Mediaeval spanish Allegory (Chandler Rathfon Post) [Mario Casella]

Dati bibliografici

Autore: Mario Casella

Tratto da: Bullettino della Società Dantesca Italiana

Numero: 27

Anno: 1920

Pagine: 33-61

Dagli studi nostri il presente volume non è tanto lontano quanto il titolo a prima vista potrebbe lasciarci sospettare; ché anzi l’influsso dell’opera dantesca, e in modo speciale della Divina Commedia, sullo svolgimento della letteratura allegorica spagnola dall’ultimo medioevo ‘al trionfo dell’umanesimo vi è accuratamente indagato, costituendo uno degli aspetti principali, per non dire il più importante, di tutta la trattazione. Quantunque le conclusioni cui il P. vuol giungere con largo corredo di dottrina è con solida preparazione non ci sembrino in tutto accettabili, o perché insufficientemente fondate o perché falsa è la luce che le illumina, sentiamo tuttavia di dovergli esser grati per aver sottoposto a una revisione equilibrata e serena i risultati provvisori ed empirici della critica che l’ha preceduto. L'opera, nella quale in parte riappare, rielaborato e vagliato, quanto già conoscevamo da altro saggio sui primi influssi danteschi sulle letterature di Castiglia e di Catalogna (Bull., N. S., XIX, 166), è divisa in due parti che s’integrano a vicenda. Nella prima parte (pp. 3-102) si studia la natura dell’allegoria spagnola medievale, la sua ininterrotta tradizione da Prudenzio ai primordi del secolo XVI, i suoi tipi e i suoi metodi variamente modificati e influenzati dalle letterature di Francia e d'Italia; nella seconda parte (pp. 105-276) se ne segue la evoluzione, raggruppando in serie cronologica o analogica le opere dei vari settori. Chiude come appendice (pp. 277-287) un capitoletto sulle relazioni che intercedono tra l’arte allegorica e la letteratura.
L’indole particolare della nostra rassegna non ci consente di' seguire passo passo l'autore per i tortuosi sentieri delle ricerche collaterali e di soffermarci a tutte le questioni presentate o discusse; perciò ci limiteremo a percorrere insieme con lui il cammino per la via maestra dell’ influsso dantesco sulla letteratura castigliana, non tra» scurando quanto direttamente o indirettamente ad esso ci riconduce. Se talvolta indugeremo, sarà per lumeggiare e chiarire ciò che altri ha fatto prevenendo le nostre ricerche. Quando parliamo d’ influssi danteschi non intendiamo il fenomeno nel fatto esclusivo di ricalchi letterali, di traduzioni più o meno felici, di lontane e fortuite risonanze, ma nella rispondenza tra l’opera e l’ideale estetico di una o più generazioni, nella spinta che essa dette agli ingegni, nella luce che scosse le menti in cui si riflesse simpaticamente la sua visione della vita, nel carattere nuovo ch’essa impresse nello svolgimento artistico di un popolo. Solo così la ricerca minuta non risulta sterile e l’importanza storica dell’opera di Dante sulla letteratura castigliana resta documentata e avvalorata.
Amador de los Rios, or sono più di cinquant'anni, portato soprattutto dalla tendenza particolare al suo spirito di ridurre a uno la molteplicità dei fenomeni letterari, ascriveva a influsso della Divina Commedia, rivelata alla Spagna sui primi del quattrocento da Francisco Imperial, l'improvviso rivolgimento operatosi nelle lettere di Castiglia; da allora svolgendosi e affermandosi in forme ampiamente elaborate e complesse una letteratura allegorica, i cui caratteri sono in completa opposizione con le forme rudimentali, popolari e sporadiche dei secoli anteriori . Era un apriorismo critico che faceva capo a una semplice formula ed eliminava ogni problema considerandolo già risolto, ma che, come tutte le idee semplici che sembrano abbracciare molto in poco, ebbe la fortuna-di venir accettato, con lievi e superficiali restrizioni, sino ai nostri giorni. Così il Savj-Lopez, in alcuni articoletti senza eccessive pretese, parlava di precursori spagnoli di Dante, nel senso cioè di un tipo spagnolo d'’allegoria precedente la così detta riforma dell’Imperial e tale da prepararla e favorirla ; così il Sanvisenti, pur atteggiandosi a indipendente ricercatore ma seguendo la falsariga di Amador de los Rios, del Wolf e del Menéndez y Pelayo, dopo avere succintamente esaminato la produzione letteraria del secolo XIV, concludeva che quando l’Imperial ‘pel primo in un poema castigliano die’ vita a una diretta imitazione dantesca, la Spagna dovette anche meglio accogliere la poesia nuova e sentir come aleggiare in essa qualche motivo e fremere qualche sentimento, che già avevano scosso lo ‘spirito de’ suoi poeti’ . Neppure il Farinelli, pur mettendo in rilievo nelle sue note dense di minuziosi rimandi e di confronti particolareggiati gli elementi francesi che nelle allegorie della scuola. sivigliana coesistono coi nuovi elementi italiani , sembra essersi completamente liberato dal giudizio tradizionale. ‘My conviction — scrive il P. — is that we must break completely with this long line of criticism’ (p. 29).
L’imitazione dantesca nella penisola spagnola, dai primi verseggiatori della scuola sivigliana sino al Marchese di Santillana, a Juan de Mena, a Diego di Burgos, è sempre qualcosa di superficiale, di frammentario e di monco, che analizza, diluisce e strema l’espressione originale, scende a particolarità decorative e secondarie, indugia in citazioni teologiche o in allegorie moraleggianti: ma non mai compiutamente s’adegua alla visione del poeta, rivivendola nella violenza della passione e nello slancio della fantasia che realizza, oltre i limiti del noto e del sensibile, il suo mondo in forme armoniche, equilibrate e plastiche. Più che l’opera d’arte era l’‘opus doctrinale’ che aveva valore per loro; più che la Divina Commedia erano letti e studiati i commenti che la rendevano meno astrusa, rivelavano la sapienza riposta, la sminuzzavano e la riducevano in scaglie lucide e splendenti, perché ciascuno facilmente potesse farne tesoro. Con l’Imperial comincia una serie di piccoli furti. Qualche pagliuzza d’oro si incastra nel ferraccio logoro delle sue composizioni allegoriche e stride sul loro sfondo cupo e monotono. Ma i successori ne rimangono abbagliati. Ed è in loro un crescendo di striature e screziature dantesche che non intaccano né modificano il vecchio stampo allegorico medievale, pur nobilitandolo stilisticamente e migliorandolo con una disposizione più organica e complessa degli elementi tradizionali. Il Marchese di Santillana e Juan de Mena, i più caratteristici rappresentanti di questo movimento che va sempre più accentuandosi sino a riuscire con Juan de Padilla a un tipo d’allegoria, in cui lo studio di Dante sboccia in fiore, non foggiarono la propria arte sulla Divina Commedia, ma si attennero strettamente al tipo d'allegoria che dalla Francia diffusosi di là dai Pirenei, vi aveva gettato profonde radici, vigoreggiando così robustamente da non poter mai essere completamente soppiantato. ‘The difficulty of Dante’s allegory discouraged real imitation. He employed the ordinary device of a journey to the other world, but its architecture was so elaborate and the interpretation of the allegory so complicated that the Spaniards hesitated to copy any considerable section. Their appreciation was restrieted to certain parts of the machinery that Dante shared with other mediaeval writers, and since these did not differ from the forms that they were already employing, they merely adorned their compositions occasionally with slieht details purloined from the Italian epic’ (p. 30).
L'entusiasmo verso la risorta antichità, che s’afferma nella Spagna sulla fine del secolo XV e divampa nel secolo seguente, favorisce la diffusione delle opere latine del Petrarca e del Boccaccio, la cui fama di eruditi si riflette pure sulle opere volgari, e determina nuove correnti ideali di pensiero e di sentimento poco adatte per una valorizzazione e un apprezzamento adeguati della Divina Commedia ‘type and apotheosis of mediaevalism’. La letteratura di Castiglia nel XV secolo fu quasi esclusivamente nutrita del nostro primo trecento. Gli uomini che s’accoglievano alla corte di Giovanni II, già vi potevano ritrovare corrispondenze meravigliose con gli orientamenti nuovi e le forme consuetudinarie del loro spirito, per quel carattere di transizione suo proprio: di elaborazione del vecchio e di ardore verso il nuovo.
Il dantismo nella penisola iberica durante il secolo XV sarebbe quindi più una trovata di Amador de los Rios che una realtà effettiva. ‘I shall seek to demonstrate — scrive il P. — that in those few instances in which the influence of Dante in Castile is distinguishable it is inorganic and, for all practical purposes, infinitesimal, not determining to any appreciable degree the nature of the composition wherein it occurs’ (p. 29). La fioritura allegorica del secolo XV non si deve a influsso dantesco, ma alla legge naturale di svolgimento; essa è il culmine di un movimento graduale ininterrotto.
Tutta la tesi del P. poggia dunque sull'idea che i fenomeni artistici e letterari sono il risultato di un ordinario processo di generazione, e che il principio di evoluzione può per tanto applicarsi con frutto allo studio dell’allegoria spagnola, la cui storia non fu favorita da nessun alto ingegno che n’abbia profondamente modificato i caratteri particolari con la potenza della sua personalità. Non vi si riscontrano fenomeni isolati, ma uno svolgimento progressivo e costante. Le opere di Gonzalo di Berceo, di Juan Ruiz e degli anonimi scrittori dei secoli anteriori non si devono considerare come preparazione all'accoglimento di elementi esotici, ma come gli stadi primitivi di una produzione indigena, i cui germi, rimasti sin allora in fermento, non hanno raggiunto tuttavia la loro piena maturità. I vecchi tipi d’allegoria perfezionati dall’Imperial ricevono espressione artistica nel Santillana e in Juan de Mena, e si ritrovano in Enrique de Villena e in Juan Rodriguez de la Camara accanto ad altri tipi leggermente diversi, derivati non da Dante, ma da scrittori latini quali Teodolfo, e favoriti in parte dalla smania di erudizione che pervase la penisola al primo affermarsi del Rinascimento.
