, e rimproverarlo, e farsi sua guida e maestra amorosa. E dico Beatrice; quella stessa che, in terra, mostrava «gli occhi giovinetti a lui». Laura morta confessa al Petrarca il suo amore : Beatrice resta, anche dopo morta, la donna che mena altrui «in dritta parte volto»; ma le dimostrazioni d’affetto e l’azione sua nel celeste viaggio non hanno nulla da invidiare alle confessioni di Laura nelle visioni e nei sogni del suo cantore.
D’altra parte, nella «mirabile visione» cui Dante accenna chiudendo la Vita nuova, Beatrice gli apparve forse diversa da quella che gli era apparsa fino allora? Non è ella, quivi, una creatura umana privilegiata dalla Grazia fin dal suo nascere, e divenuta poi uno degli spiriti più eletti del Paradiso? E nel «libello», composto dopo quella visione, ha ella forse tratti simbolici, come taluno ha creduto e crede? No. Beatrice è, sostanzialmente, nella visione, quella stessa che era prima: una donna lodata e glorificata come mai alcuna fu da un poeta. Ne abbiamo la conferma nel Convivio: dove riman donna, e niente più che donna, dinanzi alla ‘gentile’ che v'è assunta a simbolo della filosofia. Ora, se sappiamo e vogliamo distinguere le persone reali dalle cose e dalle idee che son chiamate a simboleggiare, Beatrice che nell’ Empireo siede con «l'antica Rachele» e con le altre donne beate non è personaggio, in sé, meno reale di Virgilio che conversa con Omero e con Aristotile e con gli altri spiriti magni dell’antichità nel nobile castello del Limbo; né meno reale dello stesso Dante, cittadino fiorentino di Porta san Piero, «exul immeritus», a cui dalla Bontà divina è concessa, per salute dell’umanità traviata, quella medesima grazia che fu già concessa a Enea e a san Paolo.
Che il trono assegnatole in cielo sia così alto potrà parere un’esagerazione; e un’anima pia potrebbe perfino scandalizzarsene come d’immaginazione troppo ardita e sconveniente. Ma il fatto è quello: né valgono a cancellarlo quante sottili indagini si sien fatte o si vogliano fare sul significato allegorico che il poeta possa avere appiccicato ad altri personaggi storici che han parte nell'azione (Dante stesso, Virgilio, Catone, Stazio ecc.). In Paradiso, vicina ad Eva e a Rachele, a Sara e alle altre grandi donne dell’antico e del nuovo Testamento, c'è proprio Beatrice, la giovane gentildonna fiorentina, non la libertà umana, né la teologia, né l’autorità ecclesiastica o altro che si sia. C’ è Beatrice sul suo trono di gloria; come in altra parte della «candida rosa» v'è, per disegno e volontà del poeta, già preparato l'altissimo seggio dove

Sederà l’alma, che fia giù agosta,
De l’alto Arrigo...
(Par., XXX, 133 ss.).

