Discorso sopra la prima cantica della Commedia (Inferno IX) [Vincenzio Buonanni]

Dati bibliografici

Autore: Vincenzio Buonanni

Tratto da: Discorso sopra la prima cantica della Commedia

Editore: Salerno, Roma

Anno: 2014

Pagine: 192-201

[1-3]

Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo nuovo ristrinse.

[1] Il senso è: il colore del mio viso, accidentalmente impallidito e sbiancato per essermi io avvilito, per aver veduto il mio maestro essere stato scacciato dai demoni; fu cagione che Vergilio, vedutolo tale in me, allora cangiasse quel «colore nuovo» che egli aveva preso per la collera e stizza e si rivestisse dell’usitato «colore». «Tornare in volta» dice, perché era stato fatto rivolgere, cioè dare le spalle.

[7]

Pure a noi converrà vincer la punga.

[2] Per questo si replica il medesimo che sopra disse cioè:

Non sbigottir, ch'io vincerò la pruova.

Ma qui non è detto con tanta sicurezza d’animo e audacia: però vedete che come d’un travagliato parla egli poi dicendo:

[8]

Cominciò ei: «se non... Tal ne s'offerse».

[3] Gli spositori pigliono il senso in tal modo, cioè che Vergilio per quel «se non» intendesse «se non m’inganno», overo «se non ho smarrita la via». La quale sposizione non mi può piacere, prima perché Vergilio avrebbe dimostrata poca fede e speranza in Beatrice; di poi perché lo smarrimento della strada non pareva ragionevole, essendovi Vergilio stato altra volta, si come poco di sotto egli di ciò favellando dice:

[22]

Vero è ch’altra fiata qua giti fui.

Però penso che forse non tornasse se non bene lo sporre così: «E bisognerà pure che noi vinciamo questa battaglia, se non provare qualche altro modo per ire e passare. A passare abbiamo noi: tale ci si è offerto d’aiutarci». E sio non conoscessi che Dante induce Vergilio a di ciò parlare come anima, io forse direi che ’l senso fosse: «E bisognerà che noi vinciamo questa guerra, se non moiamo»; e per questo si mostrerebbe la grandezza dell'animo di Vergilio. Ma più mi piace la sopradetta sposizione, perché è libera da ogni contradizione. Che qui ragionevole ci sia la difficultà, vedete che Dante mostra di avere inteso a rovescio l’animo di Vergilio, credendo ch'egli dubitasse che la strada fosse smarrita. Però gli fa questa domanda:

[16-18]

«In questo fondo della trista conca
discende mai alcun del primo grado,
cha sol per pena ha la speranza cionca?».

Però nell’Inferno dice:

Che senza speme vivemmo in disio.

Però ragionevolissimo è che ancora morti questi tali siano con desiderio senza speranza. E questo è nel quarto canto, come credo vi ricordiate e questa lezione più mi piace così, cioè:

Che senza speme viviamo in disio.

E così scrivendo si mostra il presente e non il passato: perché — ditemi - leggendo «vivemmo» non s’intenderebbe quand’erano nel mondo e vivi? Voi mi direte che sì al fermo? Però non pit di questo.

[32]

Cinge d’intorno la città dolente.

[4] Se bene queste sono le medesime parole che le del terzo canto, non però mi muto io credendo che quivi egli intenda in particolare la città di Dite, cioè questa alla quale semo arrivati: ma sono di quella medesima openione ch'egli pigli quivi «città» per «moltitudine», come vi ho detto. Considerate che primamente il poeta scuopre le «mischite» o «meschite» — che dire mi deggia—, perché in questi duoi modi si legge. Di questa nominanza ragionando gli spositori affermono che questa è voce turca, la quale significa tempio e chiesa, cioè fabbrica a guisa di cupola. Il che io non penso, perché non truovo che dentro alla città il poeta metta templi o altre simili fabbriche, ma sì bene sepolture le quali si potevono vedere, perché chi veniva alla città era a cavaliere in modo che niente dentro gli s'ascondeva. E penso al fermo che «meschite» sia voce composta e finta la quale dimostri il continente della miseria, fatto a guisa di arche e tombe fabbricate d'altezza poco pit che la grandezza di uno uomo e affocate per il fuoco che dentro a quelle tormentava i peccatori; e se bene questo appartiene al canto ottavo per quel verso che così ordinariamente in tutti si legge:

E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certo nella valle cerno,
vermiglie come se di fuoco uscite».