Ritorna, un po’ con nostra sorpresa, poiché la credevamo definitivamente tramontata, la teoria evoluzionista applicata ai generi letterari, che il Brunetière messe in voga quando il positivismo predominante nella scienza e nell'arte parve non contraddire ma conciliarsi con la sua fede di credente. Certo i generi letterari come abitudini, norme e forme estrinseche, hanno un’ esistenza oggettiva ed è possibile empiricamente parlare di materia — non di forma che è l' individuale vivente — in trasformazione continua; ma l’allegoria, considerata nella sua più comune accezione di simbolo, dovrebbe costituire un elemento integrante e inseparabile dell’ intuizione artistica, che non offre, come tale, né addentellati dialettici né continuità logiche, ‘I mean by allegory — nota il P. — that literary type which crystallizes a more or less abstract idea by presenting it in the concrete form of a fictitious person, thing, or event’ (p. 3). La definizione è troppo vaga, perché accomuna e pone allo stesso livello prodotti essenzialmente diversi, che i vecchi retori tenevano ben distinti : la personificazione di astratte intellezioni, la metafora continuata, che è una semplice figura di parola, e l’allegoria propriamente detta, che è figura di pensiero.
L'allegoria è la percezione di un rapporto tra due soggetti. Il pensiero, obliandosi in uno di essi per rivivere l’altro nelle particolarità e nelle relazioni che al primo l’avvicinano e lo collegano, agisce esclusivamente su di esso, assumendolo quale simbolo e mettendolo in azione. Se si considera il simbolo separato dall’intuizione, come sovrapposizione di significati al senso letterale, noi usciamo dal campo puramente artistico e rientriamo nella storia della cultura. Giustificata infatti dall’allegoria, l'arte acquista valore non dal sentimento in cui l'individualità dell'artista concretamente e compiutamente si esprime, ma dalla rappresentazione attraente di quella realtà che sta al di là dallo spirito umano, costituendo, oltre la sfera della sua esperienza, l'unica verità della religione e della filosofia. Il cristianesimo col suo misticismo, già avvezzo a ricercare sotto il velame della parola i sensi alti e riposti, aveva trasportato nella letteratura latina i procedimenti esegetici applicati alla Bibbia; in ciò favorito da tendenze già vive nel mondo greco-romano, sospinto all’allegoria, specialmente nel periodo ultimo della sua decadenza, dal bisogno di conciliare coi progressi del pensiero e del sentimento i miti naturalistici scalzati dalle religioni positive e dogmatiche dell’oriente. Né la Spagna soltanto partecipò a queste tendenze universali dello spirito cristiano.
Per dare alla trattazione una trama sicura, che potesse servire di fondamento alle forme individuali di allegoria e di anagogia, il P. è stato costretto a includervi la storia della visione. ‘As by constant manipulation allegorical composition acquired greater artistic excellence, the custom became more general of adorning it with a visionary framework’ (p. 7). Ma essa non è un elemento essenziale dell’allegoria nell’astratta e monotona generalità del suo contenuto. La visione è la rappresentazione di quel mondo di cui l’allegoria cercava di dare il contenuto dottrinale; ed è naturalmente, pur essa, qualcosa di individuale, anche se la sua astrattezza generalizzatrice la rendeva facile ad assurgere a tipo e a cristallizzarsi. L’allegoria le si sovrappose più tardi, ponendo in rilievo, accanto all'elemento psicologico che l'aveva generata, l'elemento intellettuale e rendendola un puro schema. Considerando i tratti comuni nelle innumerevoli visioni monastiche medievali, si ha l'illusione, a primo aspetto, di un processo evolutivo, per cui si passa da forme rudimentali, incomposte e frammentarie, a forme più elaborate, con descrizioni particolareggiate, con episodî che s’insertano nella trama generale e la rendono più complessa; ma badiamo che si tratta non di evoluzione di elementi che riescono progressivamente alla i loro piena e matura espansione, rendendo a poco a poco esplicito ciò che era implicito, sì di una sovrapposizione meccanica e incoerente di materiale al nucleo elementare primitivo, di una giustapposizione dall'esterno, di una vera incrostazione. Le forme astratte, tolte dall’ambiente che le aveva prodotte, vuote dello spirito che le aveva colmate nel desiderio di una vita vittoriosa della morte e sognata attraverso la realtà della morte, si stilizzano, si fissano nella letteratura con quella stereotipia che in ogni cosa è caratteristica del mondo ecclesiastico e restano proprietà comune.
Da Paolo di Merida e da S. Valerio a Gonzalo di Berceo non ce’ è nessun progresso nel tipo della visione. Essa mantiene costante il suo stampo tradizionale. Variano gli atteggiamenti. Sono anime di scrittori che investono la stessa materia con diverso sentimento e la realizzano secondo la propria spiritualità. La concezione severa e tormentosa della vita, osservata dalla cella solitaria col pensiero assillante di un’espiazione futura, adombra negli scrittori latini la visione degli splendori celesti; e le gemme e i fiori, e le luci sfolgoranti e la gloria di Cristo sono contemplate col tremore indicibile di chi sente l’approssimarsi di una felicità che sa immeritata e fugace . Berceo invece, vissuto in diretto contatto con la vita e conscio della fragilità della povera carne umana, possiede la certezza dell’infinita bontà divina sempre pronta alla misericordia e al perdono. In lui è la fede ingenua che assiste a’ suoi trionfi con la gioia. più vasta del palpito che tento di comprenderla. Temperamento musicale, egli indulge alle facili armonie del suo verso cadenzato e sonante; dotato di scarsa penetrazione psicologica si sofferma nelle descrizioni e, nel volgere dal latino al volgare i rapimenti e le estasi de' suoi santi, profonde tutti i colori della sua non ricca tavolozza. Il Savj-Lopez, abbiamo visto in qual senso, lo chiama un precursore di Dante in Spagna; e tale idea pare non completamente errata al P., che però l'accetta con ‘altri intendi menti, cercando di mettere in luce nuovi parallelismi e nuove concordanze tra la Divina Commedia e la Vida de Santa Oria del Berceo . Ma sono raffronti troppo generici e per nulla persuasivi, poiché prescindono da tutto il complesso del poema dantesco, nel quale i vari elementi comuni a molte visioni medievali dell’oltretomba, quasi immersi in una realtà vivente che li trasforma e li assorbe, assumono un carattere totalmente nuovo e particolare.
Le tre vergini martiri Cecilia, Agata di Catania ed Eulalia di Merida che, inviate da Cristo, appaiono in sogno ad Oria con ‘sendas palombas en sus manos alzadas mas blaneas que las nieves’ per invitarla a salire in Paradiso in premio della sua vita di penitenza (coplas 27-34), non hanno nulla che fare con le ‘tre donne benedette’ che nella corte del cielo s'impietosiscono del traviato pellegrino e lo soccorrono prontamente dinanzi la morte che lo combatte . Il motivo della discesa di Beatrice all’ Inferno è ben diverso da quello che induce le tre vergini a presentarsi ad Oria nella sua cella monacale. Anche l’altro raccostamento del viaggio di Dante attraverso le sfere celesti con la guida di Beatrice è l'ascesa di Oria che, seguendo il consiglio di Eulalia mira un’alta colonna ‘a los cielos pujada’ e, con lo sguardo fiso alla colomba simboleggiante lo Spirito Santo. arriva alla cima del Paradiso terrestre dove frondeggia un albero meraviglioso e gigantesco (coplas 37-42), appare troppo vago e generico. Le somiglianze accidentali e lontane perdono totalmente il loro valore, qualora si riportino al loro giusto piano, che è quello dello schema generale della narrazione. Sono motivi non nuovi, superficialmente rielaborati e congegnati . Lo spirito che li accoglieva, non avvezzo ad. astrarre dai concetti che informavano allora i cuori e le menti, piegava passivamente dinanzi agli schemi consueti; la realtà non mai osservata direttamente, ma appresa attraverso il velo dell’allegoria o deformata dal concetto cristiano che tendeva a negarla, non esercitava alcun correttivo ai voli sfrenati della fantasia che vagava nel vuoto o si esauriva nel convenzionale. I precursori spagnoli di Dante sono una fisima dei critici, che considerarono il mondo dantesco non nella sintesi fantastica che lo individua, ma nell’universalità del concetto ispiratore comune a tutte le coscienze, che è il mistero dell'anima.
