Il canto IX dell'Inferno [Giacomo Venturi]

Dati bibliografici

Autore: Giacomo Venturi

Tratto da: Il canto IX dell'Inferno letto da Giovanni Antonio Venturi nella sala di Dante in Orsamichele

Editore: Sansoni, Firenze

Anno: 1901

Pagine: 5-32

Il nono dell’Inferno, ove si eccettui qualche passo come la venuta del messo celeste, non è dei canti più noti c più comunemente ammirati. Molti lettori si lasciano sgomentare da alcune difficoltà; e a che fermarsi qui dinanzi ad oscure allegorie e annoiarsi con le infinite dispute dei commentatori, se altrove il Poeta ci suscita nell'animo così immediata e profonda commozione, se dopo poche carte ci attrae l’episodio magnifico di Farinata? Eppure che potenza narrativa e descrittiva, che ricchezza di poesia è in questo nono canto! Non lo giudicherei col Tommaseo, cui tuttavia alcune parti non piacevano, più originale del quinto, ché il confronto non mi pare possibile; ma certo, benché in più luoghi e per pit rispetti assai arduo, è dei canti più ammirevoli. Drammatico anche, sino dalle prime terzine: Virgilio non è riuscito a vincere la fiera resistenza dei demoni della città di Dite, nondimeno ha ammonito Dante di non isbigottirsi, e gli ha annunziato che già

…discende l’erta,
passando per li cerchi senza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta
(Inf. VIII. 128-130);

ma Dante è impaurito e pallido per lo spavento.

Quel color che viltà di fuor mi pinse,
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo nuovo ristrinse.

Attento si fermò com’ uom che ascolta;
ché l'occhio nol potea menare a lunga
per l’aer nero e per la nebbia folta.

«Pure a noi converrà vincer la punga,
cominciò ci, se non... Tal ne s’offerse!
Oh quanto tarda a me ch’ altri qui giunga!»
(c. IX, 1-9).

L'affettuosa sollecitudine di Virgilio si palesa anche in quel suo subito ricomporsi, e il verso Attento si fermò... com’uom che ascolta ne scolpisce l’atteggiamento. Se qualche cosa fortemente ci occupi o turbi, non di rado ci sorprendiamo a far qualche gesto, a pronunziar qualche parola: quel breve soliloquio di Virgilio, con quelle interrotte parole che come involontariamente gli vengono alle labbra, manifesta tutta la sua ansia nell’attesa. Pure della vittoria è sicuro e impaziente dell’indugio; ma Dante non si rinfranca: il timore lo fa sospettoso, non presta fede a tanta sicurezza, e trae quel se non di Virgilio, quella sospensione, forse a peggior sentenza ch’ei non tenne. Ma quale ne è veramente il significato? Il dire, come taluno fa, che il volerlo spiegare è fatica sprecata, perché nemmeno Dante è certo di aver ben capito, è un confondere Dante attore della mistica visione con il poeta, con l’autore; cosa assai facile, chi non istia bene attento, per effetto della sovrana arte di questo, onde sembra che descriva quel che davvero ha veduto e che narri cose accadutegli realmente. Certo l'autore avrà ben avuto in mente il senso di quella reticenza: piuttosto noi, pur intendendo all’ingrosso, non possiamo aver troppa fiducia di coglierlo giusto. Forse Virgilio intendeva: ad ogni modo converrà a noi stessi di vincere, se non viene l’aspettato soccorso (ma il dubbio che questo possa mancare lo ricaccia subito); e a Dante sonò peggio quel se se non: se non errai nel cammino, se non è addirittura impossibile l'andare innanzi, o alcunché di simile. Ond’egli domanda: quaggiù nel basso Inferno discende mai alcuno del Limbo; e Virgilio, che intende il suo parlar coverto, risponde accader di rado che alcun di loro faccia quella via, ma ch'egli altra volta andò giù sino nel fondo estremo,

Congiurato da quella Eriton cruda,
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.