È la glorificazione promessa. Non molto dopo la morte della «gentilissima», levandosi fino al cielo il pensiero del poeta vede «ne la qualitade di costei» cosa superiore al comprendere del proprio intelletto («con ciò sia cosa che lo nostro intelletto s’abbia a quelle benedette anime sì come l’occhio debole a lo sole»): ma insomma, era un'anima, l’anima della sua donna che a lui si manifestava «per sua graziosa revelazione» (Conv., II VII 6); e non era un concetto astratto, non un personaggio allegorico. E tale, ‘anima ’ e non ‘concetto’, egli la vede beata e la contempla commosso tra altre anime beate quando gli fu concesso, per eccezionale grazia divina, di salire sino all’ Empireo.
Che durante l’ascensione per i nove cieli, dove appaiono a Dante distribuiti in gruppi le varie specie di beati, Beatrice mostri quella dottrina per cui è creduta la personificazione della teologia o della scienza rivelata, non è cosa che sconvenga alla sua condizione di beata; ché, in quanto beata, può mirare nella Somma Verità e vedervi in proporzione dei propri meriti e della Grazia ad essi aggiunta, ch’è somma. Tutto ciò che opera nella ‘lettera’ del poema le si conviene come a persona «da carne a spirito salita»; e che, poi, per quel proposito di dare all’opera un senso che trascenda il senso letterale, al modo che ha chiamato Virgilio a simboleggiare l’umana sapienza Dante abbia voluto in Beatrice ‘simboleggiare la scienza delle cose divine appare trapasso naturale e giustificato anche per il fatto che ella, per la sua condizione di beata, sa quello che Virgilio, anima del Limbo, e Dante, ancora della milizia terrena, non possono sapere. Magari potrà anche ammettersi che sotto la figura di Beatrice si celi un altro più ampio o più preciso senso allegorico: ma quando all’invenzione poetica della ‘lettera’ si sostituiscano i concetti dell’allegoria, non si può più parlare della «gentilissima» fiorentina né dell’esaltazione di lei come intendimento del poema; alla stessa maniera che non è più da parlare né di Dante cittadino di Firenze né di Virgilio poeta di Roma, né della se va né del paradiso terrestre o di quello celeste. Allora bisogna parlare della umanità traviata, della necessità ch’essa sia rimessa sulle vie provvidenziali «del mondo e di Deo» e torni ad esser guidata alla, felicità terrena dall’autorità imperiale, coi lumi della ragione e della filosofia, e alla beatitudine eterna dalla Chiesa, con gl’insegnamenti della Verità rivelata e della teologia. Insomma, ripetiamolo ancora, non bisogna confondere il senso tropologico, che rientra nella ‘lettera’, con la ‘allegoria’ vera e propria: sono, sì, l'una congiunta all’altra; ma son da tenersi ben distinte, e come su piani di ‘pensiero distinti.
Che Beatrice ci si presenti talvolta e parli o agisca in momenti od episodi i quali, meglio che per la esaltazione della giovane donna fiorentina o per l’ufficio a lei assegnato di guidare Dante attraverso i cieli, paiono immaginati per altro fine e in funzione di qua che verità cui il poeta vuol dare forma simbolica, è cosa che, i per sé, possiamo spiegarci. Ma occorrerà ancora domandarci se quei ca menti od episodi non abbiano, anch'essi, qualche legame con l’intendimento della glorificazione. Così, per esempio, in ciò che ante immagina di vedere nel paradiso terrestre è evidente il proposito di richiamare alla nostra mente vicende del genere umano e de e provvidenziali istituzioni ordinate a sua guida e di annunciare l’immancabile rimedio divino all’avvenuto tralignamento; e la straordinaria processione coi candelabri e i seniori e gli animali e il caro e il grifone è certo escogitata a dar solennità alla profezia, a quale per importanza, trascende il fatto della discesa di Beatrice incontro al suo fedele. Ma resta vero che tutto ciò anticipa e accompagna l’apparizione e l’azione della «gentilissima»; e riesce, quindi, a solenne ricevimento e a glorificazione di lei. Il che può sembrare, nell’ordine logico, una esagerazione; ma non parrà sconveniente, se si pensi quale alto trono nella rosa celeste ella, per i suoi meriti e per l'abbondanza della Grazia divina, secondo la immaginazione del poeta, occupi.
Se Dante avesse avuto di mira soltanto o soprattutto l’allegoria, quanti fra gli spiriti beati o fra i santi meglio e più convenientemente che Beatrice gli potevano apparire atti a rappresentare gli alti concetti che la sua mente idoleggiava! Ma soprattutto poro mentre gli faceva concepire una grande opera per la promessa glorificazione, la forza irresistibile dell’ ispirazione lo portava, quasi istintivamente, a giovarsi, per tal fine, di tutto il proprio mondo spirituale: così che, rapportandolo a lei, egli poté nella figura di lei insieme esaltare il più puro amore della giovinezza e riassumere il frutto delle speculazioni che avevan dato conforto all’intelletto e delle meditazioni suggerite dalle dure vicende della vita e dallo spettacolo dei mali ond’erano affiitte Firenze e l’Italia e la cristianità; e nella profezia del «messo di Dio», ch’ella, vedendo in Dio, vede vicino, poté trovar quiete all’anima di cittadino il quale vuole e spera e affretta che si ripristini fra gli uomini quel bene operare inspirato a giustizia e pace, ch'egli crede fermamente voluto dal Redentore, che ne restituì la possibilità.
Non diverse riflessioni suggerisce il personaggio di Virgilio. Altri grandi dell’antichità si sarebbero prestati anche meglio del poeta latino ad esser scelti a rappresentare la scienza umana; e primo fra tutti il vero «maestro e duca della ragione umana» , il «maestro di color che sanno»; Aristotile. Ma per Dante il cantore di Enea era ben più che lo Stagirita o qualsivoglia altro sapiente antico o moderno: era il poeta studiato e ammirato e amato sin da quando si era, nell'anima giovinetta, destato il senso e il desiderio e l’ambizione dell’arte. E se la prima impressione quando, nel ruinare di nuovo verso la selva, «dinanzi agli occhi gli si fu offerto» e gli si rivelò, fu di lieta grande sorpresa, da questa commossa meraviglia grande ben presto, subito, si sviluppano, reverenti e confidenti ad un tempo, i più gentili sentimenti del cuore umano. Virgilio è, sì, nel viaggio sempre la guida e il maestro: ma non appare mai freddo arido pedagogo, impacciato in una sua toga dottorale, che imponga soggezione e arresti o spenga ogni ingenuo impulso di affetto. Di evidente vivissima umanità sin dal suo primo apparire, diverrà «dolcissimo padre» che provvede e prevede e ammonisce e conforta con tutta tenerezza, e con vigile affettuosa cura penetra e intuisce pensieri e impulsi del trasmutabile straordinario alunno. Dante al pari de’ suoi contemporanei conosce Virgilio come «il savio gentil che tutto seppe»: ma, egli, in lui ha veduto e sentito soprattutto l’uomo; l’uomo che ha pietà degl’infelici, che compatisce alla fragilità ch’è pur nei buoni, che sdegna apertamente ogni bassezza morale o voglia volgare, che ammira tutto ciò che esalta l’umana natura; ne ha fatto, insomma, un personaggio vivo, a cui la condizione stessa in cui si trova nel mondo ultraterreno dif. fonde intorno un’aura di simpatia. Se lo studioso, lo scrittore, l’Italiano lo esalta come «divinus poeta noster» e gloria d’Italia e cantore dell’Impero, e lo fa agire come personaggio storico al quale tutta l’umanità s’interessa e che nel mondo degli spiriti salvi conserva grati ammiratori, non è per tutto questo che Dante, quando lo cerca vicino a sé e non lo vede più, riga di lacrime le guance e, più che figlio, lì per lì neanche la presenza di Beatrice e l’improvviso divampare dell’antica fiamma temperano il doloroso colpo dell'abbandono.
Considerati in questa luce, la sola in cui si debbono collocare per penetrarne a fondo la poesia, Virgilio e Beatrice rientrano nel novero di quei personaggi che D. richiama dalla storia del passato e dalla vita del suo tempo, a popolare il mondo della sua fantasia, più vivo, per lui e anche per noi, e più vero che il mondo stesso della contingente realtà; e s'intende che ad essi egli v’abbia dato il posto più eminente, in quanto la sua mente e il suo cuore, sempre, su su per tutte le età fin dalla giovinezza, da essi trassero alimento e conforto agl’ ideali del momento e alle speranze del futuro.