Non comprendo come il P. possa paragonare la distribuzione degli spiriti eletti, quale appare nel Paradiso di Dante, nella loro graduale perfezione di beatitudine e di grazia, di carità e di gloria, col sistema seguìto dal Berceo, o per meglio dire dalla sua fonte latina, distinto nelle sei categorie di canonici, vescovi, vergini, martiri, eremiti e apostoli: l’uno si circoscrive al ristretto mondo monacale ed ecclesiastico , l’altro spazia nella realtà poliedrica della vita umana. Neppur uno dei raffronti su cui il P. si ferma, può esser preso in seria considerazione. L’accoglimento di Dante nella schiera degli antichi poeti, che consacrano in tal modo la sua arte di dicitore in rima, non deve affatto paragonarsi alla festosa accoglienza che il coro delle Vergini beate fa ad Oria e alle sue guide celesti, premiando la sua vita di penitenza (coplas 63-68). Tra le due concezioni c’è un abisso. Quanta umanità nel poeta che, di là dal simbolo, rivela il suo animo vibrante di passione e glorifica la propria arte in sé stesso! Né l’incontro di Dante con Brunetto quadra con la richiesta di Oria di vedere la sua vecchia nutrice Urraca, di cui solo ode la voce che le giunge di tra le schiere. angeliche che si allontanano (coplas 71-76). Voxmea mostra ad Oria nel Paradiso un seggio vuoto, che le è predestinato. Il motivo si ritrova nella Visione di Tundalo. Dante vi poté indipendentemente giungere, seguendo lo stesso procedimento tenuto nell’ Inferno, dove aveva assegnato ad altri peccatori ancora in vita il posto che loro sarebbe spettato .
Attenendosi al suo presupposto teorico, il P., raduna i fenomeni letterari per grappi analoghi e per serie cronologica, segue i loro atteggiamenti e i loro caratteri comuni, ma non si dà ragione delle forme individuali e caratteristiche, che rompono con la tradizione o la modificano o la trasformano. Se l'allegoria spagnola non ebbe nessun poeta che la innalzasse dall’ uniforme mediocrità che la caratterizza — e per innalzarla bisognava realizzarla e negarla — non possiamo consentire che questa uniformità di schemi astratti provi un’identità di contenuto e giustifichi una continuità nella tradizione. Bisognava tener calcolo delle differenze più che delle analogie e delle somiglianze, seguire l’individuo più che la specie, per vedere sotto l'opaca nebbia che rade la pianura, agitarsi una fioritura varia, che si sforza di salire e di giungere alla luce, L'individuo non vince l’universale; è ancora troppo involuto. La sua arte ha un limite che risponde al limite della civiltà in mezzo la quale vive, involuta pur essa.
Il Libro de buen Amor di Juan Ruiz pare al P. un importarte anello nella catena dell'evoluzione allegorica, che corre dal XIII al XV secolo. Nell'uso delle personificazioni di entità astratte s’avvicinerebbe al tipo più maturo che trionferà con l’Imperial e co’ suoi contemporanei, avvantaggiandoli ‘in the increased vividness of the mystic world and the unadulterated joy experienced in the account of its delights. When this attitude is attained, allegory becomes absolutely a thing by itself, significant and pleasurable in itself’ (p. 145). Come si possa parlare di un mondo mistico in quell’informe mescolanza d'immoralità e di devozione, di naturalismo e di 'spiritualismo, di riproduzione realistica dei vizi del tempo accompagnata da un indulgente sorriso che li accetta, li giustifica e se ne diverte, mi è davvero incomprensibile. Juan de Ruiz è il poeta di una società, i cui ideali sono in assoluta antitesi con quelli del secolo passato. La cultura maggiormente diffusa in tutti gli strati sociali e il sentimento della vita finalmente scoperta hanno affrettato la rovina di un mondo intellettuale estrinseco ad essa. Sono fugati le visioni e i terrori dell’oltretomba; la fede non più alimentata dal sentimento s'è ridotta ad un mero formalismo. Tra le torbide lotte dei principi, che tenacemente difendono i loro privilegi e cedono a malincuore alla supremazia del monarca, la borghesia, fatta cosciente della sua forza, rivendica a sé il diritto di decidere del proprio destino ed entra nella cosa pubblica col suo spirito gioioso, scettico e critico, dinanzi al quale svanisce l’aureola dei santi e degli eroi. L’allegoria ha perduto il suo carattere didascalico e moraleggiante per diventare satirica e fustigatrice, per glorificare la natura, per esaltare la carne, l’amore e i sensi. Discende dalle sommità aeree, dove l'atmosfera è, sempre uguale nella chiara trasparenza della luce, dove le forme sì dissolvono e la vita s’arresta, si strema e muore, per accostarsi all'uomo, acquistar forma e figura e avere un valore e una realtà indipendentemente dal simbolo che le si sovrappone. Nel Libro de buen Amor, dove il poeta riesce a liberarsi dalla tradizione letteraria e attingere immediatamente alla vita, si sale dal fatto all’idea, dal reale all'ideale: Pitas Pajas, Doña Endrina, Doña Urraca non appartengono al simbolismo vuoto e impalpabile del medioevo; sono creazioni di un monde più moderno, realizzazioni di anime coi loro difetti e coi loro vizi: realtà colta in azione e innalzata alla solennità e all'universalità del simbolo. Juan Ruiz non continua la tradizione, ma la interrompe. La sua opera si isola da tutta la letteratura allegorica che l'aveva preceduta e che la seguì, immutabilmente chiusa nell’angusta cerchia di forme cristallizzate. Egli è sulla linea della grande arte. I pensieri e le idee che tumultuano nella mente del poeta, la concezione della vita quale egli, nella gioia di un’improvvisa liberazione dai vincoli della morale comune, la vagheggia e la vuole, tutto ciò che immediatamente ride e canta e vibra nell’ intimo del suo animo si traduce in una serena e vivace fantasmagoria di tipi; tutto s'accoglie e sboccia nella sua arte, dandole un carattere nuovo e fondamentale. Non c’è però ancora equilibrio; il contenuto non si annulla ancora totalmente nella forma, in una sintesi fantastica, coerente in sé stessa e armonica. Elementi culturali e riflessi si sovrappongono al poeta, trenando qualche volta gli spunti creativi che balenano nella sua opera: tali la rappresentazione dei vizi, il contrasto tra il Carnevale e la Quaresima, la figurazione d'Amore e dei mesi. Il tipo francese d’allegoria, strettamente connesso a motivi. ornamentali della pittura e della scultura del tempo , s'è già accampato di qua. dai Pirenei ed entra come omaggio a un'arte più manierata, come determinazione volitiva sciolta dal dominio della sola ispirazione. L’allegoria che non risponde più a una necessità dello spirito, incapace di lottare con le astrattezze del pensiero e bisognoso di concretarlo in simboli, diventa un puro espediente retorico, una forma a sé stante, indifferente a qualsiasi contenuto. Siamo così all'arte del secolo XV, a Francisco Imperial.
Le pagine consacrate dal P. alla valutazione dell'importanza storica che l’opera di questo poeta assume ne’ riguardi dello svolgimento della lirica didascalica e moraleggiante ‘conservataci nel Cancionero di Baena, costituiscono una delle parti più solide della sua trattazione. Non vi si riscontrano molte novità. È una critica accurata che, temperando e modificando le esagerazioni dell’Amador de los Rios, batte la via già schiusa dal Farinelli, non aggiungendo alle conclusioni cui questi era in precedenza giunto, se non il presupposto teorico dell’evoluzione; al quale non faremo più appello dal momento che l'abbiamo ormai lasciato a mezza strada. ‘ Non era (l’Imperial) — scriveva anni sono il Farinelli — tempra di poeta e d'artista da produrre una rivoluzione nel mondo letterario di quell'epoca, e i rinnovamenti che parecchi critici gli attribuiscono sono tutti, a parer mio, immaginari. Di nuovo veramente nella concettosa e moralizzante poesia dell’Imperial non troviamo che gli accenni a Dante, le imitazioni gelide e stentate dell’allegoria, le trascrizioni e traduzioni di versi del sacro poema, studiato e inteso alla superficie’ . È su per giù quanto il P. ci aveva fatto conoscere in un primo saggio sui così detti dantisti della scuola sivigliana , le cui opere, sottoposte a una minuziosa e dissolvente analisi dei motivi convenzionali, appaiono informarsi a quel tipo d’allegoria monotono e generalizzante che, con certe restrizioni, potremmo dire francese. Tale tipo allegorico s'adorna di elementi che l’Imperial trae direttamente dalla Divina Commedia, e che così diluiti e deformati trapassano nelle composizioni de’ suoi contemporanei, segnatamente in quelle di Ruy Pàez de Ribera e Ferrant Manuel de Lando.
Le concessioni e le limitazioni che il Farinelli nella sua critica negativa aveva fatto alla tesi dell'Amador de los Rios, sono dal P. decisamente eliminate; né sapremmo dargli completamente torto, quantunque sia in lui troppo manifesta la tendenza di attribuire alla materia allegorica una latente energia creatrice che deve in qualunque modo realizzarsi, indipendentemente da ogni azione individuale che la plasmi e la foggi secondo gli ideali estetici del tempo e dell'ambiente.
Ora il dar principio alle visioni con uno smarrimento nella selva selvaggia o nell’oscura valle dell'errore col provvidenziale aiuto d'un duce, che talvolta è Dante in persona o un personaggio storico, è una novità introdotta dall' Imperial e dovuta allo studio della Divina Commedia. Certo la guida, scelta per puro sfoggio di erudizione, non può paragonarsi né a Virgilio né a Beatrice: due nomi che splendendo nella memoria e nel cuore di Dante indissolubilmente associati alle tempeste della sua vita e alle vicende del suo spirito, diventano l’espressione più alta e significativa. del perfezionamento intellettuale e morale attuato nel viaggio ideale e psicologico. Ma è un primo avviamento verso una maggiore concretezza sostanziale e una liberazione dalle vuote allegorie d'idee personificate, Agli eruditi del secolo XV l'espediente dell’Imperial dové tornare gradito, per le concordanze che vi notavano con Macrobio e, se lo studiarono, con Fulgenzio .
Ha fatto bene il P. a combattere l’idea, divenuta ormai un assioma, che la concezione della Fortuna sia nell’ Imperial una derivazione dantesca; dirò anzi ch'egli tiene a dichiararsi — almeno nel suo ‘desir’ ad Alfonso de la Monia — un oppositore di Dante, rivolgendosi alla dea che “syn rason da é tiene’:

E maguer que te alabe
é escuse en su estilo
Dante, que tanto bien sabe,
ssegunt yo ley é vylo,
desatame aqueste filo:
sy yo obro à mas valer,
quien me priva de lo aver?

Trasportando la Fortuna nell'ordine delle Intelligenze celesti e facendola cosciente dispensatrice dei beni mondani secondo l’occulto pensiero di Dio, Dante giustifica il ritto apparentemente vario e capriccioso degli avvenimenti umani, i quali si svolgono guidati da una volontà fermamente rivolta al fine che la Provvidenza ha disposto. L’Imperial dipinge invece la dea volubile, capricciosa, ingiusta, dominatrice assoluta delle cose e sconvolgitrice d’ogni legge e d'ogni volontà umana. Era un motivo diffusissimo nel medioevo: Ovidio (Tristes. V, viii, 15 sgg., Pont., IV, iii, 31 sgg.) e specialmente Boezio (De consol. Philos., II, pr. 2) fornivano nelle scuole l'argomento a considerazioni più 0 meno originali che, concretate in una rappresentazione romanzesca nell'Anticlaudianus (VIII, 1), passarono nelle opere narrative in lingua volgare . Le particolarità che accomunano questi componimenti sono per lo più quelle fissate da Alano: la personificazione della Fortuna dimorante in un castello inaccessibile, variamente costrutto in corrispondenza con gli attributi della dea, che si vogliono porre in rilievo . Nell’Imperial e in coloro che lo imitarono, la Fortuna, considerata più che in sé stessa negli effetti ch’essa produce, appare ancora avvolta nelle nebbie del pensiero astratto e la sua persona non è ancora divenuta un gingillo nelle mani di stucchevoli versificatori.
Contrariamente a quanto pensa il P., egli non attinge affatto a fonti francesi. Quando frate Alfonso gli spiega: che la Fortuna è Dio, i cui voleri sono a noi celati —

patta él tiene el pesso;
él da a cada uno lo que le meresçe —

egli, pur facendo una protesta di ortodossia religiosa, domanda quali autorità sostengano la tesi dell'avversario:

Dadme respuesta, provando
por naturales rasones
o dichos santos alegando
de abtenticos varones,
como natura sus dones
derechamente provea,
é que Dios fortuna sea,
o afirmad mis conclusiones;

per conto suo s’accontenta d'aver a maestri Davide, Geremia e Boezio, che già cercarono di approfondire la insolubile questione:

Por esto yo non so nesçio
sy estos tres seguir me pago .

