Autoesegesi dantesca e tradizione esegetica medievale [Gian Roberto Sarolli]

Dati bibliografici

Autore: Gian Roberto Sarolli

Tratto da: Prolegomena alla Divina Commedia

Editore: Leo S. Olschki, Firenze

Anno: 1971

Pagine: 1-39

Complicata com'appare da una lacuna, nel Convivio:

Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere... E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti... (II, i, 2-5) ,

e da una discussa attribuzione, quella cioè dell'Epistola a Cangrande:

Ad evidentiam itaque dicendorum sciendum est quod istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuum; nam primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus. Qui modus tractandi, ut melius pateat, potest considerati in hiis versibus: «In exitu Israel de Egipto...» (XIII, 20-1) ,

l'autoesegesi dantesca è pronta a rientrare in una nuova e più sostenuta fase d'acceso e salutare dibattito, specialmente dopo che i piri recenti studi sull'esegesi biblica hanno addirittura e con giusta ragione incluso il Poeta tra i teologi della Scolastica - «en faisant une place à Dante à la fin de ce paragraphe, nous ne franchirons les limites ni des royaumes chrétiens, ni méme tout à fait de la théologie. Tbeologus Dantes. Et dans sa théologie camme dans sa poésie, le quadruple sens joue son role», per dirla con Henry de Lubac . L'attenzione dei dantologi, calamitata dai due più evidenti documenti ove l'autoesegesi del Poeta trova il suo naturale veicolo espressivo, e cioè i due passi del Convivio e dell'Epistola, s'è industriata, puntando soprattutto sulle evidenze interne, con più o meno varia e documentata convinzione a muovere dall'assunto in toto intorno soprattutto all'autenticità della seconda, per schierarsi in pro o contra nella polemica che investendo l'Epistola dilaga, com'è risaputo, sull'accessus al Poema.
Dopo le divergenti conclusioni del Nardi e del Mazzoni, recentemente il Gilson , allargando quanto già altra volta pubblicato, ha creduto opportuno precisare: «l'authenticité de l'Epistola XIII, à Cangrande, est controversée entre les dantologues. Je crois devoir spécifier que je n'ai aucune opinion personnelle sur la question. Les citations que j'en fais signifient seulement, d'abord que je ne découvre aucune incompatibilité entre la doctrine de la Lettre et ce que nous savons avec certitude des idées de Dante; ensuite, que j'y trouve certaines thèses dont, méme si Dante Iui-méme ne les a pas formulées dans cet écrit, il est heureux qu'un autre l'ait fait en son nom. Elles décrivent fidèlement son attitude à l'égard de ces problèmes». Né da meno è il De Lubac , quando scrive: «on ne discerne pas en tout cas, entre le Convivio et la Lettre à Can Grande une divergence telle, que ce puisse ètre un argument contre l'authenticité de ceile-ci». L'asserzione del De Lubac, sull'interdipendenza del Convivio e dell’Epistola, è da integrarsi con la trinciante e lapidaria definizione del «senso mistico», dicotomicamente disgiunta nel Monarchia (III, iv, 6: «Hoc viso, ad meliorem huius et aliarum inferius factarum selutiontrnr evidentiam advertendum quod circa sensum misticum dupliciter errare contigit: aut querendo ipsum ubi non est, aut accipiendo aliter quam accipi debeat» - e che ha spinto il Renaudet a parlare di luteranesimo in Dante -), e con il tipico e tomistico identificare il senso letterale con l'intenzione dell'autore, come ha fatto rilevare la Smalley : «When Dante, a pupil of the Dominicans, wanted to show the fallacy of the famous arguments from the sun and moon and the two swords, he was in a far stronger position tban Stephen Langton. The question for him was not as it had been for Langton: Do the properties of tbe sun correspond perfectly with those of the Church? He considers, not the words in themselves, but the intention of the author: Did Moses intend the greater and lesser lights to signify the relations between Church and State? The sequence of his narrative of Creation makes this improbable. Rule is 'accidental ' to man and a consequence of bis fall. Why, then, should it be introduced before we are even told of man's creation? Similarly in the argument from the two swords, Dante sends us to the context (nostro il corsivo). The words: let him sell his coat and buy a sword [Lk. xxii. 36] were addressed to the Twelve, and were a warning to prepare for persecution. It is enough meant not that two swords were the right number, but, since you bave no more. The character of St. Peter, as drawn by all four Evangelists, makes it most unlikely that he was using 'sword' in a different sense from his Master; bis answers are always direct, hasty, unreflecting, corresponding to his sincerity and 'his natural purity and simplicity'».
E la Smalley continua, sottolineando come proprio anche di Dante l'impiego dei testi paralleli, quando cioè le parole debbano essere capite «typice», vale a dire metaforicamente, ma da considerarsi sempre come parte del senso letterale, e pertanto da ricondurre all'intenzione dello autore («If, however, the words are to be understood typice, then they must refer to a parallel text: I come not to send peace but a suiord [Mt. X, '34]). St. Peter was thinking of this spiritual warfare when he answered: bere are two swords; he meant that the Twelve were ready to fight by word and deed. This is not a concession to the ' spiritual interpretation' ... Dante is stili thinking of the intention of bis author. Typice for him has the sense of 'metaphorically'. Hence it is part of rhe literal interpretation. He assumes ali through the discussion that an argument, to be valid, must be based on this»).
Come già sintomaticamente si manifesta, i testi citati confermano quella definizione di Theologus, che Giovanni del Virgilio - e pensiamo soprattutto all'«espositore delle Metamorfosi» - attribuì a Dante, e che il Meersseman, recentemente, ha creduto di ridimensionare: tesi che si può accettare solo se intesa come riferita «stricto sensu» al Poeta qua «Theologus», ma non compiutamente se letta «in toto» qua «nullius dogmatis expers». Senza tacere ovviamente, ed è qui anticipazione di quel che più avanti discuteremo, che nei trattati di musica del XIII secolo - «disciplina di Boezio», come sarà ancora chiamata nel sec. XV -, l'attributo di teologo, insieme con quello di profeta, erano indispensabili per poter «de cantu angelorum tractare», così come inderogabile era «l'ispirazione divina» per poter «de tali cantu experientiam habere»; e ben si comprende quanto tali definizioni siano congruenti con l'autore del Purgatorio e del Paradiso, e per antitetica simmetria dell'Inferno, regno dell'arcangelo caduto . E questo non sorprenderà certo, ma confermerà ancor più quella nozione della enkyklios paideia, eredità greca, ma riscattata da ogni tentazione autonoma sotto il vincolo della cassiodoriana formula divina gratia suffragante, che sarà il reagente indispensabile per tutte le «scritture», da ridursi quasi a quel comun denominatore quale si manifesta nel Convivio, ove Dante aprendo il suo discorso proprio con l'impiego del termine generico di «scritture» e mescidando gli exempla dei «sensi», proporrà come vedremo soluzioni per lo meno ambivalenti.
E dello stesso ordine e dimensione apparirà poi il «genus philosophie» dantesco, quale appare nell'Epistola, sol che si ponga mente al fatto che dalla giurisprudenza, alla musica e alla poesia, il «genus philosophie» è sempre la «ethica sive morale negotium» .
E poiché nel libro III del Monarchia i punti di contatto con la Epistola, relativamente all'epistemologia dei «sensi» da parte del Poeta, appaiono evidenti, la sola conclusione che possiamo ricavare è che l'Epistola, autentica o no, conferma il giudizio del Gilson: «il est heureux qu'un autre l'ait Iait en son nom». Essa sanziona «fìdèlement son attitude à l'égard de ces problèmes».

