La Comedia di Dante Alighieri con la nova esposizione (Inferno IX) [Alessandro Vellutello]

Dati bibliografici

Autore: Alessandro Vellutello

Tratto da: La Comedia di Dante Alighieri con la nova esposizione (Inferno IX) – di Alessandro Vellutello. Tomo I

Editore: Salerno, Roma

Anno: 2006

Pagine: 347-366

[1] Seguita ’l poeta nel presente canto la medesima materia lasciata nel precedente, e dimostra che Virg. dissimulò l’ira conceputa per la resistenza fattali da’ demoni, a ciò ch'egli, che già per tal cagion temeva, non temesse più; e che nondimeno, per alcuni imperfetti parlari d’esso Virgil. pur ancora temendo, per esser certo del timore, move un dubbio: se alcuna anima posta nel Limbo discende mai al fondo di quello Inf. Il qual dubbio è resoluto da Virg. per assicurarlo di sì, e dice egli stesso esservi disceso. Vede poi in cima de la torre, che soprastava a la porta de la città, le tre infernali furie co’ loro abiti e atti e spaventosi parole ad udire; e dopo questo, l'angelo che viene a confonder l’arroganzia de’ demoni, e che apre loro la porta, da la qual volgendo poi i [Es] passi, e tornandosene per la via ch’era venuto, essi entrarono per quella ne la città senza contradizzione, ove rimirando intorno, vedono esser gran campagna tutta piena d’affocate sepolture, dentro a le quali avendo inteso da Virgil. esser puniti i principi de l’eresie co’ seguaci loro, ultimamente volti a destra, passano tra le sepolture e l’alte mura de la città.
[2] [1-3] Quel color, che viltà di fuor mi pinse: era Dante, per l’acceso color di Virgil, vedendolo tornar in volta, cioè, a dietro ne la forma, e per la cagione, che nel precedente canto abbiamo veduto, de la paura doventato pallido e smorto, di che avedutosi Virg. per non isbigottirlo pit, ristrinse dentro l’acceso e novo suo colore pit tosto di quello che averia fatto, se del pallido color di Dante non si fosse aveduto; e così quel color che viltà e paura pinse e mandò fuori nel volto di Dante, ristrinse pit tosto dentro il novo color di Virg.
[3] [4-9] Attento si fermò: aspettava Virg. l'angelo, che venisse ad aprir loro la porta de la città; ma per lo nero e oscuro aere de l’Inf. e per la folta nebbia ch’usciva de la palude, non lo potea veder venire molto di lontano; onde dice che l'occhio nol potea menar a lunga; e però si fermò intento ad ascoltare se l’udiva venire, da che l'occhio nol poteva servir del vedere. E moralmente, sa l’umana ragione, come di sopra abbiamo già detto, che là, dove è la buona voluntà, se avien che manchino l’umane forze, Idio suplisce col suo divino aiuto; ma l’occhio, cioè, ma l'umano intelletto, per l’aer nero, per l’intendimento oscuro, e per la nebbia folta, e per la molta ignoranzia, non lo potea menar a lunga, non poteva intender quando, e come tal divino aiuto dovesse venire, per non esserne capace; e però si fermò ad aspettarlo, com'uom ch’ascolta, come uomo il qual aspetta di sentir venir quello, che non può vedere, non essendo la divina grazia cosa, che si possa discerner con l'occhio corporale, ma sì ben dentro da l’animo sentire; pur a noi converrà vincer la punga, cioè, la pugna, la gara e il contrasto, cominciò ei, cominciò Virg. a dire, se non; se Virg. non avesse interposte queste due parole se non, ne la presente sua cominciata orazione finta dal poeta, seguitando poi tal ne s'offerse, cioè, tale of ferse sé a noi, era de la medesima sentenzia di quella del precedente canto quando disse: «Non temer, ché il nostro passo Non ci può tor alcun: da tal n'è dato»;' ma queste due diverse e contrarie parole da le prime de la orazione, e senza alcuna consequenzia, feron, come vedremo, sospettar Dante. Oh quanto tarda a me che altri qui giunga, intendendo de l’angelo, ch'egli aspettava; imperò che il «perder tempo a chi pit sa pit spiace».
[4] [10-15] Io vidi ben si come ei ricoperse: avidesi Dante si come Virg. ricoperse il cominciar de la sua orazione, che fu, «Pur a noi converrà vincer la punga», con altro che venne poi, cioè, con dire «se non», perché furon parole diverse a le prime, interrompendo il proposito di quelle; ma non poté fare che non li desse paura, perché Dante fraeva, cioè, interpretava la tronca parola, la interrotta orazione, forse a peggior sentenzia che non tenne, forse a pit reo fine, che Virg. non la diceva. Perché Dante, come vedremo ne? seguenti versi, intese che Virg. a quelle parole «se non» volesse aggiungere «avessi forse errato la via», ma che per non impaurirlo, pentendosi d’aver cominciato ad esprimer tal dubbio, lassasse di finirlo, e tornasse a la cominciata orazione; e di questo finge Dante temere; e nondimeno intese che Virg. volesse seguitar a quel «se non», «m’inganno»; e non che Virg. intendesse di potersi ingannare, ma per certo modo di dire, come quando, ancor che siamo certi de la cosa diciamo «io so, s’io non m’inganno, che la tal cosa mi debba riuscire», ma lassasse di finir di dire, a ciò che Dante fermamente non tenesse, che egli si potesse ingannare.
[5] Ordina adunque così il testo: a noi converrà pur, se non m’inganno, vincer la punga, tal ne s’offerse, tale offerse sé a noi, intendendo di Beat. da la qual Virg. era mandato, che li disse: «Quando sarò dinanzi al signor mio Di te mi loderò sovente a lui». Se adunque Virg. era mandato da Beat. e che ella se gli era offerta di spesse volte lodarse di lui inanzi a Dio, poteva Virg. esser certo che l’impetrerebbe grazia da poter vincer ogni difficultà. Tutte queste cose sono introdutte dal poeta per dimostrare quante arti è necessario che usi la ragione in farse a poco a poco obediente il senso, e torli via la ignoranzia, che ad ogni passo lo fa dubbitare.

