Inferno IX [Vittorio Sermonti]

Dati bibliografici

Autore: Vittorio Sermonti

Tratto da: L'Inferno di Dante. Supervisione di Gianfranco Contini

Editore: Garzanti, Milano

Anno: 1988

Pagine: 187-206

«Il colore che la paura mi aveva dipinto in faccia (o magari che aveva spinto fuori, facendomelo affiorare sul viso), insomma, quel color che viltà di fuor mi pinse, quando vidi il mio maestro girarsi e tornare sui suoi passi, indusse lui a ricacciar dentro subito il suo novo (color), il colore, cioè, che cruccio e sdegno avevano fatto affiorare sul viso suo». Così si apre il IX canto, rimontando a una situazione che precede la chiusa del canto precedente. Ad uno scacchista verrebbe detto che, qui, Dante arrocca. Forse Dante, avesse voluto esplicitare il procedimento, avrebbe usato, come in apertura del canto scorso – ricordi? – il verbo ‘seguitare’.
Sul nuovo colore del viso di Virgilio manca l’accordo fra gli specialisti: rosso di cruccio? bianco di sdegno? C’è di sicuro, che la viltà fa pallido Dante. Una viltà tutt’altra, però, da quella che Virgilio gli rinfacciava nella oscura costa del II canto: dalla viltà che dettava al pellegrino – diciamo così – il suo «piccolo rifiuto» («se del venire io m’abbandono, / temo che la venuta non sia folle»… ricordi?). Lì era pusillanimità, irresolutezza morale, renitenza alla grazia; qui è disperazione di fronte a un pericolo concreto e incontrollabile. Lì la ragione sottomessa alla fede nella persona di Virgilio bastò a illuminare e rinfrancare il pellegrino-peccatore; qui tituba con lui.
E si pianta dov’è; e tende l’orecchio, perché l’occhio non può andar lontano (menare a lunga) per l’aria nera e per la nebbia folta; e (premesso fra noi che ‘punga’ sta per ‘pugna’ come, dopotutto, ‘venga’ sta per ‘vegna’…) mormora fra sé: “Pur a noi converrà vincer la punga / (…) se non… Tal ne s’offerse”. Versi torturatissimi, che un cauto buonsenso potrebbe diluire così: ‘eppure è certo che supereremo la prova, a meno che… Ma come dubitarne, se un essere tale ci si è offerto a garante, ci ha preso insomma sotto la sua tutela?’. E non parrebbe irragionevole attribuire la perplessità di Virgilio al fatto che non sa spiegarsi il ritardo del personaggio salvifico annunciato alla fine del canto scorso; il superamento della perplessità, al pensiero di chi ha autorevolmente patrocinato quel pellegrinaggio oltremondano (di Beatrice, cioè, se non della Vergine mandante o di Dio stesso). Comunque, il protrarsi dell’attesa non risparmia all’antico poeta una risacca d’ansia: “Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!” (qualcosa come ‘non vedo l’ora che arrivi chi deve arrivare’).
Dal canto suo, Dante-pellegrino si è accorto bene che il maestro ha interrotto una proposizione appena iniziata, coprendone gli sviluppi con parole di tutt’altro segno; e, per confortanti che fossero queste ultime, ciò che Virgilio ha detto tanto più lo impaurisce (paura il suo dir diènne, ‘ci diede’, cioè ‘mi diede’), in quanto egli è portato a completare la frase tronca con un significato (sentenzia) forse peggiore di quello che in realtà non contenesse. E insinua un quesito: “Succede mai che nel fondo di questo catino infame (trista conca) scenda dal primo cerchio qualcuno di quelli che come unica pena hanno la mutilazione della speranza (la speranza cionca)?”.
Laboriosa perifrasi per un sospetto un po’ misero: ‘siamo sicuri che quest’anima disperata del limbo sia capace di scendere fino al fondo dell’inferno? Abbiamo almeno un precedente? Non vorrei che quel se non… lasciato a mezz’aria tradisse il timore di aver sbagliato strada’.