Che il poeta stesso non desse soverchia importanza a tutto ciò che nella sua grande opera è allegoria, lo possiamo dedurre dalla sua Epistola a Cangrande: nella quale si limitò a dire che « Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus... Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est» (Epist., XIII 23-25); e che «omissa subtili investigatione, dicendum est breviter quod finis totius (opetis) et partis est removere viventes in hac vita de statu misere et perducere ad statum felicitatis» (XIII 39). Sicché, oltre questo ch'è l’allegoria veramente intrinseca e, per così dire, connaturata alla inspitazione e all’invenzione del poema, non bisogna credere che abbiano tanta importanza, e di per sé stante, altre speciali figurazioni simboliche da farci dimenticare che, quali si sieno le spiegazioni che di esse si dia, il valore poetico della Comedia rimane sempre il medesimo e che nella « lettera » è la vera poesia e che le figurazioni stesse interessano, in fondo, solo per l’arte onde ci appaiono immaginate e ritratte.
Guardiamo, ad esempio, la figura di Gerione. Quello che della «sozza imagine di froda» il poeta descrive da quando, obbediente al singolare richiamo di Virgilio, venne su e «a proda del burrato», sino a quando «lenta lenta» principiò a scendere, è bastante, e son pochi tratti sparsi, a farci sentire il senso anche fisico di ribrezzo e di repugnanza ch'egli provò: ma sostituite a quei particolari descrittivi il significato che voi pensate si debban loro attribuire interpretando riposte intenzioni del poeta, e vedrete come tutto si raffredda e scolorisce. Dante ha mirato a darci un’impressione fantastica, a presentare quel «fusto di serpente» e quella «faccia d’uom giusto» alla nostra operante immaginazione: e a questo noi dobbiamo badare soprattutto.
Né a fine diverso dobbiamo proporci di leggere qualche altra più vasta figurazione: come, ad esempio, la scena, così complessa e così variamente mossa, che si svolge dinanzi alla porta di Dite. Si, è vero: il poeta stesso ci invita a mirare «la dottrina che s’asconde / sotto il velame de li versi strani»; e miriamo, e scrutiamo pure a nostra posta. Ma, alla fine, sentiremo che, qualunque interpretazione di là dal senso letterale diamo di quegli elementi in moto e della scena complessiva, quel che ci prende veramente è la vivezza della rappresentazione fantastica, nella quale, ad onta d’ogni riposta intenzione, manifesta il suo pieno rigoglio la virtù creatrice del poeta. Né il nostro godimento si accresce o scema secondo che si segua una interpretazione allegorica piuttosto che un’altra o se ne escogiti una nuova.

