Inferno VIII [Giuseppe Toffanin]

Dati bibliografici

Autore: Giuseppe Toffanin

Tratto da: Lectura Dantis Scaligera. Volume I

Editore: Le Monnier, Firenze

Anno: 1967

Pagine: 261-270

[...]

E quel signor che lì m’avea menato
mi disse: «Non temer; che ’l nostro passo
non ci può torre alcun: da tal n'è dato.

Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch'i’ non ti lascerò nel mondo basso.»

Così sen va, e quivi m’abbandona.

Si può essere più sicuri di quel che è Virgilio in questo da tal n'è dato? A udirlo, perfino i critici giansenisti trattengono il fiato. Ma poi che sbuffo di rivincita quando il millantatore Virgilio torna dalla schermaglia diplomatica vinto.

Gli occhi alla terra e le ciglia avea rase
d’ogni baldanza e dicea ne’ sospiri:
«Chi m'ha negate le dolenti case!»

L'avete capito ora il vero significato della scena? interviene senza indugio il Tommaseo. — Altro che una ragione sufficiente a se stessa! La ragione, — dice Tommaseo, e par di leggere Pascal — non serve neanche a farlo conoscere il male». Altro che Virgilio! «Vuolsi un messaggero che ai diavoli faccia paura» e che paura volete che possa fare Virgilio?
No, cari tommaseisti: se ciò fosse, due cose andrebbero a catafascio: prima, sul piano allegorico quell’assunzione di Virgilio poeta dell'Impero, della Giustizia e della Ragione a grazia cooperante; seconda, sul piano poetico la sua umanità: due cose del resto inscindibili. Ma scherziamo? Se in tanto rischio egli accettasse di separarsi dal discepolo così alla leggera, dove andrebbe a finire nei riguardi di lui quel suo paterno e quasi materno zelo? Egli sa invece che non rischia nulla, protetto com’è dalla garanzia di Dio, ma tanto segreta o anagogica che neppure il discepolo ne saprà mai nulla; e quel poco che intanto ne viene a sapere dipende dallo scacco inflitto al maestro dai demoni e dalla necessità in cui questo si trova di una sia pure allusiva assicurazione (oltre la quale non s’andrà mai).

E a me disse: «Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir ch'io vincerò la prova,
qual ch’alla difension dentro s’aggiri.

Questa lor tracotanza non è nova;
chè già l’usaro a men secreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.

Sovr’essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta,

tal che per lui ne fia la terra aperta.»

Ma tutto ciò con quale effetto sui critici giansenisti? Con quello di smuoverli dalla loro interpretazione della scena come d’un fallimento della presuntuosa e inutile ragione? Tutt'altro! Ma come! - protestano essi. — Virgilio sa d’un tal protettore allarmato in sua difesa e non s’affretta a farne almeno una vaga ma confortante allusione allo sbigottito discepolo? Perché aspetta a farla dopo tornato con le ciglia rase d’ogni baldanza? Perché — rispondono — solo nel frattempo egli ha ricevuto una non preveduta illuminazione.
E non s’accorgono detti critici giansenisti che dopo averla messa tanto in scacco davanti ai demoni cotesta ragion di Virgilio, adesso con la stessa facilità la mettono in diretta comunicazione con Dio come la ragione degli angeli.
Onde il loro diritto d’interpretare come un angelo anche il personaggio così angelicamente annunziato che viene In aiuto.
Interpretazione a nostro avviso inaccettabile e non per le sole ragioni fin qui dette.
Se però noi, ora, d’accordo con Michelangelo Caetani da Sermoneta e con il Pascoli, vi dicessimo a bruciapelo: quel personaggio è Enea; prima di tutto mancheremmo verso il nostro successore su questa cattedra per quell’obbligo di non sconfinare dal proprio canto che ai commentatori in serie si trova imposto da un codice di cavalleria dantesca costituitosi da sè ai margini del commento perpetuo; in secondo luogo, mancheremmo verso di voi, gentili signori, quasi tutti, credo, d’accordo con altri, e probabilmente con il mio successore, nel non volerne sapere di Enea, e non per poco conto che voi facciate di me; ma per atavico attaccamento alla tradizione romantico-giansenistica (del Quo Vadis di Sienckiewitz, per intenderci), nella quale, si creda o non si creda (ma perfino più intrattabili i non credenti) niente promiscuità: i cristiani da una parte, i pagani dall’altra. Quale spina al cuore e alla fantasia possa rappresentare ogni parvenza di promiscuità ce lo ricordò, nel caso in parola, mentre lo consultavamo per la presente lettura, un defunto e del resto rispettabilissimo commentatore del canto IX con la seguente indispettita fin de non recevoir: «e che c’entra Enea»?
Il male più grave è, però, che con quella tale uscita a bruciapelo, se noi la facessimo, prima che nei vostri riguardi ci parrebbe di mancare nei riguardi di Dante medesimo, non perché per lui il misterioso espugnatore della città di Dite non fosse Eane; ma perché non lo disse; e se gli fosse piaciuto che fosse detto da altri avrebbe cominciato con il dirlo lui. Ciò che proprio non fece.
Ci sono senza dubbio nella Divina Commedia alcune cose e specialmente identificazioni ch’egli avrebbe volute pensate e avvertite, ma solo sul piano esoterico; e perciò non dette, e tanto meno ridette, conforme alla gran diffida di San Damiano, nel cielo di Mercurio, a proposito di questione strettamente connessa a questa e non meno, esotericamente proposta: l’escatologia di Virgilio:

Ed al mondo mortal, quando tu riedi,
questi rapporta, sì che non presumma
a tanto segno più volger li piedi.

La mente che qui luce in terra fumma:
onde riguarda come può laggiùe
quel che non puote quando il ciel l'assumma.

Questo monito di San Damiano suo loco riguarda Virgilio ma qui può riguardare Enea nella stessa misura. Una stessa esotericità avvolge, nel cielo di Giove, l’altro occhio dell’aquila; nella palude stigia il misterioso soccorritore; e Virgilio ed Enea vi si trovano ricongiunti come nella filosofia politica della Monarchia.
Senza giustizia laggiù la città di Dite; senza giustizia fra noi il mondo disertato dall'Impero. E con che altro il personaggio misterioso potrà aprire le porte della città di Dite se non con la chiave della giustizia che è la virtù della romanità culminante nell’impero? E chi il capostipite di quella romanità? Chi le consegnò al mondo le chiavi della giustizia? Enea. Quando Virgilio fin dal primo apparire in funzione di guida così si mette all’ombra di lui:

Poeta fui e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise;

quel giusto non è messo, no, là per la rima. Che Enea sia il più giusto di tutti anzi il simbolo della giustizia, nella Monarchia si proclama proprio con i versi di Virgilio:

Dux erat Aeneas nobis, quo justior alter
Nec pietate fuit nec bello major et armis.

E come va che, con tutto ciò, al cielo di Giove, nell’occhio dell'aquila, a rappresentare la giustizia dell’impero nascente trovate non il grande Enea ma l’oscuro Rifeo?
Enea era pagano!
E Rifeo cos’era? Pagano anche lui, e salvato da un superlativo di Virgilio: justissimus unus; in cui la giustizia sembra impennarsi verso la carità.
Bello: ma se è così che posto occupa, nell’occhio dell’aquila o almeno nell’aquila, Virgilio? Nessun posto. Non c'è: né lui, né Enea; inutile dire con quanto compiacimento dei giansenisti moderni per i quali questo contrasto fra la non salvazione di anime descritte come degnissime di salvarsi e la salvezza d’un ignoto, salvato non si sa perché, rappresenterebbe il massimo dell’ortodossia, cioè un supremo omaggio all’insondabilità del giudizio divino. Per grazia di Dio di siffatte stupidaggini nella Divina Commedia non ce ne sono. La speranza esoterica che lega Dante a Virgilio è la stessa che legherà Petrarca a Cicerone; ed espressa dall’uno e dall’altro con la stessa misura, non è né contro la Chiesa, né fuori della Chiesa; è al di là della Chiesa militante e della Chiesa trionfante conforme alle parole dell’aquila nel cielo di Giove:

... Noi che Dio vedemo
non conosciamo ancor tutti gli eletti.