Narra Lucano nel VI della Farsaglia che questa potentissima e orrenda maga tessala, ad istanza di Sesto Pompeo, richiamò in vita un'ombra per conoscere quale fine avrebbe avuto la guerra civile tra Pompeo padre di lui e Giulio Cesare. Di Eritone Lucano «scrive fiere e maravigliose cose», come dice il Boccaccio; né io so se maggiori fossero la ferocia e le atrocità di costei o la prolissità del poeta latino nel descriverle. Dante si contenta di chiamarla creda, l'epiteto che dà pure a Manto, e finge che, ancora viva dopo la morte di Virgilio, si valesse dell'anima di lui, da poco tempo discesa al Limbo, per trarne un spirto dal cerchio di Giuda (come poi quell’ ultimo cerchio fu, dopo la morte di Giuda, denominato).
Non pochi scorgono in ciò un ricordo delle leggende popolari del Medio Evo intorno a Virgilio mago: da esse sarebbe venuta a Dante la prima idea dell'andata di Virgilio alla Giudecca. Ma Domenico Comparetti respinge tale opinione: è un grand’errore, egli afferma, pensare a quelle leggende a proposito del Virgilio dantesco, e risolutamente nega che vi sia in questo luogo un accenno alla magia del poeta latino: «quasi che fosse mago, esclama, chi soggiace alle arti di una maga!» Pochi anni fa, ripubblicando la magistrale opera su Virgilio nel Medio Evo, ribadiva ancora la sua sentenza; nella quale pienamente conviene un altro critico dotto e acuto, il D'Ovidio.
Certo a Dante era espediente che la sua guida già avesse compiuto il viaggio dell'Inferno, come la guida di Enea, la Sibilla, conosceva il Tartaro, dove Ecate l'aveva condotta dandogliene piena notizia (ipsa deum poenas docuit perque omnia duxit. En. VI, v. 565); ed immaginare questo scongiuro del grande e celebre poeta, poco dopo la sua morte, per opera di una maga, non era un'invenzione punto bizzarra e strana. Piuttosto non è chiaro perché, per evocare uno Spirito dalla Giudecca, la maga abbia bisogno di Virgilio. Molti accolgono e ripetono la ipotesi del Biagioli; secondo la quale, per una legge dell’Inferno, se un'anima è cavata fuori dai cerchi pit bassi, un’altra pel tempo di sua assenza deve andare, quasi per ostaggio, in cambio di lei: se non che quest’ ipotesi non trova in nessun altro luogo del poema fondamento o appoggio. È forse migliore congettura che gli spiriti magni del Limbo abbiano sopra le anime degli altri cerchi una specie di autorità e giurisdizione. Non credo poi sia stato fin ora avvertito come da Lucano fosse suggerita a Dante l'idea che la maga abbia ad evocare uno spirito del primo cerchio, e da poco disceso al regno dei morti. Infatti Eritone grida alle potenze infernali:

Non in Tartareo latitantem poscimus antro,
assuetamque diu tenebris, modo luce fugata
descendentem animam: primo pallentis hiatu
haeret adhuc Orci (Pharsal. VI, vv. 71215).

Virgilio può dunque assicurare Dante di aver fatto altra volta quel cammino, di conoscerlo bene; e come a prova (quasi sorridendo con paterna indulgenza degli ostinati dubbi e timori di lui), gli dice che quel cerchio di Giuda è il più basso loco e il più oscuro, e il più lontan dal ciel che tutto gira, e che la fetida palude Stige cinge d’intorno la città dolente. Altro pure aggiunge, ma Dante non gli dà più ascolto colpito da una terribile apparizione sulla rovente cima dell’alta torre di Dite,

Ove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra femminili aveano ed atto,

e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avean per crine,
onde le fiere tempie eran avvinte.

Così, nel vi dell’Eneide, Tesifone sta sopra una torre all'entrata del Tartaro:

… stat ferrea turris ad auras,
Thisiphoneque sedens, palla succincta cruenta,
vestibulum exsomnis servat noctesque diesque
(vv. 554-56).