Ricondotta così ne’ suoi giusti confini la importanza da attribuire alla interpretazione dei simboli, non vorremo tuttavia disconoscere l'utilità che pur può derivare dal definire quanto più chiaramente si possa il senso di quelle tra le figurazioni che han più stretto rapporto con la vera e propria allegoria del poema e, attraverso questa, con le idee politico-religiose che stanno al fondo della stessa inspirazione poetica. Ciò potrà aiutarci, in ogni caso, a comprendere con maggiore precisione tali idee; e questa più piena comprensione gioverà, in un modo o in un altro, a farci penetrare più addentro nelle intime ragioni della poesia.
Ad esempio di siffatte particolari indagini e del frutto che se ne può ricavare, mi piace fermarmi un po’ su due figurazioni che han dato origine a più larghi dispareri e a più ampie discussioni: quella del «carro» e della «pianta» nel Paradiso terrestre, e quella del «Veglio» descritto da Virgilio a spiegare l'origine dei fiumi infernali.
Che il carro simboleggi la Chiesa è opinione quasi generalmente accettata: tutto sta a precisare in che senso si debba qui intendere la parola chiesa e che cosa rappresentino le singole parti del «dificio santo». Anzitutto, poiché si dice e si suol dire che Beatrice è, nell’allegoria del poema, figura anche della Chiesa, a quel modo che Virgilio è figura anche dell’Impero, occorrerà distinguere, affinché la duplicità dei simboli non generi confusione. Beatrice è simbolo della Chiesa intesa come depositaria della Verità rivelata e come amministratrice, per divina istituzione, di essa Verità. Rispetto a lei, il carro è logico rappresenti qualche cosa di diverso, sia pure strettamente connesso: e tutto porta a vedere in esso la Chiesa intesa come società di fedeli, come corpo mistico o carismatico, secondo il concetto che dominò per circa un millennio dal II al XII secolo, fino a Graziano incluso . Si tratta, cioè, del ‘popolo cristiano’, della ‘cristianità’ . Visto così, ben si adattano alle varie parti del carro e alle sue trasformazioni i particolari significati simbolici che si possono loro attribuire: la Curia pontificia è il timone, la parte con la quale il carro vien guidato; le due ruote, i due ordini del chiericato, i secolari e i monaci, con le tre virtù della vita contemplativa questi e con le quattro virtù della vita attiva i secolari . Ruote e timone, Curia e chiericato, più tardi che il rimanente del popolo cristiano soggiacquero alla cupidigia dei beni terreni, anche se la negligenza del proprio ministero e le cure dell’accolto potere temporale erano state già cagione che nella società cristiana prendessero il sopravvento quegl’istinti che, per l’ infermità portata dal peccato originale, sono comuni a tutto l’uman genere: poi essi stessi, chiericato e curia pontificia, furono preda della cupidigia, e col malo esempio aggravarono la corruzione e resero più difficile il ritorno a sana dirittura di vita.