Di Piero di Dante commentatore si faccia quanto poco conto si vuole; ma che suo padre tenesse il proprio poema per degno di cercarvi i quattro significati delle Scritture oh questo almeno doveva averlo capito! E l’anagogico che altro è se non il significato, detto da noi esoterico e allora cabalistico, che dagli stessi discepoli doveva essere serbato tra i segreti? Tolgo questa definizione dell’anagogico a quel Battista Mantovano, umanista di classe, il cui modo di leggere Virgilio ci fa di continuo pensare a quello con cui dovette leggerlo Dante. «La Sibilla, egli dice, per esempio — è la Sapienza Divina, ossia la custodia degli angeli attribuita all'uomo. Sotto la sua direzione noi troviamo la fede; trovatala la conserviamo e, camminando attraverso le difficoltà e le tenebre di questa vita passiamo finalmente all’Elisio, cioè in Paradiso, mutando in scienza la fede. E perciò si dice (Aen., VI, 638 sgg.): «compiuta l’offerta alla dea giunsero ai luoghi lieti e ad ameni boschi verdeggianti». Che se tu mi op- porrai non doversi credere che Dio rivelasse il futuro ad un pagano ti risponderei che sia i reprobi che i buoni sono fattura di Dio e che Dio è libero di servirsi di loro come suoi quando gli piaccia». «Che se poi Enea, - dice anche il Battista - salga ai luoghi della pena arrecando il ramo sotto la guida della Sibilla, nessuna meraviglia»! E noi si pensa al dantesco «del ciel messo» che ha invece in mano la verghetta; e non si vuol dire affatto che qui poi Battista pensasse a Dante. No: egli pensava a Virgilio. Ma a lui a leggere Virgilio così chi l'aveva insegnato? Non si può porsi la questione senza ricordare il Landino che nelle Disputationes Camaldulenses dice di Dante: «Nam cum in opere suo texendo pauca omnino fila de virgiliana tela mutuari videatur, tamen inde omnia pene sint» (IV).
No: un siffatto modo anagogico di leggere Virgilio non è un'eredità del Medioevo che finisce con Dante: è una riscossa contro il secolo senza Roma, saturo del disdegno di Virgilio, che Dante consegna all’Umanesimo.
Chi non capisce quanto di Dante ci sia nell’Umanesimo, non sa cosa dica quando poi parla dell’ininterrotto e sei volte secolare culto di Dante, ma con la riserva, sancita da tutti i manuali, che quel poveretto nel Seicento entrò In crisi, nel Settecento fu irriso e nell’Umanesimo era stato ignorato. No: solo perché infuso nella coscienza degli Italiani dagli umanisti Dante poté resistere trionfalmente alla crisi dei Sei-Settecento.
Pietro di Dante, per tornare a lui, in quel messo di Dio riconosce — chi se l’immaginerebbe ? - Mercurio. Ma è proprio ipotesi da rigettare a priori che quel Mercurio rappresenti un’evasione dal segreto di Enea anagogicamente trasmesso dal padre come quello di Virgilio? Chi sa! Forse è per farci sapere che quello del liberatore è rimasto un mistero che al canto XIV il discepolo torna così a richiamare a Virgilio la scena del messo:

Maestro tu che vinci
tutte le cose, fuor che i demon duri
che all’entrar della porta intorno uscinci.

E forse nel canto c’è dell’altro sospeso fra l’allegorico e l’anagogico. Forse nelle ultime terzine la porta grande dell’Inferno ormai aperta, e per sempre, rappresenta il mondo liberato per sempre dalla schiavitù del peccato per opera della Redenzione, come la porta della città di Dite, ancora in mano dei diavoli rappresenta il mondo della giustizia non ancora in mano dell’impero.
Diciamo forse; ma quanto a riconoscere nell’espugnatore misterioso un angelo vestito da uomo

(fè sembiante
d’uomo cui altra cura stringa e morda),

e ciò come postulato dall’espressione «dal ciel messo», si pensi che proprio quella espressione lega questo episodio all’episodio del cielo di Giove, e ambedue gli episodi alla Monarchia, nel concetto della giustizia dell’impero, direttamente proveniente da Dio quanto la giustizia della Chiesa. Per noi il «da Ciel messo» (lezione meno autorizzata dell’altra «dal Ciel messo» ma forse preferibile) è fratello del «dependere a Deo» della Monarchia e ambedue collimano con la terzina:

O dolce stella, quali e quante gemme
mi dimostraro che nostra giustizia
effetto sia del Ciel che tu ingemme.