Dante rappresenta le Furie con attributi e particolari tolti dall’Eneide, dalle Metamorfosi di Ovidio e, come osserva il Moore, segnatamente dalla Tebaide di Stazio; ma ce ne dà un’immagine più raccolta e più evidente: se da altri prende i colori, c'è il disegno suo, netto e vigoroso.
Nel figurare le Furie come femmine egli segue la tradizione classica; ma Benvenuto da Imola vuol dare ragione di ciò, e (chi lo crederebbe?) ne prende anche argomento per certe sue osservazioni di psicologia femminile, affermando cioè non solo che la donna tutto fa gagliardamente, se ama ama intensamente, e in simil modo se odia odia immensamente, ma altresì che non v’ha ira la quale sopravanzi quella della donna. «Ad propositum ergo, sicut foemina infuriatur et indaemoniatur et irascitur, quia non est caput super caput serpentis, nec ira super iram mulieris, ita nunc furiae incendebantur contra autorem».
Virgilio ben riconosce le ancelle di Proserpina,

le meschine della regina dell'eterno pianto:

«Guarda, mi disse, le feroci Erine.
Questa è Megera dal sinistro canto;
quella, che piange dal destro, è Aletto;

Tesifone è nel mezzo»: e tacque a tanto.
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto,
batteansi a palme, e gridavan sì alto,

ch’ io mi strinsi al poeta per sospetto.

Esse chiamano Medusa; della quale Dante si vale ad accrescere il terrore della scena, probabilmente per una reminiscenza felice delle Metamorfosi:

«Venga Medusa! sì ’l farem di smalto,
gridavan tutte riguardando in giuso;
mal non vengiammo in Teseo l’assalto».

Mal non vengiammo in Teseo l’assalto. Mal facemmo a non vendicare l' assalto di Teseo, mal fu per noi non punire Teseo; il quale discese all'Inferno con Piritoo per rapire Proserpina, e vi rimase prigioniero, ma poi fu da Ercole liberato. Così spiegano quasi tutti i commentatori, e può stare: il mito è comunemente narrato in tal modo, e mal non vengianmo può ben essere interpretato nel modo che ho detto (cfr. Inf. XII, 66; Purg. IV, 72, XII, 45 ecc.). Se non che pochissimi intendono: non ci vendicammo male dell’assalto di Teseo, ben lo punimmo: ora chi pensi a ciò che si legge nell’ Eneide (vi, 617-18), che nel Tartaro sedet aeternumque sedebit infelix Theseus (così dice ad Enea la Sibilla), dovrà almeno dubitare se non sia da preferire questa seconda interpretazione, onde, anziché stizzoso rammarico, sonerebbero minaccia, col ricordo della pena di Teseo, le parole delle Furie.
Virgilio con gran premura ordina a Dante di tener chiusi gli occhi, ché, se vedesse Medusa, non vi sarebbe scampo, non più gli sarebbe possibile di tornare al mondo; né basta, ché, non affidandosi alle mani di lui, premurosamente anche colle proprie gli chiude e copre gli occhi. A questo punto il Poeta si rivolge ai lettori e ammonisce:

O voi, che avete gl’ intelletti sani,
mirate la dottrina che s’ asconde
sotto il velame degli versi strani!

