Commento di Francesco da Buti sopra la Divina Comedia di Dante (Inferno IX) [Francesco da Buti]

Dati bibliografici

Autore: Francesco da Buti

Tratto da: Commento di Francesco da Buti sopra la Divina Comedia di Dante. Tomo I

Editore: Nistri, Pisa

Anno: 1858

Pagine: 247-272

Quel color ec. Questo è lo nono canto, nel quale l’autor nostro pone come entrò nel vi cerchio che è lo primo della città Dite, e però questo canto si divide principalmente in due parti, perché prima pone in che modo li demoni apparecchiarono la difensione per contrastare all’angelo, acciò che Dante non entrasse nella città; c nella seconda, come l'angelo venne a fare aprire la porta, e come entrò dentro alla città, quivi: E già venia ec. La prima che è la prima lezione, si divide in otto parti, perché prima pone quel che Virgilio fece e disse, dette le parole poste di sopra; nella seconda, quel che Dante pensava pel detto di Virgilio, quivi: Jo vidi ben ec.; nella terza come Dante fa una domanda a Virgilio, e come Virgilio risponde, quivi: In questo fondo ec.; nella quarta, come Virgilio, fatta la risposta alla domanda di Dante, dice più oltre della condizione del luogo, quivi: Questa palude ec.; nella quinta pone Dante, come Virgilio li manifesta che è quel ch’ elli vede, quivi: E quei, che den conobbe ec.; nella sesta pone Dante quello che per sè conobbe, quivi: Con l’unghie si fendea ec.; nella settima, come Virgilio l’ ammoniscce, c piglia rimedio contra il nocimento, quivi: Volgiti in diefro ec.; nell’ottava pone l’ autore uno conforto a’ lettori che notino l'allegoria in questo passo, quivi: O voi che avete cc. Divisa la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale.
Dice adunque così: Io Dante avendo veduto turbato et adirato Virgilio, perché gli era negata l’entrata della città Dite, dubitai e temetti; la qual cosa procede da viltà di cuore, e per tanto diventai pallido. Onde Virgilio vedendomi, smorto e pallido, cacciò da sè l’ira e la turbazione, e ritornò il sangue alle parti sue, ch’ era sparto nella faccia, dentro per dar conforto a Dante, e cominciò a dire: Pure a noi converrà vincer la punga, Se non..., tal ne sofferse ec., e non compiè sua sentenzia; ma lasciolla troncata, onde soggiugne altra sentenzia, cioè: Oh quanto tarde a me; cioè a mio parere, ch’ altri giunga qui; e questo dice dall’angelo ch’ elli aspettava, perché venisse a fare aprir la porta; onde dice Dante ch’ elli s'avvide bene come Virgilio ricoperse lo primo detto col secondo; ma niente di meno pur ebbe paura, perch’ elli compieva la parola tronca con tal sentenzia che non era vera, secondo la intenzione di Virgilio. Oltra questo domanda Dante Virgilio, per ch'elli avea preso dubbio dell’entrare, se in quella città entrò mai niuno di quelli del castello. Alla qual domanda rispose Virgilio, che rade volte addiviene che quelli del castello vadino per l'inferno, ma una volta elli v andò scongiurato da Eritone incantatrice, che facea tornare l’ anime ai corpi, ch’ elli andasse a cavare uno spirito del cerchio di Giuda, che è il più basso luogo d'inferno, e più remoto dal cielo perché qui è lo centro della terra; e che ben sapea il cammino, sicché prendesse sicurtà, e non si maravigliasse se elli s' era adirato, che chiunque va a quella città convien che s’ adiri: però ch’elli passa Stige ove si punisce l'ira, et evvi continuo accendimento d’ ira: però che con ira si punisce l'ira, come fu manifestato in Filippo Argenti che si mordea coi denti. Mostra l’ autor che dicesse ancor altro; ma finge di non averlo a mente, perché la paura indebolisce la memoria, et elli era tutto attento all’ alta torre, alla cima ch’ era rovente, ove vide tre furie infernali, che li autori fingono che sieno le donzelle, e cameriere di Plutone, e dice che l'una avea nome Aletto, e l’altra Tesifone, e l’ altra Megera, et erano in forma di femmina con cinture di serpenti e coi capelli serpentini: e Virgilio gliel mostra e nominale, e dice che sono ministre di Proserpina, e sono chiamate Erine per nome speciale, e poi manifesta lo nome proprio di ciascuna, come è detto di sopra. E dice l’autore, ch’ elle si fendeano con l’unghie lo petto e batteansi a palme, e gridavano ad altissima voce: Male al nostro uopo non ci vendicammo di Teseo, che ora non ci verrebbe costui, lo quale ci viene ad esempro di lui; e soggiugneano: Venga Medusa, che il faremo diventare pietra. Onde Dante per paura si strinse a Virgilio, et allora Virgilio ammonisce Dante che si volga: ché se Medusa si mostra et elli la vegga, non ritornerà mai suso, perché diventerebbe pietra; e non s' attenne Virgilio a Dante; ma elli stesso lo volse e colle sue mani lo chiuse. E per questo incita l’autore li lettori e li uditori a considerare la esposizione allegorica, che si nasconde sotto le parole dette di sopra; e qui finisce la sentenzia litterale. Ora è da vedere lo testo con le allegorie.

C. IX— v. 1-9. In questi tre ternari lo nostro autor procedendo oltre nel trattato, dimostra quel che disse Virgilio, e che disse dopo quel che fu detto nell’altro canto; onde dice: Quel color; cioè smorto e pallido, che viltà di fuor mi pinse; nel volto, Vedendo il Duca mio; cioè Virgilio, tornar in volta; della porta di Dite, Più tosto d’entro il suo nuovo ristrinse; dentro a sè; cioè lo colore smorto, che venne per viltà nella faccia di Dante, ristrinse più tosto che non avrebbe fatto, dentro a Virgilio lo suo nuovo; cioè il color acceso dell’ira che ora nuovamente era venuto nella faccia di Virgilio, dimostrandosi con rossezza. Onde qui è da notare che timore procede da viltà di cuore, perché timore è tristizia di cuore, o desperazione d’ avere la cosa desiderata, o sperante d'aver la cosa odiata; e per tanto la natura che sempre soccorre alle parti ch’ ànno mancamento o difetto, manda il sangue dentro al cuore, e perciò diventa l’uomo pallido in faccia, e però pallidità è segno di paura quando viene subita. Questo si dice perché alcuna volta viene per infermità, et alcuna volta per paura ; et a differenzia di queste disse l’autore, che viltà di fuor mi pinse. Ancor è da notare qual fu lo color nuovo di Virgilio; e questo fu rossezza nella faccia, la quale procede da ira: imperò che come dice Aristotile, ira è bollimento, ovvero accendimento di sangue intorno al cuore per appetito di vendetta, e però conviene che si sparga di fuori nella faccia, perché lo sangue acceso discorre per tutte le vene, e per tutte le membra; e perché quivi n’è più che altrove, però più appare quivi che altrove; e così quando si rimuove, appare più la pallidità: e puossi notare qui una moralità, che quando li buoni capitani veggono sbigottire li suoi sudditi, mostrano ardire per rinfrancarli, come dice Virgilio di Enea: Spem vultu simulat premit altum corde dolorem. E così pone ora Dante di Virgilio, e notantemente dice nel testo più tosto che non avrebbe fatto il suo nuovo, perché le passioni subito vengono nel savio uomo, e subito si partono. Ancora si può muovere qui uno dubbio: con ciò sia cosa che sia detto di sopra che Virgilio tenga figura di ragione, e Dante di sensualità, come si può intendere e dee, che Dante diventasse insieme pallido e rosso, come seguitarebbe per quello che detto è di sopra? A questo si può rispondere espeditamente, che non sempre Dante pone che Virgilio tenga figura di ragione, come si può mostrare per lo testo, ove dice di sopra nel quarto canto: Io era nuovo in questo stato; e così apparirà di sotto in questo canto, ove dice: Ver è, ch’altra fiata qui giù fui. Ancora se sempre l’autore avesse usata questa figura, e mai non li avesse dato quello che fu propio di Virgilio, non sarebbe stata buona poesia, perché non avrebbe avuto verisimilitudine. Puossi ancor dire che in questo modo si salvi la fizione di Dante pigliando la sensualità di Dante insieme con la ragione inferiore; e dicendo che Dante finga che vedendo che la ragione superiore, significata per Virgilio, che non potea acquistare conoscimento di quel ch’ era dentro alla città, ch’ elli finge che li serrasson le porte, il qual serramento significa difficoltà et ostacolo, ritorna in verso Dante; cioè alla ragione inferiore e sensualità, crucciandosi della sua impotenzia. E per questo la ragione inferiore e sensualità significata per Dante impaurisce di rimanere impedita, e non potere compiere lo suo proponimento; ma poi la ragion superiore caccia l'ira, sperando nella grazia di Dio; e per questo finge che l'angelo li vegna ad aprire la porta; e benché l’autor finga queste cose in uno punto, deesi intendere che fosse successivamente. Potrebbesi ancor dubitare come andò la sensualità di Dante a queste cose. A che si può rispondere che quanto al vero non v' andò, se non la sua ragione; mala sua’ poesia finge per sì fatto modo, che pare che andasse ancora la sensualità, ponendo tutte queste cose sensibili, come appare nel testo. Seguita: Attento si fermò; Virgilio, com’uom, ch’ ascolta; poi ch’ ebbe posata l’ira: Chè l’occhio nol potea menare a lunga; rende la cagione perchè ascoltava: imperò che non potea vedere, Per l’aere nero, e per la nebbia folta. Ecco la cagione del non poter vedere; e benchè l’autore finga l’aere nero essere per tutto l'inferno, che significa ignoranzia, più quivi che nelli luoghi passati, perché quivi puniscono i più gravi peccati, sicché v’è maggiore ignoranzia: quivi nel pantano ove era la nebbia, si punisce ira et accidia, come detto fu di sopra. Pure a noi; cioè a me Virgilio, e a te Dante, cominciò a dir Virgilio: converrà vincer la punga; et è qui metatesi, figura di grammatica, per la quale si trasmutano le lettere per la rima, o forse quello che noi diciamo pugna altro linguaggio dice punga; cioè la gara. Cominciò el; cioè Virgilio, Se non…, tal ne sofferse... Questa è una orazione imperfetta secondo il grammatico, che non à verbo principale; ma ella si dee supplire in questo modo; cioè se non la vinceremo per noi, tal ne sofferse; cioè sostenne pena; e questo fu Cristo nostro Salvatore, che ce la farà vincere. E detto questo, soggiunse una orazione perfetta; cioè: Oh quanto tarda a me; cioè al mio parere: però chi aspetta, sempre li appar troppo indugiare, ch’altri qui giunga; cioè l'angelo il quale dee venire a fare aprire la porta; e per questo angelo intende l’autore la grazia di Dio, sanza la quale nulla può comprendere il nostro intelletto. E qui bene appare che Virgilio si ponga per la ragione: però che ponendosi propiamente per Virgilio, non avrebbe verità in sè la sentenzia, benché la lettera n’avesse verisimilitudine.