E Virgilio: “Succede di rado, ma succede (incontra), che qualcuno di noi limbicoli faccia la strada che io sto percorrendo. Fatto sta, che già altra volta io son venuto quaggiù personalmente, congiurato da quella Eritón cruda, evocato, cioè, dagli scongiuri di quella efferata Eritone, che richiamava gli spiriti dei trapassati nei loro corpi. Da poco avevo lasciato esanime la mia carne, quando costei mi fece entrar dentro a quella cerchia di mura, per trarne un’anima dal cerchio di Giuda: cerchio che, essendo il disco centrale del Cocito, è appunto la zona più incassata e più buia dell’inferno, la più remota dal cielo che tutto gira (cioè dal nono cielo o Primo Mobile, che – come verificheremo lassù – tutto avviluppa e tutto fa ruotare). Perciò”, stringe Virgilio, “puoi star tranquillo: la strada, la conosco bene. Questa palude, che esala tanto puzzo, cinge tutt’intorno la città dei dannati, dove ormai va escluso che possiamo entrare sanz’ira (diciamo pure: con le buone)”. E disse altro – dice Dante –, ma lui non se ne ricorda…
Intanto, chi è questa efferata Eritone?
È Erictho, la maga tèssala che, nel VI libro della Farsaglia di Lucano, rianima il cadavere d’un soldato appena caduto sul campo, convocandone l’ombra dalle soglie dell’Ade, perché predìca a Sesto, figlio di Pompeo il Grande, l’esito funesto della imminente battaglia. Ma non c’è articolo o comma della ingente legislazione infernale riposta nella dottrina dei teologi o nella paura dei popoli cristiani che preveda per gli ospiti del limbo mansioni di accompagnatori d’anime. Questa storia del precedente viaggio di Virgilio nel fondo del cratere, insomma, è una pensata di Dante.
Pensata ricca di incongruenze, fra l’altro. Difatti se, in via di principio, sembra inammissibile che il decreto dell’Onnipotente, che autorizza Dante a viaggiare i tre regni dei morti e Virgilio a scortarlo per i primi due, valga all’inferno meno dell’esorcismo di un’antica strega; c’è da dire che, nel merito, lo stesso episodio della Farsaglia chiamato in causa, più che legittimare la favola del primo viaggio di Virgilio, parrebbe escluderla: infatti dai versi di Lucano non risulta affatto che questa Erictho si serva di intermediari per estrarre dall’abisso anime di morti, anzi risulta il contrario.
Se tuttavia, ultimata la lettura di questo IX canto dell’Inferno, uno andasse a rileggersi i trecento e passa esametri che Lucano dedica alla maga di Tessaglia e alle sue pratiche scellerate, qualche non trascurabile dettaglio potrebbe farlo riflettere: il fatto, per esempio, che tardando l’anima del soldato a rientrare nel proprio cadavere gelido e sbrindellato, Erictho inveisca contro le Erinni, chiamandole «cagne dello Stige»; e le minacci; e che minacci Medusa – la più giovane delle tre Gorgoni, famosa per far di sasso chiunque incroci i suoi occhi – …la minacci di convocare un dio magico ed enigmatico che può guardarla in faccia; e, per esempio, che questa Erictho abiti in un sepolcreto. Temi tutti e figure con cui faremo i conti nel seguito del canto.
Non contraddice, comunque, altri tracciati interpretativi l’ipotesi che la citazione di Eritón cruda sia un segnalato omaggio reso da Dante, per bocca di Virgilio, alla Farsaglia, il poema incompiuto del giovane poeta cordovano: poema che in questo canto, nel prossimo e, a intermittenze, in tutto il basso inferno fornirà al poeta fiorentino un repertorio di portenti e la tonalità fantastica di fondo, subentrando agli orrori nitidi e cerimoniali dell’Averno virgiliano con le sue allucinazioni tenebrose, con la sua baroccheria «mélancholique et déchirante», come la definirà Baudelaire…
In questo senso, che ad evocare la Farsaglia sia proprio Virgilio, conta.