L’invito non è stato indarno: chi non crede d'aver l'intelletto sano? Par sì averlo a nui, che mai per esso a Dio voti non ferse, assicura l’Ariosto. Ma Dante scrive nel Convivio (IV, 15) che l'intelletto «sano dire si può, quando per malizia d’animo o di corpo impedito non è nella sua operazione», e ne insegna le infermità sia per malizia dell'anima, sia per difetto di corpo. La prima delle tre orribili infermità, le quali, secondo la malizia dell'anima, egli ha vedute nella mente degli uomini, è di «naturale jattanza causata; ché sono molti tanto presuntuosi, che si credono tutto sapere, e per questo le non certe cose affermano per certe». Forse anche tra i chiosatori del Divino Poema se ne trovano alcuni non immuni da cotal vizio: io cercherò di guardarmene, ma, senza davvero volere dare per certe le cose non certe, vediamo se ci riesce, aguzzando qui ben gli occhi al vero, di trapassare sotto il velame degli versi strani.
Non entrerò nella selva selvaggia delle diverse interpretazioni di questa allegoria, forse la più malsicura e difficile della Divina Commedia; pure qualche cenno è necessario. Di Medusa due interpretazioni prevalgono: per molti è il diletto sensuale, per altri non pochi è l’eresia o il dubbio. Lo Scartazzini vide nell'Erinni la mala coscienza, in Medusa il dubbio che rende l’uomo insensibile come pietra, e ragionò e compose una assai ingegnosa e ben architettata spiegazione, che è la migliore di quante ne sono state proposte a giudizio del Casini e d’altri. Non se ne appagò il Fornaciari: in uno studio notevole, che non so perché sia generalmente dimenticato, modificando e avvalorando dichiarazioni già da altri messe innanzi, cercò dimostrare che le Furie simboleggiano o solamente o principalmente almeno l'invidia, e Medusa i beni mondani, i quali fanno diventare invidioso chi li riguarda. Per il padre Berthier le Furie sono le tre forme e cagioni della bestialità, e Medusa rappresenta l’accecamento e l’indurazione, secondo dice San Tommaso: anche per il Pascoli questa è l’indurimento e accecamento che segue ai peggiori peccati, e le Erinni raffigurano la triplice malizia punita dentro Dite, malizia con forza, con frode, con tradimento.
Poiché debbo manifestare il mio pensiero, io credo che non ci si abbia a dipartire dal più naturale significato delle Furie e di Medusa. Questa è il terrore che pietrifica l'uomo, come ne già si sostenne Benvenuto da Imola, o, come più determinatamente intendono altri, la disperazione: quelle simboleggiano le pene o pit specialmente i rimorsi. che tormentano i colpevoli dei peccati puniti nel basso Inferno, ove Dante sta per entrare. Il battersi con le palme, le alte grida, soprattutto il lacerarsi con le unghie il petto ben si convengono a figure rappresentanti le perturbazioni, i rimorsi delle coscienze prave. E che questo appunto sia qui il significato morale dell'Erinni pensarono, senza pur darne ragione, così parve loro evidente e sicuro, alcuni commentatori, per i quali però Medusa è il piacere dei sensi.
Tale significato dettero alle Furie gli antichi, come in più luoghi attesta Cicerone: gli scellerati, i rei, dice ad es. nel De Legibus, I, XIV, «agitant insectanturque furiae, non «ardentibus taedis», sicut in fabulis, sed angore conscientiae fraudisque cruciatu». Di alcuni di quei passi ciceroniani poté forse Dante aver notizia, ma sicuramente gli era facile ricavare un simile concetto dai poemi, onde derivò massimamente le notizie e rappresentazioni mitologiche: l'Eneide, le Metamorfosi, la Tebaide. In queste opere appaiono le Furie come persecutrici dei colpevoli e come terribili istrumenti della collera divina; e due luoghi in particolar modo mi sembrano meritevoli di considerazione. Di Edipo, che si è strappato gli occhi eppure cerca i più cupi recessi, leggeva Dante nel primo libro (vv. 51-52) della Tebaide, poco innanzi i versi che aveva presenti nel descriver le Furie, e in un passo appunto che cita nel Convivio, III, 8:

tamen assiduis circumvolat alis
saeva dies animi, scelerumque in pectore Dirae;

e Didone, quasi pazza di dolore per l'abbandono di Enea, vedeva: nel iv dell’Eneide paragonata con Penteo, perseguitato dall'ira di Bacco, e con Oreste così:

Eumenidum veluti demens videt agmina Pentheus
et solem geminum et duplicis se ostendere Thebas,
aut Agamemnonius scaenis agitatus Orestes
armatam facibus matrem et serpentibus atris
cum fugit, ultricesque sedent in limine Dirae.
(vv. 469-73).