C. IX— v. 10-15. In questi due ternari finge l’autore che elli sgomentasse per lo detto di Virgilio, che detto fu di sopra; benché Virgilio ricoprisse la sentenzia incominciata con altra che seguì. Dice così: Io; cioè Dante, vidi den, sì com’ ei; cioè Virgilio, ricoperse Lo cominciar; cioè la prima sentenzia incominciata; cioè: Pure a noi ec., con l’altro, che poi venne; cioè con la sentenzia che seguitò poi, cioè: Oh quanto tarda ec. — Che fur parole alle prime diverse: imperò che la seconda sentenzia fu diversa dalla prima: imperò che la prima secondo lo suono delle parole mostrava dubio, in quanto diceva: Pure a noi; ove non si mostrava speranza d’aiuto, quando disse: Oh quanto tarda. — Ma non di men; cioè che ricoprisse la prima sentenzia con la seconda, paura il suo dir; di Virgilio, dienne; a me Dante: Perch’io; cioè Dante, traeva la parola tronca; cioè orazione imperfetta che dicea: Se non..., tal ne sofferse...— Forse; dice in dubbio: imperò che potea essere che sarebbe tenuta quella sentenzia che Dante credea, et ancor potea essere ad un’ altra sentenzia migliore, per la quale forse Virgilio la profferea, et ancor potea essere che la proffereva a quella sentenzia che Dante intendea, e però disse: Forse a piggior sentenzia, ch'e’ non tenne; secondo la intenzion di Virgilio. Sopra questa parte è da notare che Dante finge che traesse quella orazione alla sentenzia poetica, secondo la favola d’ Ercole, e di Peritoo, e Teseo, la qual si dirà di sotto in questo capitolo sopra quel testo: Che giova nelle fata dar di cozzo; quasi dicesse: Tal ne sofferse, che ancora ne sofferrà. E questa potea esser la sentenzia di Virgilio, la quale con quel dinanzi dava paura a Dante, temendo non li convenisse combattere con Cerbero, come fe Ercole, Peritoo, e Teseo; e però finge che soggiunse l’altra ch’era di conforto; cioè: Oh quanto tarda. Finge ancora che Virgilio potè intendere quella orazione secondo che sposta fu di sopra; benché Dante la tirava pure a piggiore intendimento, e però ebbe paura per quel dir primo, cioè: Pure a noi converrà vincer la punga; e questo cagionava lo tiramento dell’orazione tronca forse a piggior sentenzia, che quella che Virgilio avea intesa. E sopra questa parte è da notare che l’autor finge questo diverso parlare essere stato in Virgilio, per mostrare come si variano le sentenzie quando l’animo è acceso a ira; et ancora finge quel parlare tronco, per dare ammaestramento all’ uomo che esamini bene le parole dette dal savio uomo, innanzi che giudichi, e tirile a tutte le sentenzie che tirar si possono, e prendane la migliore.

C. IX — v. 16-30. In questi cinque ternari l’autor nostro finge che facesse a Virgilio una domanda la qual pone prima, e poi soggiugne la risposta di Virgilio. Dice adunque così: In questo fondo; dimostrando la città Dite, della trista conca; cioè dell’ inferno, il quale chiama conca: però che ogni cosa che tiene è conca, e dice trista: però che è piena di tristizia, Discende mai alcun del primo grado; cioè del primo cerchio ove pose il castello, e quelli che non ànno peccato; ma son morti sanza fede, Ch’ à sol per pena la speranza cionca; cioè che son sanza speranza di grazia, et ànno continuo desiderio, onde disse di sopra cap. IV, Che sanza speme vivemo in disio? —Questa question fec’io; dice Dante, la qual’ è detta di sopra, per mostrare onde li venia paura di potere entrare nella città Dite, e che Virgilio li sapesse mostrare il cammino. Aggiugne la risposta di Virgilio: e quei; cioè Virgilio disse, s’ intende: Di rado Incontra; cioè addiviene rade volte, mi rispuose; cioè mi rispose a me Dante, che di nui; ‘cioè di quelli del primo cerchio, Faccia il cammin alcun, per qual'io vado; ora con teco. Ver è, ch’ altra fiata qui giù fui; dice Virgilio, Congiurato da quell’ Eriton cruda; cioè crudele, Che richiamava l’ombre; cioè facea tornare l’anime un’altra volta, poi ch’ erano morti, ai corpi sui; e questo manifestò Virgilio quando vi fu, e come; cioè quando Eriton lo scongiurò. Questa Eritone fu una femmina di Tessaglia incantatrice che facea per arte magica tornare l’anime ai corpi, e rispondere delle cose che doveano venire. Di questa fa menzione Lucano, ponendo che Sesto figliuolo di Pompeio andò a lei per domandare dell’avvenimento della battaglia; et ella allora fece l’arte, e fece tornare una anima nel corpo, e disse quel che dovea avvenire. Ma questa fizione; cioè che Eriton scongiurasse Virgilio, fa l’autor nostro da sè poetando: chè questo non si truova appo li autori, nè non è da dire che qui l’autore faccia allegoria; ma finge questo per dare verisimilitudine alla sentenzia litterale, considerato ch’ avea finto di sopra che Virgilio era di quelli del primo cerchio. Et ancora Virgilio dice nel scsto dell’Eneida: Nulli fas casto sceleratum insistere limen. — Di poco; cioè di poco tempo, era di me; anima, la carne; mia, nuda, Ch'ella; cioè Eriton, mi fece entrar dentro a quel muro; della città Dite: Per trarne un spirto; fuor di quella città, del cerchio di Giuda; cioè nel quale è Giuda; lo qual cerchio si chiama la Giudecca dal nome di Giuda. E questo finge l’autore, per mostrare che sia possibile che Virgilio ora vel meni, benché l’ Eneida dica che Sibilla non vi menasse Enea. Quell’è il più basso loco e il più oscuro, E il più lontan dal Ciel che tutto gira. Parla della Giudecca dicendo, che è il più basso luogo dell’inferno, e più oscuro e più di lungi dal cielo, che gira intorno la terra: però che è al centro della terra, e lo centro è più distante luogo che sia dalla circunferenzia del cerchio; e questo finge per mostrare che ben li sia possibile di menarlo d’ ogni lato, e però soggiugne: Ben so dl cammin; io Virgilio; però ti fa stcuro; tu Dante, e non aver più paura.

