Il Poema Sacro: Saggio d'una interpretazione generale della Divina Commedia: Inferno p. I e II (L. Pietrobono) [Flaminio Pellegrini]

Dati bibliografici

Autore: Flaminio Pellegrini

Tratto da: Bullettino della Società Dantesca Italiana

Numero: 22

Anno: 1915

Pagine: 14-30

Frutto d’ un nobile ingegno, che sul pensiero dantesco ha profondamente meditato, i presenti due volumi meritano la più simpatica attenzione da parte degli studiosi, anche se possano, anzi debbano a mio avviso, essere ampiamente discussi nei risultati pratici ai quali conducono. Essi preludono ad altri successivi, giacché l’A. si propone di chiarir quell’ unità «più interiore e comprensiva» che al di là del senso letterale informa di sé la Commedia, nella quale «il pensiero allegorico penetra, si ramifica e si diffonde, come i filamenti nervosi nel corpo umano. Si può non vederlo e magari trascurarlo dove esso si attenua, o dove corre isolato e fa mestieri aguzzare molto lo sguardo per scoprirlo; ma quando le fila sparse si raccolgono a formare un ganglio, da cui altre muovono per annodarsi in un ganglio più grande, e così via, non è possibile passar oltre in silenzio. Bisogna necessariamente fermarsi a mirare la dottrina nascosta sotto il velame dei versi e darne una qualche spiegazione» . Il P. prende qui in esame, per quanto giova al suo scopo, la Vita Nuova, il Convivio, il Canzoniere e si ferma a meditare sulla prima Cantica. Nei volumi promessi ulteriormente dovrà esaminare invece il Purgatorio e il Paradiso; non, per altro, con l'intenzione di rivolgersi ai soli dantisti «per i quali parecchie pagine sono affatto inutili, sì a quanti provano il desiderio di rifare con Dante il viaggio dei mondi dello spirito, in compagnia di una guida che li aiuti a scoprire la dottrina nascosta sotto le figurazioni fantastiche del Poema sacro» .
Un'opera non breve, condotta con siffatti propositi, presenta difficoltà speciali a chi voglia parlarne in succinto. L’intonazione per buona parte analitica, derivante dal fatto che l'Inferno è riassunto con singolare finezza capitolo per capitolo. costringe di necessità a passare sotto silenzio le numerose osservazioni d’esegesi minuta, che, senza costituire il vero scopo del lavoro, contribuiscono assai a renderlo interessante: e le stesse idee direttive, accennate in un luogo, sono svolte, ripetute, affinate, a misura che vengano acconcie per la spiegazione di questo o di quel passo del Poema; onde il pensiero del nuovo interprete, già sottile per indole, finisce con assumere successive sfumature, le quali mal si prestano ad essere raccolte in una formula sintetica nettamente definitiva.
Torto dei dantisti d’ogni età sarebbe, secondo il Pietrobono, quello di non aver sinora rivolta la necessaria attenzione ad una tanto fondamentale ricerca, qual è quella sopra accennata. I chiosatori più prossimi al poeta, sebbene consenzienti con lui nel considerar l’arte come maestra d'alte moralità celate sotto il velo della bellezza, si contentarono d'esprimere un loro parere le quante volte s’imbattessero in versi ed immagini d'un simbolismo al tutto evidente; ma, non preparati a tal forma superiore d'indagine da opportune meditazioni preliminari e d'insieme, indotti perciò a interpretazioni allegoriche del tutto slegate e frammentarie, nelle quali raro è il caso che si trovino consenzienti tra loro, preoccuparono le menti degli studiosi venuti dopo, generando via via confusione, sazietà, scetticismo grandi. «Così, senza addarsene, s’introdusse l'anarchia dove regnava un ordine ammirevole, e si credette di aver provveduto nel migliore dei modi alla intelligenza del poema, quando s'ebbe data la più verosimile spiegazione dei passi apertamente allegorici, punto 0 poco curandosi di ‘studiare se, e in qual misura, stessero in relazione tra loro e con il tutto» . Analoghi concetti ebbe già a svolgere con ampiezza il Flamini, parecchi anni or sono, nel preludere al primo volume de I significati reconditi della Commedia di Dante e il suo fine supremo : ma là dove quest'egregio critico, nel valutar l’importanza da attribuirsi all'esegesi tradizionale, conchiudeva limitando ragionevolmente entro giusti confini il proprio scetticismo, il Pietrobono è ben lungi dal seguirlo.
Secondo il Flamini, delle idee prevalenti al tempo del poeta i commentatori quasi coevi dovettero pur essere in qualche grado partecipi: «Per la generazione loro Dante avea scritto: da essa voleva essere inteso. È possibile che, almeno all’ ingrosso (e forse al disdegnoso poeta bastava così), non arrivassero i suoi primi spositori ad intendere secondo verità i concetti fondamentali adombrati sotto il velame? Ch’egli fallisse a quel modo nel suo intento chi vorrà credere? Dovevano passare, adunque, secento anni prima che fuori del significato letterale si cominciasse a capir qualcosa nel Poema sacro?» .
