Il Messo del Cielo [Giovanni Pascoli]

Dati bibliografici

Autore: Giovanni Pascoli

Tratto da: Minerva oscura

Editore: Tipografia R. Giusti, Livorno

Anno: 1898

Pagine: 151-158

Nessuna dichiarazione di luoghi controversi della Divina Commedia è più felice di quella di Michelangiolo Caetani duca di Sermoneta, che dice essere Enea il messo del cielo che apre le porte di Dite. Egli (Tre chiose di Michelangelo Caetani, duca di Sermoneta, nella Divina Commedia, di D. A., terza edizione. Roma, Salviucci, 1881) dimostra prima che angelo non può essere perchè non può un angelo del Paradiso discendere entro l’inferno; perchè il primo angelo descritto da Dante nel Purgatorio ben altrimenti si mostra, e con altri segni di rispetto deve essere accolto. E che sia il primo angelo veduto mai da Dante nel suo andare si rileva da quelle parole dette nel Purgatorio: Omai vedrai di sì fatti ufiziali. Nè ad angelo, che sdegna gli argomenti umani, si conviene la verghetta, nè la comparazione col vento impetuoso e con la biscia, nè il menar la sinistra mano, nè il parlar coi demoni di fati e di Cerbero, nè il partirsi come uomo stretto da altra cura. Escluso poi che il messo sia Mercurio o il Redentore (opinioni di per sè assurde), rintraccia chi possa egli essere. Già nel primo colloquio, Virgilio dice a Dante d’essere stato il cantore di quel giusto figliuolo di Anchise, e Dante risponde a Virgilio ricordando pure Enea che andò vivente negl’inferi e concludendo: Io non Enea, io non Paolo sono. Poi avanti le porte di Dite, Virgilio dice che Tale gli si fu offerto, il quale non poteva essere certamente che nel Limbo, luogo di sua dimora, non potea essere che Enea che già altre volte era disceso per umbram perque domos Ditis, avendo in mano il venerabile donum fatalis Virgae. Ciò conferma Virgilio dicendo: che di qua dalla prima porta d’Inferno era un tale che discendeva l’erta. “La domanda, che a Virgilio fece Dante: Se alcuno di loro dal primo cerchio del Limbo discendeva mai in quel fondo infernale, fu conseguente alle parole di Virgilio, che aveagli detto: un Tale esserglisi offerto per l’apertura di Dite; non altri potendo questi essere che alcun suo consorte di Limbo, che con quella apertura e con Virgilio avesse relazione: e questi dovea essere Enea senza meno...
La dottrina nascosta sotto il velame de’ versi strani è “che Enea dovesse servire come strumento provvidenziale all’apertura di Dite... per significare tutti gli avvenimenti i quali prepararono la vera apertura fatta per Colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno”. E ciò è confermato da passi del Convito e del De Monarchia. All’obbiezione che Dante non riconobbe Enea, allorquando giunse ad aprire le porte di Dite, mentre lo aveva già visto tra gli spiriti magni, risponde il Duca non male dicendo dell’oscurità fumosa del luogo; ma meglio, a parer mio, avrebbe risposto negando che Dante dica di non lo avere riconosciuto e che anzi nel verso

ben m’accorsi ch’egli era del ciel messo,

è forse più il senso: Vidi a quella prova che Enea era veramente messo della provvidenza; di quello che: Mi accorsi che quel tale ignoto era un mandato celeste. E il volgersi al Maestro, al cantore dell’Eneide, indica appunto la subita voglia di riconfermare a lui cosa da lui affermata:

E quei fe’ segno
ch’io stessi cheto ed inchinassi ad esso;

chè Dante voleva parlare e dire: Ora vedo...
Ora, con questa rettifica e con ogni riserva quanto al significato simbolico dell’episodio, io domando come mai questa dimostrazione così evidente non sia passata nella scienza dantesca e nei commenti vulgati. Per questo che soggiungo. Virgilio dice:

già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi senza scorta,
tal che per lui ne fia la porta aperta;

poi aggiunge:

Tal ne s’offerse!
Oh! quanto tarda a me ch’altri qui giunga!

e Dante esprime il suo dubitare domandando se dal Limbo può scendere alcuno. I commentatori intendono qui che Dante dubiti non già che sia per venire dal Limbo un ausiliatore, ma che a Virgilio sia concesso passare in Dite. Il vero è che Virgilio mostra d’interpretare così il dubbio domandare di Dante, concludendo la sua risposta:

Ben so il cammin: però ti fa securo.