C. IX — v. 31-42. In questi quattro ternari l’autor nostro pone lo compimento del parlar di Virgilio, et appresso soggiugne quello che vide in sulla torre della città. Prima dice che Virgilio, poiché l’ebbe confortato mostrandoli che ben sapea lo cammino, li rende la cagione perché s’era adirato, dicendo: Questa palude; cioè Stige, che aveano passato, che il gran puzzo spira; cioè gitta, come detto fu di sopra, Cinge d’intorno la città dolente; cioè Dite con le fosse che disse di sopra, U' non potemo; cioè nella qual città non possiamo, entrare omai sanz’ira; e per tanto non ti maravigliare se io m’ adirai con li demoni, ch’ ella è intorniata questa città da palude, ove si punisce l'ira. E benché questo abbi finto secondo la lettera, niente di meno àe avuto intelletto allegorico: imperò che la ragione entrando a considerare li gravi peccati, non può fare che non s'adiri, almeno d’ ira, per zelo della giustizia di Dio contra sì fatti peccati. Et altro disse; Virgilio; ma non l’ò a mente; io Dante: Perocchè l'occhio; cioè mio, m’avea tulto tratto Ver l’alta torre alla cima rovente; cioè alla cima della torre ch'era sulla porta della città, et era rovente come detto fu di sopra. E questo finge l’autore per dare ad intendere che l'animo dell’uomo svaria per le cose apposte, e rappresentateli di fuori: imperò che manifesto è che Dante è colui che parla, ben ch’elli fingendo induca a parlar Virgilio, sì che ben sapea se altro disse. Dove; cioè in su la qual cima della torre, in un punto furon dritte ratto; cioè tostamente, Tre furie infernal di sangue tinte; cioè le quali erano sanguinose, Che membra feminili aveano et atto; cioè aveano le membra e li atti a modo di femmine, sicché pareano femine. E con idre verdissime eran cinte; cioè avean serpenti verdissimi per cintura: Serpentelli; piccolini serpi, e ceraste avean per crine; cioè in luogo di capelli avean piccoli serpenti, e ceraste. Ceraste è una generazione di serpenti, ch'ànno le corna, sicché aveano per capelli quelli serpenti ch’aveano corna, et altri piccolini. Onde le fiere tempie eran avvinte; cioè che aveano avvolti questi serpenti alle tempie intorno, come le femine portano li capelli. Qui manifesta Dante, perch’elli riguarda alla cima della torre, avendo sospetto di quelli ch’ avea detto innanzi Virgilio cap. vil; cioè: Qual ch’ alla difension dentro s’aggiri, e come vide tre furie infernali come sono descritte nel testo; e qui nota la fizione poetica. Dicono i poeti che Acheronte fiume infernale, del quale fu detto di sopra, generasse della Notte tre figliuole; cioè Aletto, Tesifone, e Megera, e queste dierono per donzelle a Proserpina reina dell'inferno, sicché ella le à sempre tenute al suo servigio, e mandatele nel mondo, come finge Virgilio, a commuovere le discordie; e perché li autori non finsono queste cose invano, è da vedere quel che intesono, e quel che intese Dante. E prima, i poeti intesono che queste sono quelle che fanno perturbare le menti de’ peccatori che peccano per malizia: chè a quelli che peccano per incontinenzia non sono necessarie; e però per comune vocabolo le chiama furie, perch’elle fanno perturbare la mente: furia tanto è quanto perturbazione di mente. E ben nascono d'Acheronte che significa sanza grazia, come detto è di sopra cap. primo: che quivi ove sono, non è la grazia di Dio; e similmente nascono della Notte che significa ignoranzia, c-chiamasi la prima Aletto che vuol dire non riposevole: imperò che questa si pone per li mali pensieri che sempre molestano la mente; l’altra si chiama Tesifone; cioè voce supposita, ovvero voce d’ira, e questa si pone per le male parole che escono della bocca; la terza si chiama Megera; cioè maggior tempesta, c questa si pone per le male operazioni. Fingonsi in forma di femmine, perché i nomi si convengono a femmine; cioè mala cogitazione, mala operazione, mala locuzione; sono sanguinose perché da loro nasce ogni crudeltà; sono cinte di serpenti perché inducono fraude et inganni, e con quelli si fortificano; ànnone treccie al capo, perché ogni loro principio viene da inganno; sono date a Proserpina; cioè alla superbia: imperò che Proserpina s'interpetra sotto intrante di lungi; e così fa la superbia, che da lungi sotto entra eziandio nelle buone opere, non che le cattive; sono dette vergini perché sono sterili d’ogni bene. Queste vanno a tentare et a inducere la malizia nel mondo: imperò che ogni male nasce dal mal pensieri, dal mal parlare, e dal male operare; queste appariscono in su la cima della torre, che significa arroganzia, perché sono donzelle della superbia; e vogliono impedir Dante perché ‘non entri nella città, e perché nol possono impedire per sè; cioè per loro medesime, chiamano aiuto, come apparirà di sotto.

C. IX— v. 43-48. In questi duc ternari l’autore nostro finge che Virgilio li manifestasse per nome le furie apparite in sulla cima della torre, e però dice: E quei; cioè Virgilio, che den conobbe le meschine; cioè le misere messaggiere, Della reina dello eterno pianto; cioè di Proserpina regina dell’inferno, ove è sempre pianto e dolore, Guarda, mi disse; cioè a me Dante, le feroci Erine; erinis è a dir discordia. Quivi. ove sono queste è sempre discordia, onde alcuna volta la Grammatica le chiama furie, come è detto di sopra; alcuna volta, Erine come detto è ora, che viene a dire discordia, ovvero combattimento; alcuna volta, Eumenides che viene a dire mancamento di beni, e ben dice feroci perché sono crudeli. Quell’è Megera dal sinistro canto. Virgilio nomina qui le furie, come finge l’autore, del. nome detto di sopra; ma qui si dee notare lo luogo: imperò che l’autor finge che Virgilio ponesse Megera dal lato manco: imperò che il mal pensieri vien dal cuore che è nel lato manco. Quella, che piange dal destro, è Aletto. Qui finge che Aletto sia dal lato ritto perché le percuote chi l’è incontro. Tesifone è nel mezzo; tra l’una e l’altra: imperò che tra il pensare e il male aoperare è in mezzo il mal parlare, e tacque a tanto; cioè a questo Virgilio si tacque.