[16-30]

«In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?».

Questa quistion fec'io; e quei: «Di rado
incontra», mi rispose, «che di nui
faccia ’l camin alcun, per qual io vado.

Vero è, ch’altra fiata qua giù fui
congiurato da quella Eriton cruda,
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.

Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece entrar dentro a quel muro
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

Quello è il pit basso loco, e ’l più oscuro,
e ’l più lontan dal ciel, che tutto gira:
ben so ’l camin; però ti fa sicuro.

[6] [16-18] Questa è la domanda che fa Dante a Virg. per chiarirsi del dubbio, che di sopra abbiamo detto ch’avea, che egli non l'avesse ben saputo guidare; e credevase esser giunto al fondo de l’Inf. perché questo quinto cerchio, dal qual è contenuta la palude Stige, è ad un medesimo pari con la città di Dite, la qual è intesa per lo sesto cerchio, e non si discende de l’un ne l’altro, come abbiamo veduto che hanno fatto in quei di sopra, e vederemo che faranno in quei di sotto a questi due; onde dice: «in questo fondo de la trista conca». Ma rispondendoli Virg. li dimostra, come vedremo, esservi luogo molto pit basso ancor di quello. De la trista conca: assimiglia questa valle inferna ad una conca, la qual è vaso di terra, o veramente di legno, che ne la sua sboccatura è larga, e vassi a poco a poco fino al fondo sempre stringendo; e così ha finto far di cerchio in cerchio questo suo Inf. E chiamala trista, per esser tutta piena di tristizia, e il medesimo significare, come abbiamo già detto, questa palude.
[7] Discende mai alcun del primo grado, cioè, del primo e maggior cerchio, inteso per il Limbo, che, il qual primo grado, ha per pena cionca, cioè, tagliata e tolta via la speranza, dando al luogo quello, ch'era de l’anime che lo possedevano, che di tal primo grado è che senza speme viveno in disio; e in sentenzia, domanda Dante se de l’anime del primo cerchio ne discende mai al- cuna in quel fondo de l’Inf. E questa dice esser la quistione, che mosse a Virg.
[8] [19-24] Il qual li risponde che di rado incontra, che alcun di loro faccia ‘l camino, per lo quale egli allora andava. Intendendo moralmente, che di rado aviene, che alcuno entri ne la contemplazione de’ vizii per conoscerli, come egli faceva allora; ma esser ben vero ch'altra fiata egli vi fu congiurato, cioè, costretto, da quella cruda Eritone, che richiamava l'anime a’ suoi corpi. Eritone, secondo Lucano nel sesto, fu femina maga in Tessaglia, la qual ad instanzia di Pompeio figliuolo del Magno, trasse una anima d’Inf. per farsi dir che fine dovessero aver le guerre civili de’ Romani.
[9] [25-30] Finge adunque Dante che Virg. fu costretto da lei a discender fin al centro de lo Inf. per trarre questa anima fuori del cerchio di Giuda, cioè, de la Giudecca, così detta, secondo lui, da Giuda Scariotto, che tradì Cristo; e quando andò a far questo dice che la carne, cioè, il suo corpo, era di poco tempo, nuda e spogliata di lui, cioè, de l’anima che lui era; e in sentenzia, che egli era di poco tempo inanzi morto. Perché in vero, egli mori al tempo d’Ottaviano Augusto, sotto del quale terminaron medesimamente le guerre civili. Fece adunque Eritone entrar Virg. dentro da quel muro, dentro da la città di Dite, per trar del cerchio di Giuda uno spirto; e questo dice esser il più basso luogo, il più oscuro, e il più lontano dal cielo, che tutto gira, il qual cielo move ’l tutto in giro. Intendendo esser il luogo più lontano da Dio, perché la sedia sua si è il cielo empireo stabile e fermo, che gira e move tutti gli altri cieli, e consequentemente tutte queste cose inferiori; onde Boezio: «Stabilisque manens dat cuncta moveri».
[10] E quello è il pit basso, e ’l pit oscuro luogo, essendo posto (come abbiamo veduto ne la descrizzione di tutto l’Inf.) intorno al centro universale; e questo in beneficio di Dante serve a due cose: l'una, che lo leva d'errore, che quivi dove egli era allora fosse ’l fondo de lo Inf. Onde disse: «In questo fondo de la trista conca» e cet.; l’altra, che l’assecura del camino, perché dicendo Virg. essere stato sin al fondo, ragionevolmente ha da intendere, che lo saprà guidar per tutto; onde dice saperlo bene, e però, ch'egli si debba assicurare, di che l’abbiamo di sopra veduto dubbitare; e per questo averli mosso il dubbio.
[11] Questo medesimo, d’esservi stato altra volta, afferma ancora, come vedremo, nel XII canto, ove de la roccia rovinata del settimo cerchio dice: «Or vo’ che sappi, che l’altra fiata, Chio discesi qua giti nel basso Inferno, Questa roccia non era ancor cascata»; e però non è da dire che il poeta finga che Virg. lo dica solamente per assicurarlo, e non perché voglia inferire (come alcuni dicono) che non vi discendesse mai. Finge adunque esservi, con effetto, un’altra volta disceso.