Ma intanto, perché Dante-pellegrino si è distratto (e Dante-poeta si è dimenticato quel che Virgilio seguitava a dire)? Perché i suoi occhi avevano calamitato tutta intera la sua attenzione (l’occhio m’avea tutto tratto) sulla cima rovente della torre che presidia le porte di Dite, dove in un baleno e simultaneamente s’erano rizzate tre furie infernali: le tre Erinni, appunto, imbrattate di sangue, che avevan membra e tratto di donna, erano avviluppate da serpenti (grosse, velenose e verdissime, le idre son serpenti d’acqua), e per capigliatura avevano serpi e serpentelli cornuti (ceraste) che le serravano alle tempie.
Virgilio subito riconosce le meschine / de la regina de l’etterno pianto, le serve, cioè, di Prosèrpina, regina dell’Averno (‘meschino’ nel senso di ‘servo’ è provenzalismo, mentre il nostro ‘meschino’ per ‘gretto, disgraziato’ conserva il valore dell’etimo arabo ‘miskîn’): le riconosce e le addita al discepolo: “A sinistra è Megera, a destra Aletto disperata, nel mezzo Tesìfone”. Qui l’antico poeta tace. E Dante sgrana gli occhi sulle tre, e le vede fendersi il petto con le unghie, percuotersi con le palme delle mani, come prefiche nei riti funebri; le sente gridare alto; così che, dallo sgomento (per sospetto), si stringe al maestro.
Guardando in giù, le Erinni urlano: “Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto” (così lo pietrificheremo); e soggiungono: “Mal non vengiammo in Tesëo l’assalto”. Oscuro chiarimento, che dovrebbe significare: ‘abbiam fatto male a non vendicarci di Tesèo per la sua irruzione’ (‘vengiare’ è gallicismo patente). Chiaro, comunque, che le Furie alludono, prima, alle notissime proprietà pietrificanti della faccia di Medusa; poi, alla discesa di Tesèo agli Inferi per rapire Proserpina dal letto di Ade-Plutone, e al fatto che quella canagliata non fosse stata punita come meritava, così da consentire di lì a poco ad Ercole di liberare la canaglia (Tesèo), per di più strapazzando e ridicolizzando il cane Cerbero: eventi, enunciati nel VI dell’Eneide, sui quali torneremo con Dante fra una cinquantina di versi. ‘Se ci fossimo vendicate a dovere su quel Tesèo lì – lasciano intendere le tre –, nessun vivo ci avrebbe riprovato, a irrompere quaggiù…’.
Qui il maestro grida: “Vòltati e tàppati gli occhi (tien lo viso chiuso)! ché se si mostra Medusa (’l Gorgón) e tu dovessi vederla, nulla sarebbe di tornar mai suso” (banalizzeremmo noi: ‘di tornare sulla terra, non se ne parlerebbe più’). Grida, e lui stesso, materialmente, fa girare il discepolo, e non si fida delle mani con cui quello si copre gli occhi, finché non vi ha sovrapposto le proprie.
A questo punto Dante Alighieri rivolge al lettore un famosissimo appello: «O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani».
Il primo senso dell’appello è trasparente: ‘voi che avete l’intelletto libero e orientato al vero, considerate la verità teoretica schermata dal velo di questi versi enigmatici, decifrate il significato segreto di queste antiche figure’. Molto meno accessibile, naturalmente, è questo secondo significato, almeno per noi posteri ennesimi. Rischiamo un’ipotesi? Rischiamola.