È in questi versi un’allusione alle Baccanti di Euripide e ad una scena di una tragedia perduta di Pacuvio, nella quale scena Oreste, come sappiamo da Servio, va nel tempio di Apollo a chiedere rifugio dalle Furie, ma nell’uscire le trova sedute sulla soglia.
Dante non poteva, secondo me, attribuire a così famosi personaggi mitici come le Furie una significazione troppo diversa dalla pit naturale e comune, nuova affatto; o in qualche modo doveva dichiararla o accennarla: non può volerci indovini. Né dalla tradizione e da un facile ed ovvio senso simbolico si allontana per gli altri personaggi della mitologia, o lo dice aperto, come quando fa di Gerione sozza imagine di frode. Insomma, secondo me, questa potrebbe essere forse la dottrina ascosa sotto il velame degli strani versi. Feroci son le pene e i rimorsi da cui sono tormentati i rei di malizia; e la ragione vuol ben che l'uomo conosca e consideri quelle pene, quei rimorsi (Guarda, grida Virgilio a Dante, le feroci Erine); ma essi possono suscitare nell'animo tale un terrore che accechi e induri e pietrifichi (Venga Medusa! sì ‘l farem di smalto): allora la ragione deve con ogni mezzo salvarci dal disperare e dal perderci (ammonimento ed atti di Virgilio). Dio è buono e misericordioso: egli ci soccorre, ci salva pur sull'orlo dell’abisso: ecco il messo del cielo! Lo precede come un furioso turbine:

E già venia su per le torbid’onde
un fracasso d'un suon pien di spavento,
per cui tremavano ambedue le sponde;

non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per gli avversi ardori,
che fier la selva, e senza alcun rattento

li rami schianta, abbatte e porta fuori:
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggiv le fiere e li pastori.

Il fragore del turbine ci è fatto sentire come con un mirabile crescendo sinfonico: la descrizione è rapida, potente, perfetta nei particolari, grandiosa nell'impressione complessiva e finale.
Virgilio, sciogliendo gli occhi a Dante, gli dice di riguardare dove è più densa la nebbia. Come le rane si dileguano tutte per l'acqua giti al fondo innanzi alla nimica biscia, così più di mille anime smarrite, disfatte vede questi fuggire dinanzi

ad un che al passo
passava Stige colle piante asciutte.

Dal volto rimovea quel’aer grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso.

Egli è fatto da Dio, sua mercé, tale che non lo toccano la miseria e l'orrore di quel luogo.

Ben m’accorsi ch'egli era del ciel messo;
e volsimi al maestro, e quei fe’ segno
ch’io stessi cheto ed inchinassi ad esso.

La terzina nella spontaneità e semplicità sua è d'impareggiabile efficacia. Notate la forza di quel ben lì al principio del verso: oh! non v'è dubbio, altri non poteva esser quel possente che un messo del cielo! Si volge Dante, non osando parlare e interrogando con lo sguardo, al suo maestro; e questi gli fa cenno di tacere e d’inchinarsi reverente: non ha qui luogo la curiosità: tacere si deve e adorare.

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
giunse alla porta, e con una verghetta
l’aperse, che non ebbe alcun ritegno.

Che è mai la più superba potenza innanzi a Dio! Ecco al tocco d'una verghetta fiaccata si audace opposizione e tanta tracotanza. Mi vengono alla memoria le parole di Achimelech a Saul nella tragedia dell'Alfieri:

Io, per me nulla son; ma fulmin sono,
turbo, tempesta to son, se in me Dio scende:
quel gran Dio che ti fea; che l'occhio appena
ti posa su; dov'è Saul?...

ma qui la vediamo nell’atto, di contro alla tentata ribellione diabolica, la divina onnipotenza!... Il messo celeste rampogna i demoni, i cacciati del ciel:

Perché recalcitrate a quella voglia,
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ ha cresciuta doglia?

Che giova nelle fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e il gozzo.

Non maraviglierà il ricordo della favola di Cerbero incatenato da Ercole e trascinato fuori dall’Inferno, chi pensi l’uso che il Poeta fa della mitologia conforme alle idee del tempo suo, chi rammenti gli esempi del Purgatorio insieme tratti e dalla Sacra Scrittura e dalle favole classiche.

Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fe’ motto a noi; ma fe’ sembiante
d'uomo, cui altra cura stringa e morda

che quella di colui che gli è davante:
e noi movemmo i piedi in ver la terra,
sicuri appresso le parole sante.