E tale concezione della Fortuna non diverge molto da quella che appare nel ‘desir’ per la nascita del re Don Juan, anche se vi si riscontrino echi danteschi. La dea, che non sempre s'accorda col volger propizio delle stelle nel distribuire i beni ‘de linage en linage, de gentes en gentes’, dichiara che farà violenza a se stessa colmando di doni il principe, su cui pioveranno grazie dai sette pianeti:

È maguer que non do mis gracias mundanas
a las vuestras concordes, mas a mi talante,
bien me plaze agora por vos, mis hermanas,
ser prospera amiga d'este grant nasçiente;
en mi alta espera, en el mas exçelente
colmo le pongo; de las gragias goze...

di tutte le grazie e l’incoroni la fama e lo rallegri l’amore . ‘The ordinary mediaeval and French character of Fortune in Imperial — scrive il P. — is further illustrated by her connection with Fame and with Love’ (p. 165). Ma no. In genere questi poeti, il cui pensiero religioso, spoglio da ogni trascendenza, si ripiega sulla vita per comprenderla nella sua alterna vicenda di bene e di male, di illusioni sfiorite e di ideali infranti, identificano nel concetto della Fortuna l'oscura forza che sembra dominare le cose e imprimere agli eventi umani una spinta ineluttabile, che non s’arresta neppure dinanzi la realtà della morte. Il passato, isolato dal presente, sottratto a tutte le possibilità, contemplato nella sua immutabilità eterna, sembra loro racchiudere le sorgenti da cui fluiscono le forze che mettono il mondo in opera e costituire l'esemplare abbreviato e il documento didattico. Il passato ammaestra per l'avvenire. La storia, che è la palestra dove la Fortuna s'è provata, distribuendo la gloria e avvolgendo d’oblio, assume un carattere morale. I grandi nomi sono gli esempi e i tipi. Su questa linea genetica, molto lontana dal concetto dantesco e dominati da un sentimento profondamente pessimista, che sì risolverà nell’elegia del poeta

cualquiera tiempo passado
fué mejor,

noi ritroviamo gli accenti vesti di una forzata rassegnazione all’esistenza, svolgentesi secondo leggi ignote, quali echeggiano nei ‘desires’ di Ferrant Sanchez Talavera e nei centoni storici di Gonzalo Martinez de Medina e di Diego di Valenza, parafrasi e variazioni erudite dell’Ecelesiaste è del libro di Giobbe .
L’Imperial in conclusione non intese la poesia dantesca. ‘With a poetical talent wich, to say the least, was not superior to that of the ordinary French versifier, with little or no originality of matter, with no marked ability for the adaptation and manipulation of what he borrowed, neither endowed by nature with an unusual wit nor blessed with learning adequate to the comprehension of Dante, Imperial was not the man to achieve more than a superficial imitation of the great Italian’ (p. 181). Con tutto ciò la sua importanza storica per le qualità intrinseche della sua arte, per l'esempio dato a’ suoi contemporanei e per l’efficacia avuta nel chiarire e determinare l'ideale estetico della generazione seguente a me non pare possa negarsi. Abbandoniamo la questione dell’allegoria, che Amador de los Rios affermava fosse di carattere dantesco, ma che noi diremmo più tosto di tipo prettamente medievale; la questione è per noi secondaria. L’Imperial non era un poeta nel vero senso della parola e il metterlo a confronto con Dante per farne risaltare le deficienze artistiche, è un errore che fa velo al nostro giudizio. Dobbiamo accettarlo qual è e dargli conseguentemente il posto che gli compete nella storia dello svolgimento artistico del pensiero spagnolo. È una limitazione necessaria a imporsi, per non rendere vana la ricerca degli influssi esercitati da una letteratura su un’altra, istituendo illogici confronti di personalità artistiche naturalmente distinte.
Imitando Dante, l’Imperial aveva coscienza — non bisogna dimenticarlo — di essere innovatore. Ma in che cosa? Nell'uso dell’allegoria? Non resulta affatto. La disputa violenta tra il Villasandino e Ferrant Manuel de Lando, contrapponendo la poetica dell’Imperial a quella del vecchio corifeo della decadente tradizione gallega, illumina i due indirizzi che allora si contrastavano il campo: il primo, aristocratico ed erudito, il secondo, accademico è manierato, sia nei concetti sottilmente ingegnosi, sia nei procedimenti metrici e stilistici; ma non riguardano affatto Dante come ispiratore e tanto meno come maestro di allegorie. La questione puramente estetica è sbozzata da principio, ma vien subito sommersa nel gorgo delle contumelie volgari e delle maligne insinuazioni .
L’Imperial volle ‘essere innovatore, trasportando nella letteratura di Castiglia un tipo di poesia più alta nell'ispirazione e negli assunti, più elaborata e decorosa nella sua veste esteriore che non la poesia cortigiana degli imitatori della scuola gallega. Il suo modello fu la Divina Commedia. Perciò evocando l'ombra di Dante, con le sue parole esclama nella coscienza del difficile compito:

O suma lus, que tanto te alçaste
del conçepto mortal, a mi memoria
represta un poco lo que me mostraste!
é fas mi lengua tanto meritoria
que una çentella sol de la tu gloria
pueda mostrar al pueblo [aqui] presente...! .

Ingegno né profondo né originale, dotato di scarsa fantasia, spirito analitico che disegna e orna più che comprendere e fondere in una sintesi superiore gli elementi vaganti nella fredda regione dell’intelletto, egli togliendo a Dante motivi e colori, diluendo e immiserendo il concetto chiuso nel fulgore di un'immagine, traducendo e componendo a mosaico più che rielaborando, svolge quell’elemento melodico che accenna fugacemente e palpita nell'antica lirica gallega e che nei tardi imitatori di Castiglia s'era miseramente intorpidito e stremato. I passi della Divina Commedia da lui imitati e tradotti sono precisamente quelli dove sono più appariscenti certi caratteri dell’arte dantesca, che consonavano con le tendenze del suo spirito varietà e gradazione di colori e di suoni, splendore delle immagini e decorosa vivacità descrittiva. Nel ‘desir’ per la nascita di re Don Juan, ma più ancora nel ‘desir a las syete virtudes’, echeggiano lontanamente gli inni intonati dai penitenti lungo le balze del Purgatorio, le voci misteriose degli angeli trasvolanti sul capo del pellegrino che sale per le agili scalee, e vi s'aduna qualche pallido riflesso della foresta fresca e viva, dove tra gli effusi profumi, Matelda canta e trasceglie fior da fiore .
Naturalmente le effettive qualità di dottrina storica, filosofica e teologica che distinguevano Dante tra tutti i contemporanei, ‘Minerva oscura d’intelligenza e arte’ rimanevano in ‘vista anche tra gli Spagnoli, intese ed esagerate secondo le particolari tendenze dello spirito del tempo, volto al simbolo e all'allegoria. Ma nell’Imperial il desiderio di una maggior bellezza formale rappresenta l’inizio di quel movimento spirituale che porterà all'umanesimo; come il tremore della mano dell’artista, che primo fermava nel marmo il profilo di Fedra, attesta il risvegliarsi di una coscienza estetica, che s'appagherà soltanto quando sarà compiuta la conquista della grande arte classica .
Nel ‘prohemio é carta’ che il Marchese di Santillana premise alle sue opere inviate in omaggio a ‘don Pedro, condestable de Portugal’, accennando all’Imperial, scrive: ‘AI qual yo no llamaria degidor o trovador, mas poeta: como séa çierto que si alguno en estas partes del Ocaso meresçiò premio de aquella triunphal é laurea guirlanda, loando a todos los otros, este fué’ . L’epiteto solenne, su cui il Santillana, senza negare la debita lode a tutti gli altri — così credo deva intendersi l’inciso alquanto discusso — volutamente insiste, non può essere chiarito se non dal concetto ch'egli, seguendo fedelmente il Boccaccio, s'era formato della poesia; concetto che dal P. con troppa precipitazione ravvicinato, (p. 113) a quanto scriveva Teodolfo a proposito dei poeti pagani:

In quorum dictis quamquam sint frivola multa
Plurima sub falso tegmine vera latent —

rivela un indirizzo estetico che sta con quello in aperta opposizione, perché tende, nelle sue conseguenze estreme, a liberare l’arte da ogni preoccupazione pedagogica e morale. ‘E qué cosa es la poesia — que en nuestro vulgar gaya sçiencia llamamos — sinon un fingimiento de cosas utiles cubiertas o veladas con muy fermosa cobertura, compuestas, distinguidas é scandidas por cierto cuento, pesso é medida?’ . Qui la bellezza formale si sostituisce al ‘falsum tegmen’, ed è poeta colui che attinge il vertice della virtù espressiva, dando alle cose utili un vestimento decoroso e composto.
La superiorità che il Santillana riconosce agli Italiani rispetto ai Francesi riguarda il contenuto — mitologia e storia dell’antichità classica — e la forma. Egli non fa questione di simbolismo o di allegoria. Le sue propensioni o, per meglio dire, le sue predilezioni teoriche verso l’arte francese sono una deduzione del P., che, per quanto presentata con certa cautela, risulta fallace a un esame del passo, certamente non molto esplicito. ‘Los Itàlicos prefiero yo, sò emienda de quien mas sabrà, a los Françeses solamente. Ca las sus obras se muestran de mas altos engenios, é adornanlas é componenlas de fermosas é pelegrinas estorias: é a los Françeses de los Italicos en el guardar del arte; de lo qual los Itàlicos sinon solamente en él pesso o consonar, non se façen mençion alguna. Ponen sones asymesmo a las sus obras, é cantanlas por dulçes é diversas maneras...’ . È chiaro, almeno a mio giudizio, che qui ‘el arte’ che avvantaggia sugli Italiani i Francesi, non si riferisce all’ ‘allegorical framework’, ma alla struttura dei componimenti poetici più complicata e laboriosamente congegnata nella letteratura di Francia che in quella d'Italia. La varietà negli schemi metrici e ritmici ‘de los Galligos é Françeses’, accresciuta attraverso le nuove combinazioni e gli adattamenti di un virtuosismo eccessivamente formale e non sempre felice delle scuole tolosana e gallega, costituiva una superiorità artistica di fronte agli Italiani, che s'erano più tosto attenuti alla terzina, al sonetto e alla canzone, non d'altro curiosi che dell'armonia chiusa nel verso e nella rima.
Le ‘fermosas é pelegrinas estorias’ che il Santillana ammira negli Italiani costituiscono un elemento perturbatore nella tradizione dantesca della scuola sivigliana. S'iniziava anche per la Spagna un periodo ansioso di ricerche e di studi sugli scrittori greci e latini, che giungevano dall’ Italia allora nella fervida vigilia del suo rinascimento. Omero e Virgilio, Ovidio e Seneca, Lucano e Sallustio, nelle traduzioni o nel testo originale, sostituiscono a poco a poco i centoni, le parafrasi e le summule, che rifrangevano pallidamente il pensiero antico, presentandolo spoglio della sua propria veste, stremato in una gelida aridità concettuale. Le opere latine del Petrarca e del Boccaccio si diffondevano avidamente lette e rinfocolavano l’amore dell’erudizione. L'ideale che splendeva agli uomini della nuova generazione, trasportava all'improvviso lo spirito fuori della realtà attuale e lo immergeva nella storia lontana. La poesia deli’ Imperial, pervasa da un desiderio di maggior perfezionamento formale che la staccasse nettamente dalla tradizione cortigiana e popolare, tendeva a far risaltare nella produzione letteraria il momento estetico sul momento filosofico e morale e a preparare indirettamente un'adeguata comprensione dell'antichità, viziata nelle angustie del pensiero ecclesiastico e monacale e alterata dalla corruzione delle scuole. Ma il nuovo movimento, archeologico ed erudito, staccando la letteratura della vita, ne sciolse i legami col pensiero in generale. Lo spirito, atteso a ‘coger el seso real segun comun estilo de intérpretes’, si trasferì totalmente nel pensiero altrui e, rinunziando alla propria vita, s’indurì alle impressioni estetiche. ‘È si caresçemos de las formas — scriveva il Santillana — seamos contentos de las materias’ . L'elemento personale sì ritraeva dietro l'universalità astratta, come. gli elementi spirituali nazionali si dissolvevano nell’universalità dello spirito sciolto dai limiti del tempo e dello spazio. Al mondo culturale degli arabi e degli ebrei, che nei periodi di estrema decadenza della romanità s'era sovrapposto allo spirito spagnolo, svolgendone le innate tendenze all'investigazione filosofica e al concettismo morale, si sostituiva il mondo greco-romano, contemplato, accolto e studiato secondo i vecchi abiti intellettuali. I criteri puramente didascalici e moraleggianti persistono ancora, ma accanto ad ‘essi è il desiderio di far servire gli scrittori all’attività scientifica.
In tale ambiente. la poesia dantesca perde le sue forme e i suoi colori, si scarnifica e si mummifica. L'arte, come espressione della libertà dello spirito nella sua individualità, naufraga nel mare infinito di un sapere, che viene intellettualisticamente presupposto e spontanea mente accettato. L'impalcatura generale della Divina Commedia attrae per la sua complessità, per il suo congegno armonico: immensa enciclopedia dove e la scienza del tempo, stillata in forme stringate, è collocata e radunata; è un arbor doctrinae su cui l’erudito sale, ritrovando ad ogni ramo varietà di conoscenze, sacre e profane, pratiche e morali, storiche e mitologiche, mirando alla cima che si perde nel cielo caliginoso dello scibile. Una valutazione siffatta dell’arte dantesca non poté sottrarsi ai mutamenti repentini d’idee attuatisi nell’ultimo scorcio del secolo XV e sui principi del seguente, concomitanti e conseguenti ai progressi dell’umanesimo. Dopo il Santillana, Dante, ormai entrato nella schiera dei grandi maestri dell’antichità, viene spesso citato per la dottrina ascosa sotto il velame dei versi; ma pochi sì volgono direttamente alla sua opera per trarne nutrimento al loro pensiero e gioia d’idealità estetica alla loro fantasia, per sentirvi entro vibrare ciò che di eterno palpita e splende al vertice delle nostre aspirazioni umane.
Il preconcetto di voler esclusivamente ricondurre a modelli francesi ciò che letterariamente produsse la Spagna dalla seconda metà del secolo XV in poi — come se l’italianismo del secolo XVI non fosse il risultato di cause remote, che prepararono lentamente il terreno — ha impedito al P., in questa seconda parte del suo lavoro, di valutare convenientemente i dati di fatto che gli fornivano le indagini di quanti prima di lui s’erano occupati dell'argomento. L’egemonia letteraria, che la Francia aveva esercitato su gli altri popoli durante l'età media, tramonta decisamente in Spagna al primo giungere delle opere italiane. La letteratura. che tra le sorelle neo-latine s'era affacciata ultima alla storia, giungendo con rapido volo alle cime della classicità, dove la vita dello spirito si spiega libera da ogni contingenza, si sostituisce alla letteratura di Francia, stagnante ancore, dopo quattro secoli dal suo primo apparire, in una mediocrità uniforme, sotto la quale s’annegano e si perdono gli elementi puramente individuali. ‘Dante, Petrarca y Boccaccio habian destronado completamente — scrive il Menéndez y Pelavo — a los troveros franceses y a los trovadores provenzales, sin excluir aquellos que en algun modo podian considerarse como maestros suyos’ . Durante il regno di Juan II le opere francesi non occupano più il posto d’onore nelle biblioteche dei letterati; continuano tuttavia ad essere lette e a fornir materia di erudizione, ma î modelli con cui si cerca di rivaleggiare sono altrove.
Ora perché le coincidenze o le interferenze, spesso fortuite, di schemi astratti non ti portino a deduzioni fallaci a proposito di imitazioni o di reciproche influenze, è sempre necessario, senza prescindere dalle tendenze o dalle predilezioni personali di uno scrittore, tener dietro alle tendenze e alle predilezioni generali dell’epoca sua, specialmente in un periodo in cui la coscienza artistica collettiva domina gli scrittori più ch’essi ne siano i dominatori. Che la concezione di El Infierno de los Enamorados del Santillana non dipenda affatto da modelli francesi, ma sia una rielaborazione di elementi virgiliani raccolti, entro il quadro della visione dantesca, attorno alla sentenza che precede la narrazione dell’infelice ‘donna de Ravena’:

La mayor cuyta que aver
puede ningun amador
es membrarse del plaçer
en el tiempo del dolor ,

dimostrammo in questa nostra rassegna (Bull., N. S., XXI, 33). La sentenza che determina il carattere della pena da cui le anime, vinte da amore in vita, sono travagliate tra le fiamme eterne che le avvolgono, ritorna, variamente modificata e torturata nelle imitazioni castigliane e portoghesi, che direttamente procedono dal Santillana. L'idea acutamente presentata, ma non abbastanza svolta, dal P., che i tre poemetti El sueno, Triumphete de Amor, El Infierno , costituiscano una trilogia erotica, rappresentante ‘the author's servitude of Love and then his rejection of that servitude by the example of amorous woes’ (p. 212), mi dà modo di rilevare la concezione d'amore che la informa, nella sua intima contraddizione di passione peccaminosa e fatale.
La trama dei tre componimenti può essere così brevemente esposta. Il destino umano è in balìa della Fortuna, che volge a suo capriccio il corso delle stelle; il suo potere viene annullato solo dal libero arbitrio. Contro il poeta che vive tranquillo senza cure, essa sta per inviare l'Amore. Invano egli invoca l’aiuto di Marte, il dio della virilità pugnace; la ragione in lotta col cuore si dichiara vinta. Seguendo il consiglio di Tiresia, apparsogli in sogno, il poeta s’avvia in cerca di Diana, la casta dea che ‘sola revessa los dardos que Amor envia’; ma giunge invece dove il seducente corteo di Venere lo accoglie festosamente e Cupido lo ferisce. Mentr'egli

siguiendo el plaçiente estilo
a la la grand deessa Diana

si ribella alla passione che lo avvince e lo blandisce nelle prime aeree aspirazioni, non anche concretate in un oggetto, ha la visione del trionfo d'Amore che, ‘monarca tra principi e saggi’ s'avanza con lungo seguito di cavalieri e di dame. Tra queste una ‘muy notable’ lo colpisce ‘de la fiecha enfecçionada’ a morte. Ogni allegrezza si converte in pianto. Allora la Fortuna lo porta su un alto monte, popolato di animali selvaggi, che s'aggirano in una foresta le cui fronde toccano il cielo di Diana. Un porco — simbolo della lussuria — gli attraversa il cammino, ma viene ucciso da Ippolito, che ivi s‘aggira immortale in premio della sua castità. Con la sua guida il poeta perviene all’entrata d'uno spaventoso castello:

El que Vénus se guia
entre a penar su peccado.

Così è la scritta morta. L'ammaestramento che si ricava dalla vista dei mali fisici e morali da cui sono afflitti i miseri dannati, è che bisogna fuggire i pervertimenti della passione amorosa:

Asy que lo proçessado
de todo amor me desparte.
Nin sé tal que non s’aparte
si non es loco provado.

Ognun vede come nello svolgere il tema il Santillana, partendo dai soliti contrasti tra la ragione e il senso, proceda a una strana commistione dei Trionfi del Petrarca e della Divina Commedia. Il fine morale, un po’ grossolanamente sovrapposto, appare più che mai manifesto. La passione amorosa invincibile e fatale, ma peccaminosa e dannabile, non è più contemplata con lo stesso dubbio angoscioso che tiene pensieroso e muto Dante dinanzi la tragedia di Francesca. Il sentimento di pietà che commove e ispira il poeta della rettitudine, è svanito. È la casistica amorosa di corte che traspare nella stessa leggenda di Macias sotto il lieve velo morale che la ricopre. Ai peccatori involti nelle fiamme infernali, amore risplende ancora per i fremiti, per i sorrisi, per le dolci lacrime, per le angoscie ineffabili che suscitò e cagionò nella via serena:

Ca sabe que nos tractamos
de los bienes que perdimos
é del goço que passamos
fasta tanto que venimos
a arder en aquesta flama...