Se si estende il monito a tutta la situazione narrativa in cui siamo implicati dal momento dello sbarco sulla riva interna dello Stige, inclusa l’imminente irruzione di «tal che per lui ne fia la terra aperta» (ricordi come chiudeva il canto passato?), lo schema allegorico velato potrebbe essere, più o meno, questo: ‘non basta l’ausilio della filosofia naturale (Virgilio) ad affrontare e padroneggiare i peccati di malizia, i peccati cioè perpetrati a mezzo della ragione, che vengono puniti dentro la cinta delle mura di Dite; infatti, l’accesso all’esperienza e al superamento puramente intellettuale della malizia è ostruito, prima, dal terrorizzante esercito delle tentazioni (i diavoli), poi dalle ossessioni del rimorso (le Erinni), infine dalla disperazione che consegue al rimorso, e irrevocabilmente impietrisce il cuore (Medusa); dalla quale disperazione la ragione naturale (Virgilio), assoggettandosi a una fede di cui non sa intravedere la luce, varrà a preservare il peccatore spaurito e debilitato (Dante), peraltro non più di quel tanto che gli consenta di umiliarsi al pentimento e di arrendersi ciecamente alla speranza (gli occhi due volte coperti), propiziando così il soccorso inesplicabile, drastico e semplicissimo della grazia (e già venìa…)’.
Schema assai povero, cui però converrà rassegnarci, non foss’altro perché il gran numero dei personaggi che animano questa allegoria ha dato adito nei secoli ad una quantità di combinazioni interpretative praticamente inesauribile. La sola Medusa, per la quale ci è parso sensato accettare il richiamo alla «obduratio cordis» (all’indurimento del cuore dovuto a disperazione di cui ragiona Tommaso d’Aquino), è sembrata di volta in volta ai chiosatori figura allegorica del Dubbio per carenza di fede, dell’Invidia accesa dai beni mondani, dell’Eccesso d’immaginazione, del Diletto dei sensi, dell’Ostinazione, dell’Eresia, e di quant’altro possa cospirare a dannarci l’anima.
Senonché, questo appello al lettore (anzi, per una volta, ad una comunità di lettori, per quanto la prerogativa di aver «l’intelletto sano» possa circoscriverla)… questo appello – dicevo – che tien dietro al «pensa, lettor» del canto scorso, e con quello avvia la serie, induce ad un altro ordine di riflessioni.
Amico mio plurale, conterei di infliggertele, moderatamente.
Dunque, Divina Commedia… proviamo a ricominciare da capo, e a leggerla tutta forte: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai»… Basta così: ‘mi ritrovai’… chi? chi si ritrovò?
Fin qui, parafrasando e raccontando, abbiamo distinto fra un Dante-poeta e un Dante-pellegrino: in altri termini, fra «Dante autore» e «Dante protagonista» della Commedia (distinzione che, fra l’altro, ci capiterà di utilizzare anche in seguito, per comodità espositiva). Ma è ora che ci poniamo una domanda elementare: nel leggere (forte) la Divina Commedia, chi sei? che parte fai? insomma: chi è l’io che racconta di essersi ritrovato per una selva oscura e via dicendo?
Dirai: Dante, l’Autore.
Su Dante siamo d’accordo, sull’Autore meno. Mi spiego con un esempio che non mi sto inventando io.
Circa ai due terzi della Recherche du temps perdu, Albertine interpella per la prima e penultima volta il protagonista che figura narrare in prima persona l’immane romanzo, col suo nome proprio ‘Marcel’: «dando al narratore – nota argutamente Proust – lo stesso nome proprio dell’autore di questo libro». Arguta chiosa che, associandoli per omonimia, distingue radicalmente «autore» (cioè, la persona anagrafica di Marcel Proust, che in una stanza foderata di sughero, stremato dall’asma, scrive… ecc. ecc., e che firmerà il libro in copertina) e «narratore» (cioè, il Marcel che racconta in prima persona quel che gli è capitato in un tempo passato e perduto).