Anch' egli, come Beatrice, è venuto di loco ove tornar disia, c l'ufficio suo è compiuto. «Perché non fe’ motto a noi? (osserva il Benassuti). Perché gli angeli (secondo l'uso scritturale) mandati ad eseguire la volontà di Dio, sono tutti in essa, né d'altro si curano. Tale è la vera obbedienza. Anche i Santi della Bibbia la volevan così. Ne abbiamo un bell'esempio nel IV dei Re, cap. 29, dove Eliseo comanda a Giezi così: «Accinge lumbos tuos, et tolle baculum meunm in manu tua et vade. Si occurrerit tibi homo, non salutes eum; et si salutaverit te quispiam, non respondeas illi».
Ma chi è questo messo del cielo? La stessa espressione del ciel messo e tutto il passo sembrano render facile e pronta la risposta: il messo del cielo è un angelo.
E così, per fortuna, credono i più; ma non pochi anche seguono diversa sentenza. Taluno degli antichi, come Pietro di Dante e Benvenuto da Imola, pensarono a Mercurio; e Salvatore Betti, considerando quanto di mitologico ossia simbolico sia in questo canto, propugnò tale opinione. La quale è però generalmente giudicata affatto assurda: e in verità, a tacer d'altro, Mercurio, uno degli de: falsi e bugiardi, per Dante non potrebbe essere che un demonio. Un uomo illustre e benemerito, Michelangelo Caetani duca di Sermoneta, volle provare che il messo del cielo è Enea; e a giudizio del Pascoli non vi ha nessuna dichiarazione di luoghi controversi della Divina Commedia più felice di questa. Ma non mi sembra che il Pascoli la conforti di argomenti molto sicuri, né fa alcun conto delle gravi ragioni che le si sono opposte, già da Brunone Bianchi in una nota lucida e succosa. Ad Enea come si converrebbe, mentre non poté nulla Virgilio, tanta potenza, tanta superiorità? Com’egli susciterebbe si gran terrore nei dannati e nei demonî? Inoltre, se il Poeta voleva mettere in azione Enea, avrebbe dovuto necessariamente nominarlo, o distinguerlo e indicarlo con caratteri chiari e certi. E perché tanto mistero?
O cacciati dal ciel, gente dispetta... davvero non mi pare questo il linguaggio di uno degli spiriti angosciati (l'angoscia delle genti che sor quaggiù ecc.) del Limbo, di quelli spiriti che senza speme vivono in disto, in quel disio ch’eternalmente è dato lor per lutto, che sono là relegati nell’eterno esilio.
Se il messo assolutamente non potesse essere un angelo, piuttosto accetterei l’opinione, quantunque certo le stieno contro obiezioni assai gravi, sostenuta ingegnosamente dal Fornaciari e dal Federzoni, che sia Cristo stesso; ma gli argomenti per negare che sia un angelo non mi sembrano di molto peso. «Il non corrispondere il modo dell'apparizione dell'Angelo nel Purgatorio al modo con che si mostra questo nell’Inferno, non vale gran fatto, osserva Brunone Bianchi, perché è noto anche per le Sacre Carte che gli angeli prendono varie forme, secondo le qualità dei ministeri che debbono adempire». Per il Borgognoni un argomento «che taglia la testa al toro» è questo, che, quando apparisce il primo angelo del Purgatorio, l'angelo nocchiero, Virgilio dice a Dante:

Ecco l’Angel di Dio, piega le mani:
omai vedrai di st fatti ufficiali.