[31-48]

Questa palude, che ’l gran puzzo spira,
cinge dintorno la città dolente,
u’ non potemo intrar omai senz’ira»;

e altro disse; ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,

ove in un punto furon dritte ratto
tre furîe infernal di sangue tinte,
che membra feminili aveano e atto,

e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli cerastre avean per crine,
onde le fiere tempie erano avinte.

E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’eterno pianto:
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.

Questa è Megera dal sinistro canto;
quella, che piange dal destro, è Aletto;
Tesifon è nel mezo»; e tacque a tanto.

[12] [31-33] Dimostra ’l poeta che Virgil., per levarlo d’errore, che quivi fosse ’l fondo de lo Inf., seguitasse in dirgli la condizione del rimanente di quello, cominciando come quella palude, che spirava, e mandava fuori il gran puzzo, e fetore (come naturalmente soglion le paludi fare), cingea dintorno la dolente città di Dite, per che quelli, che vi sono dentro tormentati, vengon ad esser circondati da molto dolore, u’, cioè, ove, o ne la qual città, non potremo entrar omai senz'ira: ove abbiamo da notare, che l'ira è di due spezie: l’una è vizio, ed è quando nasce d’appetito di vendetta, e secondo ’l poeta, si punisce in questo luogo. L’altra è virtù, ed è quando nasce d’aver l'animo edificato al bene; e adirassi l’uomo virtuoso, quando fuori di ragione vede seguir il male; come fece Virgil. de l’arroganzia de’ demoni; e di questa è scritto: «Irascimini et nolite peccare». Non potevano adunque intrar ne la dolente città senz’ira, per averla già Virg. conceputa contra essi demoni.
[13] [34-39] E altro disse, ma non l'ho a mente: finge ’l poeta che Virg. per levarlo del già detto errore, seguitò ne l’altre condizioni de la città, quello, che in effetto vedremo che farà nel XI canto, ove cominciando dice: «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi» e cet., non parendoli questo luogo a proposito, per aver a trattar de la materia già cominciata; ma dice che per aver l’occhio tutto tratto e indrizzato verso la rovente cima de l’alta torre, che soprastava a la porta de la città, ove in un punto, e rattamente vide drizzar tre furie infernali tinte di sangue, che aveano membra e atto feminile, egli non ha a mente quello, che gli si dicesse; a dimostrare che quando il senso è oppresso da qualche passione, o perturbazione, si devia tanto da la ragione, che per esser l'occhio de la mente tutto occupato in quelle, quantunque intenda le sue ammonizioni, non le riceve in forma, che se ne possa poi a tempo ricordare.
[14] Vide adunque tre furie in un punto dritte ratto; a dinotar la bestial audacia e subitezza del furioso. L’alta torre significa la sua superbia. La rovente cima, l'accensione de l’ira. Tinte di sangue, perché dal furore nascano le risse e l’uccisioni; e aveano membra e atto feminile, che significa il furore esser maggiore, perché ne la femina è minor animo, che nel maschio da poterli resistere.
[15] [40-42] Sono cinte di verdissime idre: idra è serpe di sette teste, e secondo le favole, chi ne taglia una ne nascano sette; a dinotar l’indomita natura del furioso, perché noce in diversi e vari modi, e chi cerca pur un poco di mitigarlo, sale ancora in molto maggior e bestial furore. Il color verdissimo dinota il suo pestifero veleno, perché non è crudeltà né morte sì orrenda, che per vendicarsi, possa saziare, o pareggiare la sua rabbia. Aveano per crini serpentelli cerastre: cerastre, secondo Plin., sono serpi in Libia cornuti, e molto velenosi e nocivi. Adunque, li loro capelli erano serpentelli di quella spezie, de’ quali, le tempie loro erano avinte e circondate. Di questi e d’altri tratta Luc. nel VIIII ove dice: «Concolor exustis atque indiscretus harenis Ammodites, spinaque vagi torquente Ceraste». Questi dinotano per le corna, i troppi arditi e temerari, e per il veleno, i mali e pestiferi pensieri, de’ quali la mente del furioso è sempre circondata e oppressa, perché non solamente noce, ma sempre pensa di voler nocere.
[16] [43-45] E quei, cioè, Virg., che conobbe ben le meschine: sono le furie veramente meschine, avendo perduto la quiete de l'animo, che suol inducer somma tranquillità, e cadute in estrema inquietudine, che induce l’uomo a somma disperazione. De la regina de l'eterno pianto, cioè, di Proserpina figliuola di Giove e di Cerere dea, secondo Ovid. nel v rapita da Plutone dio de lo Inf. Ove sono gli eterni pianti de’ dannati. Guarda, mi disse, le feroci Erine: Erine sono domandate da’ Greci le furie.
[17] [46-48] Questa è Megera dal sinistro fianco: ha il poeta a trattar di tre vizii, che nascano da malizia, e da malignità e perversità d’animo, cioè, de l’eresia, la qual, come vedremo, pon che sia punita nel sesto cerchio, o vogliamo dire immediate dentro a la città di Dite. De la violenzia nel settimo. E de la fraude, secondo le suoi due principali spezie, ne l'ottavo, e nel nono cerchio inteso per il pozzo de’ giganti; e sì come quelli, che solamente nascano da fragilità e incontinenzia, de’ quali ha per fin a qui trattato, sono stati da lui figurati da la natura de le tre fiere, che l’impediron la salita del colle, così ora tragge la natura di questi tre, che nascono, come abbiamo detto, da perversità d’animo, dal significato de’ nomi de le tre infernal furie; [18] e secondo quelle li dispone, perché pon Megera, la qual significa odio, come pessima di tutte, da la sinistra parte; cosî medesimamente fa la fraude, e massimamente di quella spezie usata in chi si fida, da lui distinta da l'altre spezie, come vedremo nel XI canto, mettendola, come pessimo di tutti gli altri vizii, nel pozzo de’ giganti piti presso al centro, e consequentemente piti lontano dal cielo, che vien ad esser la parte sinistra. Aletto significa inquietudine, e come men rea, la pon da la parte destra. Questo medesimo fa de l’eresia ponendola nel sesto cerchio. Tesifone significa vendicatrice, e mettela in mezo a l’altre due. Il simile fa de la violenzia ponendola nel settimo cerchio, il qual è in mezo de l'ottavo, ove è posta la fraude, e del sesto, ove è posta l’eresia.
[19] Megera adunque, che significa odio, è posta in luogo de la fraude, che da odio nasce, c massimamente quella de la spezie, che abbiamo detto di sopra, perché la fraude non si usa mai verso la persona che si ama; ma si ben verso quella che si odia; e si come l’odio sta celato fin che viene ’l tempo da disfogarlo, cosi fa la fraude fin al tempo di discoprirla. Aletto, che significa inquietudine, è posta in luogo de l’eresia, perché non essendo la verità che una sola, e sì come quelli, che la trovano e intendono, s'acquetano in quella, né altro cercano fuor di lei, così l’eretico, che non la trova, e se la trova non la intende, va sempre d’una in altra opinione vacillando senza mai propriamente fermarsi in una. Tesifone, che significa vendicatrice, pone in luogo de la violenzia, perché quella si fa, o ne la robba, o ne la persona di colui, sopra di chi la vendetta cade.