C. IX — v. 49-54. In questi due ternari l’autor nostro pone come dopo la manifestazione delle furie fatta da Virgilio, elli comprese alcuno loro atto e loro parlamento, e però dice: Con l’unghie si fendea ciascuna il petto; di quelle tre furie, Batteansi a palme; tutte e tre, e gridavan sì alto; le dette tre furie. E per questo l’autor manifesta li tre loro propri ufici: imperò che per lo graffiare del petto s'intende li lor mal pensieri, che cruenta et insanguina lo cuore; e notantemente di tutte: però che agli altri due atti va innanzi il mal pensiere tutte le volte, quando si pecca per malizia; per lo battersi a palme s' intende la mala operazione, et ancor si dà a tutte: imperò che queste sono fuor che luna va con l’altra, e massimamente la terza dà ad intendere innanzi si trova la seconda e la prima, e nella seconda la prima; ma non e converso come appare a chi ben considera; per lo gridare alto s'intende la mala locuzione. Ch'io; cioè Dante, mi strinsi al Poeta per sospetto; cioè a Virgilio, et allegoricamente alla ragione, e solamente dice per paura della voce: imperò che più nuoce il mal parlare, che il mal pensare, o male operare al prossimo, e però è più pericoloso; e però finge che si strignesse al poeta; cioè alla ragione per paura, ch’ ebbe la sensualità, delle dette furie che non impedessono lo suo cammino. Vegna Medusa. Ecco che gridavano le dette furie; cioè che venisse Medusa, onde qui è da notare la fizione che pongono li poeti di Medusa, e la sua allegoria ovvero moralità. Dicono adunque che Forco re d’Africa, nelle parti occidentali, ebbe tre figliuole; che l’una ebbe nome Stenio, l’altra Euriale, l’altra Medusa; queste tre sorelle non aveano se non un occhio, et avvicendevolmente luna lo prestava all’ altra. Morto Forco in mare, benché secondo la fizione diventò Idio marino, con tutto lo suo esercito col quale annegò in mare, rimase Medusa, la quale era la maggior figliuola, donna del regno; Nettuno. Idio del mare s’ innamorò di lei e viziolla nel tempio di Pallade, e pertanto Pallade corrucciata contra di lei, perché contra Nettuno ch’ era suo fratello non potea pigliar vendetta, li fece li capelli serpentini, e diede che chiunque la vedesse diventasse pietra, onde costei avea già molti uomini convertiti in pietra. Quando la fama sua pervenne a Perseo figliuolo di Danae, figliuola d’Acrisio re d'Asia, e di Giove, onde li venne voglia di torre sì fatto mostro del mondo, e domandò consiglio, et aiuto dalla sua suora Pallade dea della sapienzia, et ella li prestò il suo scudo ch’ era di cristallo, e Mercurio li prestò la sua spada ritorta come una falce, e andossene nel regno di Medusa accompagnato da Pallade. La quale lo ammaestrò che andasse a dietro e guardasse nello scudo, acciò che non vedesse Medusa e che non sè mutasse in sasso, e così andando la vide nello scudo, e quando fu presso a lei vedendo che prestava l’occhio alla sorella, parò la mano, e tolselo loro, e poi a lei che dormia; cioè Medusa, puose la spada in sul collo e tirò, e segolle il collo; e prese lo capo co’ capelli serpentini in mano, non mirandolo, e del sangue di Medusa nacque uno cavallo alato che li poeti chiamano Pegaso. Allora montò Perseo su quel cavallo e venne nel regno del re Atlante; e perché non lo volle onorare primamente quando li venne a casa, mostrollo questo capo e fecelo diventare sasso; e perché era gigante diventò uno monte. E partitosi di quivi venne con questo cavallo in sul monte Parnaso che è in Grecia, e raspando la terra nacque una fonte la quale si chiama la fonte delle muse, e lo capo di Medusa donò alla sorella Pallade, et essa poi lo pose nel suo scudo, con certi ingegni, e così sempre lo portò poi nel petto.
Ora per questa fizione molti intendono una istoria che Medusa fosse reina, come è detto; e che avesse uno occhio con le sue sorelle, perché erano d'una bellezza; e li capelli serpentini ebbe ella, perché fu più astuta che l’altre; e diceasi mutare li uomini che la gnardavano in sasso, perché diventano stupidi per la sua bellezza. Perseo fu uno re di Grecia, che udita la sua ricchezza, andò per vincerla et acquistare il suo regno, e così li venne fatto: e perché il re Atlante diede aiuto a Medusa, vinta Medusa con la forza del regno di Medusa vinse Atlante, e cacciollo in fin che lo rinchiuse in sul monte. E questo intende la fizione, che dice che lo mutò in monte, che del sangue di Medusa nascè Pegaso cavallo alato; e le altre cose che seguitano richieggono altra esposizione che storiale; cioè che Perseo, che significa virtù, aiutato da Pallade; cioè dalla Dia della sapienzia, vince Medusa: cioè oblivione che è una spezie di terrore, perché Medusa è una delle tre sorelle che si chiamarono Gorgones; cioè terrori. Gorgon s'interpetra terrore, e perché sono tre le specie de’ terrori, però si nominano tre suore; cioè Stenio, che s’interpetra debilità di mente, ch'è principio di paura; Euriale che s’interpetra lata profondità, stupor di mente, ovvero amenzia, quando la paura abbatte la mente; Medusa; cioè dimenticamento, quando la paura non solamente impaccia il conoscimento; ma ancora vi mette ignoranza delle cose sapute. Morta Medusa da Perseo; cioè dal virtuoso, quindi nasce Pegaso cavallo alato; cioè fama, la quale fa la fonte delle muse, perché delle virtuose opere de’ signori è fama, e le cose famose sono materia ai poeti di scrivere. Ancora il capo di Medusa veduto dalle persone muta in sasso: imperò che chi riguarda alla paura, perde lo conoscimento; e per tanto Perseo vi vae avverso, perché il virtuoso si lascia la paura di dietro perché la dispregia non pensandola, se non in figura, tanto che l’abbia vinta, però la riguarda e mirala nello scudo del cristallo di Pallade che è chiara e rilucente difensione di sapienzia. Dà Perseo ancora lo capo di Medusa alla sapienzia alla quale lo porta nel petto; ma non lo ragguarda, perché lo savio porta sempre seco la paura nella mente; ma non sì lascia vincere a quella: chè non li volge il viso; cioè non li dà lo intelletto, e così espone santo Ilario la detta fizione, seguitando Fulgenzio; ma di sotto la metteremo meglio ad intenzione dell'autore. E seguita: sì dl farem di smalto; cioè lo farem di pietra. Lo smalto è pietra: però che di pietra si fa. Dicevan tutte; le furie predette, riguardando in giuso; in verso Dante; e questo appare che dicean di lui: Mal; cioè male a nostro uopo, non vengiammo în Tesco l'assalto; cioè non facemmo vendetta dell’assalto di Teseo; cioè che Teseo fece all’infernali quando discese all'inferno: ché se ce ne fossimo vendicate, li altri non si sarebbon messi a venire come ora s'è messo costui; onde è da notare la fizione di Teseo. Teseo re delli Ateniesi, e Peritoo furono grandissimi compagni, e puosonsi di non pigliare moglie, se non delle figliuole di Giove, onde Teseo tolse Elena, la quale li convenne poi rendere: però che Castore e Polluce fratelli d’ Elena la racquistarono, tolta in quello scambio la madre di Teseo. Peritoo non ne poté trovare nel mondo veruna; e però presa la compagnia di Teseo andò nell’inferno a togliere Proserpina; ma non la poterono avere, onde Teseo e Peritoo se ne vennono, secondo alcuna fizione; secondo alcun’altra, vi fu Teseo rattenuto. Ma poi Peritoo vi menò Ercole che ne ’l cavò, et ancora ne menò Cerbero strascinandolo con le catene del diamante che li gittò in collo, quando fuggì alla sedia di Plutone per paura, e tirollo quindi in fine nel mondo. E per la luce che Cerbero non potea sostenere, gittò schiuma della quale nacque erba velenosa, la quale si chiama aconita; onde rimase a Cerbero pelato lo mento e il gozzo, per lo stirare della catena; e tornato che fu Cerbero nello inferno morse malagevolmente Carone, perché li avea passati in su la nave, e però dice che, Mal; cioè male a loro uopo, non si vendicarono della vendetta di Teseo: chè se si fossono vendicate, Dante non avrebbe ora ardimento di scendervi.

C. IX — v. 55-60. In questi due ternari l’autor mostra lo riparo che Virgilio prese contra il nocimento delle furie, che detto è di sopra, dicendo: Volgiti in dietro; tu Dante, e tien lo viso chiuso; cioè tieni il viso celato: Chè se il Gorgon; cioè Medusa, che è detta Gorgon, secondo che fu detto di sopra; si mostra; sì che tu il vegga, e tu il vedessi; cioè tu Dante vedessi questa Medusa, Nulla sarebbe di tornar mai suso; cioè nulla potenzia sarebbe di tornar su nel mondo: però che diventeresti pietra. Così disse î1 Maestro; cioè Virgilio, come fu detto di sopra; et elli stessi; cioè Virgilio, Mi volse; me Dante a dietro, acciò ch'io non vedessi Medusa s’ella apparisse, e non si tenne alle mie mani; cioè non istette contento ch'io mi chiudessi pur con le mie mani, Che con le sue; cioè mani, ancor non mi chiudessi; cioè lo volto mio, per ch'io non potessi veder Medusa.