Il qual colore ha forza di tirare a sé l'occhio. Che Dante da per sé tali le giudichi, non è maraviglia, perché sapeva che dentro alla città erano misere anime: nondimeno confacendoci a questo non credo vi sia spiaciuto, se ne ho ragionato.

[34]

E altro disse, ma non l'ho a mente.

[5] Che quello dicesse Vergilio sia quello che nell’undecimo canto si dirà da Vergilio, come vogliono gli spositori, non possa essere: solamente dirò che appiccatura non ci si riconosce, né meno cagione dalla quale si debba aspettare il medesimo ragionamento e molto meno, perché si muta luogo il quale dà e porge materia al ragionamento.

[44]

Della regina dell’eterno pianto.

[6] Vergilio nel vi della sua Eneida pone che nel primo sogliare dell'Inferno abiti e sia il pianto e nella prima stanza le furie, quando dice: «Vestibulum ante ipsum primisque in faucibus Orci / Luctus et ultrices posuere cubilia curae»; dipoi: «Ferreique Eumenidum thalami». Il che fa egli ancora - Dante intendo — nel terzo canto di quest’Inferno, dicendo

Quivi sospiri, pianti e alti guai,

come sapete.

[45]

«Guarda», mi disse, «le feroci Erine».

[7] «Guarda» significa quello che i Latini dicono «cave», cioè «abbiti cura», tal che questo «guarda» è uno avvertimento. Cicerone nell’orazione Contro a Pisone mostra — non a caso — dai poeti essere stato finto che gli sciaurati siano tormentati dalli spiriti e infuriati, quando dice: «Nolite enim putare, patres conscripti, ut in scaena videtis, homines consceleratos impulsu deorum terreri furiarum taedis ardentibus; sua quemque fraus, suum facinus, suum scelus, sua audacia de sanitate ac mente deturbat; hae sunt impiorum furiae, hae flammae, hae faces». E il medesimo nell’orazione Pro Sexto Roscio: «Nolite enim putare, quem ad modum in fabulis saepenumero videtis, eos qui aliquid turpe! scelerateque commiserunt agitari et perterreri Furiarum taedis ardentibus», e quello che segue. E avvertite che Dante le finge in su la torre, la quale è sopra la porta come insegna e impresa della città: la quale impresa mostra il gastigo che soprastà agli scelleratissimi. E tornando al ragionamento dell’imitazione credo che Dante abbia seguitato non solo il dire di Cicerone, - come vi ho scoperto —, ma di Vergilio ancora, perché nel quarto della sua Eneida così di quelle ragiona in essempio: «Aut Agamemnonius scaenis agitatus Orestes»; e nel settimo quando finge che Aletto sia mandata da Giunone a infuriare Turno: «Talibus Alecto dictis exarsit in iras. / At iuveni oranti subitus tremor occupat artus, / diriguere oculi: tot Erinnys sibilat hydris».

[47-48]

Quella che piange dal destro è Aletto;
Tisifone è nel mezzo.