Questo rilievo di massima, evidentemente allusivo agli scritti danteschi di Giovanni Pascoli, non mancherà di riuscir formidabile anche riferito all'opera di cui stiamo parlando, quando si sappia che con quelle del nobile poeta romagnolo essa offre rapporti strettissimi, di- chiarati dal Pietrobono stesso fin nelle prime pagine della prefazione. «Dopo Dante, a cui non mi sono stancato mai di domandar consiglio e conforto, un altro solo vi è al quale devo parecchio: il Pascoli. Quantunque ci si incontri solo qua e là, e i principii da cui moviamo, e le conseguenze a cui sì giunge siano spesso diverse, e diverso in gran parte sia il metodo, pure sento che senza la sua, la mia interpretazione non sarebbe nata. I miei libri dipendono dai suoi e li sottintendono in tutti i luoghi dove siamo concordi» . In entrambi, per verità, dottrina profonda, entusiasmo fervidissimo ed espansivo, continuo lume d’inattesi raffronti, forma sempre eletta e condegna: in entrambi persino, a volte, quel certo tono d’inspirati, che il simbolo intuiscono per forza di rivelazione, prima d’averlo chiarito in virtù di ragionamenti ; ma in entrambi il difetto sostanziale d’una sottigliezza addirittura soverchia e il presupposto costante che in un’opera colossale di creazione fantastica com'è la Commedia ogni immagine, ogni espressione fin anche, sia stata da Dante concepita in quella data maniera e con quel dato giro formale proprio per suscitar nel lettore suggestioni specifiche, che insieme colleghino le diverse allegorie e valgano a costituirle in un insieme prestabilito.
Quando il Pietrobono, a giustificazione del suo procedimento, che «in cose assai piccole ma non trascurabili» trova conferma alle allegorizzazioni da lui escogitate, ricorda «le sottigliezze del Convivio e i significati molteplici annessi a una semplice parola delle sue Canzoni, nelle quali certo non avremmo potuto mai immaginare si nascondesse anche un significato allegorico» , egli commette in buona fede una grave inversione di termini. Nel Convivio un ingegno d’'acume anche superiore alla straordinaria dottrina analizza con calma, giusta i metodi della scolastica contemporanea, opere d’arte già preesistenti. Che siano creazione sua giova di certo, perché resti chiarita sotto ogni punto di vista l’allegoria sostanziale, onde fin dal loro nascimento erano state informate; ma chi oserà sostenere che quanto lo spositore sa trovar nelle canzoni del Convivio di sottosensi reconditi, tutto fosse davvero già intenzionale nell'animo del poeta, allorché concepiva quei versi? E chi, d'altro canto, può mettere in dubbio la capacità e l’attitudine da parte dell’Alighieri ad esporre, se gli fosse piaciuto, con | pari metodo e con altrettanta copia di ragioni «lo verace giudicio» d'un passo opportunamente scelto dall'Eneide o da altro libro classico qualsiasi? L’abito scientifico del tempo scaltriva a tal genere d’esercitazioni; né, per quanto seducente la chiosa allegorica fosse potuta riuscire, noi dovremmo altrimenti giudicarla, salvo un abile sforzo di scolastica, una vegetazione appariscente ma pur sempre parassitaria sovrapposta all'organismo primitivo.
Non è difficile, massime per una mente addestrata e sottile come quella del prof. Pietrobono, l'intravvedere in moltissimi tratti del poema convenienze verbali, analogie con altri passi anche sostanzialmente disgiunti. Ma sarà lecito dirle senz'altro ricercate e volute, quando ciò faccia comodo alle proprie elucubrazioni? Si potrà elevar quasi a teoria l’asserto che il Poeta «si serve delle stesse parole o delle stesse rime, come di spunti melodici annunzianti il ritornare dello stesso motivo» , allegorico ben s'intende? Se il compito fosse quello di comporre sulla Commedia una «moralisalio» a piacere, tanto più quindi pregevole quanto meglio raffinata, nulla ci sarebbe da ridire. Nostro fine invece è di spingere la «piccioletta barca» per «l'alto sale», sempre servando il solco lasciato dal «legno» del poeta: e ciò non sembra possibile, se ci facciam troppo corrivi a prestargli le ingegnosità nostre, col dire: A Dante, che era Dante, neppur questa dev'essere sfuggita. Non è già che si voglia trascurare con ciò il monito del Poeta medesimo: «Grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto veste di figura o di colore rettorico, e poscia. domandato, non sapesse denudare le sue parole di tal vesta...» . Si tratta solo di tener presente il carattere intuitivo, essenzialmente connaturato ad una grande opera d’arte, per non correre il rischio di giudicarla scritta, quasi verso per verso, sotto la soggezione e in servigio d'una predominante allegoria.
Valga qualche esempio fra tanti, a chiarire il mio asserto. Il P. sosterrà, in uno dei volumi promessi, che Matelda personifica la sapienza dell'Antico Testamento: per ora gli giova dimostrare riferibile appunto a Matelda l’oscura disputatissima frase «cui Guido vostro ebbe a disdegno» del canto X dell'Inferno . Ma come può il Cavalcanti aver avuto a disdegno Matelda? Ecco: alla stessa guisa che Matelda nella divina foresta del Paradiso terrestre precorre ed annunzia Beatrice, sapienza divina del Nuovo Testamento, così nel Cap. XXIV della Vita Nuova Giovanna, o Primavera, fa, anche qui in terra, l'ufficio di precorritrice «dell’altra meraviglia». Dall’amor di Giovanna Guido s'era veramente straniato (il disdegno è riportato così, secondo il P., al linguaggio amoroso cui di solito appartiene), come Dante c' informa nel predetto capitolo. Giovanna e Matelda sono quindi qualcosa d’assai simile; l’una fa rimembrar l’altra; e Dante non mancò di suggerircelo «quando davanti a Matelda finse rammentarsi di Proserpina, in cui certo sapeva che gli antichi avevano raffigurato la primavera, e le disse:

Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
La madre lei ed ella primavera.