[49-60]

Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
batteansi a palme, e gridavan sì alto,
ch'io mi strinsi al poeta per sospetto.

«Venga Medusa: sì ’l farem di smalto»,
gridavan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Teséo l’assalto».

«Volgiti in dietro, e tieni ’l viso chiuso;
ché se ’l Gorgon si mostra, e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe del tornar mai suso».

Così disse ’l maestro; ed egli stessi
mi volse, e non si tenne a le miei mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.

[20] [49-51] Ha descritto l'abito, ora descrive i costumi del furioso, i quali sono di non solamente nocer ad altri, ma spesse volte ancor a se medesmo; onde dice che le furie si fendevano co l’unghie il petto, e battevansi a palme, cioè, con le palme de le mani, le quali cose dinotano estremo furore. Ma per fendersi ’l petto co l’unghie, moralmente intenderemo che il furioso col rabbioso suo veleno (stando quello ancora ne le unghie) si fende ’l petto, cioè, discopre le sue orrende cogitazioni del cuore. E per battersi a palme, le scelerate opere, che da tali orrende cogitazioni segueno, perché l’opere sono proprie de le mani. E gridavan sì alto, che Dante si strinse per sospetto a Virg. Perché essendo queste intese per le diaboliche illusioni, gridavan sì alto, risonavan sf forte in Dante, cioè, nel senso, come già fatto obediente a la ragione, che per sospetto che tali tentazioni da quella non l'avessero a divertire, si ristrinse e accostossi a lei.
[21] [52-54] Venga Medusa si ‘l farem di smalto: Medusa, secondo Ovid. nel un fu amata e conosciuta da Nettuno nel tempio di Pallade, del qual sacrilegio sdegnata la dea, converti i capelli di Medusa, che prima erano bellissimi, in serpentelli, e diede che tutti quelli che la vedeano doventassero pietra. Per costei moralmente intesero i caduci e frali ben terreni disordinatamente appetiti da gli uomini, perché veduti, cioè, considerati quelli, e reputandoli perfetti beni, tanto ne vengon desiderosi, che doventon pietra, cioè, son fatti stupidi e insensati, né ad altro che a quelli soli possano né vogliano indrizzar l'animo. Era adunque il gridar de le furie, cioè, il persuader de le diaboliche tentazioni, venga Medusa, volendo appresentar dinanzi a Dante, inteso per lo senso, per allettarlo, questi bassi e caduchi beni; però dice che guardavano in giue; onde il Salmista: «Statuerunt oculos suos declinare in terram».
[22] [55-57] Ma Virg. inteso per la ragione, ammonisce il senso, a ciò che non gli entrino in considerazione, perché legiermente gli appetirebbe, che si debba volger in dietro, e tener chiuso il viso, cioè, la considerazion de l’intelletto, perché se ’l Gorgone, cioè, se Medusa, la qual con Steno ed Euriale sue sorelle furon dette Gorgone, si mostra, e ch'egli il vedesse, cioè, se questi falsi beni se gli appresentassero, e che gli entrassero in considerazione, di tornar mai suso, di tornar a la contemplazione de le divine cose, a le quali aveva prima, salendo ’l colle, dato principio, ma che fu impedito da le fiere, sarebbe nulla, sarebbe ogni opera vana. Perché allettato il senso da la dolcezza di questi falsi beni, si ribelleria da la ragione, da la qual sola può esser indrizzato, ma non condotto, come vedremo, a tal contemplazione; e perché a rimover de l'animo queste false illusioni, l’unico e sol rimedio si è il volgersi indietro, cioè, averli in dispregio, e il chiudersi con le mani il viso, cioè, col frequentar ne le buone e virtuose operazioni, intese per le mani, domenticarli; però Virg. persuade questo a Dante, cioè, la ragione al senso; [58-60] e perché questo senza di quella potrebbe legiermente errare, però lo soccorre del suo aiuto; onde dice che Virg. stesso lo voltò, e non si tenne, né si fidò tanto a le mani di lui, che non lo chiudesse ancora con le sue.
[23] Teseo figliuolo d’Egeo re d’Atene, secondo Ovid. nel vin, discese con Ercole e Peritoo a l’Inf. per la recuperazione di Proserpina; e moralmente, per aver cognizion de’ vizii, come faceva Dante, essendo inteso per l’uomo prudente; adunque le furie si dolgono non aver vendicato in lui l'assalto, che fece al regno loro; volendo inferire che se l’avessero vendicato, che Dante non averia ardito allora d’assalirlo lui. Vengiare è vocabol franzese, e significa vendicare; onde dice: «Mal non vengiammo in Teseo l’assalto». Avenga che secondo esso Ovidio nel preallegato luogo, dopo molte prove fatte da lui, ultimamente vi venisse a perire.