Tenuto presente quanto già detto, e cioè che nelle tre opere dantesche citate la dottrina dei «sensi» rivela un rapporto di stretta interdipendenza e, più ancora, di profonda e sicura scelta e di non meno saldo del criterio metodologico – metodo storico e filologico infatti s’integrano nella ricerca dell’intenzione dell’autore, arricchendosi di quello dialettico nell’impiego dei testi paralleli -, è indispensabile ormai scendere ad una discussione minuta della scelta degli «exempla» allegati ai «sensi» e nel Convivio e nell'Epistola per poter meglio chiarire il pensiero del Poeta, e soprattutto provare la famosa definizione del Barbi, relativa a ciò che è o non è «fuori della coscienza del Poeta», per poter una buona volta arrivare a capire quel che ci deve o non ci deve «importare» . Questa definizione del Barbi, che il Gilson ha scelto come motto per il suo libro famoso, e che ancora recentemente ha ribadito , oltre ad essere la prima e vera crux del dantologo, è anche il più salutare punto di partenza soprattutto se integrata con l'affermazione del doppio senso letterale - eredità agostiniana, del resto - che l'insigne maestro ha ricavato da San Tommaso:

Né bisogna poi credere che tutto quanto è espresso per via di simboli e cli figure faccia parte necessaria-mente e assolutamente del senso allegorico. A questo proposito è da tener presente ciò che San Tommaso insegna circa il senso parabolico o tropologico: 'Sensus parabolious sub literali continetur: nam per voces significatur aliquld proprie et aliquid figurative, nec est Iiteralis sensus ipsa figura sed id quod est figuratum. Nam enim cum Scriptura nominat Dei brachium, est literalis sensus quod in Deo sit membrum huiuscemodi corporale sed id quod per hoc membrum significatur, scilicet virtus operativa' (Summa Theol., I, i, 10, 3) .

Ma quanto all'esempio e alla nomenclatura, il Barbi non è stato chiaro ed ha mescidato i sensi. Il senso parabolico è infatti quel secondo senso letterale per similitudinem di cui noi ci serviremo come clavis lecturae per aprire le più ardue allegorie del Poeta. Questa nozione che Dante ben conosce, conferma e convalida la scelta dell'ordine dei «sensi», quale appare normativo nei domenicani:

1) letterale, 2) allegorico, 3) tropologico, 4) anagogico,

ordine che i francescani, invece, e· massime San Bonaventura, diversamente collocano (anche se non sempre):

1) letterale, 2) tropologico, 3) allegorico, 4) anagogico.

E si capirà l'importanza fondamentale cli una tale scelta quando più oltre e ben diffusamente discuteremo la teoria dei sensi figurati.
È bene a questo proposito precisare che affrontando un problema che ha l'aria di adombrare un'oziosa questione terminologica, - e in campo peraltro già sarchiatissimo - l'intenzione nostra è mossa dal desiderio d'arrivare ad una sempre piri puntuale intelligenza del Poeta e del Poema.
È questo del resto ancora una volta il legato del Barbi:

Occorre anche, e più, precisare che cosa intendessero il poeta e i suoi contemporanei per 'lettera' e per 'allegoria'; quali rapporti intercedono nella concezione e nella stesura dell'opera dantesca; che cosa propriamente vi appartiene alla allegoria e che cosa invece appartiene alla lettera: per rivendicare infine la predominante importanza della lettera e il suo valore essenziale e pressoché esclusivo nei riguardi della poesia (p. 116).

Ma è anche tempo cli verificare, alla luce del resto delle nuove conquiste della dantologia e del rinnovato fervore negli studi medievali, quel legato che proprio i primi commentatori ci hanno tramandato nell'ambito proprio della forma tractandi che dell'accessus alla Divina Commedia è sempre stato ed è ancora il vero campo cli Marte.
E per il momento basterà ritrascrivere quanto in proposito ci hanno consegnato tra i primi commentatori sia Pietro cli Dante che Benvenuto da Imola. Il primo, agostinianamente, per eccesso, trova che la polisemia dantesca è settemplice, e i «sensi» per lui sono i seguenti: «Forma tractandi est septemcuplex, prout septemcuplex est sensus, quo utitur in hoc poemate noster auctor. Nam primo utitur quodam sensu, qui dicitur litterali sive superficialis et parabolicus… Secundo... historicus, Tertio…apologeticus… Quarto… metapboricus… Quinto... allegoricus... Sexto… tropologicus… Septimo… anagogicus» ; il secondo invece, per difetto anche se sulla linea dantesca (Convivio e Lettera a Cangrande) e domenicana, ha scritto: «Hic namque poeta peritissimus, omnium ceslestium, terrestrium, et infernorum profunda speculabiliter contemplatus, singula quaeque descripsit historice, allegorice, tropologice, anagogice» (nostri i corsivi).
È doveroso tuttavia mettere ben in luce, ben al di là della bravura dei due commentatori, la nota segreta che li ha guidati nel definire l'intenzione dell'autore, che nel caso di Pietro è l'aperta excusatio: «Amodo cum auctor loquitur et describit talem et talem in Inferno, Purgatorio, et Paradiso, cum dictis sensibus diversimode intelligatur, ut poeta, cuius officium est ut, ea guae vere gesta sunt, in alias species obliquis figurationibus cum decore aliquo converso traducat, secundum Isidorum»; e in quello di Benvenuto è l'unilateralità e la tradizionalità della «visione» - «speculabiliter contemplatus» - che in Dante invece, come si vedrà più oltre, si articolerà sulla tradizione paolina fino ai limiti della «visione» non mistica o ascetica ma paulina, cioè in statu viatoris e come adtestatio rei visae.
Tutto questo è da tener ben presente per capire il piano e la finalità del presente lavoro, inteso ad una siffatta verifica sforzandosi proprio di «precisare» che cosa intendesse solo e soltanto il Poeta, interrogando il più a fondo e largamente possibile tutte le «fonti» apertamente dichiarate o alluse che una lunga tradizione e il «furor dell'esercizio» gli offrivano per scegliere le tessere policrome con cui costruire l'irripetibile mosaico.
Già, dunque, abbiamo fatto rilevare la differenza nell'ordine della trilogia allegorica nei domenicani e nei francescani, differenza fondamentale perché la clavis scripturae e per consequens la clavis lecturae della Divina Commedia non rimane soltanto cristocentrica ma diventa trinitariocentrica (e si capirà tutta la portata di questa sottile distinzione quando discuteremo, sempre sulla scorta dell'esegesi medievale, le equazioni analogiche e figurate dei sensi), imponendoci nella dicotomica divisione di assegnare alla scelta dantesca una linea di continuità dal Convivio, al Monarchia, all'Epistola ove la successione dei sensi con l'allegorico anteposto al tropologico ben chiaramente appare, e di definire il Poeta, per dirla con il De Lubac, seguace del filone aureo della tradizione.
Tale continuità, che si risolverà in stupefacente ma non sorprendente unità o reductio ad unum, e cioè ad Deum vel Veritatem, ad un esame puntuale, mostra una decisa concordanza sul senso letterale, e perfino un'insistenza nel Convivio («E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quella ne la cui sentenza gli altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico... Onde con ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia subietto e materia de l'altre, massimamente de l'allegorica, impossibile è prima venire a la conoscenza de l'altre che la sua. Ancora, è impossibile ... onde, con ciò sia cosa che 'l dimostrare sia edificazione di scienza, e la litterale dimostrazione sia fondamento de l'altre, massimamente de l'allegorica, impossibile è a I'altre venire prima che a quella. Ancora, posto che possibile fosse, sarebbe inrazionale, cioè fuori d'ordine, e però con molta fatica e con molto errore si procederebbe... E però se li altri sensi dal litterale sono meno intesi - che sono, sì come manifestamente pare -, inrazionabile sarebbe procedere ad essi dimostrare, se prima lo litterale non fosse dimostrato. Io adunque, per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade; e talvolta de li altri sensi toccherò incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà» II, i, 8 e passim), insistenza discernibile a vista d'occhio per quell'incalzante uso dell'aggettivo impossibile, ripetuto ben 11 volte, per non parlare di inrazionale ripetuto solamente due volte ma strategicamente posto in principio e in fine dove appunto quasi per prevenire ogni eventuale obiezione, il possibile diventa inrazionale.
Questo insistito valore connesso al senso letterale , che fa scoppiare la dicotomia testé dichiarata tra le due allegorie, quella «dei poeti» contro quella «dei teologi», non altrettanto evidente appare (e meno evidentemente è poi avvertito il problema che vi si rinserra) nel supplemento del Parodi e accolto dal Busnelli e Vandelli nella oramai classica edizione. Il supplemento del Parodi, seguito dagli editori, vien largamente ridiscusso in una delle Appendici apposte al libro II, ed ivi essi, pur non accettando la lezione del Riccardiano 1044, adottata dal Della Torre nell'edizione Barbera - ripresa dal Moore, ma riquadnata sul Parigino 'Ital. 536' -, la dichiarano tuttavia tale da «poter appagare» .