C. IX — v. 61-63. In questo ternario lo nostro autor pone una esortazione ch’elli fa alli uditori e lettori, che sieno attenti a considerare questa fizione, e vedere quello che è inteso per questo che detto è di sopra, dicendo: O voi, che avete l’intelletti sani; cioè, simplici, che è quello che suonano le parole, e non altro: ché se una cosa intendessono secondo la lettera, et altro, secondo l’allegoria, allora lo intelletto non sarebbe sano; ma diviso. Et a questi cotali è bisogno che faccia la esportazione dell’attenzione , che alli altri non è bisogno. Mirate la dottrina, che s'asconde; cioè ragguardate la dottrina che s’appiatta, Sotto il velame; cioè sotto il coprimento, delli versi strani; cioè differenti della sentenzia allegorica: ché una cosa mostrano secondo la lettera, et altra cosa intendendo secondo moralità ovvero allegoria. Onde a veder quel che l’autore intende doviamo sapere, che l’autore in questo suo poema intende dimostrare il modo, come l’uomo cacciato per lo peccato dalla grazia di Dio possa ritornare; e perché il primo grado è vincere li vizi e li peccati, insegna questo nella prima cantica, nella qual dimostra che ai vizi, perché procedono da incontinenzia et intemperanzia, resiste troppo bene la ragione con la grazia gratis data, come appare nel processo del libro. Imperò che l’autore finge che in tutti i luoghi a rispondere a tutti i vizi sia bastanza Virgilio, che significa la ragione, come appare quando Caron lo volle impedire, e Virgilio rispose; e così quando Minos, quando Cerbero, quando Pluto, quando Flegias, e quando Filippo Argenti, come detto è di sopra. Ora che è giunto alla città, ove si puniscono più gravi e gravissimi peccati; cioè peccati di malizia, e di bestialità che si contengono sotto la superbia e sotto la invidia, vuole mostrare l’autore che con maggior difficultà li convenga combattere: imperò che qui non basta la ragione con la grazia gratis data, anzi si richiede spezial grazia data da Dio che si chiama grazia gratum faciens; e però finge che qui li ostasse più e più dimoni, ove è posto altrove pur uno: imperò che li detti peccati anno molte, e molte specie e modi di nuocere. E però finge che Virgilio non li poté pacificare partito da Dante; cioè la ragione superiore non congiunta in quella con la sensualità, e la difficultà si mostra nel chiuder le porte nel petto a Virgilio. E così ora finse che in su la torre a defension di quella sieno le furie che significano le radici, e lo nascimento del peccato della superbia e della invidia procedenti da malizia, e però si dicono servigiali di Proserpina che significa la superbia, come è detto di sopra, della quale la invidia è figliuola, come dice Santo Agostino; e li serpenti, di che sono cinte e che ànno alli capelli, sono li modi fraudolenti et ingannevoli del nuocere e le spezie de’ detti peccati. Onde Virgilio dice di Aletto: Mille nocendi artes, e così dell’altre ancora si può dire: e queste voleano impedire Dante, a ciò che non entrasse nella città; cioè che non desse manifestamento dei detti peccati e rimedio a fuggirli a quelli che leggessono lo suo libro, né per sè non pigliasse. Ma Dante s'accostò a Virgilio; cioè alla ragione per sospetto, et elle vedendo che nol. possono giugnere, chiamano Medusa che significa dimenticagione et ignoranzia; e questa è la bestialità che viene da malizia, e non chiamano l'altre suore di Medusa; della quale la prima significa debolezza: di mente e questa è bestialità che viene per ignoranzia di legge; l’altra significa stupor di mente o vero amenzia e questa è bestialità che viene per infermità o mancamento di cerebro: imperò che Medusa è quella che fa l’uomo diventare pietra; cioè indurato e ostinato nel peccato, sicché mai non ne può uscire. E però Virgilio ci piglia rimedio che innanzi ch’ella venga volge Dante; cioè la sensualità a dietro dal peccato, e falli porre le mani al viso; cioè ritornare a dietro dal vizio et occupare l'affetto e l'intelletto alle buone operazioni et ancor v'aggiugne le sue; cioè le contemplazioni della ragione. E questo intese l’autore nella detta fizione, e questo non basta ancora ad entrare nella città, basta bene a rimediare che il vizio non offenda; ma non basta a passarlo per andare alle virtù, mostrando la sua viltà e la sua pena; e però s'aspetta la grazia singulare di Dio arrecata dall’ angelo, lo qual finge che vegna a fare aprire la porta di Dite; è qui finisce la prima lezione. Seguita la seconda lezione.
E già venia; ec. Questa è la seconda lezione del canto sopra detto, la quale contiene l’entramento di Virgilio e di Dante nella città Dite; e dividesi questa in sei parti, perché prima pone l’avvenimento dell’ angelo; nella seconda, come ragguardò e vide molti segni del suo avvenimento, quivi: Li occhi mi sciolse; nella terza, come Virgilio ammaestra Dante che facesse reverenzia all’angelo e come aperse la porta, quivi: Ben m'accors’io ; nella quarta pone come l’ angelo, aperta la porta, riprende li demoni, quivi: O cacciati del Ciel; ec.; nella quinta, come Virgilio e Dante entrano nella città, quivi: Dentro v’entramo; nella sesta, come domanda Virgilio quello che vede, quivi: Et io: Maestro. Diviso lo testo, ora è da vedere la sentenzia litterale, che è questa.
Poi che Virgilio ebbe chiuso Dante per paura di Medusa, Dante sentie su per l’onde torbide di Stige venire un fracasso d’un suon pien di spavento, che facea tremare amendu’ le sponde di Stige, sì come d'un vento impetuoso, che fiere la selva e schianta i rami et abbatte frondi e fiori, e vien dinanzi polveroso e superbo e fa fuggire le fiere e li pastori. Allora Virgilio li sciolse li occhi e disse che riguardasse su per la schiuma dell’acqua, ov’era più scuro fummo; et elli vide più di mille anime fuggir dinanzi a quello angiolo, che passava Stige con le piante asciutte al passo, come fanno le rane che fuggono tutte alla ripa dinanzi alla biscia, che è lor nimica. E dice ché quello angelo si rimovea dal volto quell'aria grassa con la man sinistra, e parea lasso di quella angoscia; e dice che ben s’accorse ch'era messo dal cielo; ma non di meno elli si volse a Virgilio, et elli li fe segno che stesse cheto et inchinasselisi, e dice che molto li parea sdegnoso, e giunse alla porta, e con una vergetta l’aperse che non vi fu resistenzia. E disse l’angelo ai dimoni: O cacciati del cielo, gente dispetta, stando in su l’orribil soglia della porta, onde viene in voi questa tracotanza? Perché ricalcitrate alla volontà divina, alla quale non si può togliere lo suo fine, onde spesso n’avete sentito doglia? Che giova andare contra le fata; cioè contra li evenimenti prodotti secondo la providenzia di Dio? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, ne porta ancor pelato il mento e il gozzo: ecco come nuoce a ricalcitrare a Dio. Poi dice che si tornò a dietro e non fece lor motto, anzi mostrà d'avere altra cura che di colui che gli è innanzi; et essi se n’andarono verso la terra, sicuri per le parole sante ch’aveano udito dire dall’angelo, et entrarono dentro sanza ostaculo. E Dante ch’avea desiderio di vedere quel ch'era dentro a quella fortezza, come fu detto, riguardò d’intorno e vide da ogni mano gran compagnia piena di duolo e di rio tormento; e fa una similitudine, che sì come ad Arli, dove il Rodano entra in mare, che è una città di Proenza ; e sì come a Pola che è una città in Capo d’Istria dallato della Schiavonia, ove è uno mare che si chiama Carnaro che è lo confine d’Italia, verso l’oriente, vi sono molti sepoleri onde lo luogo viene curvo; così vide quivi, se non che tra li avelli verano fiamme sparte per le quali li avelli erano roventi, come ferro quando è nel fuoco; e dice ch’erano aperti et uscivano fuori sì duri lamenti che pareano d'anime misere e d’offese. Onde domanda Dante chi sono coloro che vi sono dentro che si fanno sentire con così aspri lamenti; e Virgilio risponde, perché quivi li principi delli eretici con li loro seguaci sono sepulti, che ven’è d’ogni setta grande moltitudine, e che li monimenti sono più e meno caldi, secondo l’errore in che peccarono; e conchiude che si volsono verso man ritta e ‘passarono tra le mura alte et i martiri. Veduta la sentenzia litterale, ora è da vedere il testo con le moralitadi, o vero allegorie.

C. IX — v. 64-72 In questi tre ternari l’autor nostro pone l’avvenimento dell'angelo, dicendo così: E già; cioè quando io era così chiuso, venia su per le torbide onde; della palude Stige, Un fracasso d’un suon pien di spavento; questo dice l’autor per accordarsi con li Teologi, che dicono che quando l'angelo viene, prima dà spavento e poi sicurtà; e lo demonio fa il contrario; e lo suon grande ancora, perché dice la Santa Scrittura: Et factus est repente de Coelo sonus, tamquam advenientis spiritus vehementis.— Per cui; cioè per lo qual fracasso del suono, tremavan amendue le sponde; cioè amendue le ripe di Stige, sicché parve che fosse tremuoto; e per questo si mostra che, quando l’autor nostro disse di sopra nel canto terzo nella fine: Finito questo, la buia campagna, quivi volle mostrare ancora lo avvenimento dell'angelo che il passò di là dal fiume, ancora come ivi fu esposto per me. Non altrimenti fatto che, d’un vento. Qui fa una similitudine che lo suono dell’avvenimento dell'angelo era fatto come quel del vento impetuoso che fiere la selva, schianta li rami, abbatte le fronde et i fiori, e viene sanza rattenimento, superbo e polveroso, c fa fuggire le fiere, e li pastori; così con fracasso e suono venia l'angelo. Bene assomiglia lo fracasso del suono che facea l'angelo a quel del vento, perché come lo vento è invisibile; così l'angelo, se per miracolo divino non si fa visibile. Impeluoso per li avversi ardori; et ad intendere questo si dee sapere che il vento si genera di vapori secchi levati della terra e montati in alto infino alle nuvole tanto, che sono percossi dalli ardori dell’aere superiore; cioè del sole, che vengono a quelli che montano; onde sono costretti andare in alto e ripercuotono l’aria e l’una parte dell’aria ripercuote l’altra, e così si genera lo vento che non è altro che aere ripercosso e dibattuto; e quanto li ardori sono più avversi, tanto lo vento è più impetuoso. Ma se il testo dicesse per li avversi arbori, non averebbe difficultà, anzi s'accosterebbe con Lucano, ove dice: Ventus ut amittit vires, nisi robora silvae Occurrantec.— Che fier la selva; cioè lo vento quando se la truova innanzi, e per quello fa gran suono vie maggiore che da sè, e sanza alcun rattento; cioè rattenimento, Li rami schianta; delli arbori, abbatte fronde e fiori; questo vento, che è detto di sopra, Dinanzi polveroso va superbo; questo vento, E fa fuggir le fiere; delle selve, et appiattarsi nelle caverne, e li pastori; per campare le loro pecore. E questa similitudine s'adatta ché come il vento vien polveroso; così l'angelo venia col fummo della palude: come viene superbo con gran romore et impeto; così venia l’angelo: e come veniva, o vero come fiera lo vento la selva; così l'angelo, la palude Stige: e come il vento non è rattenimento; così l'angelo non avea contrasto, e se l'avesse, romperebbe ogni cosa; e così rompea l’aere tenebroso e grasso: e fa fuggire l'anime sciagurate e li demoni, come il vento, le fiere e li pastori, e questa adattazione apparirà di sotto.