Distinzione elementare. Pensaci: se l’io che narra figura essere, a distanza di tempo, la stessa persona che ha vissuto da protagonista quelle storie fittizie, anche lui, l’io-narrante – per quanta autobiografia, per quanta privatezza circoli nella Recherche – è manifestamente e a pieno titolo una persona fittizia, un personaggio. Come personaggio era nel vivere quelle storie, continuerà a essere personaggio adesso che ce le racconta.
Ora, è noto che anche Dante verrà interpellato col suo nome proprio, a due terzi circa della Commedia, da donna Beatrice nel paradiso terrestre («Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora!»). E quel Dante lì, per quanto omonimo dell’autore, per quanto «in antefatto» la sua biografia tenda a combaciare con quella dell’autore, non è l’autore (Dante Alighieri, nato a Firenze nel tale anno, esule immerito dal tal altro, e via dicendo): è semplicemente il protagonista della storia narrata, il quale, in capo a una interminabile trafila iniziatica, sarà promosso a raccontarcela, scrivendo quel che leggiamo noi.
Insomma, è un personaggio: il «personaggio-di-chi-scrive», secondo la formula geniale di Gianfranco Contini. E anche se la «fictio» della Commedia pretende che la Commedia non sia una «fictio» (ma, a conti fatti, non c’è racconto in prima persona che non pretenda qualcosa del genere); anche se, prendendolo in parola, tu fossi convinto che Dante Alighieri abbia realmente percorso in carne ed ossa i tre regni dei morti, nelle modalità indicate: il Dante protagonista della Commedia resta personaggio di «fictio», e dunque anche il Dante che ce la racconta monologando è personaggio di «fictio», o, come dire?, fittizio, inventato.
Ben perciò la distinzione canonica fra «Dante autore» e «Dante personaggio» confonde i termini del problema semplificandoli troppo. Infatti è chiaro – spero – che in quel «Dante autore» risultino abusivamente identificati Dante Alighieri e l’io narrante, cioè l’entità storico-anagrafica di una persona fisica e l’entità fittizia di un personaggio; mentre nel «Dante protagonista» il pellegrino mistico che ha traversato i tre regni dei morti risulta abusivamente scollato, scorporato dal personaggio che, consumata quella portentosa trafila iniziatica, assolve al mandato di riferircela.
È a quel personaggio lì, è al «personaggio-di-chi-scrive» che dai voce quando leggi la Divina Commedia.
E non starò a dire su due piedi – non facciamo che prenderne atto – come questo personaggio sia sbalorditivamente complesso e, insieme, poco caratterizzabile; quanto inestricabile sia l’ordito di ritrattazioni, abiure, interferenze e complicità fra il narratore-convertito e il protagonista-in-via-di-conversione.
Ma, già che ci siamo, mendico ancora un attimo della tua attenzione.
Tu sai che il viaggio nei tre regni dei morti figura consumarsi in un tempo storicamente determinato (prima primavera dell’anno 1300). Il tempo in cui l’io racconta è, invece, il presente fittizio della scrittura: è il tempo, insomma, in cui Dante Alighieri «finge» di scrivere il poema sacro, abilitato dalla visione del creatore. Ma ogni volta che chiunque dà voce a quei versi, è il presente in cui quel chiunque sta vivendo.
Infatti, il tu a cui quell’io si rivolge – di tratto in tratto interpellandolo espressamente – è il lettore: sei tu. Ma tu che ad alta voce dici “pensa, lettor”, stai pronunciando parole di un monologo profetico in cui l’attimo e l’atto stesso della tua lettura figurano come simultanei all’atto e all’attimo della scrittura. Cioè, stai facendo teatro.
E per ora basta e avanza; anche se non abbiamo certo esaurito il discorso sul «genere teatrale» della Divina Commedia, timidamente avviato il canto scorso… Ma basta davvero. Ché l’io-che-scrive sta dicendo l’arrivo del messo del cielo, di colui che esaudisce ed eccede ogni speranza: «E già venìa su per le torbide onde un fragore terrorizzante, anzi – stupendamente – il fracasso d’un suon, pien di spavento, che faceva tremare l’una e l’altra sponda della palude, non dissimile da quello d’un vento che, scontrandosi con masse d’aria calda e rarefatta, cresce d’impeto, fende il bosco e, sfrenato, schianta rami, li abbatte e li trascina via. E avanza superbo in un nugolo di polvere, mettendo in fuga animali e pastori».