[61-72]

O voi che avete gl’intelletti sani,
mirate la dottrina, che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.

E già venia su per le torbid’onde
un fracasso d'un suon pien di spavento,
per cui tremavan ambedue le sponde,

non altrimenti fatto, che d’un vento
impetuoso per gli aversi ardori,
che fier la selva senza alcun rattento:

li rami schianta, abbatte, e porta fuori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.

[24] [61-63] L’autor ammonisce quelli, che sono di sano e aveduto intelletto, a considerar la dottrina la qual s’asconde sotto ’l velame de li versi strani, sotto il coprimento de’ nuovi e ultimi versi scritti da lui fin a qui; perché, sì come veggiamo, sotto ’l senso litterale, asconde sottilissima allegoria, la qual in sentenzia ne dimostra, che non dobbiamo porre speranza in questi vani anzi dannosi, a chi fuor d’ordine li desidera, terreni beni, ma solamente porla in Dio, il qual soccorre sempre col suo divino aiuto, ove l’umane forze mancano, pur che la volontà sia buona; e questa è la dottrina, che s’asconde, come vedremo, sotto ’l velame de li strani versi. La qual può ben comprender chi è di sano e aveduto intelletto; e a questi la dimostra il poeta. Ma chi l’avesse infermo, e ne le speranze de’ terreni beni involto, non la comprenderebbe, e però non sadrizza a loro. Le facultà si debbon volere in quanto che sono necessarie a sostentar la vita, ma fuori di questo, come superflue lassarle; onde Seneca: «Pecuniae usum habere oportet, sed ei servire non oportet».
[25] [64-66] E già venia su per le turbid’onde: discrive la venuta de l’angelo, il quale, come di sopra dicemmo, intendiamo per l’aiuto e favor divino, che suplisce sempre in quello, in che l’uomo vien a mancar per non potere, pur che la voluntà sia buona. Dice adunque che già venia su per le torbide onde, intese per le triste e meste cogitazioni, di che abbiamo veduto la mente del poeta, per la resistenza fatta a la parte ragionevole da’ ministri de le diaboliche illusioni, esser oppressa. Un fracasso d'un suon pien di spavento: perché i teologi, come dicemmo in fine del terzo canto, vogliono che a principio, quando questo favor divino discende in noi, dia spavento e terrore; ma che in fine assecuri e sia di molta giocondità. Per cui, per lo qual fracasso e spaventevol suono, tremavano de la palude ognuna de le due sponde, intese per la ragionevole, e per la sensitiva parte, perché, si come da le due sponde sono dominate e contenute l’acque, così da la ragione e dal senso sono dominate e rette le nostre voglie, e tremano per la ragione detta di sopra.
[26] [67-72] Non altrimenti fatto, che d'un vento: assimiglia questo fracasso e spaventevol suono a quel vento impetuoso per gli aversi ardori, cioè, che per nascere da vapori umidi e secchi, che sono aversi e contrari, è tutto pieno d’empito e di furia; e chiama questi aversi vapori, ardori, da l’effetto che nasce da loro quando s'incontrano, perché, sì come contrari ardentemente contrastano insieme; e da tal contrasto nasce ’l vento, che poi fier la selva e cet. Perché contrastando commoven l’aria, la qual commossa è poi convertita in vento.

[73-90]

Gli occhi mi sciolse, e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi, ove quel fumo è pit acerbo».

Come le rane inanzi a la nemica
biscia, per l’acqua si dileguan tutte,
fin che a la terra ciascuna s’abbica,

vidi più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un, che al passo
passava Stige con le piante asciutte.

Dal volto rimovea quell’aer grasso
menando la sinistra inanzi spesso,
e sol di quella angoscia parea lasso.

Ben m'accorsi che gli era da ciel messo,
e volsimi al maestro, e quei fé segno,
ch’io stesse cheto, e inchinasse ad esso.

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta, e con una verghetta
l’aperse, che non vebbe alcun ritegno.