C. IX— v. 73-84. In questi tre ternari l’autor nostro pone quel che vide ch'era cagione del suono che avea udito, poi che Virgilio li aperse li occhi, levando le sue mani dal volto; e però dice: Li occhi mi sciolse; cioè Virgilio a me Dante, che coperti me li avea con amendu’ le mani et avealo volto addietro per paura di Medusa, e disse; Virgilio a me Dante: Drizza il nerbo Del viso; cioè l'occhio che è uno nerbo, col quale si cala giuso et alza suso, su per quella schiuma antica; cioè della palude antica di Stige, Per indi; cioè per quel luogo, ove quel fummo è più acerbo; cioè oscuro. Come le rane. Qui appruova l’autore la similitudine posta di sopra con un’ altra similitudine, che come le rane fuggon dinanzi al serpente infin che montano in su la ripa; così vide più di mille anime fuggire dinanzi all’angelo, e però dice: Come le rane; cioè li ranocchi, innanzi alla nimica Biscia; cioè al serpente, per l’acqua si dileguan tutte; qua e là, Fin ch'a la terra ciascuna sabbica; cioè s'aggiugne; Vidi più di mille anime destrutte; cioè dannate ch’erano nella palude Stige, Fuggir così; come le rane, dinanzi ad un; cioè all'angelo, ch'al passo; cioè il luogo ov'era lo passaggio dell'anime sopra Stige, in sulla nave di Flegias, Passava Stige; cioè quella palude dell’inferno, con le piante asciutte; perchè non le bagnava in essa. E questa fizione è verisimile secondo la lettera, intendendo delli infernali che fuggono dinanzi alla presenzia dell’angelo, perché — non possono stare a vedere sua gloria e felicità; e che passasse la palude sanza bagnar le piante, s'intende che passò la palude dell’ira e dell’accidia sanza bagnarsi in essa; cioè sanza bruttarsi l’affezioni dei detti peccati. Et allegoricamente intendendo di quelli del mondo, si può dire che tutti i peccatori fuggono dinanzi alla presenzia dell’angelo, quando passa tra loro; et elli passando tra loro non si brutta, anzi passa con le piante asciutte; cioè con le affezioni: imperò che essendo ora confermato in grazia non può volere, se non quello che piace a Dio.

C. IX — v. 82-90. In questi tre ternari l’autor nostro dimostra come da sè conobbe l’angelo, benché Virgilio li facesse segno, e quel che questo angelo facea, e quel che mostrava nella vista, dicendo: Dal volto; suo, l’angelo, rimovea quell’aer grasso; cioè oscuro, Menando la sinistra; cioè la mano manca, inanzi; a sè, spesso, E sol; cioè solamente, di quella angoscia; di menar la sinistra, parea lasso; quell’ angelo che venia. Ben m'accors’io; cioè Dante, ch’elli era dal Ciel messo, E volsimi al Maestro; cioè a Virgilio, per veder quel che volea ch’ io facessi; et el; cioè Virgilio, fe segno; a me Dante, Ch'iv stesse cheto et inchinassi ad esso; cioè facessili reverenza. Ahi quanto mi parea pien di disdegno! Dice, parea: chè quanto al vero non era se non d’ira, per zelo d’aempiere la volontà di Dio, contra coloro che volevano contrariare a lui. Venne alla porta; quello angelo, e con una verghetta; che recò in mano, L’aperse; cioè la porta, che non ebbe alcun ritegno: cioè alcuna chiusura che tenesse fermo. E sopra questa parte, oltre alla verisimilitudine che è questa fizione secondo la lettera, è da notare una obiezione che occorre, perché di sopra à detto nel canto secondo: Io son futta da Dio, sua mercè, tale, Che la vostra miseria non mi tange, E fiamma d’esto incendio non m’assale; come finge ora l’autore che l’angelo rimovesse dal suo volto l’aer grasso con la sinistra, parea adunque che l’offendesse? A che si può rispondere che l’autor finge che l’angelo rimovesse dal volto suo l’aer grasso dello inferno‘ per abominazione e sdegno, che li venia del peccato che si puniva quivi, non per offensione che ne ricevesse; e però soggiugne, che di quella angoscia parea lasso, non però che fosse. Oltra questo è da notare che secondo l’allegorica esposizione s'intende del mondo: imperò che quando l’angelo passa per lo mondo pieno di peccati, per andare a fare li ministeri che li sono posti da Dio, truova l’aere grasso; cioè nebbioso, pieno d’ignoranzia e grossezza d’ingegno che s’induce dal peccato, e quella rimuove con la sinistra dal suo volto, che significa la sua volontà; e per questo s'intende da coloro che sono nella grazia di Dio. Et attribuisce questo uficio alla man sinistra di vietare e cessare li peccati e la loro ignoranzia e grossezza: imperò che con la destra apparecchia la intelligenzia et abilità delle virtù , e la sinistra è proibitiva de’ peccati. E ben mostra ch’avesse assai che fare: imperò che dice che tanto la menava spesso, che solo di quella angoscia parea stanco; e per questo dimostra l’abondanzia de’ vizi e de' peccati che sono nel mondo. E per quello che soggiugne che lo conobbe e che si volse a Virgilio, che li fe segno che stesse cheto et inchinassesili e facesseli reverenzia, è notabile che niuna cosa dee fare la sensualità significata per Dante, se non consigliata dalla ragione significata per Virgilio; appresso dà ammaestramento a quelli del mondo che a’ messi di Dio faccino reverenzia, e niente dimandino da loro; ma solamente da Dio. Aggiugne che li parea pieno di disdegno; cioè d’ira, per zelo per empiere la volontà di Dio contra coloro che voleano contrariare, e dimostra la infinita potenzia di Dio, che con una verghetta aperse la porta della città Dite, che non ebbe alcuna fermezza, quasi dica: Con minima forza, anzi con leggerissima cosa vince Idio ogni grande potenza di demoni quantunque sia, e similmente de’ mondani quando vuole. E questo aprire della porta s'intende lo rimovimento de’ peccati, o vero impedimenti ch’erano dati a Dante, perchè non vedesse li peccati che procedono dalla malizia, acciò che non ne correggesse se non li uomini del mondo, che leggeranno lo suo libro.

C. IX — v. 94-105. In questi cinque ternari l’autor pone, prima la riprensione che l'angelo fece alli demoni, e poi la sua dipartenza, quivi: Poi si rivolse ec. Continua così l’autore: Poi che la porta fu aperta, come è detto di sopra, l’angelo riprendendo li demoni, disse: O cacciati del Ciel, gente dispetta; rimpruovera loro qui la loro ruina, dicendo: 0 cacciati del Ciel; per vostra superbia, gente dispetta; cioè dispregiata da Dio e dal mondo, Cominciò elli; cioè l'angelo, in su l’orribil soglia; cioè della porta dell’ inferno; e per questo mostra che non v’entrasse dentro, per accostarsi alla sentenzia di Virgilio, ove dice nel sesto: Nulli fas casto sceleratum insistere limen, perchè quello è luogo degno pur di demoni, e non di spiriti buoni. Ond’esta; cioè onde questa, oltracutanza; cioè superbia, o vero stoltizia, in voi s’alletta; cioè viene in voi? Perché ricalcitrate; cioè contrariate? e dice ricalcitrate, che è a dire, date di calcio. Colui si dice dare di calcio, che si ribella dalla volontà del suo signore, a quella voglia; cioè di Dio, A cui; cioè alla qual volontà, non puote il fin mai esser mozzo; cioè non può essere mutato, che la volontà di Dio non abbi suo fine, E che; cioè la qual voglia divina, più volte v’à cresciuto doglia? Quando lo demonio non può fare contra la volontà di Dio e non può impedire lo bene n’ù dolore; et ancor s’accresce al demonio pena e tormento, quando elli ricalcitra alla volontà di Dio. Che giova; cioè che pro è, nelle fata dar di cozzo; cioè nelle cose che procedono secondo la providenzia divina ordinatamente, di tempo in tempo? Dar di cozzo nelle fata è contrastare e volere impedire le fata. E qui parla l'angelo più specialmente che di sopra, quasi dica: Niente giova a contrastare all’ordine delle cose provedute da Dio, et alloro avvenimento come chi calcitrasse nel puoglo , o stecco, che sel ficcherebbe nel piede, e chi desse del capo nel muro, che se lo romperebbe. Cerbero vostro; cioè demonio, vostro compagno, che i poeti fingono esser cane dell’ inferno, posto a guardia nell’entrata, passato Acheronte: dà esempro l'angelo di quel ch’à detto; la tratta che fece Ercole di Cerbero dello inferno (del qual fu detto di sopra in questo canto, quando disse: Mal non vengiammo in Teseo l'assalto) dicendo: se den vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e il gozzo: imperò che quando Ercole lo tirò con le catene che avea gittate alle sue tre gole, li fece cadere li peli dal mento e dal gozzo, sì che mai non rimisono. E qui si può movere una obiezione all'autore, dicendo, che questa non fu buona poesia; che l'angelo dia esemplo delle fizioni delli poeti che non sono vere: imperò che lo parlare non si conviene alla persona. A che si può rispondere, che lo intendimento della fizione è vero, e sotto questo modo si può convenire all'angelo. E non sanza cagione finse l’autore che l’angelo dicesse questo, per mostrare ai lettori che ogni setta tenga questa sentenzia che l’infernali non possano ostare alla volontà divina; e però pone la prima sentenzia generale che è de’ cristiani e de’ catolici; appresso soggiugne quella de’ poeti che è da pagani. Poi si rivolse; l’angelo, per la strada lorda; cioè sopra la palude, onde era venuto, E non fe motto a noi; cioè a me Dante, né a Virgilio; ma fe sembiante; cioè similitudine e vista, D’uomo, cui altra cura stringa e morda; cioè solliciti, Che quella di colui che li è davante. Non sanza cagione finge questo l’autore; cioè che finge per mostrare che l'angelo, che s'interpetra messo di Dio, intentemente faccia lo suo officio e ch’elli opera, secondo che gli è commesso da Dio, e non per respetto di alcuna persona. E noi; cioè io Dante e Virgilio, movemmo i piedi; nostri, n ver la terra; cioè di Dite, Sicuri; sanza alcuna dubitanza, appresso le parole sante; cioè dopo le parole dette dall’ angelo, che furon sante. E qui si dimostra che l’uomo per lo conforto dell’angelo diventa sicuro e che la presenzia dell’angelo dà sicurtà, come la presenzia del demonio dà paura; e qui non è altra allegoria: però che questa è continuazion della lettera et è finto, secondo la sua fizione poetica.