L'uno si chiama Iitterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera propria, siccome è la narrazione propria di quella cosa che tu tratti: che per certo e appropriato esempio è la terza canzone che tratta di Nobiltade. L'altro si chiama allegorico.] e questo è quello che si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio...».

Questa lezione ha certo più il difetto d'essere testimoniata da un solo codice, e per giunta intromessa, che quello di suggerire il dubbio dovuto all'uso dell'aggettivo «propria» impiegato qui con «significato pronominale possessivo senza il nome a cui si riferisca» (Busnelli). E sarà anche vero, tuttavia il nome a cui si riferisce l'aggettivo - tradizionalmente tecnico nell'esegesi scritturale - in questo caso, come in molti altri e nel Convivio e nella stessa Commedia, è la lettera, senza contare che sia pure in forma avverbiale «proprie», esso appare nel Liber in Distinctionibus Dictionum Theologicalium di Alano de Insulis, (uno degli ultimi anelli di una lunga catena che risale alle Formulae Spiritualis Intelligentiae di Sant'Eucherio di Lione e alla Clavis Scripturae dello Pseudo-Melitone); libro che Gilson ha riconosciuto originato da un desiderio espresso da Sant'Agostino nel De Doctrina Christiana , e da considerare «of great importance in a study of the twelfth-century classroom» .
Perché appaia più probabile questa nostra affermazione, e quello che più oltre diremo, ci sia dato di trascrivere parte del «Prologus alter» del libro di Alano:
«Quoniam juxta Aristotelicae auctoritatis praeconium, qui virtutum nominum sunt ignari cito paralogizantur, in sacra pagina periculosum est theologicorum nominum ignorare virtutes, ubi periculosis aliquid quaeritur, ubi difficilius invenitur, ubi non habemus sermones de quibus loquimur, ubi rem ut est sermo non loquitur, ubi vocabula a propriis significationibus peregrinantur et novas admirari videntur; ubi divina descendit excellentia ut humana ascendat intelligentia; ubi nomina pronominantur, ubi adjectiva substantivantur, ubi verbum non est nota ejus quod de altero dicitur, ubi sine inhaerentia praedicatio, ubi sine materia subjectio, ubi affumatio impropria, negatio vera, ubi constructio non subjacet legibus Donati, ubi translatio aliena a regulis Tullii, uhi enuntiatio peregrina ab Aristotelis documento, ubi fidei remota a rationis argumento. Et ideo ne falsum pro vero affirmet theologus, ne ex falsa interpretatione errorem confumet haereticus, ut a litterali intelligentia arceatur Judaeus, ne suum intellectum sacrae Scripturae ingerat superbus, dignum duximus theologicorum verborum significatione distinguere, metaphorarum rationes asslgnare, occultas troporum positiones in lucem reducere, ut liberior ad sacram paginam pandatur introitus, ne ab aliena positione fallatur theologus, et sit facilior via intelligendi; minus intelligentes invitet, torpentes excitei, peritiores delectet, et sic diversae vocabulorum acceptiones, quae in diversis sacrae paginae locis jacent incognitae, in lucem manifestationis reducantur praesentis opuscoli explanatione; ut brevior explanatio prolixitatem excludat, brevitas fastidium tollat, expositio obscurum, compendiosa doctrina [temporis] dispendium» .
L'importanza del testo citato apparirà ancora più evidente se sottolineeremo quella prima triplice ripartizione incentrata nei nomi di Donato, di Tullio e di Aristotele - le auctoritates -, sottolineata e ribattuta analogicamente nel «theologicorum verborum signifìcatione distinguere», nel «metaphorarum rationes assignare» e nella «occultas troporum positiones in lucem reducere» affinché i «minus intelligentes invitet», i «torpentes excitet» e i «peritiores delectet». Queste ulteriori triplici ripartizioni sono anch'esse anelli paralleli di altrettanto lunga catena esegetica che, incentrata nei nomi dei Padri, più altamente specializzati – San Gerolamo, lo storico, Sant’Ambrogio, l’allegorista, San Gregorio, il tropologista, e infine Sant’Agostino, l’analogista (che Dante accortamente contrppone: «Iacet Gregorius tuus in telis aranearum; iacet Ambrosius in neglictis clericorum latibulis; iacet Augustinus abiectus…», agli imperversanti Decretalisti, nell'Epistola ai Cardinali, XI, 16) -, sarà da noi incentrata, per brevità d'esposizione, nei seguenti nomi: Sant'Isidoro, Abelardo e San Bernardo, per la tipica enfasi nell'una o nell'altra delle Arti del Trivio, e in quello di Pietro Lombardo, al quale si deve la classificazione sociologica, tipica del XII secolo, intesa a trovare nelle Scritture il parallelo sociale della Ecclesia in statu presente, e cosi enucleato (e liberamente tradotto):

Il senso letterale o storico è più facile, il morale più dolce, il mistico più sottile; il letterale è per i principianti, il morale per i più istruiti, il mistico per i perfetti .