[8] «Piangere» è detta Aletto dall’effetto ch’ella in altri fa. Vergilio così la disse nel settimo, cioè: «Luctificam Alecto dirarum ab sede sororum / infernisque ciet tenebris». La positura di quelle mi pare accorta, mettendo egli nel mezzo Tisifòne per mostrare il principale potere di quelle, cioè il vendicare e punire. E nel far questo — com'è chiaro — venivono a mettere scompiglio e travaglio, donde elle sono dette Erine la qual voce «Erinnys» è usata da Vergilio nel secondo della sua Eneida, quando parla di Elena: «Permetuens, Troiae et patriae communis Erinnys». Vogliono i grammatici che «Εϱινύας» significhino i peccati e che «Έϱινύς» sia «δαίμων ϰαταχθόνιος» e questo è Esichio il quale egli chiama un demone e signore che sta sotto terra. Come queste furie siano descritte dalli antichi e perché e in quanti modi elle siano nominate, tutto mostra Eustazio sopra il libro di Omero segnato ι, per non vi stare ora particolarmente a dire che gli antichi le figurano nere, sanguinose, con serpenti in capo in vece di capelli, facella in mano ardente, ale nere e simili altri particolari i quali nel mostrato luogo voi troverrete. Però lasciando ora questo ripiglieremo il nostro ragionamento, dicendo che molto mi pare da considerare quanto sensatamente il divinissimo Dante ordini queste furie, cioè a Megera dia la mano e la parte sinistra, la destra a Aletto e nel mezzo metta Tisifone.
[9] E brevemente sopra questo e di nuovo discorrendo dico che io crederò che tutto si possa raccorre, ponendo che la medesima proporzione sia nella pena la quale è nel peccato: e — per essempio — parlando dico che l’uomo perverso primamente odia uno, di poi seguita nell’odio e ultimamente sodisfa e contenta l’odio lungamente portato e lo sfoga, e quasi paga quel debito - per così dire — ch’egli aveva fatto e a lungo tenuto acceso e saldo nell’animo. E ricorrendo all’essempio tutto penso vi sia per essere facilissimo a intendere.
Oreste aveva primamente in odio la madre per le cagioni che ognuno quasi sa: cioè per avere tenuta vita non punto onesta e ultimamente per avere morto il marito a tradimento, padre di Oreste; di poi, cioè doppo il principio dell’odio, continovato in quello e ultimamente sodisfatto a l'animo vendicandosi. Però elle sono dette «dirae ultrices», cioè «τιμωϱοίόέστινέπίϰουϱοι», si come mostra Eustazio nel Λ dell’Ulyssea e Vergilio nel quarto dell’Eneida: «Et dirae ultrices ».66 E oltra l’essempio di Oreste, ricordatevi di Enea, indotto da Vergilio nel secondo a così dire raccontando che aveva trovata Elena: «Exarsere ignes animo; subit ira cadentem / ulcisci patriam et sceleratas sumere poenas»; di poi: «Animumque explesse iuvabit». L'odio antico che Enea aveva contro di Elena, poi ch’egli la vidde in quel tempo che tanto a ragione tale odio si riconosceva avuto, divenne disposizione di vendicarsi: cioè l’odio non si dipose, ma dispose al prendere qualità di Tisif6ne, cioè di ammazzarla e in tal modo vendicare la patria.

[52]

«Venga Medusa: si ‘l farem di smalto».

[10] «Venga» truovo e «vegna», ma meno mi piace «vegna», perché straniero io lo sento. Necessario mi pare il pigliare tutto quello ho detto per unirlo con la sentenza di questo verso. Però dico che Oreste era tormentato dalle furie per avere egli ammazzata la madre e avere però commesso il matricidio: cioè Oreste era dalla coscienza ferito e stimolato, il che avviene a tutti coloro i quali hanno fatto un male e conosciuta l’opera loro cattiva, sempre vivono con quel travaglio e pentimento tale che sempre hanno quella puntura che gli stimola e travaglio. Ma quando questi tali sono troppo cavalcati, sì per la novità del caso, st ancora per la viltà, cioè per il debole, vano schermo e difesa, la cagione del mancamento del valore che hanno contro il morso del pentimento; si dicono divenire «smalto», cioè «indurire» e fare il callo in questo male, cioè variarsi da quello erano col non avere in loro più il rimordimento e non si pentire pit né farsi — per così dire — coscienza di cosa alcuna, anzi arditamente seguitare in simili casi del continovo; sono cangiati da Medusa in sasso. Né resterò sopra di questo di dirvi che cotal poetica fantasia e favola io penso che Dante l’abbia cavata e tratta da un’ombra di favola, accennata da Servio nell’ottavo di Vergilio, quando il poeta parla dell’armadura di Minerva, cioè: «Ipsam que in pectore divae / Gorgona». Sopra ’l qual luogo Servio dice: «Hoc autem caput ideo Minerva fingitur habere in pectore, quod illic est orationis prudentia, quae confundit alios, etimperitos, ac saxeos comprobat». Così gli sciaurati nelle loro sciaurataggini divengono sasso, cioè duri e saldi nel mal operare per l’abito: però le tre furie dicono: «Venga Medusa», cioè venga la potestà e forza la quale signoreggia la ragione, indotto ch'è l’abito. E penso che Medusa sia così detta dal verbo greco μέδω, il quale significa «impero», «guberno», cioè «padroneggio» e «tengo in potere»: di questo io non vi darò essempio essendo chiarissimo.