«Ora.... a chi, prima e dopo di Dante, è caduto mai in mente di rassomigliare una giovinetta a Proserpina? Evidentemente il paragone è di quelli che non vengono, se non voluti, se non cercati. A qual altro fine, nel nostro caso, se non per dire a Matelda che, guardando lei, gli tornava a mente Primavera? Con tal raffronto il Poeta conseguiva due scopi: diceva il secondo nome di Matelda, e nello stesso tempo rammentava Proserpina, ossia la donna che regge nel cerchio degli eresiarchi, da non confondersi colla Proserpina del tempo in cui era innocente e non sognava di diventare una dea infernale. Il mito si prestava ottimamente agli intenti del Poeta: Proserpina, ossia la luna, ossia l'umana ragione, così può menare al cielo, di cui segna il confine, come all'inferno; ed essere o Primavera, ossia Matelda, ossia la ragione ispirata da Dio, ovvero Proserpina, ossia la faccia della donna che regge nell’ inferno, ossia il Gorgon, ossia la ragione separata da Dio. Tutto torna così a puntino ch'è difficile non ammettere nel pensiero del Poeta il fine a cui abbiamo accennato» . Ebbene, per me, dico falsa senza dubbio la ricostruzione eretica del procedimento ideale dantesco, allorché la si supponga come segue: — Il Poeta, nell'alta fantasia, vede tra

La gran variazion de’ freschi mai
[…]
Una donna soletta, che si gia
Cantando ed iscegliendo fior da fiore,

e pensa subito: Qui bisogna far intendere che questa Matelda (come sarà chiamata a suo luogo) è altresì Giovanna o Primavera. Dunque è il caso di paragonarla a Proserpina... — Anzi, l'associazione di idee per cui Dante ricorre ricercatamente al quinto libro delle Metamorfosi, lungi dal fermarsi a tal punto, si complica ancora in un successivo sforzo ingegnoso, per far sì che il vocabolo stesso «primavera», ben cognito ai lettori della Vita Nuova, possa coronare l’affettuoso invito

Vegnati voglia di trarreti avanti!

Eh, no: con tutto il rispetto che tanto merita il prof. Pietrobono, bisogna dir franco che codeste son mere illusioni, e assai dannose per giunta, allorché non di rado si trovino usate quasi chiavi di volta a sostegno d'un sistema esegetico come quello di cui sto ragionando. Non è già che Dante, nella disputata terzina, si preoccupi di rassomigliare Matelda, in via assoluta, a Proserpina: sono le circostanze d’atteggiamento e di luogo che a lui, studioso d’ Ovidio, fanno rifiorir spontaneo nella mente il quadretto delizioso

…dum Proserpina luco
Ludit, et aut violas aut candida lilia cerpit.