Parallelo sociale che, è stato sottolineato, diventerà caratteristico del XII secolo, quando gli attivi si schiereranno contro i contemplativi, con gli eccessi ben noti fino alla drammatica secolarizzazione della Chiesa, e che è dicotomia da tener presente nella Divina Commedia, e massime quando ci troviamo di fronte ai testimoni contrapposti, come i 12 e 12 nei canti paralleli di Paradiso X e XII - senza tacere quelli più allusivamente e antiteticamente protratti come Celestino V e San Pier Damiani -, ma aggiungendo e sottolineando inoltre la possibile implicazione pluralistica dei «lettori» quale appare nel più alto e drammatico «appello» nel canto II di Paradiso, come più oltre si vedrà.
Un esame accurato dei testi fondamentali degli autori citati, ci offrirà la chiave per capire meglio la portata delle cognizioni dantesche, e le teorie interpretative del Poeta quali appaiono nelle pagine citate del Convivio, Monarchia ed Epistola, e per conseguenza quelle stesse che la dantologia dovrebbe, se non seguire stricto sensu, per lo meno tener sempre presenti.
Faremo notare, prima di entrare in medias res, che gli autori citati sottolineeranno come fondamentale il senso letterale o storico, con la stessa insistita enfasi di Sant'Alberto Magno, San Bonaventura, San Tommaso e Dante.
Nei Sententiarum, Sant'Isidoro, campione diremmo oggi del metodo storico-filologico, afferma: «Lex divina triplici sentienda est modo. Primo ut historice, secundo ut tropologice, tertio ut mystice intelligatur. Historice namque juxta litteram, tropologice juxta morafom scientiam, mystice juxta spiritualem intelligentiam. Etigo sic historice oportet fidem tenere, ut eam et moraliter debeamus interpretati el spiritualiter intelligere» (nostri i corsivi) .
Orbene siccome è la fede il comun denominatore tra i sensi, e dei sensi il primo è lo storico, diventerà indispensabile conoscere qual è la definizione isidoriana dell'endiadi senso storico e letterale.
Negli Etymologiarum libri trovasi la definizione - eco paulina - che diverrà poi canonica, di «historia est narratio rei gestae, per quam ea quae in preterito facta sunt dignoscuntur... Haec disciplina ad grammaticam pertinet, quia quidquid dignum memoriae est, litteris mandatur» (nostri i corsivi . Alla grammatica, intesa naturalmente in ben più ampia accezione d'ogni moderna definizione - ad essa infatti corrispondono secondo Sant'Isidoro ben trenta topici, dalle glosse, all'ortografia, all'etimologia; dalla storia alle figure retoriche -, tocca il compito fondamentale di conoscere i fatti e soprattutto di isolare il vero di fronte sia al contingente dialettico che all'impossibile favoloso:

Inter historiam et argumenturn et fabulam interest. Nam historiae sunt res verae, guae factae sunt. Argumenta sunt guae etsi facta non sunt, fieri possunt. Fabulae vero sunt quae nec facta sunt, nec fieri possunt, quia contra naturam sunt .

Tale verità quindi opposta al contingente e all'impossibile deve essere determinata grammaticalmente, e poiché la grammatica è da considerarsi il più chiaro specchio della storia culturale per consequens ogni interpretazione storica deve basarsi soltanto ed esclusivamente sulla scoperta del significato originario, dal punto di vista grammaticale, dell'intenzione dell'autore.
La teoria storico-filologica di sant'Isidoro può dunque essere riassunta nel canonico uso della cosiddetta interpretatio nominum di cui il Medio Evo farà largo impiego e cli cui Dante non sarà certo l'ultimo esponente, come più dettagliatamente ed ampiamente si vedrà nella IIa parte.
Come Sant'Isidoro, anche Abelardo insisterà sul valore fondamentale del senso letterale o storico, ma al contrario di Sant'Isidoro affermerà la preminenza della «sententiae veritatem quam verborum proprieratem», che è quanto dire la ricerca della verità, come intenzione dell'autore, non per mezzo del metodo storico-filologico ma dialettico.
Non che Abelardo rinunci al metodo isidoriano in toto, si badi bene, piuttosto sottolinea la necessità di una controprova che il metodo dialettico può suggerire. E le discipline che Abelardo enfaticamente esalta, sulle orme di Sant'Agostino, sono la dialettica e la matematica; quelle che, specialmente la seconda, certo non minor storia culturale e filosofica possiedono se traguardate attraverso l'eredità pitagorica e platonica, ma rifondata sull'apoftegma ricavato dal Liber Numerorum: «Talle numerum omnibus et omnia pareunt»:

Quod si post vitam philosophorum nobis ad nostrae confusionem impudentiae a sanctis Patribus propositam de eorum doctrina discutere libet, intelligemus tam testimoniis sanctorum, quam manifesta ratione, quam sit ea quoque sacris litteris necessaria, non solum in his quae ad documenta morum attinet, seu ad sacrae fidei testimonia, verum ad omnia quaestionum generarationibus terminanda, sive allegoriam quoque mysteria discutienda quas frequenter in naturis numerorum investigamus. Unde nobis praecipue tam dialecticam quam arithmeticam beatus commemorar Augustinus... Idem in secundo De Doctrina Christiana cum inter omnes artes praecipue dialecticam et arithmeticam sacrae paginae necessaris esse proferetur .