La procellosa irruzione celeste, che evoca l’avvento dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, spaventa il pellegrino, il quale, gli occhi due volte sigillati, non percepisce se non quello che ascolta. Ma subito il maestro gli libera gli occhi, esortandolo: “Or drizza il nerbo / del viso… e ora punta pure l’energia della vista sulla superficie schiumosa, dove la nebbia è più densa e molesta”.
Come rane davanti alla nemica biscia, l’io dice di aver visto una moltitudine d’anime annichilite dalla dannazione saettar via per l’acqua e rannicchiarsi abbarbicate al fondo (il verbo ‘abbicarsi’ varrà ‘aggregarsi in covone, far mucchietto di sé’), dinanzi ad un ch’al passo / passava Stige con le piante asciutte. Nel brulichio d’anime-rana, suggerito forse dal naturalismo meticoloso di Ovidio, soprannaturale e concreto incedeva sul pantano quell’uno, scostandosi dal viso con la mano sinistra l’aria unta e spessa, come si fa con le ragnatele in solaio; e non dava mostra d’esser provato da altro fastidio.
Ben si accorge il pellegrino che quello è inviato dal cielo, e si volge al maestro; e il maestro gli fa segno di tacere e inchinarsi. Ahi, quanto gli appare sprezzante di collera, quell’uno!…
Giunto alla porta, il messo celeste la apre col tocco d’una verghetta. Nulla gli si oppone. Ed eccolo, piantato sull’orribile soglia della città, inveire contro la turba spregevole dei diavoli (gente dispetta), dileguata verso il fondo del cratere con le pavide Erinni: “Ma perché vi compiacete tanto di questa tracotanza? Perché vi ostinate a recalcitrare a quel volere, cui mai può essere impedito il conseguimento dei fini, e che ogni volta vi ha rincarato la pena? A che pro, cozzare contro decreti irrevocabili (ne le fata dar di cozzo)? Il vostro Cerbero, se ricordate, ne porta ancora il segno sul mento e sulla collottola spelacchiati…”.
E con quest’allusione pesantemente derisoria alla favola di Ercole – il quale (ne parlavamo un momento fa) si narra trascinasse via incatenato il cagnaccio che voleva opporsi alla sua discesa nell’Averno – il messo del cielo tronca il discorso, si gira e si riavvia per il cammino fangoso, senza rivolgere parola ai due poeti, col piglio di persona incalzata da ben altro pensiero (cui altra cura stringa e morda) che non quello di chi gli sta fra i piedi.
Rassicurati dalle parole sante, i due muovono verso la città di Dite.
Non è ragionevole dubitare che sia un angelo, questo inviato celeste che premia la cieca resa alla speranza del pellegrino sull’orlo della disperazione. Verosimile, sia lo stesso arcangelo Michele, il cui nome – se ricordi – era bastato a Virgilio per afflosciare la rabbia crittologica di Pluto: «vuolsi ne l’alto, là dove Michele / fé la vendetta del superbo strupo»… Certo, la soprannaturale naturalezza del suo tratto, l’intangibile plasticità e la concretezza misteriosa della sua persona ripetono il paradosso cristiano dell’incarnazione di Dio.
D’altra parte, merita attenzione il gran numero di riscontri fra i modi dell’attesa e dell’avvento di questo messo celeste, e le roventi premonizioni di riscatto registrate in due epistole latine (la VI e la VII) che Dante dettò nella primavera del 1311, quando Arrigo VII di Lussemburgo, «santissimo, gloriosissimo e felicissimo, trionfatore e signore unico per volontà del Signore», disceso alla buonora in Italia, indugiava di là dal Po, senza darsi pensiero della povera Toscana.