Che la giovine dea, rapita da Plutone, lasciasse cadere, perdesse, i fiori raccolti è immagine anch'essa prettamente ovidiana ; e l'uso di primavera in luogo di fiori, oltre ad essere ben dantesco , andrà soltanto collocato nel novero di quelle belle audacie per cui Dante, dagli stessi coetanei, fu a ragione chiamato «signor d’ogni rima».
A volerci fermare un attimo su altra figurazione consimile, nessuno potrà credere sul serio che il poeta, nel descrivere Lia, da lui veduta in sogno «andar per una landa Cogliendo fiori...», avesse in animo di farci correr col pensiero all’«orribil sabbione» del settimo cerchio infernale, per il semplice fatto che «qua in funzione di verbo e là in funzione di sostantivo, ritroviamo a rimare con landa la stessa voce ghirlanda». Noi ci contenteremo di guardare il rimario, per capacitarci che l'estrema scarsità di parole in -anda è l’unica ragione della notata coincidenza: il Pietrobono sottilizza d’antitesi e sostiene che il bosco dei suicidi e il deserto, o landa, col quale esso confina, «devono far presenti alla fantasia del lettore il Paradiso terrestre, in cui ebbe principio il dolore umano, e la gran secca dove Dio mandò Adamo dopo commessa la colpa» . Non dunque innocenti ricorsi di parole e di rime, inevitabili anche al più geniale degli uomini nel séguito d'una lunga composizione, nata in un succedersi d'anni proporzionato alla mole dell’opera; ma dappertutto un ricorrere sempre vigile d’intenzioni occulte, celate sotto le più semplici frasi; dappertutto, diciamolo, chiapperelli e lacciuoli tesi a bella posta, per far della ‘vera’ Divina Commedia un libro appena in parte accessibile a pochissimi iniziati di sei secoli dopo.
La sottigliezza elevata a sistema e portata alle ultime conseguenze anche qui, come nei libri danteschi del Pascoli, pare insomma il difetto sostanziale dell'opera, cui nuoce inoltre il partito preso di non citare, di non mai discutere, salvoché per rara eccezione, le opinioni altrui. Va bene che rimanga così evitato il rischio d'andare «all’infinito» ed anche, forse, «di far apparire Dante molto più oscuro che in realtà non sia» . Ma quando sopra un punto concreto, della massima importanza per tutto il sistema, altri abbia già costruita una dimostrazione precisa, in perfetta antitesi con quella che noi sosteniamo, non è dunque logico, e pratico essenzialmente, sforzarsi di sgomberar il terreno, avanti di mettersi in via? La ragione sarà magari dalla nostra parte. Ma chi ci segue con l'animo fortemente preoccupato da altra credenza a fatica se ne spoglierà, quando appunto non si cominci con capacitarlo del come e del perché fu tratto in errore. Orbene, il P. affaccia a pag. 106 del primo volume, e svolge con molta ampiezza nel secondo, il concetto che l’analisi delle scene cupamente tempestose dello Stige vale a farci «toccare con mano» come Dante si accingesse all'opera di scrivere il Poema «dopo la morte di Arrigo VII». Toccar con mano, s’intende, non perché qualche nuova imprescindibile ragione di fatto possa addursi a risolvere il problema della data iniziale da assegnare alla Commedia; ma perché, secondo il nostro critico, le epistole dantesche che possediamo intorno all'impresa di Arrigo «ei ripongono davanti allo stesso stato d’animo, con le stesse immagini e, perfino, con le stesse parole; sono, in breve, il commento più autentico e più eloquente alle figurazioni dello Stige, le quali, spiegate che siano, dimostrano che il Poeta ha. proiettato sullo sfondo infernale del quinto cerchio i luoghi e i fatti più salienti dell'impresa di Arrigo, per insegnare come il Veltro avrebbe vinte e debellate le resistenze che, sollevate specialmente dalla sua patria contro quell’ imperatore, avevano impedito l’avverarsi del suo sogno». Per lui «la fossa dello Stige non è che un duplicato della maledetta e sventurata fossa dell'Arno, simboleggiato nella «morta gora», seguendo la quale la barchetta di Flegias giunge alla città di Dite; l’Argenti, nell’atto di avventarsi contro il legno che porta Virgilio e Dante, rappresentanti dell'idea imperiale, significa l'opposizione ad Arrigo di Firenze e delle città a lei collegate; la madre, a cui Virgilio benedice, oltre a essere la madre di Dante, idealmente s’immedesima con Roma; il Messo del cielo, il quale viene a sbaragliare i diavoli e ad aprire la porta della città del fuoco, altro non è che una prefigurazione del Veltro; e Dite, finalmente, è dipinta con gli stessi colori, con cui è raffigurata Firenze» .
Noi, pur seguendo con simpatia il P. nei suoi confronti e nelle sottili illazioni che sa ricavarne, non possiamo dimenticar per ciò un altro sistema di critica, che impersonato recentemente dal Barbi , ha poi trovato nel Parodi il suo propugnatore più geniale e più saldo . Questi dimostrò su dati di fatto nonché su induzioni strettissime di logica e di psicologia, desunte dallo svolgimento del pensiero politico dantesco, come l’intera composizione dell'Inferno debba ritenersi anteriore all'assunzione stessa di Arrigo VII al trono imperiale. Era dunque necessario che il Pietrobono si sforzasse di scalzare le illazioni del Parodi che nessuno poté finora tacciar né di avventate né di fantastiche, prima d’appoggiarsi così su di una base che a molti, per forza, deve parere al tutto malferma. Questi molti, anche là dove il discorso del nuovo spositore riesca a sedurli, saranno condotti a inferirne che si tratta d'un raziocinio molto pericoloso, se così cospicui edifizi sa erigere sopra un terreno, che le buone regole d’arte han già fatto conoscere irrimediabilmente disadatto a porger loro l'opportuno sostegno .
Per chiudere su questo punto, dirò che le concordanze di dettato e di pensiero tra le epistole dantesche scritte in occasione della calata di Arrigo e alcuni passi dell'Inferno non son guari da reputare fantastiche o di proposito esagerate: a spiegarle, per altro, basta riflettere che epistole e versi son opera d’un autore medesimo. Qual meraviglia ch'egli improntasse della propria eccezionale originalità stilistica le une e gli altri? Non è anche lecito, al postutto, invertire le parti e supporre che Dante, di fronte alla pervicacia de’ suoi concittadini nell’attraversare i disegni di Cesare, abbia dato mano con intenzione a quella tavolozza e a quei colori, adoperati in precedenza a dipingere i perversi, malignamente riluttanti contro i voleri del Cielo?