E non sarà certo un caso, come si vedrà più avanti nella parte Ila, Dante' scriba Dei', se la profezia nella Commedia sarà affidata a Virgilio, per il simbolo cristomimetico del Veltro, e a Beatrice, per quello del numero, DXV.
È vero che esistono varie e ben differenti specie cli dialettica, legate ovviamente ai differenti e ben diversi principi ed assunti, ma è altrettanto vero che, pur nella varietà dei modi analitici, la dialettica pur concorda nel ritenere che il vero è problema di evidenze interne nel contesto e non di conformità verso regole o principi esterni a cui uniformarsi. E il principio metodologico che ne deriva è quello del parallelismo, quello cioè della ricerca dei passi paralleli. E anche a questo proposito, sarà già il caso di far rilevare che Dante impiega questo metodo ripetutamente nel Monarchia, come già abbiamo visto.
E diremo di più, poiché altro è indispensabile qui enucleare, non: dal punto di vista abelardiano, che non ci interessa, quanto dal punto di vista storico-culturale perché confluente in quella che noi crediamo la matrice epistemologica dantesca, ed è l'enfasi sottolineata da Abelardo sulla necessità di dividere le Scritture nelle caratteristiche fondamentali di libri storici e profetici, in un rapporto di dipendenza e di rigore dialettico per ogni ulteriore analisi, e quindi la priorità di lettura e di interpretazione concessa ai libri della Legge nel Vecchio Testamento e ai Vangeli nel Nuovo, prima di poter affrontare e capire i libri profetici e le Epistole, aperti alla più sottile interpretazione allegorica e tropologica.
In altre parole, Abelardo sostanzialmente riconosce che il valore fondamentale del senso letterale è quello di permettere di stabilire con certezza quali parti delle Scritture sian da leggersi soltanto letteralmente e quali invece siano apribili alle più sottili interpretazioni degli altri sensi, quello allegorico, quello tropologico, quello anagogico; e l'impiego della dialettica dal punto di vista abelardiano diventa indispensabile per separare il senso letterale dagli altri e meglio definirlo, e, siccome dal punto di vista culturale il senso letterale diventa meno rigido nell'opposizione tra evidenze interne ed esterne, impiegarlo come base per quella morale interpretazione consequentemente e consequenzialmente appropriata.
Ed Abelardo dirà: «Quoniam ea quae praedicta sunt juxta radicem historiae ac veritatem rei gestae quantum valuimus prosecuti sumus, juvat morali quoque ac postmodum mysticae expositione nos eadem perquirere. Moralis itaque dicitur expositio quoties ea quae dicuntur ad aedificationem morum sic applicantur, sicut in nobis vel a nobis fieri habent quae ad salutem necessaria sunt bona, veluti cum de fide, spe et charitate vel bonis operibus expositione nostra lectorem instruimus. Mystica vero dicitur expositio, cum ea praefigurari docemus quae a tempore gratiae per Christum fuerant consummanda, vel quaecumque historia futura praesignari ostenditur» .
Quest'ultimo passaggio d'Abelardo, con quell'insistita necessità sulle tre virtù teologali per giungere ad una più ampia e vera interpretazione moraliter, meglio giustifica e chiarifica i canti di Paradiso ove Dante sarà esaminato sulle stesse tre virtù. Estendendo la conditio sine qua non abelardiana ad una prassi canonica, per analogico riflesso ognun converrà con noi sul valore ben pregnante di quei canti danteschi e ne dedurrà con noi l'importanza del senso tropologico nell’opera del Poeta, soprattutto se al passo già citato aggiungiamo quest'altro dei Commentariorum super S. Pauli Epistulam ad Romanos: «Omnia Scriptura divina more orationis rhetoricae aut doceue intendit aut movere. Docet quippe, dum quae fieri vel vitari oportet insinuat. Movet autem, dum sacris admonitionibus suis voluntatem nestram vel dissuadendo retrahit a malis, vel persuadendo applicat bonis, ut jam videlicet implere velimus quae implenda esse didicimus, vel vi tare contraria» .
Anche San Bernardo, insieme con Sant'Isidoro ed Abelardo, insisterà sulla preminenza del senso letterale sugli altri, ma le definizioni bernardiane ci pongono di fronte ad un senso letterale che può essere diviso in due parti, e cioè un senso letterale principale ed uno che può essere definito metaforico.
Si veda del resto dal De Consideratione:

sit itaque hortus simplex ac plana historia; sit cellarium moralis sensus; sit cubiculum arcanum theoricae contemplationis .

Come si vede, il processo analogico è in atto:

1. hortus = historia;
2. cellarium = moralis sensus;
3. cubiculum = arcanum theoricae contemplationis;

e che si articola ulteriormente nei Sermones in Cantica, in un'ulteriore ripartizione triplice uguale ed analoga alla vita umana se interpretata alla luce della Provvidenza:

Est ergo historia hortus, et ipsa tripartita. Continetur narnque in ea coeli et terrae creatio, reconciliatio et reparatio. Creatio quidem, tamquam horti satio sive plantatio. Reconciliatio autem, quasi germinatio satorum vel plantatorum. Tempore nempe suo rorantibus coelis desuper, et nubibus pluentibus justum, aperta est terra et gerrninavit Salvatorem (Isai, XLV, 8) per quem facta est coeli terraeque reconciliatio... Porro reparatio futura est in fine saeculi... Habes igitur tria tempora in hortu historid sensus .
Ed ugual triplice divisione vien proposta per il senso metaforicamente paragonato al cellarium, ma diviso in tre celle, «cellas quasi tres in cellario uno», ricondotte a tre momenti e stati nell’ambito dell'etica («Sed habeo et alia nomina puto et evidentiorem sui gerentia rationem. Et ut suo ordine nominentur, primam nuncupaverim disciplinae; secundam, naturae; postremam, gratiae. In priori discis juxta ethicae partis rationem inferior esse, in sequenti par, in posteriore superior: hoc est, sub alio, curo alio, super alium; vel sic, subesse, coesse, praeesse. Primo ergo discis esse discipulus, secundo socius, tertio et magister») .
Quanto poi al terzo senso, San Bernardo che è il campione piri acceso non solo della carità ma anche della fede (nei Sermones De Diversis, dirà infatti che la «fides quidem illuminavit rationem» ) affermerà che la contemplazione della Trinità è «sacramentum magnum ... et quidem venerandum, non scrutandum» e che la santità più che la scienza è fonte di conoscimento («Novimus haec. [Quid Deus est]. Num ideo et arbitramus nos comprehendisse? Non ea disputatio comprehendit sed sanctitas: si quo modo tamen comprehendi potest quod incomprehensibile est. At nisi posset, non dixisset Apostolus: ut comprehendamus cum omnibus sanctis (Ephes. III, 18) Sancti igitur comprehendunt. Quaeris quomodo? Si sanctus es comprehendisti, et nosti: si non, esto et tuo experimento scies». De Consideratione, cit.) , passo che potrebbe essere considerato se non assunto direttamente certo almeno molto da vicino accostato dal Poeta del paradisiaco «trasumanar significar per verba / non si poria; però l'essemplo basti / a cui esperienza grazia serba» (Par. I, 70-2). La fede dunque per San Bernardo è la chiave indispensabile non solo per interpretare il senso letterale, ma addirittura prerequisito indispensabile per passare dal primo senso agli altri direttamente, e il procedimento è sempre analogico e metaforico. Basterà quest'ultimo esempio per chiarire ulteriormente l'insistita posizione bernardiana. Nel Sermone De Varia Trinitate, dopo aver analogicamente rapportato la Trinità divina a quella umana, cioè all'anima razionale, egli aggiungerà che la restaurazione della ragione caduta avverrà per intervento divino attraverso il «trivium sapientiae», e cioè «ethicam, logicam, physicam: quas nos possumus aliis vosare nominibus moralem, inspectivam, et naturalem scientiam. Siquidem per ethicam eligitur bonum, reprobatur malum; per logicam cognoscitur verum et falsum; per physicam commodum et incommodum, id est, quid in usum assumendum sit, quid respuendum» .
Da quanto fin qui discusso è evidente che il metodo bernardiano è metodo retorico, e che quindi la validità del senso letterale non si regge sul suo valore storico ma piuttosto su quello indiretto che abbiamo chiamato metaforico, e che è, se pur in modo diverso, ma pur uguale, quello stesso che Dante impiega nel Monarchia, definendolo typice, quello che già Sant'Agostino aveva distinto da quello principalis e cioè quello «per adaptationem» .
Un'ultima osservazione mi pare che debba essere qui postulata, e cioè la possibile stretta dipendenza di Dante da San Bernardo, campione non solo di carità ma di fede, e campione non solo della marianità ma anche della Trinità, soprattutto se considereremo la teoria dei sensi di Bernardo alla luce delle Scritture ove il Santo impiega il suo canone esegetico.
In altre parole, è da considerare attentamente qual parte delle Scritture meglio si presta alla teoria bernardiana, e quale San Bernardo ha interpretato.
È evidente che l'esegesi di San Bernardo più si presta e sembra originata non tanto dai libri della Legge quanto dal Cantico, quello appunto dove la lettera chiama e quasi impone la lettura metaforica, aprendosi ulteriormente ad istanze tipologiche, per cui l'amore dello sposo e della sposa cantato eroticamente. poté diventare prefigurazione di Cristo e della Chiesa.
Ma di San Bernardo sarà ancora opportuno citare la metafora del pane, e di conseguenza quella dell'artefice di quel pane, perché la ritroveremo e nel Convivio e nella Commedia. Nell'introduzione ai Sermones in Cantica Canticorum, dirà infatti il Santo:
«1. Vobis, fratres, alla quam aliis de saeculo, aut certe aliter dicenda sunt. Illis siquidem Iac potum dat, et non escam (I Cor. III, 2), qui Apostoli formam tenet in docendo. Nam spiritualibus solidiora apponenda esse, itidem ipse suo docet exemplo, Loquimur, inquiens, non in doctis humanae sapientiae verbis, sed in doctrina spiritus, spiritualibus spiritualia comparantes; item, Sapientiam loquimur inter perfectos (I Cor., II, 13, 6), quales vos nimirum esse confido; nisi frusta firte jam ex longo studiis estis coelestibus occupati, exercitati sensibus, et in lege Dei meditati die ac nocte. Itaque parate fauces, non lacti, sed pani. Est panis apud Salomonem, isque admodum splendidus sapidus, que; librum dico, qui Cantica Canticorum inscribitur: proferatur, si placet, et frangatur... Quae enim societas ei quae desursum est sapientiae, et sapientiae mundi, quae stultitia est apud Deum (I Cor. III, 19); aut sapientiae carnis, quae et ipsa inimica est Dea? (Rom. VIII, 7). Puto autem quod jam non habebit unde adversum nos murmuret is, qui nobis de via venit amicus, cum et tertium istum insumpserit panem (...).
4. Sed quis franget? Adest paterfamilias; cognoscite Dominum in fràctione panis. Quis enim alter idoneus? Non equidem ego mihi istud temere arrogaverim. Sic spectetis ad me, ut ex me non expectetis. Nam et ego unus sum de expectantibus, mendicans et ipse vobiscum cibum animae meae, alimoniam spiritus. Revera pauper et inops pulso ad eum, qui aperit et nemo claudit, super sermonis hujus profundissimo sacramento. Oculi omnium in te sperant, Domine. Parvuli petierunt panem; non est qui frangat eis; speratur id a benignitate tua. O piissime, frange esurientibus panem tuum, meis quidem, si dignaris, manibus, sed tuis viribus» (nostri i corsivi) .
Con questo in mente, esempio estremo di una lunga tradizione, vedremo come e perché il pane e il pan degli angeli del Convivio sarà unicamente pan degli angeli nella Divina Commedia.

Ma prima di arrivare all'autoesegesi dantesca, occorrerà tener ben presenti quegli autori nei quali ben chiaramente si percepisce «quello spirito di conciliazione della sapienza profana colla cristiana che sarà lo sforzo di tutti i periodi di reviviscenza della cultura classica», e che trovò i suoi campioni più alti nei glossatori di Virgilio e di Orazio, particolarmente. Autori che, per dirla con il Jeauneau, «en passant de la Bible aux auteurs profanes, (il était nature! que) le maitre de grammaire apportàt avec lui une classification aussi commode» .
Né van taciuti quegli altri che, come Alano de Insulis, per citare il più vicino a Dante, non esitarono ad avvertire i lettori che le loro opere erano fondate sui sensi.
Sia lecito qui trascrivere il passo più significativo della Praefatio all’Anticlaudianus:

In hoc etenim opere, litteralis sensus suavitas puerilem demulcebit auditum; moralis instructio proficientem imbuet sensum; acutior allegoriae subtilitas perficientem acuet intellectum ;

passo tanto più significativo perché ripete quasi ad litteram quella tripartizione, già citata, di Pietro Lombardo, e che appare come rinserrata, prima e dopo nella tradizionale formula etica, ma espressa in verità non tradizionalmente, e cioè con un monito solenne a due classi di lettori, gli uni:

Huic operi derogare non tentent qui altioris scientiae militiam spondent. Huic operi abrogare non praesumant, qui coelum philosophiae vertice pulsant...,

e gli altri:

Ab hujus ergo operis arceantur ingressu, qui solis sensuum speculis dediti, rationis non aurigantur ingressu; qui solam sensualitatis assequentes imaginem, rationis non appetunt veritatem, ne sanctum canibus prostitutum sordescat, ne porcorum pedibus conculcata margarita depereat; aut derogerur secretis, si eorum majestas divulgetur indignis.

Questo passo di Alano riflette ovviamente le convinzioni dell'autore espresse in altro lavoro, in quelle Theologicae Regulae, ove il Doctor Universalis apertamente condanna quel termine di «involucrum» discusso sinonimo di «integumentum» che i Carnotensi, a partire da Guglielmo di Conches, introdussero e diffusero attraverso i loro Commenti soprattutto a Virgilio (Giovanni di Salisbury dirà che Virgilio nell'Eneide ha cantato «sub involucro fictitii commenti», e altrettanto farà Bernardo Silvestre nelle sue «Glosulae Aeneidos secundum integumentum», cosi come faranno i commentatori ovidiani, direttamente Giovanni di Garlandia (Integumenta Ovidii), indirettamente Arnolfo d'Orléans (Allegoriae super Ovidii Metamorphoses) e Giovanni del Virgilio (Allegoriae super Ovidio maior), confermando il confluire del termine Integumentum sinonimicamente in quello d'Allegoria (limitatamente in questo caso ai commenti ovidiani e derivata forse dalla definizione di Integumenta, id est allegoricas sententias super fabulas, quale leggesi in una nota in calce all'opera di Giovanni di Garlandia), - termine quello d'integumentum che Guglielmo di Conches avrebbe voluto riserbato solo per le opere profane, creando cioè una distinzione tra le allegorie dei poeti e quelle dei teologi, limitatamente ai testi: le opere profane da un lato, più o meno moralizzate, e il testo sacro dall'altro.
La nozione d'integumentum con valore d'allegoria non c'interessa per il momento se non per i suoi riflessi sul senso letterale, in quanto cioè tende a svalutare il senso letterale di fronte a quello allegorico, come rilevasi in uno dei Commenti carnotensi al Timeo, ove leggesi che Platone ha discusso il suo soggetto «per involucrum cujusdam convivii», alla maniera di quel poeta anonimo che congiungerà la parola «integumentum» con «fabula» creando un'equazione che avrà fortuna , e cioè:

Fabula voce tenus tibi palliar integumentum,
Causa doctrinae res ibi vera latet .