Ma prima di tutto, interpretiamo rettamente il sospeso parlare di Virgilio:

Pure a noi converrà vincer la punga,
cominciò ei, se non... tal ne s’offerse!
oh! quanto tarda a me ch’altri qui giunga!

Ciò dice dopo avere attentamente ascoltato, perché nella nebbia poco lontano poteva vedere. Ora il senso delle parole mi pare questo: “Converrà che noi pugnamo e vinciamo da noi soli (v. per es. Inf. XXXV, 39: Ed intendemmo pure ad essi poi), se non... giunge quegli che ne s’offerse; che però è tale da non mancare. Ma come tarda!” Dante ebbe paura di questo dire, perché

traeva la parola tronca
forse a peggior sentenza ch’ei non tenne;

cioè intendeva che la condizionale se non... esprimesse una reale negazione, e non si rassicurava

con l’altro che poi venne,

ossia con Tal ne s’offerse. Quindi naturale la domanda di Dante, se alcuno del primo grado potesse discendere

in questo fondo della trista conca.

Ma Virgilio dunque finge di fraintendere la questione?
Può essere. Egli vuole forse riservare a lui la sorpresa dell’ausiliatore, quando verrà, e delude il discepolo. Sì, sì, so la strada: questa palude è intorno a Dite. Cosa che Dante presso a poco sapeva già:

Lo buon maestro disse: Omai, figliuolo,
s’appressa la città che ha nome Dite,
co’ gravi cittadin, col grande stuolo.

Ed io: Maestro, già le sue meschite
là entro certo nella valle cerno
vermiglie, come se di foco uscite

fossero...

Noi pur giugnemmo dentro all’alte fosse,
che vallan quella terra sconsolata:

[…]

Non senza prima far grande aggirata,
venimmo in parte.....

Altra volta Virgilio risponde su per giù a questo modo; quando Dante volentieri saprebbe quanto ha ad andare su per il poggio del Purgatorio, cioè quanto il poggio è alto; che egli dice: Non so altro se non che quando il tuo andare ti sarà leggero, sarai in cima (Purg. IV, 85 e segg.) Ma se anche non si volesse ammettere questa finzione, che non sarebbe se non una nota di più nella varietà ingegnosa con cui il Maestro parla al suo discente, si dovrebbe sempre convenire che il Maestro aveva inteso che la domanda si riferiva all’aspettato salvatore;

Di rado
incontra, mi rispose, che di noi
faccia il cammino alcun, pel quale io vado;

ma che ciò che segue, vero è, significhi: A ogni modo di me posso affermarti che ci sono stato e che so il cammino. Solo in questo Virgilio sembra non accontentare Dante; ché il secondo non spera se non nell’aiuto d’altri e dubita già, e il primo dice, che c’è anch’esso e che esso potrà, anche senz’altro aiuto, guidarlo e farlo entrare nella città dolente. Solo a ciò è necessaria l’ira.
A questo punto posso aggiungere, a quelle del duca di Sermoneta, le mie argomentazioni, che sono più che la riprova delle sue. Non si può entrare senz’IRA; il messo del cielo pare PIEN DI DISDEGNO, e così parla. Si rivolge poi senza far motto, facendo sembiante

d’uomo cui altra cura stringa e morda,
che quella di colui che gli è davante.

Sono oziosi questi tre particolari? A sentire i commentatori, sarebbero. E invece hanno un senso profondo. Il Poeta simboleggia. Egli continua il suo mirabile trattato sull’ira o sull’irascibile. Senz’esso o essa l’arduo è inaccessibile. Virgilio tenta prima d’entrare con le buone, usando l’intelletto:

Così sen va e quivi m’abbandona
lo dolce padre, ed io rimango in forse,
chè ’l sì e ’l no nel capo mi tenzona.

Udir non pote’ quel ch’a lor si porse:
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a prova si ricorse.

Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio signor, che fuor rimase,
e rivolsesi a me con passi rari.