Non ostanti le debolezze di metodo che sono stato costretto a rivelare, come almeno io le vedo, l’opera del prof. Pietrobono, ripeto, attrae ed interessa moltissimo. Il proemio (Dante e il movimento profetico medievale) presenta la Commedia come una grande profezia d'intonazione apertamente allegorica, dove «da un capo all'altro» predomina quell’idea che «si assomma in un essere misterioso, il Veltro» . Ma questi rimase aspirazione utopistica del Poeta: ma venne a tramontare con Dante l'ideale del Papato e dell’Impero, istituti che egli riteneva indefettibili e provvidenziali in sé stessi, sebben guasti per colpa «degli uomini chiamati a rappresentarli, proprio nel mentre la storia d' Italia, presa ormai tutt'altra orientazione, recava a tal concepimento un’aperta smentita. Ciò spiega, giusta il pensiero dell’A., come il significato del Veltro restasse ben presto rimpiccolito, anzi messo addirittura da canto, e i posteri andassero via via ammirando nella Commedia l’opera d’arte, senza dare nessunissima importanza all’intenzione occulta che vi è adombrata, alla necessità cioè «di una conversione morale civile e religiosa, per preparare le vie al Veltro» . Eppure la maggior opera dantesca si collega per intimi rapporti al movimento profetico dell'età immediatamente anteriore. Ed è merito del P., cheeché uno pensi delle conclusioni alle quali vuole condurci, questo suo indicare mediante un'accurata veduta d'insieme le somiglianze che corrono tra la visione dantesca e i libri apocalittici del Vecchio e del Nuovo Testamento ; quest’insistere sul fatto che Dante, anche se irreprensibile seguace del dogma, raccoglie e compone mirabilmente nel Poema gran parte di quelle «trepide speranze, di quegli esaltamenti, di quegli sdegni e di quelle visioni degli scismatici e dei santi». «Nell'insieme non somiglia a nessuno, e nondimeno si richiama a tutti. Ammise, per esempio, con i Catari, seguiti in ciò dai Gioachimiti da fra’ Dolcino e dai Valdesi, che il principio della corruzione della Chiesa datava dalla donazione di Costantino; ma non disse mai che il principio del male avesse creato il mondo o il corpo dell’uomo, né fece mai cenno del consolamentum. Non rifiutò l’obbedienza alla Chiesa, come pretendevano i Patarini, ma condannò alle fiamme dell'ottava bolgia Guido da Montefeltro, troppo ligio ai voleri di papa Bonifazio, e collocò in luogo di salvezza Manfredi, contumace. Nel culto della Roma antica risorgente a nuovi destini, e nel sostenere la distinzione tra il potere laico e lo spirituale, portò lo stesso ardore e la stessa fermezza di Arnaldo da Brescia, ma di lui tacque e inalzò a uno dei gradi più eminenti del Paradiso l'avversario di Abelardo. Dietro la scorta dei libri sacri e ad imitazione dei profeti investigò i segni precursori della catastrofe riparatrice, accostandosi a Guglielmo di Sant'Amore e al Segalelli nel crederla vicina» . Poeta dunque ad un tempo e profeta, per forza di cose ambienti e per naturale inclinazione di spirito: non, per altro, nel senso volgare della parola, ma in certo qual modo filosofo della storia, in quanto dall’osservazione del passato s'argomentò, quasi preludendo alla teorica vichiana, di trar leggi e norme al corso degli eventi futuri, col tener la storia universale manifestazione della Provvidenza «che governa il mondo».
La donazione di Costantino, benigna e pia come si fosse negli intendimenti, aveva offeso un’altra volta Iddio con bestemmia di fatto «e però dallo stato di felicità, figurato nella divina foresta del paradiso terrestre, gli uomini tutti sono stati novamente cacciati in una terra di esilio, che germinando, come porta la maledizione di Dio, non altro che spine e triboli (Genesi, IMI, 17-18), è tutta una selva selvaggia» . Ma il Signore pietoso — con l'apparizione di s. Domenico e di s. Francesco, per i seguaci del Vangelo Eterno, e con quella di costoro prima e poi di Beatrice per Dante — dava promessa che avrebbe un’altra volta usato misericordia. Questo il vero senso delle parole provvidenziali, che Dante trovò scritte nel libro della memoria fin dal principio della sua puerizia: Incipit vita nova. «La nuova redenzione è decretata e il poeta che deve annunziarla è già scelto».
La Commedia inquadrata tutta sulla profezia del prossimo avvento d'un Cristo novello, predestinato a francare l’uman genere dalla nuova colpa originale, dov'era incorso per forza della donazione costantiniana, è insomma l’idea sostanziale cui il Pietrobono, con pienezza di convinzione, appoggia l’ossatura intera dell’opera sua.
Adottato questo punto di vista, il «libello» giovanile di Dante è della maggiore importanza «per la sua chiara e innegabile preordinazione alla Commedia», giacché esso mira a rivelare come e quando nel Poeta si formasse la coscienza della sua vocazione profetica, e può dunque stimarsi composto non con l'intento di mettere insieme un racconto d’amore, una semplice immaginazione poetica o, peggio, un romanzo, ma solo per venir alla conclusione che Beatrice «anziché donna mortale, era una meraviglia, un’angiola, una figliuola di Dio, un miracolo, e il suo amore qualcosa di misterioso, sorto e durato con caratteri affatto suoi, e però d’ un valore e di una importanza ben diversa da tutti gli altri» . Nel capo I (Beatrice Beata) l'A. con rara accortezza esamina parte a parte e coordina gli episodi della Vita Nuova a conforto di questa sua tesi, giusta la quale la personalità di Beatrice — anzi della figlia di Folco Portinari, com'egli la chiama a più riprese — non dev'essere infirmata, sibbene presupposta, per ammettere che dai suoi mirabili portamenti traesse impulso e conforto il concetto escatologico assunto nel pensiero di Dante dalla sua breve e luminosa apparizione nel mondo. Notevole, tra altro, che nella canzone Donne che avete, i versi