C. IX — v. 106-123. In questi sei ternari finge l’autore come entrarono nella città di Dite, e manifesta quel che prima vi vide, dicendo così: Dentro v’entramo; cioè io Dante e Virgilio, sanza alcuna guerra; cioè sanza alcuna contradizion di demoni e noia; Et io ch'avea di riguardar disio; cioè io Dante, ch’avea desiderio di vedere, La condizion, che tal fortezza serra; cioè che condizione è quella di coloro che sono inchiusi dentro a quella città, Com'io fui dentro; a quella città, l'occhio intorno invio; cioè ragguardo intorno, E veggio ad ogni man; cioè a destra et a sinistra, grande campagna; cioè gran pianura, Piena di duolo e di tormento rio. Ecco ciò che prima finge avervi veduto intorno alle mura dentro della città di Dite, ove è reina Proserpina che significa la superbia, che è per figliuola la invidia; onde dice santo Agostino: Tolle matrem, filia peribit; e però pone qui le torri che significano iattanzia et arroganzia, e l’altre figliuole compagne della superbia, e le furie che significano la malizia, e Medusa o ver Gorgon, che significa bestialità. E pone a questa città le mura del ferro che significano ostinazione, come detto è di sopra; e però dice l’autore ch’avea desiderio di vedere le condizioni che tal fortezza serrava, che sono superbia et invidia, le specie, compagne e figliuole loro, e le pene loro. E perché delli altri peccati aviamo trattato di sopra, ponendo le lor diffinizioni, e le sue specie, figliuole e compagne, e li rimedi che si possono pigliare contra tal peccato; così vedremo ora della superbia e della invidia le quali si puniscono dentro alla città di Dite, nel cerchio VI, VII, VIII, e VIIII; ma prima, della superbia: imperò che della invidia si dirà ove è il suo luogo. E prima è da sapere che superbia, considerata largamente, è non volere sottomettersi a Dio. E per questo modo superbia è vizio di tutti li peccati: imperò che ogni peccato, secondo che dice santo Agostino, è dipartimento da Dio, e convertimento alla creatura, e partirsi da Dio non è altro che non sottemettersi a Dio; adunque è vizio di tutti i peccati. Ma superbia, presa strettamente, è immoderato amore di propia eccellenzia, e secondo altri è amore di propia eccellenzia, non ponendovi immoderato; et a questa seconda diffinizione si può ostare che pare che superbia noh sia peccato e pruovasi così: L’appetito naturale delle potenzie dell'anima non è peccato; amore di propia eccellenzia è appetito naturale; e provasi così: L’appetito della potenzia ragionevole è nel vero; della irascibile è nell’onesto o vero eccellente; della concupiscibile è nel bene: adunque appetito d’eccellenzia non è peccato. A questo si risponde che l’appetito dell’eccellenzia o è naturale, o innaturale; se è naturale o è spirituale, o è personale; se è spirituale è buono e non è peccato: imperò che desiderare di essere più santo che tutte l'altre creature non è peccato; se è personale ancor non è peccato: imperò che desiderar l’uomo d’essere eccellente sopra li animali non ragionevoli non è peccato: imperò che così disse Idio al primo uomo: Dominamini piscibus maris. Se è innaturale allora è di soprastare li altri uomini ; ma a bruti, et ancor questo è divisione: imperò che desiderandosi solo per aver signoria è peccato; desiderandosi per far pro a’ sottoposti non farebbe peccato. E superbia, considerata strettamente, ancor può essere vizio di tutti peccati: però che lo lussorioso desidera d’ avanzare li altri lussuriosi in lussuria; e lo goloso in gola, e così delli altri; e dividesi così in due specie: imperò che ella è o interiore, o esteriore: e se è interiore o è nello affetto o è nell’intelletto; se è nell’intelletto è in quattro modi. Prima, quando l’uomo intende d’avere da sè lo ben che egli à, o quando intende d’averlo da Dio; ma per suoi meriti, o quando sì reputa d'avere quella eccellenzia che non è, o quando desidera di parere quel che non è, dispregiando li altri. S'ella è nell'affetto, o ella è presunzione o ell’è ambizione; se ella è presunzione è quattro specie. Prima, quando l’uomo presumme nel suo desiderio quelle cose che nè suo megliore nè suo iguale presume; lo secondo, quando si presumme quello che non si dee; lo terzo, quando si presumme innanzi lo tempo; lo quarto, quando si presumme contra le propie forze. S'ella è ambizione, o ella è di signoria, o ella è di magisterio, o ella è di semplice eccesso in alcuna delle grazie date per grazia, come ricchezza ec. Se la superbia è esteriore o ella si piglia secondo la cagione di ch’ ella nasce, o ella è secondo le cose nelle quali ella è; se è al primo modo, o ella nasce per li beni della natura, o per li beni della fortuna, o per li beni della grazia. Li beni della natura alcuni sono del corpo, alcuni sono dell'anima; li beni del corpo sono fortezza, leggerezza, bellezza, grandezza, nobiltà, libertà; li beni naturali dell'anima sono questi, dirittura d’ingegno, velocità, bontà di memoria, potenzia di sostenere esercizio spirituale, natural disposizione, o vero virtù naturale; li beni della fortuna sono di fuori, che sono in podestà d'essere tolti; cioè ricchezza, diletti, dignitadi, signoria, gloria, o vero grazia umana; li beni della grazia sono scienzia e virtù. Se ella è superbia, che si piglia secondo le cose in che è, o è in laici, o è in cherici; se è in cherici, o in prelati, o in sudditi; se in prelati, o in secolari, o in claustrali; e così si ‘divide ancora de’ sudditi, e l’una e l’altra di queste, o è nel corpo o nelle cose che sono al corpo; cioè in adornamento, o in cavalli, o in famiglia, o in conviti, o in edifici, o in libri, o in canto; se è nel corpo, o è nella bocca, o nelli occhi, o nel naso, o nel collo. Se è in adornamento, o è d’uomini, o di donne, o di massarizie; se è di massarizie, o è troppa dilicatezza o abondanzia; se è in cavalli, o in non necessario uso di quelli o in troppa esquisizione di quelli, o in loro adornamento; se è in famiglia, o in moltitudine, o in vita disonesta, o in disutilità di famiglia; se è in conviti, o in invitamento di grandi o in moltitudine di ministri, o in varietà di cibi, o in preciosità di masserizie, o in sonamento di strumenti; se è in edifici, o in moltitudine di case, o in grandezza, o suntuosità, o delettabilità; se in libri, o in lettere d’oro o in fibbiali d’oro, o in segnaculi di seta o d’oro; se è in canto, o in presunzione di canto, o in troppa esalazione di voce, o in rompimento o aggiugnimento o tollimento di punti o in lascività di canto o in voce falsa o in fraudulento mancamento di voce: e per questo modo si distinguono le specie della superbia. Le sue compagne sono curiosità, leggerezza di mente, sconcia letizia, arroganzia, defensione de’peccati, simulata confessione, rebellione; libertà di peccare, o consuetudine. Le figliuole sono irreverenzia, eresia, inobedienzia, vanagloria, ipocresia, iattanzia, pertinazia , discordia et invidia, secondo santo Agostino come detto è di sopra. Li rimedi contra la superbia sono: considerazione di migliori, conversazione con li umili, considerazione della viltà del corpo, l’esempro di Cristo, considerazione della vile servitudine, considerazione dello stretto giudizio, considerazione della miseria di questo mondo, e considerazione delle pene convenienti a tal peccato. Et è qui da considerare che varie sono le pene che l’autore finge che siano deputate alla superbia, alle spezie, alle compagne et alle figliuole sue, sì come apparirà nel processo; le quali, benché l’autor finga essere nell'inferno, intende allegoricamente esser nel mondo, e questo sì mosterrà esser ne’ suoi luoghi. Ma qui in questo luogo è da notare, che l’autor finge che la superbia, presa general mente per tutti e sette peccati mortali che vengono per malizia e bestialità, e strettamente per sè e per le sue spezie, compagne e figliuole, de queste pene in generale, ch’ella si punisce nelli quattro cerchi più bassi nell'inferno e murati intorno, e posti dentro dalle mura del ferro e nel luogo più stretto e più puzzoso che li altri, e pieno di duolo e di tormento; le quali pene sono assai convenienti a così fatto peccato. E così si dimostra allegoricamente ch’ elli intese che sempre sono con li superbi del mondo: imperò che degna cosa è che chi per superbia s’innalze sia abbassato, come spesse volte si vede nel mondo, onde si dice: Qui se exaltaverit humiliabitur; e se altrimenti non s'abbassassono, al meno s’abbassano per la viltà del peccato. Sono incarcerati dentro alle mura del ferro, perchè sono impregionati dal vizio che li tiene costretti sì che uscire non ne possono, se non è speciale grazia di Dio che li faccia pentere innanzi che moiano; e sono puniti di grandissima puzza: imperò che li superbi a ogni uomo sono puzzosi et eziandio a sè medesimi; et ànno gran duolo e rio tormento continuamente a mettere ad effetto le lor male intenzioni: però che ogni peccato à la sua pena seco, et ancor quando sono impediti che non possono adempiere il loro malvagio desiderio, si dolgono e si tormentano. E queste pene convenientemente, secondo la lettera, si fingono essere nell’inferno generalmente al peccato della superbia; seguiteranno altre speciali pene, secondo le specie di peccati, le quali si sporranno quando toccherà il testo. Sì come ad Arli. Arli è una città in Proenza, appresso alla quale Rodano entra in mare, e però dice: ove i Rodano stagna. Rodano è un fiume grande in Proenza. Sì come a Pola. Pola è una città posta in Capo d’Istria in verso la Schiavonia, ove è uno braccio di mare che si chiama Carnaro, et è molto pericoloso per un vento che lo chiamano Carnaro ancora; ma i marinai lo chiamano Ostra, e però dice: appresso del Carnaro, Che Italia chiude e i suoi termini bagna. Questo dice perché Italia da quella parte sì stende in sino al Carnaro, e qui finisce. Fanno i sepolcri; che vi sono, tutti il lito varo; cioè curvo et ad Arli et a Pola, e fa l’autor qui questa similitudine; che come ad Arli et a Pola sono molti sepoleri posti qua e là; così ne trovò Dante e Virgilio grande quantità dentro alle mura di Dite, intorno intorno nel sesto cerchio, lo quale era tutto pieno. La cagione perché ad Arli siano tanti sepolcri, si dice che avendo Carlo Magno combattuto quivi con infedeli, et essendo morta grande quantità di Cristiani, fece priego a Dio che si potessino conoscere dall’infedeli, per poterli sotterrare; e fatto lo prego, l’altra mattina si trovò grande moltitudine d’avelli et a tutti li morti una scritta in su la fronte, che dicea lo nome e il soprannome; e così conosciuti, li seppellirono in quelli avelli. Perché a Pola ne sieno tanti alla marina del Carnaro, che molti ve ne sono, non se ne trova cagione, se non che studiosamente fossono fatti per sotterrarvi quelli della Schiavonia che si sotterrono alla marina. Così facevan quivi d'ogni parte. Adatta la similitudine, dicendo, che così erano dentro alle mura di Dite da ogni parte; cioè da man destra e da sinistra, Salvo che il modo v'era più amaro; quivi nella città-di Dite, che ad Arli o a Pola, e manifesta la cagione. Chè tra li avelli; che qui erano, fiamme erano sparte; cioè tra l'uno e l’altro, Per le quali; cioè fiamme, eran; cioè li avelli, st del tutto; cioè in tutto, accesi, Che ferro più non chiede verun’arte; acceso, per essere fabbricato. Tutti li lor coperchi; cioè delli avelli, eran sospesi; cioè erano aperti sì, che si potea vedere in essi, E fuor ne uscian; cioè delli avelli, st duri lamenti; che facevano quell’anime che v'eran dentro, Che ben parean di miseri e d’offesi; sì che apparea la miseria e l’offensione di coloro che v'erano dentro. Questa è la sentenzia litterale; l’allegoria, che ci è, si toccherà di sotto.