[27] [73-75] Chiuse Virg. gli occhi a Dante a ciò che non vedesse Medusa. Ora gliel’apre e scioglie a ciò che possa veder l’angelo, che veniva; onde li dice che drizzi il nerbo del viso, cioè, la virtii visiva, su per quella schiuma antica: la fizzione del poeta si è che Virg. dica ch'egli guardi per quella parte de la palude, da la quale essi l’aveano ne la barca di Flegias passata, perché quivi era de la palude il passo. Onde di sotto dice che vide fuggire pit di mille anime distrutte dinanzi ad uno, che passava Stige al passo; e perché questo tal passo era, come vuol inferire, molto frequentato da la barca di Flegias, per la gran moltitudine de l'anime dannate, che vi concorrevano a passarlo, e consequentemente, per il gran movimento de l’acqua pantanosa e lorda de la palude fatto nel passar de la barca molto schiumoso, però dice che debba guardare su per quella schiuma antica, perché antichi sono ancora i vizii, che da questo passo, secondo ’l poeta, si vanno a punire. Per indi, ove quel fumo è più acerbo, cioè, per quella parte de la schiuma, ne la quale quel grosso vapore che esce di quella è meno quieto, perché da l'angelo, che passava, era commosso; onde di sotto dice che, movendo la sinistra inanzi spesso, rimovea dal volto quell’aer grasso; [28] [76-84] e mirando dice che vide più di mille anime distrutte, cioè, disfatte, avendo nel precedente canto detto, ch’elle «si percotean non pur con mano, Ma con la testa, col petto e co’ piedi Troncandosi co’ denti a brano a brano», fuggir dinanzi ad uno, fuggir dinanzi a l'angelo, che passava Stige al passo cioè, da quella parte da la quale si passa, con le piante asciutte, perché con quelle non s’affondava ne l’acqua.
[29] E assimiglia la fuga di quelle anime inanzi a l’angelo, a quella de le rane inanzi a la nimica biscia, quando per l’acqua sono da quella perseguitate, fin che ciascuna sabbica, cioè, s'aduna e ricovera a la terra. Abbicare, in idioma fiorentino, significa adunare e metter insieme, e vien da la bica, che gli altri toscani domandano meta; ed è propriamente alcuno adunamento fatto da l’agricoltore di grano, o d’altra spezie di biada prima che sia battuta, o di paglia, o fieno composto in forma tonda, che s'appunta in cima quasi a modo de piramide, c chiamasi poi bica, o meta de la cosa adunata; e menando la sinistra inanzi spesso, rimovea dal volto quell'aer grasso, quel grosso vapore, che de la schiuma pantanosa usciva; e pareva lasso sol di quella angoscia, tanto spesso vuol inferir, che menava la sinistra.
[30] Ora moralmente, la schiuma antica, per la qual Virg., cioè, la parte ragionevole, vuol che Dante, inteso per la sensual parte, guardi, intenderemo per l’umana fragilità, la qual è antica, per aver la sua origine dal primo uomo.
Le più di mille anime distrutte significano l’infinite vane passioni e perturbazioni de l'animo; ed erano distrutte, cioè, fatte nulla ed estinte, per la venuta de l'angelo. L’acerbo fumo dinota la ignoranzia de l’intelletto; onde nel precedente canto in persona di Virgilio de la venuta di Flegias per la palude disse: «Già scorger puoi quello, che s’aspetta, Se ’l fumo del pantan nol ti nasconde»; [31] ed è acerbo, cioè, aspero, perché si come ’l fumo impedisce e offende l’occhio che non può vedere, cosi l’ignoranzia impedisce e offende l'intelletto, il qual è l'occhio interiore, che non può discerner il vero. Onde nel settimo canto in persona di Virgilio disse: «Oh creature sciocche, Quanta ignoranzia è quella, che v’offende». Stige, come di sopra dicemmo, significa tristezza e tedio; adunque, da l’umana fragilità oppressa da infinite vane passioni e perturbazioni, e da ignoranzia, si passa Stige, si vien in tristezza e tedio di se stesso, il che spesse volte induce l’uomo a disperazione; e da questo passo vien l’angelo, inteso per l’aiuto e favor divino; e di quel tal passo, ove ’l fumo è pit acerbo, cioè, ove l’ignoranzia è maggiore, perché là dove è maggior difetto, quivi i rimedi son piti necessari; onde l’Apost. a li Rom. al v: «Ubi autem abundavit delictum, superabundavit et gratia»; e questi del divino aiuto sono principalmente tre, da’ teologi intesi per le tre divine grazie, e dal poeta per le tre donne, che di sopra nel secondo canto abbiamo veduto.
[32] Il primo de? quali rimedi si è il disperder tutte le vane e dannose passioni, che inducano tristezza e tedio ne l’animo, talmente, che quello rimanga libero da potersi elegger il bene; e questo, come abbiamo detto, significa per le più di mille anime distrutte, che vide fuggir dinanzi a l'angelo, che passava Stige al passo, con le piante asciutte, perché le cose pure, non s’infettano ne le impure; onde di sopra nel secondo canto in persona di Beat. rispondendo sopra di tal materia a Virg.: «Io son fatta da Dio sua mercé tale, Che la vostra miseria non mi tange, Né fiamma d’esto incendio non m’assale».
[33] Il secondo rimedio è che liberato l'animo da le passioni, e per questo avendo determinato voler il bene, di rimoverli la ignoranzia de l’intelletto, a ciò che possa conoscer qual sia il vero bene, e di quello far elezzione; e questo significa per il rimover di quel aer grasso dal volto menando spesso inanzi la sinistra; la qual può ben rimover gl'impedimenti, ma non ha poter ne le massime operazioni, come ha la destra, ne la qual teneva la verghetta con che aperse la porta de la città; e sol di quella angoscia pareva al senso, per lo suo imperfetto vedere, ma non a la ragione, che l’angelo fosse lasso, sapendo quella, che in lui non ha luogo passione alcuna; e per questo dinota la grandissima difficultà, qual è a rimover la ignoranzia dal senso privato di ragione, la qual abbiamo veduto confusa, ma non però vinta da le diaboliche tentazioni.
[34] Il terzo e ultimo rimedio si è che avendo liberato l’animo da le passioni, e per la rimossa ignoranzia conosciuto ’l vero e perfetto bene, di venir a le buone operazioni, le quali, per esso perfetto ben conseguire, in altro principalmente non consistono, che ne la contemplazione de le divine cose, a le quali il poeta, come già più volte abbiamo dimostrato, era in via, ma essendo il passo da le diaboliche illusioni impedito, e per questo soccorso dal divino aiuto, il qual tolto via gl’impedimenti, vien ultimamente con la divina inspirazione, intesa per la verghetta, ad aprirli la mente, la qual è porta e ricettacolo de l'intelletto, perché conserva le cose da lui intese, a ciò che possa per la sua via, che allora era ne le cognizion de’ vizii, proceder inanzi.
[35] [85-87] Ben m’accorsi che gli era dal ciel messo, da ciel mandato, e questo per la novità che arrecava seco, la qual s'infonde ne le menti nostre, di che s’accorge ’l senso, ma non la prevede come la ragione, a la qual, come ossequente, a lei si volge, per esser in tal novità ammonito di quanto egli ha da fare; e quella li fa segno, che stia cheto, perché al divino aiuto, il qual opera secondo la disposizion del cuore, le parole son superflue, ma basta solo reverentemente e con umiltà riceverlo; onde dice che ad esso messo da cielo debba inchinare.
[36] [88-90] Ahi quanto mi parea pien di disdegno: pareva al senso, e non a la ragione, per quel medesimo che abbiamo detto di sopra. Venne a la porta, e con una verghetta l’aperse: quello che per questo moralmente voglia significare, l'abbiamo similmente di sopra detto. Che non vebbe alcun ritegno, cioè, alcuno impedimento, perché al voler divino per esser immutabile, non è chi si possa in modo alcun opporre.