Là ov’ è alcun che perder lei s'attende
È che dirà ne lo inferno: O malnati,
lo vidi la speranza de' beati,

per il Pietrobono contengano «un chiaro accenno a un futuro viaggio di Dante nell’Inferno», opinione che, se ritenuta vera , dovrebbe tuttavia essere messa d'accordo con l’altra ipotesi, la quale vuol interamente concepita la prima cantica dopo la morte d’Arrigo.

Notevole altresì la spiegazione dell’asserto del poeta, ch'egli non avrebbe trattato della «partita» di Beatrice per non farsi «laudatore» di sé medesimo: ammesso una volta essere stata quella gentilissima mandata da Dio in terra «a far segno della redenzione che, da tanto aspettata, ormai s’apparecchiava», egli si sarebbe dovuto affermare «il poeta eletto a cantare il grande avvenimento». Perciò «lascia cotale trattato ad altro chiosatore, non potendo dissimulare che l'aver compreso il mistero di quella donna fosse dimostrazione, non tanto di profonda intelligenza, quanto, e sopra tutto, di grazia divina, per la quale appariva un figliuolo di elezione» . Non meri spedienti artistici si dovranno tenere, ciò posto, le visioni descritte nella Vita Nuova. Per Dante immaginare «significava vedere, toccare, palpare»: quindi «anziché fantasia di poeta, le visioni che racconta egli per il primo deve averle scambiate con i rapimenti e le rivelazioni, di cui del resto sono piene le vite dei santi» . Involte dapprima, per la coscienza stessa di chi a stento andava capacitandosi della loro sovrannaturale entità, come in una nebbia di mistero, si chiarivano e si determinavano di grado in grado, a misura che varie circostanze, giudicate in origine fortuite, andavano svelando al poeta la miracolosa predestinazione, congiunta alle vicende del suo singolarissimo amore. Episodio finale e culminante va quindi ritenuto anche sotto tale riguardo quello di cui è parola nell’ ultimo paragrafo della Vita Nuova, dove il riferimento al gran viaggio nei regni d' Oltretomba è sì chiaro ed aperto.
Ma e il Convivio, ma tutte le altre rime del Canzoniere allusive a fervide passioni non certo ultraterrene, nutrite dopo morta Beatrice e lungo un periodo d’anni non breve, come si possono accordare con la supposizione d’ un Alighieri assorto così per tempo e così interamente nella sua missione di profeta del Veltro, conscio sì presto d’essere tale, per espresso volere di Dio? Come va che nel Convivio Beatrice passa anzi in seconda linea e le lodi tributate già a lei s'ascrivono invece alla donna gentile? L’ostacolo non passa inosservato al Pietrobono, il quale s’accinge a superarlo nel lungo capitolo secondo, intitolato appunto: La donna gentile. Sostiene sulle orme del D’Ancona, ma con nuovi efficaci rincalzi e con largo esame delle Rime, che costei fu l’unico amore cui Dante, dopo il 1290 e prima del suo ritorno a Beatrice, abbia consacrato ogni attività di scrittore: è dessa, con vario prestanome, la Lisetta delle prime avvisaglie, la Violetta dei dolci sogni, la Pargoletta degli amari rimproveri, la Pietra dei giorni intorbidati da una passione focosa. Ammette dopo ciò, non pur come «ipotesi felice» ma proprio come «verità indubitabile», che i rimandi alla Vita Nuova contenuti nel Convivio non possano riferirsi a quest'opuscolo nella sua redazione attuale; devano bensì alludere ad altra stesura più antica, dove l’operetta si sarebbe chiusa con l'episodio penultimo, col predominio cioè definitivo d'una novella passione sul mistico amore per colei che «da carne a spirio era salita».
L’arditissima supposizione, concediamolo, fa strada al P. per raffigurarsi davanti al pensiero con più comodità di quel che non consentirebbero le pagine finali della Vita Nuova il periodo di traviamento, che Dante confessa nel paradiso terrestre: gli rende agevole asseverare che al misticismo dei giovani anni egli si sarebbe riallacciato non dopo «alquanti die» (V.N., XXXIX) ma dopo la lunga parentesi razionalistica rappresentata dal Convivio. Venuto successivamente a trovarsi nella condizione di chi, «convertito a una nuova religione, si metta con grande ardore a edificare ad perpetuam rei memoriam un tempio al nuovo dio; ma, nel meglio della fabbrica, quando le basi delle colonne e delle navate cominciano ad affiorare sul suolo, si avvede, per una luce che vien dall’alto, d’essersi sviato nell'adorare una divinità falsa; onde, in ammenda del suo errore, lascia interrotta l’opera a cui aveva posto la mano, e si dedica tutto alla costruzione di un tempio al Dio della giovinezza, destinato nella sua magnificenza a far dimenticare perfino le prime linee tracciate per l’altro» : solo allora avrebbe compiuto il rimaneggiamento del libretto giovanile, celebrando negli ultimi paragrafi la suprema vittoria di Beatrice, Sapienza divina, sulla Donna gentile, simbolo di quanto può nella sua pochezza delusiva la sapienza dell’ uomo.