C. IX — v. 124-133. In questi tre ternari e verso ultimo si contiene la domanda dell'autore e la risposta di Virgilio, et è la seconda, quivi: Et elli a me. Finge l’autore che, poi che vide questi sepolcri e sentie li lamenti, domandò Virgilio, dicendo: Et io; cioè Dante dissi: Maestro; cioè Virgilio, quai son quelle genti, Che sepellite dentro da quest'arche; cioè dentro a questi sepolcri, Si fan sentir con li sospir dolenti; cioè con sospiri pieni di dolore? Et elli; cioè Virgilio disse a me; Dante: Qui son li eresiarche; cioè li principi delli eretici, Coi lor seguaci d'ogni setta: imperò che molte sette sono state di eretici, e molto Più, che non credi; tu Dante, son le tombe carche; cioè son piene. Simile qui con simile è sepolto. Qui dimostra che ogni tomba avea la sua setta, e come infinito pone lo numero de’ sepolcri; così si dè intendere innumerabili le spezie delli eretici; e perché molto finge che sien pien le tombe, s’ intende che d’ogni setta sono stati assai eretici. E è monimenti son più e men caldi. Qui dimostra che secondo la gravità della eresia sia l’accendimento della fiamma intorno a’ sepolcri dicendo, che sono più e men caldi secondo la gravità o più, o meno della colpa. Ora è qui da vedere che cosa è eresia, e quante sono le sue spezie, e perché l’autor finge, che abbiano sì fatte pene. E prima, eresia è elezione di propia opinione contra la determinazione della santa madre Chiesa, o vero divisione della determinazione della santa Chiesa; et è eresia una delle figliuole della superbia, accompagnata sempre dell’aroganzia, che è delle compagne della superbia, come mostrato fu di sopra. E come figliuola di superbia si trova aver nascimento da tutti i peccati, come appare in questo esempro. Lo lussurioso, alcuna volta passando i termini della incontinenzia, corre in malizia ct entra spesso in mal pensieri, come lo demonio che è significato per Aletto la mette; cioè che non sia altra vita che questa: cresce poi questo pensiere che ardisce di publicarlo, e questa è Tesifone; cioè parlar malo: e ultimamente cade in Megera; cioè in mala operazione, quando adopera publicamente male, et impugna li altri che contradicono alla sua falsità: et ultimamente viene a Medusa, quando manifestamente appruova le sue opinioni, e sanza alcun ritegno adopera o vero adempie tutte le sue volontà, dicendo che li altri sono ingannati che credono che sia altra vita, e rattengansi per questo da’ diletti carnali . Ora è da sapere che la eresia à molte spezie; ma possonsi recare a XII, come dodici sono li articoli della fede, contra i quali si trovano i paterini e li eretici avere errato per diversi modi, li quali sarebbe troppo lungo a scrivere. Ma li principi delle sette sono questi: Epicuro, Valentino, Marzione, Fotino, Arrio, Maniches, Sabellio, Macedonio, Prisciano, Donato, Nestorio, Euticio e molti altri, de’ quali si trova nella Scrittura santa; e li rimedi contra questo vizio, sono quelli che l’autor puose; cioè, quando suonano e gridano le furie, accostarsi alla ragione e domandar grazia da Dio singulare che l’aiuti, e rivolgersi a dietro dal peccato, e chiuder l'affetto e l'intelletto con le cose virtuose . Le pene, che l’autor finge essere a questo peccato, sono sepolcri di pietra e lo fuoco, le quali ben si convengono a questo peccato: imperò che l'eretico tiene sepolta la ragione nella sua falsa opinione, la quale è dura come pietra, e degnamente sono incesi dal fuoco: imperò che ànno avuto immoderato amore a lor medesimi, volendo più credere al lor semplice parlare che alla congregazione de’ santi e savi uomini, sicché litteralmente si convengono a quelli dell’inferno, et allegoricamente si veggono essere in quelli del morido. Et è da notare che l’autore finge che li sepolcri stieno aperti per due cagioni; l’una è per mostrare che ancor le sette non son venute meno; e però di sotto avremo che al di’ del Giudizio si chiuderanno, perché saranno venute meno le sette; l’altra cagione si è che lo loro errore manifestano alli altri et inducevi li altri; ma notatamente l’autor li mette allato alle mura del ferro, perché sono nel VI cerchio che è lo primo della città Dite, e per significare la loro ostinata mente, dura come ferro, e fredda dell’amor dello Spirito Santo. Seguita: E poi che a la man destra si fu volto; cioè Virgilio per andare ove s'attraversava la larghezza del cerchio sesto, Passammo; cioè Virgilio et io Dante, tra’ martiri; che erano nelli sepolcri, e li alti spaldi; cioè l’altc mura della città Dite, che si chiamano spaldi. Qui finisce lo nono canto.

Date: 2022-01-11