[54]

«Mal non vengiammo in Teseo l’assalto».

[11] Gli spositori intendendo che le furie si dolghino di non avere vendicato in Teseo l’assalto fatto al regno loro, mi pare che molto s’ingannino e che il contrario si deggia intendere, cioè ch’elle dichino: «Noi non ci vendicammo male, cioè poco, con Teseo e faremo il medesimo con costui». Che questa vendetta fosse grande, ricordandovi di quel verso di Vergilio, vi sarà questa in concetto di grandissima: «Sedet aeternumque sedebit / infelix Theseas». Di Vergilio - intendo — nel sesto, il quale è biasimato da A. Gellio nel decimo libro ai sedici capi e quanto a torto voi lo sapete che vi ricordate dell’interprete di Aristofane, il quale di Teseo parla nella commedia chiamata Ιπείς, dicendo che quello aveva lasciata la forma del sedere e il carello o ’l guanciale — che dire mi voglia quivi —. E però assai fu vendicata l’ingiuria fatta a Proserpina da Teseo e l’assalto insomma del quale disse Vergilio nel sesto in tal modo: «Nec vero Alcidem me sum laetatus euntem / accepisse lacu nec Thesea Pirithoumque»; di poi: «Hi dominam Ditis thalamo deducere adorti». Assolutamente e bene — però — vendicorono le furie l’assalto che fece Teseo, poi ch'egli vi lasciò nell’Inferno — intendete — la forma del sedere, si che sempre vi si vederà la pena di Teseo. Ma di questo a miglior proposito io un dì ragionerò, se nulla avessi lasciato. Non voglio già ora lasciare che io non dica che quando ’l nostro poeta dice

[52]

«Venga Medusa: sì ‘l farem di smalto»,

si conosce la medesima differenza che io vi ho detta esser fatta dal Petrarca in quella divotissima canzone ch'egli fece alla gloriosissima Vergine Maria dicendo: Che ’n me83 si muova a curar d’uom sì basso. Medusa e l’error mio m'han fatto un sasso. Nel qual luogo alcuni spositori#5 intendono per «Medusa» madonna Laura, il che non mi pare da lodare, ma penso che questo sia posto — sì come è usanza de’ poeti —ΰοτεϱονπϱότεϱον, cioè capo piedi e che prima convenisse dire: «L’error mio è Medusa», cioè l’avere errato e essere assai stato in quest’errore mi ha fatto pigliare l’abito duro. E a questo benissimo conoscete quanto s’accomodi la sposizione che io fo di Dante. Ma seguitiamo il proposto verso e avvertite che il medesimo nel settimo del Paradiso usa questo verbo «vengiare», quando dice

Poscia vengiata fu da giusta corte,

intendendo della disubbidienza d’Adamo per la morte di Iesu Cristo. E nel ventesimo sesto dell’Inferno:

E qual colui che si vengiò con gli orsi.

[68]

Impetuoso per gli avversi ardori.

[12] Di qui si può avvertire che solamente la state viene vento furioso e subito, perché la vernata non si considerono ardori ma secchi.