Se non che, astrazion fatta un istante dalla troppo naturale irresistibile repugnanza a concedere, senza il più remoto appoggio d’una tradizione qualsiasi , la preesistenza di un’altra. Vita Nuova, come mai il P., volendo mantenersi consentaneo ai criterii suoi primitivi, ha mancato di proporsi una obbiezione capitale? Egli non dubita, lo vedemmo, che scopo del libretto — scopo essenziale e ragion d'essere vera — sia mostrare «per quali modi e vie nascesse e si affermasse in Dante l’idea che Beatrice era stata mandata da Dio in terra a far segno della vita nuova che incominciava, e a chiarir nello stesso tempo, non meno a sé che ai lettori, come finalmente fosse condotto a por le mani all'alto lavoro» . Tal sia pure, senza discutere, lo stillato della breve opera, così come noi la leggiamo... Ma allora qual fine si sarebbe prefisso la redazione primitiva? Non certo il medesimo, se conduceva ad una conclusione tutt'affatto contraria, dimostrando vane, in ultima analisi, le tanto decantate operazioni di Beatrice sul- l'animo del suo poeta!
Anche qui purtroppo, come spesso nel corso dell'opera di cui sono andato parlando, vien fatto di ripetere con l’autore che «a furia di aguzzar gli occhi, si perde la vista» ; e assai rincresce il conchiudere così, quando c'è pur tanto da ammirare per serietà d'intendimenti, per freschezza di dottrina, per acume penetrante, per fascino di suggestione. Doti queste sempre perspicue, sì nei capitoli III e IV (II prologo e La macchina del Poema), sì nella successiva analisi del rimanente Inferno.
Nel Prologo l'A. svolge con ampiezza le significazioni allegoriche espresse o adombrate nel primo canto dell'Inferno. E dopo studiata nei suoi particolari la scena, dopo notato che «valle, piaggia e monte, posti come sono, ordinatamente, nell'oscurità, nella penombra e nella luce, portano quasi congenito il toro significato morale» (tal quale come può dirsi anche della Iuce del Sole, «riflesso di Dio e della sua divina sapienza», in contrapposto con la Luna, «lume dell’umana ragione»), rivolge il pensiero alla data fittizia del Poema, mostrandosi bensì favorevole alla tradizionale del 1300, ma non perché essa coincida con la promulgazione del primo giubileo. Né dalla Commedia infatti apparisce che Dante volesse assegnare una così capitale importanza a tale avvenimento, né d'altra parte sembra logico che, nel suo concetto, dovesse attribuir tanto rilievo ad una pratica rituale promossa da quel pontefice, contro cui si scagliò con sì focose è assidue invettive, Inspirato invece dalle profezie dell'antico testamento — onde le reminiscenze, nel proemio del poema, sarebbero più sostanziali di quello che per solito non si ereda — Dante volle che il prescelto millesimo desse manifesto segno « non del suo arbitrio, ma del provveder divino, il quale, secondo che si apprende in tanti libri sacri, ha sempre aspettato la pienezza dei tempi a cominciare le decretate redenzioni». Ora la cifra 1300 spinge appunto a pensare «che qualcosa si compie e qualche altra comincia, denota il chiudersi di un'età e l’aprirsi di un’altra». Nel caso speciale, corrispondendo per giunta alla pienezza dei giorni assegnati alla vita dell'autore, si dimostra in Sé stessa opportunissima, senza bisogno d'altra giustificazione o di nuovo rincalzo.
Il Poeta esce adunque sull'inizio del 1300 dalla selva, ch'è «tutta insieme l’imagine dell’inferno, dal quale in tanto differisce in quanto da essa, finché si è vivi, si può uscire e dall'inferno non mai: l'una è quasi morte, l’altro è vera morte». Esce «per dar luogo all'uomo nuovo», parvolo ancora, «nascente sulle rovine dell'antico». Quindi la sua maniera singolare d’incedere, in cui, secondo il P., la natura del luogo più o meno pianeggiante non c'entra, trattandosi invece d'uno stato d'irresolutezza d'animo e di stanchezza, ben propria di chi sia testé scampato da un «passo di morte»; e che «si traduce visibilmente in quello speciale atteggiamento per cui tutto il corpo sembra barcollare, sì che l'urto più lieve basterebbe a farlo cadere in terra. Se la stanchezza e la svogliatezza fosse vinta, si riprenderebbe tosto l'andatura comune, poggiando in egual misura or su l'uno ora sull'altro piede, scambievolmente, come facciamo d'ordinario, sia che si vada adagio, sia che si vada lesti, o per salita o per discesa o per pianura. Ma perché Dante sulla piaggia camminò sempre incerto e, specie sulle prime, dovette fare un continuo sforzo per muovere i passi, ossia per andare innanzi, perciò dice che sempre il piede fermo, quello su cui poggiava più a lungo, era il più basso» .