[91-111]

«O cacciati del ciel gente dispetta»,
cominciò egli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracutanza in voi s’alletta?

Perché ricalcitrate a quella voglia,
a cui non puote ’l fin mai esser mozzo,
e che pit volte v'ha cresciuto doglia?

Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».

Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d'uomo, cui altra cura stringa e morda,

che quella di colui, che gli è davante;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra
sicuri appresso le parole sante.

Dentro v’entrammo senza alcuna guerra;
e io, ch’avea di riguardar disio
la condizion, che tal fortezza serra,

com'o fui dentro, l'occhio intorno invio:
e veggio ad ogni man grande campagna
piena di duolo, e di tormento rio.

[37] [91-93] Avendo il divino aiuto con la divina inspirazione aperto la mente del poeta, queste sono ora le parole, che dice in confusione de le diaboliche tentazioni, che essa mente premevano, ed erano cagione de gl’impedimenti, che di sopra abbiamo veduto, e che da lui erano stati rimossi dinanzi a lei, ricordando a quelli, come essi, per la loro superbia, furon cacciati del cielo. Gente dispetta: gente odiosa, perché sono in odio non solamente a tutte le intelligibili creature, ma (se esser può) ancor al creatore. Cominciò ei, cominciò l'angelo a dire, in su l'orribil soglia de la porta, perché dà l’entrata a più orrendi vizii, e consequentemente a le piti orrende e spaventevoli pene apparecchiate in punizione di quelli; e questo quanto a l’Inf. essenziale; ma quanto a l’umana mente, oppressa da le diaboliche illusioni, è orribile, per- ché ad esse orribili pene conducono. Onde valletta, cioè, da qual vostra autorità si ricovera e riposa, esta oltracutanza, questa temeraria audacia e prosunzione in voi? Volendo inferir che da nessuna parte se li conviene.
[38] [94-96] Perché ricalcitrate a quella voglia, per qual cagione vi contraponete a quella volontà, a cui non può mai esser mozzo, a la quale non può mai esser tolto via, e impedito il fine? Perché quello, che da Dio efficacemente è voluto, come il poeta vuol inferire ch'era il suo andare speculando i vizii, è necessario che sia, e che più volte v'ha cresciuto doglia? e questo è sempre avenuto che l’uomo, mediante il divino aiuto, s'è potuto difender da le sue insidie, la qual cosa è stato loro di grande e grave dolore, per la grande invidia ch'essi portano a l’umana generazione.
[39] [97-99] Che giova ne le fata dar di cozzo?: fato non è altro che il preveder e voler di Dio; e tutto quello che a principio ha preveduto e voluto che sia, non può preterire. Essendo adunque preveduto e voluto, come abbiamo di sopra detto, che Dante andasse speculando la natura de’ vizii, a ciò che se ne potesse guardare, era vana ogni diabolica tentazione, che se gli opponeva in contrario. Cerbero vostro, se ben vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo. Da Ercole, secondo Ovid. nel VIIII, furon domati molti mostri; e fra questi fu Cerbero, mostro orrendissimo di tre teste, il qual trasse d’Inf. essendo disceso in quello con Teseo e Peritoo per la recuperazione di Proserpina; e da le catene postoli ad uno de’ suoi tre colli, con le quali lo trasse fuori, ha del verisimile che n’avesse ’l mento e ’l gozzo pelato.
[40] [100-3] Poi si rivolse per la strada lorda: avendo ’l divino aiuto in beneficio e de la ragione, e del senso del poeta, satisfatto al voler divino, basta solamente tanto, e rivolgesi per la lorda strada de gl'impedimenti, perché sovenuto a l’uno, si volge sempre a sovenir a l’altro bisogno, pur che trovi la volontà esser buona, e che solo manchi dal non potere; onde dice che a loro, come quelli ch’erano già stati sovenuti da lui, non fece motto, non fece parola, ma fé sembiante d'uomo, cui altra cura stringa e morda, ma fece dimostrazione d’uomo, al quale altra impresa prema e punga, che quella di colui, che gli è davanti, per che ’l sanato non ha pit bisogno del medico, ma sì ben l’infermo.
[41] [104-5] E noi movemmo i piedi inver la terra: fatti sicuri e la ragion e ’l senso, mediante ’1 divino aiuto, di poter venir ne la cognizion de’ pit enormi vizii, e de le pene che a quelli sono da la divina giustizia apparecchiate, moveno i piedi inver la terra, indrizzano li loro affetti in tal considerazione. [106-11] Senza alcuna guerra: essendo rimossi gl’impedimenti, che s'opponevano in contrario. E io che avea di riguardar disio: desidera ’l senso veder e intendere, per esser tal desiderio innato ne l'animo nostro, e però move l'occhio de l’intelletto intorno speculando il vizio de l’eresia, che si punisce dentro a la città; e vede gran campagna ad ogni mano. Perché molte e diverse sono state le opinioni de gli eretici; e così le pene loro sono piene di dolore e di rio tormento, come ne’ seguenti versi vedremo.