Maggior varietà di interpretazioni ha sortito la pianta a cui il «grifone» lega il «carro». Con particolare dottrina furono ultimamente sostenute l'opinione ch’essa rappresenti l’Impero e l’opinione che significhi invece il Diritto naturale .
Nessun dubbio, intanto, che letteralmente la pianta sia da identificare con ‘l’albero della scienza del bene e del male’; del quale così dice sant’Agostino: «Arbor.... illa non erat mala, sed appellata est scientiae dignoscendi bonum et malum, quia si post prohibitionem ex illa homo ederet, in illa erat praecepti futura transgressio, in qua homo per experimentum poenae disceret quid interesset inter obedientiae bonum et inobedientiae malum....» .
Dalla lettera passando al significato simbolico, contro la interpretazione che la pianta rappresenti la interpretazione basterà, fra le tante possibili, una obiezione fondamentale. L’albero «che prima avea le ramora sì sole» s’innova di fronde e fiori non appena il «grifone» (Cristo) ha legato ad esso il «carro»: e questo rinverdire e rifiorire sta, senza dubbio, a significare l’effetto primo della Redenzione: e come, allora, può conciliarsi col fatto che l’ Impero era già costituito prima della venuta del Redentore in terra e della istituzione della Chiesa? e come con quello ch’ è principio fondamentale della dottrina politico-religiosa di Dante, che l’Impero fu necessaria preparazione alla venuta del Redentore e all’ istituzione della Chiesa? .
L'altra interpretazione, per cui l’albero sarebbe lo ius naturale ola naturalis iustitia, è in manifesto insanabile contrasto col fatto della proibizione divina. Come poteva il Signore proibire all'uomo di fare ciò che la sua natura stessa lo portava a fare, e ch’egli faceva senza possibilità d’errore, dacché, pur mo’ creato, egli era ‘rectus’, dotato di quella che si dice la ‘iustitia originalis’? Il precetto divino, in queste condizioni, non poteva essere di non seguire l’ordine della natura, ch’era retta ; ma sì di non toccare ciò che il Creatore voleva riservato a sé: della mirabile pianta è detto appunto — con solennità, da Beatrice, e perché Dante, ponendovi ben mente, si ricordi di manifestarlo al mondo — che il Signore «solo a l’uso suo la creò santa» (Purg., XXXIII 60). Ora, questa inviolabile e intangibile potestà, che il Creatore riservò a sé stesso, «solo a l’uso suo», non può essere altra che il governo dell’universo secondo l’ordine e il fine ch’egli, creandole, pose in tutte le create cose e fra loro; governo che non può esser altro che l’esecuzione della provvidenza del Creatore, ad un fine ch’è fuori dell’universo ed è nel Creatore stesso; governo che s’identifica con la giustizia , con la volontà , con la legge divina. Questa è la legge suprema che governa l'universo; e da lei deriva, su di lei riposa ed a lei si ricongiunge ogni autorità terrena: l’aquila discende dal cielo sempre lungo l’‘albero’; il grifone all’albero, e con un ramo di esso, lega il timone del carro.
Può sembrare che, in fondo, tutto torni bene anche se si pone la pianta come simbolo della ‘legge naturale’, per la corrispondenza che vi è tra questa e la ‘legge divina’ . Ma la cerchia della legge divina è più ampia assai della cerchia in cui si stende la legge naturale: giacché la ‘legge divina’ comprende il governo, non pur del mondo e dei fini della natura, ma dell’universo e dei fini soprannaturali: e ciò che per questo governo si richiede, solo Dio Creatore infinito e onnipotente, lo sa e può, né può arrivare a intenderlo l’uomo nel limite finito di creatura . La legge naturale fu posta a tutte quante le cose che fanno parte della natura e all’uomo stesso, in quanto corpo e animale: ma la legge divina fu posta espressamente soltanto ad Adamo in quanto, egli solo fra le creature terrene essendo dotato di ragione e di libero arbitrio, era il solo che potesse non seguirla; che avesse la possibilità della disubbidienza . Difatti Adamo peccò, dacché Eva, per la suggestione del serpente,

«là dove ubidia la terra la terra e il cielo,
femmina sola e pur testè formata,
non sofferse di star sotto alcun velo»
(Purg., XXIX, 25-27).