Gli occhi alla terra e le ciglia avea rase
d’ogni baldanza, e dicea ne’ sospiri:
chi m’ha negate le dolenti case?

Dante, sempre inteso alla sua filosofia, qui presenta Virgilio come tentato dall’accidia, dalla tristizia, che è un acquetarsi nel male. Ma è un momento.

Ed a me disse: Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’alla difension dentro s’aggiri.

Dove è da notare che perchè non significa proprio benchè, ma per il fatto che; e poi un’altra cosa: che più probabile si fa delle mie interpretazioni precedenti della risposta a Dante, la seconda, per la quale Virgilio prometterebbe a Dante la vittoria e il passaggio, anche se il messo non venisse.
Dunque non tema Dante per il fatto che Virgilio deve adirarsi; cioè usare l’irascibile contro l’arduo: ira buona, senza la quale si è vili. Non ce n’è bisogno però: Dante introduce a significare questa necessaria contemperanza d’irascibile l’eroe che già altra volta gli servì d’esempio sì per raffrenare il concupiscibile, sì per spronare l’irascibile. “Questo spronare fu quello quando esso Enea sostenne solo con Sibilla a entrare nello Inferno a cercare dell’anima del suo padre Anchise contro a tanti pericoli (Conv. IV 26)”. Nel che non isfugga la singolare rispondenza del

passando per li cerchi senza scorta

con quel solo con Sibilla. Al solito, non fu la necessità di rimare o d’empire il verso quello che suggerì senza scorta. Nè è da dimenticarsi che la frase contro a tanti pericoli è suggerita probabilmente da questi due passi del sesto libro della detta storia.
Il primo è delle parole di Sibilla:

Nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo:

dove animi, pectus sono, per Dante, l’irascibile, il θυμός, il 'cuore'. L’altro è:

Centauri in foribus stabulant Scyllaeque biformes
Et centumgeminus Briareus ac belua Lernae
Horrendum stridens flammisque armata Chimaera,
Gorgones Harpyiaeque et forma tricorporis umbrae.
Corripit hic subita trepidus formidine ferrum
Aeneas strictamque aciem venientibus offert.

I quali passi erano avanti al Poeta anche a questo punto della Comedia.
Da queste considerazioni è singolarmente confermato (o io m’inganno), primo che il messo è Enea; secondo che la palude, donde sì i fangosi con sembiante offeso, e sì i fitti nel fango non possono uscire, sebbene de’ primi uno si provi a voler passare nella barca di Flegias, contiene quelli che peccarono nell’irascibile, o acquetandosi nel male come i tristi e probabilmente i gran regi, o non usando il soprabbondevole irascibile sino all’azione, ma volgendosi in sè coi denti, rodendosi insomma d’ira e non peccando altro che d’ira interna, senza correre alla vendetta; accidia anche questa e tristizia. E per incidenza, a proposito dei gran regi, ricordo la novella 9ª della giornata prima del Decameron. Ecco un re, che senza la ventura della donna di Guascogna, avrebbe meritato di essere come porco in brago. Si notino le parole del Boccaccio: 'egli di cattivo, valoroso diviene’; 'il re, infino allora stato tardo e pigro'. Si meditino queste altre: 'egli era di sì rimessa vita e da sì poco bene, che, non che egli l’altrui onte con giustizia vendicasse, anzi infinite con vituperevole viltà a lui fattene sosteneva... io non vengo nella tua presenza per vendetta che io attenda della ingiuria che m’è stata fatta’. Il concetto di Dante è bene illustrato da questo esempio. Nella palude si punisce la viltà o manco d’attività, la quale deve essere giustizia in tutti e specialmente nei re, la negligentia insomma, e l’ingiustizia che non si è commessa se non per manco di attività. La varca a piedi asciutti, come per lui fosse terra dura, chi è supremamente attivo e giusto, ben contemperato a frenare e spronare l’appetito. Per Dante, questi era Enea, che già nel primo colloquio Virgilio dice giusto:

cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise;

che ora significa attivo, oltre che con l’azione stessa che compie, con quelle di cui si mostra occupato:

fe’ sembiante
d’uomo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che gli è davante;

Enea, l’eroe del suo Maestro, che gli serviva d’esempio sin dal Convivio.

Date: 2022-01-12