«Omai, ossia oramai, da qui innanzi, da ora innanzi. Dunque prima d'allora di que’celesti uffiziali, ossia degli angeli, non ne avevano visti: dunque il Messo del canto IX è certo che non è e non può essere un angelo». Adagio: il Bartoli, pur ammettendo che quel verso lasci sempre in dubbio, concluse che probabilmente si deve intendere «ormai sarà frequente il vedere di sì fatti ufficiali». Ma a me sembra che si debba badar bene alla parola ufficiali, certo usata con proprietà e precisione: di angeli ufficiali sicuro Dante non ne aveva visti prima: ufficiali del Purgatorio sono essi, ma nell'Inferno gli ufficiali sono i demoni. Indubbiamente nel passo letto e discusso, in quelle terzine bellissime, è descritta la venuta d’un celeste esecutore del divino volere; e tale apparizione del Cielo nell'Inferno è di una sublimità cui si elevano solo il Divino Poema e la Bibbia.
I due poeti entrano ora nel sesto cerchio senza alcun contrasto, sicuri appresso le parole sante (espressione che ben si conviene alle parole di un angelo). Un'altra scena ci si presenta, e come trista e cupa!

Com’ io fui dentro, l'occhio intorno invio;
e veggio ad ogni man grande campagna
piena di duolo e di tormento rio...

L'occhio intorno invio, veggio ad ogni man grande campagna: si vede la grandezza di quella pianura, che è uno sterminato cimitero. Il Poeta lo paragona ai sepolcreti di Arles e di Pola:

Sì come ad Arli, ove il Rodano stagna,
sì come a Pola presso del Quarnaro,
che Italia chiude e suoi termini bagna,

fanno i sepolcri tutto il loco varo:
così facevan quivi d’ogni parte,
salvo che il modo v’ era più amaro...

L'accenno alle tombe di Arles sembra a critici valenti una prova del viaggio, intorno al quale assai si disputa, dell’Alighieri in Francia. Le ricostruzioni fatte da geografi ed archeologi della necropoli provenzale, è stato osservato, palesano si fatta convenienza e corrispondenza anche di particolari con la descrizione della dolorosa campagna degli eresiarchi, che conviene credere abbia Dante veduti con i propri occhi quei luoghi; e pare anche a me, checché altri dica in contrario, particolarmente confermarlo, e rivelare proprio un'osservazione personale, quella frase pittorica: ove il Rodano stagna.
Sono in quel cimitero i capi delle eresie coi seguaci d’ogni setta, e le tombe ne sono cariche: in ciascun sepolcro stanno coloro che appartennero ad una cotal setta e, secondo la gravità e colpevolezza d'ogni eresia, i sepolcri sono pit o meno infiammati. Forse il Poeta ha immaginata la pena soprattutto avendo di mira Epicuro e i suoi seguaci, che l’anima col corpo morta fanno, gli unici eretici di cui parli, solo poi accennando ai monofisiti: credettero che tutto, corpo ed anima, finisse colla morte, nel sepolcro, e sono puniti per l'eternità in una tomba infocata. Perché infocata? «Il rogo che ha consumati in vita gli eretici, dice il Tocco, si riaccende per non più spegnersi nella città di Dite». Dante ne vide di quei roghi, io credo ricordando quella maravigliosa terzina, quella ipotiposi che fa raccapricciare, del XXVII del Purgatorio:

In su le man commesse mi protesi,
guardando il foco, e imaginando forte
umani corpi già veduti accesi...

Volgono poi i Poeti a destra, passando tra le sepolture e gli alti spaldi della città. Piegano a destra (mentre nell'Inferno, fuori che qui ed in un altro luogo soltanto, girano sempre a sinistra), semplicemente per una ragione materiale, secondo alcuni, per trovare il sentiero ove passare; ma, secondo altri, v'è pure un senso allegorico. Piuttosto però che discutere con poco costrutto tale questione, ripensiamo le fulgide bellezze di questo canto; rivediamoci tutte innanzi quelle descrizioni, quelle scene paurose e stupende che si seguono e s’incalzano: l'attesa dello sperato soccorso (Virgilio, meno un istante di peritanza, sereno e sicuro, Dante sgomento e sospettoso); la minacciosa, spaventevole apparizione delle Furie; la venuta del Messo celeste, poesia di potenza insuperata; l'immenso e tetro cimitero degli eretici, rischiarato dai bagliori delle fiamme che ne arroventano le arche scoperchiate, ond'escono angosciosi lamenti! Da una di queste appariranno fra breve la fiera e magnanima figura di Farinata e quella gentile e pietosa di Cavalcante Cavalcanti.

Date: 2022-02-01