Le convenienze formali e sostanziali di quest’ultima parte della trilogia con la Divina Commedia sono tali e tante ch'io non so rendermi ragione perché il P. si sforzi di battere vie nuove per rilevare corrispondenze meno persuasive e lontane. ‘The French element — scrive egli — is of much greater import than the Dantesque title and the general scheme at first sight would imply... Dante’s first cantica presents the suffering of every kind of evil-doer; certain French dits concern themselves, like the Infierno de los Enamorados, only with the sufferings of lovers, as a kind of antithesis to the delights of the Courts of Loves’ (p. 77). Ma non si potevano raccostare tipi più opposti, fondandosi su somiglianze così superficiali e impalpabili, che s'annullano dinanzi alle sostanziali differenze che li allontanano. Qual è il concetto informatore del Lay du Desert d’Amours di Eustache Deschamps , della Prison d’Amours di Baudouin de Condé e dell’Hospital d’Amours di Alain Chartier , per citare gli esempi più rilevanti dei componimenti che, secondo il P., sarebbero nati da una cosciente contrapposizione alla Corte d’ Amore? Che la bellezza, la dolcezza e la felicità della vita è solo nell’Amore, il dio tirannico che addolora con la sua lontananza quando sopraggiunge la vecchiaia, che amareggia ogni gioia e addolcisce ogni pena, chimera splendida inseguita indarno dalla speranza, giustiziere implacabile di quanti disperarono e cercarono con la morte di sottrarsi al suo giogo. Nessuna serietà è in questi sterili giuochi di fantasia, in cui la società francese del secolo XIV si cullava, vagheggiando pur tra le tempeste dell’anarchia e delle guerre, l'ideale di un amore raffinato, frivolo e leggero, attimo fuggente della breve vita.
Tuttavia anche la lirica castigliana, continuando la tradizione dell’ultima poesia trovadorica e gallega, temperata però da influenze petrarchesche, poté accedervi. Non fu un'evoluzione progressiva, ma una degenerazione e un regresso; uno stremarsi dell’arte trasportata dal sentimento all’intelletto, sepolta sotto il frascame della declamazione s e della retorica. L’imitazione della trilogia amorosa del Santillana, liberata da quanto ne costituiva la scorza dantesca e colta nel punto centrale della sua prima ispirazione, riuscì alla Vision de Amor di Juan de Andujar e, trasportandosi dal mondo fantastico alla realtà, giunse all’Infierno de Amores di Guevara e all’Infierno de Amor di Garci Sanchez di Badajoz . L'analisi della passione umana, serutata nei suoi vari atteggiamenti e nei vari suoi momenti, rappresentata nel contrasto dei sentimenti contradittori che essa suscita, tornava all’astrazione allegorica di stampo francese col Carcel de Amor di Diego de S. Pedro , con le Fiestas de Amor e la Sepoltura de Amor di Pedro Manuel de Urrea e con la Metafora en metros del Quiròs .
Ritornando al Santillana, m’accordo col P. nel negare qualsiasi influsso della canzone dantesca Tre donne intorno al cor sulla sua Vision . Non vedo però la necessità di istituire confronti con l’Esperance ou Consolation des Trois Vertus o col Livre des quatre dames di Alain Chartier . Noi siamo più tosto nella categoria, né scarsa né varia, dei planh provenzali, in cui le virtù piangono per la mancanza o per la morte di qualche ‘signore che le impersonava. L'esempio che era fornito al Santillana dal ‘desir’ del Villasandino per la morte di Enrico III , trova più compiuta espressione nella Defunssion de don Enrique de Villena , in cui le Muse dall’ alto del Parnaso, rammemorando i grandi poeti antichi e moderni, si dolgono del triste fato che le ha private di un loro alunno ‘puesto en compaña de superno choro’. Qui però l'imitazione della Divina Commedia inserisce nel motivo trovadorico lo smarrimento iniziale nella selva che ricinge il sacro colle di Parnaso, descritta con gli stessi caratteri di un selvaggio orrido e pauroso, che conosciamo dall’Infierno de los Enamorados. Anche la Comedieta de Ponça , non è che un planh in forma di visione, nella quale personaggi reali che si rammaricano della mutabilità della sorte, sono confortati dalla stessa Fortuna venuta a sciorinare l’erudizione adunata nel De casibus del Boccaccio.
Nelle ultime pagine del suo libro il P. ha avuto modo di attentare le esagerazioni dei critici spagnoli, accolte con larga condiscendenza dal Sanvisenti, a proposito delle imitazioni dantesche di Juan de Mena e dei tardi monotoni allegoristi del secolo XV: né io potrei che confermare in genere le sue conclusioni o renderle anche più recise, là dove il dubbio metodico s’è insinuato e ha fatto. violenza alla completa dichiarazione del suo pensiero. Lo studio sulle fonti di Juan de Mena , che qui riappare soltanto in sunto, dimostrava già chiaramente come l'imitazione, del Boccaccio e del Petrarca — ormai signori incontrastati nel campo dell’erudizione — andasse congiunta con l'imitazione dei classici latini, specialmente Virgilio e Lucano. Forse per il Laberinto non avrei fatto appello all’Anticlaudianus, poiché le coincidenze messe in vista non sono sufficienti per attestare. una dipendenza diretta — una sola copla in cui, procedendo per antitesi, si descrive l’incostanza della Fortuna — mentre l’ispirazione dell’Amorosa Visione può largamente documentarsi, senza escludere, per quanto riguarda l'architettura generale del poema, i cerchi e le ruote che girano per influsso dei pianeti e racchiudono le anime dei trapassati, un pallido riflesso del Paradiso dantesco . Un pallido riflesso, poiché siamo molto lontani dalla simmetria, dall’armonia e dall'ordine di Dante: nel quale la potenza d’idealizzazione si fonde con un senso così profondo della realtà, che la vita penetra nel suo mondo fantastico e le schiere degli angeli e dei beati serbano, pur tra la luce che li avvolge e li invola. al nostro sguardo, tutta la loro umanità, effusa nella parola, palpitante nel canto o balenante nel sorriso. Nel Laberinto l'ordine e la disposizione delle sette sfere sottoposte al regime della Fortuna costituiscono un'intelaiatura d’accatto, senz’alcuna ragione che la giustifichi; e il passaggio dall'uno all’altro pianeta procede meccanicamente, in una successione di quadri staccati che si presentano al nostro spirito con una monotonia sconsolante. Fulgori di poesia passano qua e là a illuminare alcuni ricordi della vita del poeta o qualche episodio della storia della sua patria, ma presto si spengono nel buio di un'erudizione arida e ingombrante.
L'appunto che si può muovere al P. è che nella ricerca delle fonti, scendendo a un esame analitico che dissolve completamente l’opera fantastica ne' suoi elementi intellettuali, egli non ha tenuto conto di quel tanto di elaborazione personale che interviene ad armonizzarli e a fonderli in unità. Volendo rendersi conto d’ogni modificazione introdotta dal de Mena rispetto agli originali presi ad imitare, è stato costretto a ricorrere a opere disparatissime, spaziando per tutti i campi delle letterature romanze; ma è un lavoro che spesso non ha il conforto di deduzioni sicure e ineccepibili . La cultura generale del tempo era appunto la risultante di un mondo intellettuale che, comune a tutta l’Europa cristiana, andava a poco a poco frantumandosi sotto l’azione crescente dell’umanesimo. Il Calamieleos non è che un viaggio al paradiso dei poeti, raccolti sul sacro monte d’Elicona, dov’esti godono della vita immortale concessa a quanti trionfarono dei vizi e attuarono le virtù. È un'imitazione della Defunssion de Don Enrique de Villena del Santillana; ma gli elementi danteschi che in questa sono in parte soltanto ornamentali, acquistano qui un significato allegorico più trasparente per la cosciente contrapposizione ‘de la miseria de los malos y de la gloria de los buenos’. Sulla bassura del piano, dove s’aggirano bestie feroci e una folla di personaggi storici e mitologici dannati per i vizi e i misfatti che li caratterizzano, s’eleva il colle della sapienza; ‘ca la sabiduria en las alturas mora, y aquesto assi se demuestra que toda la buena sciencia de Dios perviene, y el es verdadera sabiduria’. È la tradizione classica dei Campi Elisi, che fornirà alla fantasia dei poeti lo spunto per la creazione della sonante isola degli eroi, sciolta qui dal Limbo della credenza cristiana e vista ancora attraverso ai castelli simbolici della poesia provenzale: trionfo e glorificazione dell’arte incitatrice d’ogni azione generosa, severa maestra. di vita e vittoriosa della morte. Dove sono le parentele tra questa concezione umanistica e la Voie d'Enfer et de Paradis di Raonl de Houdan, la Voie de Paradis del Ruteboeuf e il Livre du Champion des Dames di Martin le Frane, i primi involti nell'allegoria morale e religiosa, l'ultimo inteso ad esaltare in amore Frane Vouloir contro Malebouche?
Dopo il Santillana e Juan de Mena l'astro di Dante, ch'era apparso pallidamente tra le brume del primo crepuscolo, scompare. L'imitazione diretta della Divina Commedia nel Trionfo del Marques di Diego di Burgos e in Los doce triunfos de los doce apostoles di Juan Padilla costituisce un fenomeno individuale senza ripercussione sull’ambiente nel quale i due poeti fiorirono. Ma sia nell'una che nell'altra operetta è possibile scorgere le deformazioni subite dalla visione dantesca attraverso il prisma dei Trionfi petrarcheschi, che avevano artisticamente elaborato l’allegoria di puro stampo medievale, Il dantismo in Spagna nel periodo laborioso in cui si affermano e si determinano le principali caratteristiche dello spirito nazionale e si prepara il rinascimento, non esiste se non nel pensiero, degli spigolatori di frasi staccate, di ricalchi insignificanti, di forme logore dall'uso. Esso si è spento prima ancora di sfolgorare nella pienezza della sua luce. Come tra noi, dove pure s'ebbe il culto d'una gloria nazionale, come in tutte le nazioni civili, così in Spagna, Dante rimase un enigma, alla soluzione del quale concorse, solo più tardi, il pensiero critico maturato dal romanticismo, Col suo spirito di ribellione e di conquista, col suo desiderio di una scienza emanante dalle fonti perenni della poesia, con le sue tormentose aspirazioni alle vette, a tutte le vette del trascendentale e dell'eterno, dove il simbolo e l’allegoria, chiarendo e determinando l’ inafferrabile e l’invisibile, lumeggiano e riflettono il fantasma che si dissolve nell’idea, il romanticismo riuscì a un’adeguazione critica del pensiero e della poesia di Dante: del suo pensiero, per le conoscenze, per le tendenze e per le attività interamente chiuso nel medioevo; della sua poesia, in cui un'anima agitata da un intimo e intenso bisogno di espressione, s’effonde attingendo immediatamente alla vita e risolvendo nella fiamma della spiritualità creatrice ogni elemento culturale e riflesso. Questi due caratteri dell’opera dantesca, l’uno contingente, l’altro universale e umano, non furono compresi dal rinascimento che fu, nei risultati pratici e nelle conseguenze lontane, negazione del pensiero medievale ed eccessiva floridezza di cultura; la quale adombrò troppo spesso la creazione di primo getto, approntandole le forme ch'essa avrebbe dovuto, per virtù propria, suscitare e plasmare. Nella complessità di questo fenomeno che investì tutte le attività del mondo moderno, più che in certe particolari disposizioni dello spirito nazionale, stanno le cause della fortuna o sfortuna, che dir si voglia, di Dante in Spagna.

Date: 2022-02-02