S’intende, così, la natura e la gravità della colpa: la tentazione del serpente «Sarete come Dii»; e l’offesa recata a Dio con l’inosservanza del divieto. La disubbidienza del nostro primo padre, infatti, implica la presunzione di rifiutare il governo divino e di governarsi da sé medesimo, sostituendosi al Creatore e alla sua provvidenza . Così, si fa anche chiaro perché, dopo il peccato di Adamo, l’albero secchi: la disubbidienza turbò, nel mondo, l’ordine posto da Dio, e la sua legge e la sua volontà. E s’intende perché resti dispogliato fino alla Redenzione e alla istituzione della Chiesa; né rinverdisca e rifiorisca fino a che l’opera del Redentore non abbia ristabilito l’ordine voluto dalla divina Provvidenza.
Ben diversamente da Adamo procede Cristo in tutta la sua vita terrena: rispetta sempre e predica la legge di Dio; tentato dal demonio, risponde richiamandosi al primo comandamento della legge antica (Matteo, IV 8-10); e come uomo si mostra sempre soggetto al Padre , del quale vuole che si compia, in sé e nel mondo, sempre intera, la volontà . Quindi il grido che si leva dalla processione disposta intorno all’albero:

«Beato se’, grifon, che non discindi
col becco d’esto legno dolce al gusto»
(Purg., XXXII, 43-44);

e quindi la conformità del proprio volere col valore divino, nella quale consiste l’essenza della beatitudine che angeli e anime elette godono nel Paradiso celeste:

«E ’n sua volontade è nostra pace»
(Par., III, 85),

«Quel che vole Dio e noi volemo»
(Par., XX, 138),

E quindi anche il pieno significato della risposta del grifone:

«sì si conserva il seme d’ogni giusto»
(Purg., XXXII, 48);

della quale chi interpretasse «ogni giusto» ogni giustizia umana andrebbe fuor di strada: ché, in questo dramma finale del Paradiso terrestre, tutto s'appunta direttamente alla vita eterna e al conseguimento di questa si riferisce e congiunge; i rimproveri di Beatrice a Dante per aver abbandonato la via che conduce a Dio, gli effetti della colpa di Adamo e della Redenzione, le vicende del carro. E quindi, ancora, il significato del legare il timone alla pianta: se ogni potestà terrena deriva e dipende da Dio, dalla sua volontà e dalla sua legge, tanto più l’autorità di coloro che sono preposti come guida alla società cristiana nell’ordine spirituale.
‘Pianta’ e ‘Carro’ hanno, accanto a Beatrice e all'Aquila, mani- festo riferimento all’allegoria fondamentale del poema: e a questa è strettamente connessa la grandiosa scena di cui sono il centro. La quale ha suo luogo naturale il Paradiso terrestre: ché qui appunto si manifestò dapprima la legge divina nei riguardi dell’uomo; e qui l’uomo fu per brevi ore innocente e felice; e qui peccò e con la sua colpa rese necessari i rimedi che la misericordia divina apprestò per la sua salvezza; e qui, più che altrove, appaiono palesi gli stretti legami fra la vita terrena e la vita celeste. E qui, anche, più e meglio che altrove, era opportuno richiamare la legge divina alla memoria di chi dovrebbe osservarla per primo e insegnarla altrui, anzi manifestamente vi contravviene; e che Beatrice ordinasse a Dante:

«.... in pro del mondo che mal vive
al carro tieni or gli occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa’ che tu scrive»
(Purg., XXXII, 103-105).