Ed ecco, dinanzi all'uomo rinnovellato, presentarsi la seduzione sotto forma di una lonza, la quale dal P. è spiegata per «incontinenza è non altro che incontinenza, che si risolve nelle passioni di lussuria, gola, avarizia e prodigalità, ira e accidia, punite nell’antidite». Errerebbe tuttavia (egli aggiunge) chi credesse che nella lonza sia raffigurata l’incontinenza così in astratto. Al contrario bisogna pensarla come determinata ora in una e ora in altra forma speciale. «Agli occhi di un uomo inclinato ai piaceri carnali sarà lussuria, agli occhi di un altro bramoso di ricchezze sarà avarizia: e se oggi per uno è gola, non è escluso che domani per il medesimo non si converta in prodigalità. Sarà volta per volta quel che il temperamento e le inclinazioni proprie di ciascuno la faranno essere, ma non sconfinerà mai dai limiti delle passioni d’incontinenza. Quando questo avvenga, vuol dire che da una specie di male si cade in un’altra più grave, ma non perciò di diversa natura. Alla lonza in tal caso subentra il leone (violenza) o la lupa (frode), o meglio, la lonza diventa leone o lupa. Perché, se essa è una specie del male, dunque in qualche modo deve contenere lutto il male. Onde nella lonza, avrebbe detto Dante secondo il linguaggio delle scuole, è potenziale ciò che è attuale, gradatamente, nel leone e nella lupa, e viceversa... Lonza leone e lupa sono la trina spirazione del male e rispondono nello stesso tempo sì alla triplice distinzione d’Inferno e sì alle tre faccie di Lucifero» .
Sede naturale delle fiere dovrebb’essere la selva. Se, nell’immaginazione del Poeta, questi satelliti o esecutori dell'impero di Satana possono spingersi, con quasi piena sicurezza di vittoria, a predare sulla piaggia e persino sulle falde del monte, si è perché l’Inferno, anche ai tempi di Dante, aveva varcato i propri confini. Dopo Cristo, gli uomini per mezzo del battesimo «potevano esser liberati e venir fuori dal lembo estremo della selva, ossia dal Limbo; e per mezzo della volontà, a cui il battesimo ridona la grazia di operar il bene, si potevano liberare dalla piaggia, che corrisponde al Vestibolo». Ma la donazione costantiniana fu causa perché l'uman genere tornasse a violar l’interdetto e ricadesse quindi nella grave miseria, onde l'incarnazione del Figliuolo di Dio l'aveva già tolto e il Veltro solo l’avrebbe potuto di nuovo francare. Da quando l'Aquila «lasciò le penne al carro», la Lupa tornò ad essere inesorabile così, che Virgilio stesso è impotente a debellarla. Essa pertanto, secondo il Pietrobono, simboleggia a un tempo la nuova colpa d'origine è la frode «ond’ogni coscienza è morsa»: vale a dir proprio quella frode «commessa per mezzo della colpa originale, definita per comune sentenza dei Padri come privazione dell'originaria giustizia e quindi come principio d'ogni ingiustizia o iniqua volontà, in cui si risolve la cupidigia».
Interpretate così le tre fiere, il P. assegna ad esse logicamente anche un valore politico. Troppo ingenuo, per vero, sarebbe il figurarsi il Veltro dantesco quale un semplice persecutor di peccati: mentre compito suo doveva essere rimettere il mondo nella possibilità di far il bene e d’'operar la giustizia, combattendo «per ogni villa» quei disordini non soltanto religiosi è morali, ma anche politici, che avevano conturbato e corrotto il vivere civile, dal giorno in cui i «due soli», ordinati da Dio a governare gli uomini, erano mancati alla loro | missione provvidenziale.
Singolarmente suggestive mi sembrano le pagine dedicate dal P. a spiegare con quanta opportunità e profondità di pensiero Dante abbia scelto per sua guida Virgilio, simbolo sì dell'umana ragione, ma anche della civiltà antica, predisposta dal Cielo a preparare — sia pur inconsciamente — il ritorno sulla terra della giustizia e della pace a lungo sospirate. Il «cantor dei bucolici carmi», che già in vita aveva celebrato l'avvento d’una «nuova progenie» destinata a rinnovar il secolo, riprende nella vigilia d’un altro solenne rinnovamento l'antico spirito di profezia, e parla per bocca del suo alunno d'un venturo, che «tra feltro e feltro», cioè dalle spere celesti, avrebbe ricevuto spirazione e virtù di debellare la lupa.
E il commento prosegue sempre originale e go nel capi- tolo La macchina del Poema, dove troviamo un’efficace spiegazione simbolica delle tre donne benedette e dove l'A. determina come e perché, a suo credere, la promessa fatta da Beatrice a Virgilio, di lodarsi sovente in cospetto di Dio della sua condiscendenza cortese, implichi liberazione dal Limbo, per lui e per gli altri «spiriti magni », una volta seguito l'avvento del nuovo liberatore vaticinato.
M’accorgo bene che, dopo aver cosi ragionato della parte generale e introduttiva, per offrire una compiuta rassegna della vasta monografia, dovrei ora accompagnar passo passo l’ingegnoso critico nella sua funzione particolareggiata d'interprete; ma spingermi a questo non oso. Del sistema esegetico del prof. Pietrobono il lettore, per sommi capi, s'è già fatto un'idea: sa che i suoi rilievi culminanti procedono in parte non esigua da presupposti, e cronologici e d'altro genere, a mio avviso discutibilissimi, e indovina perciò come deboli, non di rado, me ne debbano sembrare le derivazioni ulteriori: vorrà quindi tenermi dispensato dallo sciupare con un gramo riassunto, irto di pregiudiziali incoercibili, pagine come queste , le quali meritano senza dubbio d’essere direttamente meditate anche da chi sentisse in precedenza di non poterle tutte approvare.

Date: 2022-02-02