Inscindibili in questo «da Ciel messo» Enea e il suo poeta. Se Virgilio fosse soltanto simbolo della ragione egli nella Divina Commedia usurperebbe il posto a quell’Aristotile sul quale San Tommaso non aveva tanto menomato l’Ipse dixit di Averroè che Dante non si sentisse in diritto di così volgarizzarlo: «il maestro di color che sanno». Nella Divina Commedia si trattava d’altro e di più: si trattava della Ragione «da Ciel messa» nella giustizia dell'impero: e questa non poteva essere rappresentata se non dal poeta dell’impero e dal suo eroe.
Nel canto VIII e nel IX che li ricongiunge l’Eneide trionfa.
Troppo lungo questo nostro discorso sul personaggio che chiude il canto? Ma, senz’esso come arrivare a dire di quello che lo apre e che non abbiamo affatto dimenticato; ciò che voi forse, nella vostra perdonante indulgenza, pensate? E come avremmo potuto dimenticarci di Flegiàs se è forse esso l'argomento più valido per riconoscere, nell’espugnatore della città di Dite, Enea? Per dire di Flegiàs bisognava dunque aver detto prima dell’espugnatore, e di quanta parte abbia in questo canto l’Eneide già riconosciuta implicitamente libro sacro nell’inizial lode di Beatrice al suo poeta:

Di cui la fama ancor nel mondo dura
e durerà quanto il mondo lontana.

Orbene, se calcolatissimo nella Divina Commedia è l’'intreccio delle simmetrie e delle corrispondenze (unico punto incontestato tra i critici) è mai possibile che questo Dante del canto VIII in apertura tolga dall’Eneide l’antitesi (cioè l’ingiusto traghettatore delle anime nel regno dell’ingiustizia) e nella chiusa, la tesi, cioè il trionfatore di detta ingiustizia, vada a cercarla altrove e magari nella Tebaide?
Si può perfino restare in dubbio quale fosse dei due personaggi a provocar l’altro nella fantasia di Dante, ma non che l’uno potesse restar senza l’altro.
Flegiàs nell’Eneide non è che una voce: la voce dell’uomo che ha perduto la giustizia:

Flegiasque miserrimus omnis
Admonet et magna testatur voce per umbras:
Discite iustitiam moniti.

Nell’Eneide, invece, Enea è la giustizia.
Sola vera grande differenza fra i due personaggi dell’Eneide che, trasferiti in questa allegoria, il nome di Flegiàs nessuno ci vieta di pronunciarlo: quello di Enea chi lo pronunci assume una responsabilità escatologica.
Ed ora uno scrupolo: tra le due nostre affermazioni: l’una, che tutte le parti della Commedia si corrispondono in un perfetto giuoco di richiami e di simmetrie, l’altra che qualcosa di essa fu scritto avanti l’esilio, alcuni, accettandolo, credono di poter adoperare la prima per impugnare in certa misura la seconda e parlare magari d’un Dante in ultimo ghibellino, ma inizialmente guelfo.
Cose per noi assolutamente vuote di senso, a cui però ci richiamiamo per assurgere in esse a una osservazione di carattere generale e modestamente conclusiva del nostro discorso.
Sì — dicono costoro — Dante seguitò il suo poema; ma n’è rimasto il segno in qualche cucitura: e lo si vede. Il Dante degli ultimi canti del Paradiso è proprio quello dei primi dell’Inferno? Non vedete che in ultimo, sotto la pressione delle ribadite delusioni e della crescente passione politica, lo stesso suo vocabolario si fa ghibellino, e i beati e gli angeli si trasfigurano nelle «due corti del Cielo» (XXV, 16), e San Pietro in «primopilo» (XXIV, 59), e San Giacomo in «barone» («il barone per cui laggiù si visita Galizia») e i santi di Dio nei «suoi conti» o nei «gran patrici» e altro ancora?
Orbene anche ammesso, e non concesso, un tal crescendo ghibellino (la questione ad ogni modo resta connessa ad altre: data della Monarchia; rapporti cronologici fra il trattato e il poema ecc.) il primo atto di Dante poeta verso un tal crescendo (se ci fu e quando l’avvertì) fu di armonizzarlo con le altre note sotto la specie poetica e nella luce delle corrispondenze, di modo che noi, arrivando fra i beati non ci sorprendessimo affatto di trovarci in una specie di corte imperiale, ci ricordassimo anzi d’averla presagita così già nelle prime parole di Virgilio al discepolo:

poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo.

Se questo d’una capillare corrispondenza tra il principio e la fine della Commedia vi paresse motivo un po’ fioco per una conclusione, pensate che esso può anche essere adoperato a conferma d’una verità maggiore, e oggi forse un tantino dimenticata: che in Dante la passione politica, per quanto forte, o fu sempre subordinata al culto della poesia o non arrivò mai ad incrinarlo. E che, d’altra parte, Dante di poesia s’intendeva almeno quanto noi.

Date: 2022-01-20