[112-33]

Sì come ad Arli, ove ’l Rodano stagna,
sì come a Pola presso del Quarnaro,
che Italia chiude, e suoi termini bagna,

fanno i sepolcri tutto il luogo varo,
così facevan quivi d’ogni parte,
salvo, che ’l modo vera più amaro;

ché tra gli avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun’arte.

Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n’uscivan sì duri lamenti,
che ben parien di miseri e d’offesi.

E io: «Maestro, quai son quelle genti,
che sepellite dentro da quell’arche
si fan sentir con li sospir dolenti?».

Ed egli a me: «Qui son gli eresiarche
co’ lor seguaci d’ogni setta, e molto
più che non credi son le tombe carche.

Simile qui con simile è sepolto;
e i monimenti son più e men caldi»;
e poi, che a la man destra si fu vòlto,

passammo tra’ martiri, e gli alti spaldi.

[42] [112-14] Arli è città in Provenza non lontana da la foce del Rodano, ov'egli stagna, perché, quivi mettendo in mare, manca del suo veloce corso. Pola è città in Istria, lontana X miglia dal Quarnaro: questo è golfo nel seno Adriatico, che divide l’Istria, ultimo termino da quella parte d’Italia, da la Dalmazia, o vogliamo dire da la Schiavonia; e così chiude essa Italia, e bagna li suoi termini.
[43] [115-23] Fuori d’ognuna di queste due città sono gran numero di sepolture molto antiche, de la cui origine se ne referisce molte cose fabulose; ma è da credere che in altri tempi gli abitatori di quei luoghi le avessero in uso. Adunque le sepolture fanno il luogo, ove elle sono, varo, cioè, variato per che altro sono le sepolture, e altro il rimanente del luogo, che senza di quelle sarebbe non varo, ma uniforme; così il poeta dice che simili sepolture facevon quivi varo d’ogni parte il luogo contenuto dentro da la città, salvo che ’l modo v'era più amaro, cioè, più aspero e cocente, perché tra gli avelli, cioè, tra esse sepolture, erano sparte fiamme, per le quali gli avelli erano sf accesi del tutto, che ferro più non chiede verun’arte, cioè, che nessuna arte ricerca ferro, per indurvi qual si voglia nuova forma, pit acceso, che si fossero tali avelli; tutti li lor coperchi eran sospesi, erano alzati e levati in alto tanto, che gli avelli erano aperti, e uscivanne fuori si duri lamenti, che ben parea che fossero di miseri e offesi spiriti.
[44] [124-26] E io: «Maestro, quai son quelle genti»: domanda ’l poeta Virg. quali, cioè, di che qualità sono quelle genti, le quali seppellite dentro da quelle arche, da quelle sepolture, si fan sentir co gli ardenti e focosi sospiri. [127-29] Virg. li risponde che quivi sono gli eresiarche, cioè, i principi de l’eresie, co’ seguaci loro d’ogni setta, e che le tombe, cioè, le sepolture sono molto più cariche e piene di spiriti, di quello ch'egli si crede. A dinotare che il numero di questi tali peccatori è infinito.
[45] Eresia è nome greco, che significa elezzione; onde eretico è quello, il quale avenga che confessi Cristo, nondimeno, si elegge voler seguitar alcuna falsa opinione; ed è spezie d’infidelità, perché sì come l’infidele nega Cristo, come fa il pagano e il giudeo, l’eretico corrompe i suoi mandati e sante costituzioni; e la diffinizione de l'eresia, secondo S. Tom. in sec. sec. è aver falsa opinione ne le cose pertinenti a la fede, come a questi tempi veggiamo aver i Luterani; e per a dietro hanno avuto molte altre sette, come Valentiniani, Severiani, Acciani, Manichei, Origeniani, Appelliti, Sebelliani, Paterini, Pellagiani, Arriani, Teodotiani e cet. Le quali tutte, in diversi concilii, sono state dannate e riprovate. Pone adunque gli eretici ne le sepolture, perché ogni loro perversa e ostinata opinione debbe esser sepolta, a ciò che da quelle le sane menti non si venghino a contaminare; e non solamente sepolta, ma del tutto estinta, la qual cosa dinota per le fiamme, da le quali esse sepolture erano tanto accese. Accordandosi co’ sacri canoni, i quali dannano ogni eretico al fuoco.
[46] [130-33] Simile qui con simile è sepolto: cioè, tutti quelli che sono stati d’una medesima setta, e infetti d'una simile eresia, sono sepolti in un medesimo luogo distinto da quelli de gli altri eretici; onde nel seguente canto vedremo che dirà: con Epicuro tutti i suoi seguaci, che fanno morta l’anima col corpo, hanno da questa parte suo cimitero; e i monimenti sono caldi pit e meno, secondo che in maggiore, o minore eresia sono stati; e poi che, dette queste parole, Virg. si fu volto a la man destra, passaron tra’ martiri, che pativano l’anime ne le sepolture, e gli alti spaldi, e gli alti spazii de le mura de la città. Come vedremo qui di sotto ne’ primi versi del seguente canto che pit chiaramente questo medesimo verrà ad inferire.

Date: 2022-01-10