Veniamo al Veglio di Creta. Questa strana figura, che ben risponde al gusto del tempo, fa parte di quel meraviglioso in cui rientrano anche Letè ed Eunoè: un meraviglioso di cui Dante si compiace, senza tuttavia abusarne. Il preciso significato del simbolo bisogna confessare che non riesce né interamente chiaro né sicuro. Lasciano insodisfatti tanto le sottili disquisizioni con cui il Bottagisio cerca di dimostrare che si tratta di un simbolo meramente politico, quanto la copiosa dottrina e gli acuti ragionamenti coi quali il Busnelli, escludendo in modo assoluto il significato politico, ne fa un simbolo puramente morale, «l’uomo corrotto dopo il peccato originale» .
Questa seconda interpretazione potrebbe tuttavia avvicinarsi di più al pensiero del poeta: quando però non si fosse così intransigenti nell’escludere ogni significazione politica; giacché per Dante il raddrizzamento e la salvezza della società cristiana non possono venire che dalla cooperazione delle due guide (Impero e Chiesa). Egli vedeva infatti i suoi contemporanei smarriti e sviati per la mancanza appunto di tutte e due, vacando «nella presenza del Figliuol di Dio» (Par. XXVII, 24) non meno la cattedra di san Pietro che il soglio imperiale voluto usurpare da pontefici indegni, e la società abbandonata in balia delle male tendenze indotte nella natura umana dalla colpa originale e rafforzate dalle colpe attuali. Il Veglio, pertanto, potrebbe essere figura del vetus homo di san Paolo (Rom., VI 6): a cui la Redenzione ha dato, sì, di morire e di rinascere in Cristo, ma non in modo che il rimedio sia valso universalmente né una volta per sempre. La Grazia non opera se non è accompagnata dal buon volere individuale, che solo ci può acquistare merito presso Dio: onde il male, se anche in certi periodi appare attenuato, permane pur sempre sulla terra; e Dante lo vedeva più diffuso e più grave fra i suoi contemporanei, di cui ben pochi vivevano vita conforme all’ insegnamento del Redentore (Par, XXVII 127 sgg.). Questi pochi si potrebbe pensare che siano rappresentati, nel Veglio, dalla «testa di fino oro formata». Gli altri vivono vita distaccata e lontana più o meno da quell’ insegnamento (metalli via via di minor valore) e più o meno sul fallace sostegno dei beni mondani (il piede di terra cotta): onde continua il pianto, e dalle ferite che fendono tutte le membra fuor che la testa gocciano le lacrime che vanno a formare i fiumi infernali. Così fu, così è, e così sarà; sempre, quando più e quando meno: ché l’inferma natura umana, nonostante la Redenzione, non è tornata e non sarà mai più, sulla terra, in quello stato di perfezione e di originale armonia in che vissero Adamo ed Eva prima della colpa. Intanto, il Veglio tien l’occhio vòlto a Roma: qualsiasi miglioramento può venire solo dalla città destinata da Dio alla pacifica convivenza e operosamente concorde delle due supreme autorità ch’egli stabilì guide agli uomini verso i due fini loro propri, di felicità in terra e di beatitudine in cielo.
Così Dante, riprendendo il mito delle varie età della storia umana e liberamente rifoggiandolo in conformità con la sua dottrina e il suo ideale politico-religioso, avrebbe immaginato questo simbolico Veglio a significare il progressivo decadere del genere umano e, insieme, la persistente infermità indotta nella natura umana dal peccato originale, e la invitta speranza della salvezza civile e morale per opera di Roma tornata quale la volle Dio signora della giustizia e della pace in terra e guida felicemente luminosa su la strada di Dio. E si potrebbe anche cogliere un legame fra il valore simbolico del Carro e quello del Veglio: mentre il Carro con le sue trasformazioni, rappresenta la storia non dell’umanità in genere, ma soltanto della cristianità, il Veglio rappresenterebbe la società umana nella sua totalità spaziale e temporale. E in tal modo anche questa figurazione verrebbe a riconnettersi all’allegoria implicita nel poema, soprattutto per quello sguardo volto a Roma, e ci apparirebbe, anch’essa, fondamentalmente, ispirata dall’ ideale politico-religioso di Dante.

Date: 2022-09-19