Ma se i nessi forti fra l’VIII e IX canto dell’Inferno e le due epistole documentano la compattezza dell’universo fantastico e ideologico di Dante, l’incandescenza della sua visione escatologica, non sembrano autorizzare alcune lambiccate semplificazioni: che, ad esempio, il pronome ‘tal’, con cui Virgilio designa due volte nel canto scorso, una in questo, il garante (o forse meglio, i garanti) della grazia celeste sia l’acronimo di «Teutonicus (o Templaris) Arrigus Lucemburghensis» (cioè, di Arrigo VII di Lussemburgo); che la città di Dite sia Firenze tout court; e, tantomeno, che questi due canti dell’Inferno siano stati scritti dopo il 1311…
Il messo (latino ‘missus’, greco ‘ángelos’) è un angelo: un angelo redentore che, come il fragile principe lussemburghese santificato dalla speranza di Dante – e come l’enigmatico veltro –, replica l’avvento del Cristo, per attuare la pace dell’ordine terreno promessa dal Dio vivente, e minacciata dalle potenze e dalle seduzioni dell’abisso. Anche se non andrà presa sottogamba l’ipotesi che il tratto, la verghetta magica di quest’angelo, e – perché no? – la stessa sboccataggine con cui interpella diavoli ed Erinni lo associno in qualche modo a Mercurio.
Entrati i due poeti nella città, senza colpo ferire, Dante spedisce intorno lo sguardo ingordo a scrutare la condizion che tal fortezza serra, insomma che cosa contenga, all’interno della cinta muraria, il sesto cerchio d’inferno, che dobbiamo immaginare più o meno complanare del quinto.
E da ogni parte vede una grande campagna, una distesa lamentosa e tormentosa, che gli ricorda Arles, alla radice del delta paludoso del Rodano, o Pola (presso il golfo del Quarnaro, che bagna gli estremi confini dell’Italia), dove fanno i sepulcri tutt’il loco varo, dove, cioè, i sepolcri diversificano il terreno crivellandolo. E si tratta, appunto, dei sepolcri terragni di Porto Grande a Pola, ormai cancellati dal tempo, e di quelli della necropoli paleocristiana di Arles, della quale i turisti, se non c’è troppa ressa, riescono ancora a intraveder qualche traccia nel Cimitière des Alyscamps.
Ma più crudeli sembrano questi sepolcri d’inferno, circondati da fuochi che li arroventano al segno, che ferro più incandescente non richiede arte di fabbro (che ferro più [acceso] non chiede verun’arte). Le arche di pietra son tutte scoperchiate, ed esalano lamenti così strazianti, che non possono essere se non di sventurati sotto tortura (di miseri e d’offesi). Chi sono? Con una certa trepidazione, il discepolo lo domanda al maestro.
“Sono”, spiega Virgilio, “i capi di sètte ereticali (li eresïarche) con i loro seguaci; e le tombe son molto più cariche di quanto non sembri. Ogni eretico è sepolto con gli eretici della medesima setta, e i singoli monumenti sepolcrali hanno diversi gradi di calore”.
Qui il maestro si incammina verso destra (per la prima volta: finora si era mosso sempre in senso antiorario), e i due passano fra quegli strumenti di tortura (i martìri) e l’alta cerchia delle mura (li alti spaldi).
Così si chiude il IX canto, contro un fondale lugubre e accidentato, che, oltre alle necropoli della Provenza e dell’Istria, potrebbe ricordarci – come certamente avrà ricordato a Dante – il sepolcreto di Tessaglia, dove abitava e consumava i suoi irriferibili sortilegi la maga Erictho. ‘Busta’, chiama Lucano quelle tombe: ‘luoghi della combustione’, loculi di pietra dove i morti bruciano e giacciono in eterno senz’anima.

Date: 2022-02-01