[74]

Del viso su per quella fiamma antica.

[13] «Fiamma» solamente ha un testo e tutti gli altri «schiuma», la qual lezione mi sodisfa, perché soggiugne:

[75]

Per indi ove quel fumo è più acerbo.

Questo dire «fumo» arguisce «fuoco» e l’acerbità del «fumo» la «fiamma».

[79]

Vidd' io più di mille anime distrutte.

[14] Io sono di tanto diversa oppinione dagli spositori in questo significato della voce e epiteto «distrutte» che mi sento struggere pensando se m’inganno o se l’intendo, sì che sentite le mie ragioni e di poi — come vi piace — giudicate. Nella comparazione ch'egli fa delle ranocchie mi pare da avvertire, cioè ch’egli agguaglia questi animaletti alle anime, la biscia a l'angelo, il deleguare delle ranocchie al fuggire delle anime. Ora perché egli le dica «distrutte», se volete da me sapere, vi direi che io credo che «distrutte» significhi «divise», partite in diverse parti e come noi diciamo: «Chi ’n qua e chi ’n là fuggiva». Che egli non intenda delli iracondi, considerate che quasi tutti pone sotto l’acqua e nel fango, di poi ricordatevi che gli trovò avanti ch’entrassi nella barca di Flegiàs: ma ritornando alla voce «distrutte», molto pit mi piace che anime «distrutte» significhino anime «morte», disfatte, cioè dannate. Ricordatevi di Carone che dice a Dante:

«E tu che se’ costi, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».

Però il senso sarà: «I’ viddi pit di mille anime, cioè un’infinità di anime morte e dannate che fuggivono l’angelo, sì come indegne della sua presenza».

[81]

Passava Stige con le piante asciutte.

[15] Nelle preci della benedizione del cero il sabbato santo sono queste santissime parole: «Haec nox est / in qua primum patres nostros filios Israel / eductos de Egypto, / mare rubrum, sicco vestigio transige fecisti». Vedete però spresso «sicco vestigio» dal poeta, quando dice: «piante asciutte». Ma seguitiamo e sentite questa varietà che io ho e la quale appruovo.

[91]

«O cacciati da Dio, gente dispetta».

Più forza io ci sento che nell’ordinaria:

[91]

«O cacciati dal ciel, gente dispetta».

[93]

«Ond' esta tracotanza in voi s'alletta?».

[16] Quello che vaglia e significhi «tracotanza», si è detto quando ragionammo alla fine dell’ottavo canto:

[133]

Passammo tra martiri e gli alti spaldi.

Gli spositori pigliono «spaldi» per «spazii» e io — per quel che si raccoglie dal parlare di Dante — credo che «spaldi» significhino «mura», sì come nel seguente canto si può giudicare, le parole del quale sono queste:

Ora sen va per un segreto calle,
tra’l muro della terra e gli martiri.

E questo è chiarissimo: però più non ne parleremo, principalmente avendone agiatamente e secondo il nostro credere parlato uno spositore. Ma riandiamo certe cose.

[80]

Fuggir così dinanzi ad un ch'al passo.

[17] «Così», cioè «come le ranocchie», «al passo», cioè al modo del passare e andare.

[89]

Giunse alla porta.

[18] Un solo testo ha «giunse», il quale mi sodisfa, perché questo modo di parlare «giunse» ha in sé più maestà, cioè il verbo «giugnere» che «venire», sì come:

[90]

L’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.

Cioè: la porta non ebbe chi la ritenesse, però largamente ella si aperse.

[109]

Com’io fui dentro.

[19] Ancor che tutti i testi abbino questa lezione, nondimeno più mi piace che si scriva: «Come fui dentro», perché considero che leggendo come si legge, avanza non che un nominativo, ma duoi perché ha detto:

[107]

E io, ch’avea di riguardar disio.

Di poi:

[109]

Com’io fui dentro.

Però leggete: «Come fui dentro».

Date: 2022-01-10