E quando in questo processo di ricupero dei miti, «Platone» e «Mosè» concorderanno, cosi come Mercurio e la Filologia, basterà far scattare ed applicare la formula paolina del figuralismo perché gli Dei e gli eroi pagani siano trasformati in «figurae Christi», e quello stesso Alano, cosi severo nelle Theologicae Regulae, potrà anticipando Dante, nell'Anticlaudianus chiamare Dio «supremus Jupiter» e gli angeli «proceres Tonantis» , e rappresentare il transito della creatura al Creatore, del naturale al soprannaturale come un transito da Apollo a Giove, dalla terra all'olimpo:

Hactenus insonuit tenui mea Musa susurro...
Majorem nunc tendo lyram, totumque poetam
Deponens, usurpo mihi nova verba prophetae.
Caelesti musae terrenus cedet Apollo.
Musa Jovi, verbisque poli parentia cedent
Verba soli, tellusque locum concedet Olympo.

Qui però vien stabilita un'equazione antitetica poeta-profeta che, segnando i limiti dei rapporti tra Alano e Dante, troppo apoditticamente accettati, riconferma i canoni delle teorie musicali del tempo secondo le quali, come abbiamo detto in principio, solo ai profeti è dato di cantare la musica celeste, o anche per ripetere lo stesso Alano nelle sue Distinctiones:

(in bono) «Propbeta, proprie ille qui divina inspiratione occultos rerum eventus denuntiat. Dicitur expositor sacrae Scripturae, unde Apostulus ait, quod Dominus in Ecclesia alios constituit apostolos, alias prophetas, id est sacrae Scripturae expositores. Dicitur sapiens a Dea instructus, unde Dominus ad Abimelech de Abraham ait: Nunc igitur redde viro suo uxorem quia propbeta est»; (e in malo) «Dicitur ille qui fingit se esse prophetam, unde pseudoprophetae aliquando prophetae dicti sunt.

E naturalmente non ci sorprenderemo, se nelle stesse Distinctiones non troveremo la definizione di poeta.
Ma ci ricorderemo di quel verso sull'Apollo terreno vinto dalla musa celeste, e paragonandolo al trionfante Apollo dantesco, all'inizio del Paradiso, canto I:

O buono Apollo, a l'ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar I'amato alloro
(vv. 13-15),

e più ancora nel canto II:

L'acqua ch'io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Apollo,
e nove Muse mi dimostran I'Orse
(vv. 7-9),

stabiliremo il parallelo tra Alano e Dante, ma a contrariis in questo caso, e ce ne serviremo quasi parametro per operare la nostra distinctio tra l'opera di Alano e gli altri allegoristi fino al Roman de la Rose, e quella di Dante, la cui allegoria è una speciale allegoria, quella dei teologi contro quella dei poeti, come ha fatto rilevare il Singleton , discutendone le ulteriori implicazioni alla luce della tipologia sulla traccia dell'Auerbach , ma filtrando il tutto attraverso gli exempla di Pietro Comestore, Ugo di Santo Care, Remigio de’ Girolami e le analogie di Alessandro di Hales, e alla luce della teologia-politica.

Ma prima di occuparci di quest'ulteriore questione, sarà opportuno che ci si soffermi sulle teorie dei «sensi» dei due grandi maestri della Scolastica San Bonaventura e San Tommaso, dalle cui teorie dipenderanno i due grandi Commentatori biblici, Ugo di Santo Care e Nicola da Lyra, e infine il domenicano Remigio de' Girolami, che fu in Santa Maria Novella, maestro di Dante.
E poiché sarebbe impossibile qui entrare nel merito specifico delle teorie dei due Dottori, e nella bibliografia enorme sul soggetto, sia dato, rinviando al De Lubac per un controllo prima facie, brevemente toccare quella questione del doppio senso letterale che il Barbi ha giustificato con il ricorso al testo tomistico, e l'altra non meno importante dell'ordine dei sensi e derivare i due punti alla teoria del Poeta.
È stato rilevato che le teorie di San Bonaventura e di San Tommaso «eisdem fere verbis explicant suam sententiam... hoc enim peculiare esse caelesti doctrinae huic, asserunt sancti doctores, ut Deus non solum voces sed etiam res ad significandum accomodet...» .
Ma ad un esame più puntuale quell' eisdem f ere verbis tradisce una differenza importantissima per noi, soprattutto dal punto di vista dell'ordine dei sensi, e fermo restando il principio che il sensus spiritualis si fonda su quello litteralis, tuttavia l'anteporre il tropologico all'allegorico, come fa San Bonaventura, può portare ad una differenza fondamentale non solo nell'enfasi di questo senso sull'altro soprattutto quando ai sensi si applicano le analogie - dell'anagogia con I'aeterna Dei Trinitas, Exemplaris sapientia, Angelica sublimitas, Ecclesia Triumphans; dell'allegoria, con l'Humanitas assumpta... , Mater Dei Maria, Ecclesia militans, Sacra Scriptura; della tropologia, con la Spiritualis gratia... , Spiritualis vita... , Spiritualis cathedra, Spiritualis pugna, e della lettera con l'uomo (San Matteo); dell'allegoria con il leone (San Marco); della tropologia con il bove (San Luca) e dell'analogia con l'aquila (San Giovanni) -, ma anche sulla portata dell'opera quando troviamo che San Bonaventura anteporrà la tropologia all'allegoria e nell'Itinerarium mentis in Deum, nelle Quaestiones de theologia, nel prologo del De triplici via e infine nei due sermoni sull'Epifania e sulla Pentecoste (apparirà ultima addirittura nel De Donis Spiritus sancti, in molti passaggi delle Collcctiones in Exaemeron), mentre seguirà l'ordine tradizionale nel De reductione artium ad theologiam, nel Breviloquium, in due passi nel commento di San Luca, nei sermoni sull'Annunciazione e sulla Purificazione, e finalmente in una delle letture sull'Hexaemeron .
A queste oscillazioni, che secondo il De Lubac «n'offrent rien de très signifìcatif... Aucune intention particulière ne parait non plus avoir fait préférer tel ordre à tel autre», e che dal punto di vista teologico possono certo essere irrilevanti, dal punto di vista dell'esegesi dantesca sarà invece da porre speciale attenzione per la ricerca delle «fonti», soprattutto quando si metta mano alle opere dello stesso San Bonaventura - e pensiamo al citatissimo Itinerarium, in cui come s'è visto il senso tropologico è anteposto a quello allegorico - e a quelle più in generale dei francescani, culminanti, dopo il terremoto provocato dalla Concordia di Gioachino da Fiore e dagli esegeti gioachimiti, nella doppia serie delle Postillae, letterali e morali, di Nicola da Lyra, nelle quali, per dirla con il De Lubac, son contenuti «deux excellentes remarques, concernant les deux défauts communs aux exégètes de son temps: l'excès d'allégorie et la pulvérisation du texte» .
Questa distinzione nel sistema e nell'accessus alla Divina Commedia è fondamentale e lo si vedrà quando disputeremo la scelta degli exempla danteschi, e massime del Salmo CXIII, e quando faremo nostro il problema del Poeta quanto al risolvere «convincingly the possibility of a journey to the world of the spirit by a man still in this life and in possession of bis earthly body» ; problema che trova la controparte in quello della consistenza delle «ombre», recentemente ripreso: «... ces corps diaphanes, en quai consistaient-ils? Ils ne sont pas rien, puisqu'ils souffrent du chaud et du froid, du feu et de la giace, en enfer ou en purgatoire, mais de quai sont-ils faits?», e da par suo risolto dal Gilson - problema che la strategia dei «sensi» inchiude.
Nella Summa Theologica, nel già citato Art. X, della Quaest. I, della Pars I: «Utrum Sacra Scriptura sub una Iittera habeaf plures sensus», San Tommaso concluderà con l'ormai nota definizione:

Respondeo dicendum quod auctor sacrae Scripturae est Deus, in cujus potestate est ut non solum voces ad significandum accomodet (quod etiam homo facere potest), sed etiam res ipsas. Et ideo, cum in omnibus scientiis voces significent, hoc habet proprium ista scientia quod ipsae res significatae per voces, etiam significant aliquid. Illa ergo prima significatio, qua voces significant res, pertinet ad primum sensum, qui est sensus bistorieus, vel litteralis. Illa vero significatio, qua res significatae per voces iterum res alias significant, dicitur sensus spiritualis, qui super litteralem fundatur, et eum supponit. Hic autem sensus spiritualis trifariam dividitur. Sicut enim dicit Apostolus: Lex vetus figura est novae legis; et ipsa nova lex, ut dicit Dionysius, est figura futurae gloriae. In nova etiam lege, ea quae in capite sunt gesta, sunt signa eorum quae nos agere debemus. Secundum ergo quod ea guae sunt veteris legis, signifìcant ea qua sunt novae legis, est sensus allegoricus; secundum vero quod ea quae in Christo sunt facta vel in his quae Christum significant, sunt signa eorum quae nos agere debemus, est sensus moralis; prout vero significant ea quae sunt in aeterna gloria, est sensus anagogicas. Quia vero sensus litteralis est, quem auctor intendit; auctor autem Sacrae Scriptttrae Deus est, qui omnia simul suo intellectu comprehendit, non est inconveniens, ut dicit Augustinus, si etiam secundum litteralem sensum in una littera sacrae Scripturae plures sint sensus... Ad primum ergo dicendum, quod multiplicitas horum sensuum non facit aequivocationem, aut aliam multiplicitatis; qui, sicut jam dictum est (in corp. art.), sensus isti non multiplicantur propter hoc quod una vox multa significet, sed quia ipsae res significatae per voces, aliarum rerum possunt esse signa. Et ita nulla confusio sequitur in sacra Scriptura; cum omnes sensus fundentur super unum scilicet litteralem, ex quo solo potest trahi argumentum, non autem ex his quae secundum allegoriam dicuntur, ut dicit Augustinus. Non tamen ex hoc aliquid deperit sacrae Scripturae, quia nihil sub spirituali sensu continetur fidei necessarium, quod Scriptura per litteralem sensum alicubi manifeste non tradat... Ad tertium dicendum, quod sensus parabolicus sub litterali continetur; nam per voces significatur aliquid proprie et aliquid figurative. Nec est litteralis sensus ipsa figura; sed id quod est figuratum. Non enim curo Scriptura nominat Dei brachium, est litteralis sensus quod in Deo sit membrum hujusmodi corporale: sed id quod per hoc membrum significatur, scilicet virtus operativa.

Quest'ultima definizione di San Tommaso, che è certo alla base della discussione sul senso letterale nel Convivio - e che la sola lezione del Riccardiano 1044 sembra, quanto all'exemplum e all'intenzione dell'autore, aver raccolto -, e che il Barbi, mescidando, aveva ricondotto al senso parabolico o tropologico, corrisponde invece alla metafora, (che in definitiva è la sola allegoria dei poeti, come meglio apparirà nell'exemplum di Remigio de' Girolami), di necessità qui legata al senso letterale nell'articolo IX: «Utrum sacra Scriptura debeat uti metaphoris», e San Tommaso concluderà, dicendo: «Sacra doctrina curo cunctis hominibus communiter proponatur, in ea metaphoris et corporalibus similitudinibus divina exponi maxime conveniens est. Respondeo dicendum quod conveniens est sacrae Scripturae divina et spiritualia sub similitudine corporalium tradere. Deus enim omnibus providet secundum quod competit eorum naturae. Est autem naturale homini ut per sensibilia ad intelligibilia veniat; quia omnis nostra cognitio a sensu initium habet. Unde convenienter in sacra Scriptura traduntur nobis spiritualia sub metaphoris corporalium.
Et hoc est quod dici Dionysius: 'Impossible est no bis aliter lucere divinum radium, nisi varietatem sacrorum velaminum circumvelatum'. Convenit etiam sacrae Scripturae, quae communiter omnibus proponitur, secundum illum; Sapientibus et insipientibus debitor sum, ut spiritualia sub similitudinibus corporalium proponantur; ut saltem vel sic rudes eam capiant, qui ad intelligibilia secundum se capienda sunt idonei.
Ad primum ergo dicendum, quod poetica utitur metaphoris propter repraesentationem; repraesentatio enim naturaliter homini delectabilis est. Sed sacra doctrina utitur metaphoris propter necessitatem et utilitatem, sicut jam dictum est (in corp. art.). Ad secundum dicendum, quod radius divinae revelationis non destruitur propter figuras sensibiles quibus circumvelatur, ut dicit Dionysius, sed remanet in sua veritate; ut mentes, quibus fìt revelatio, non permittat in similitudinibus permanere, sed elevet eas ad cognitiones intelligibilium: et per eos quibus revelatio facta est, alii etiam circa haec instruantur. Unde ea quae in uno loco Scripturae traduntur sub metaphoris, in aliis locis expressius exponuntur. Et ipsa etiam occultatio fìgurarum utilis est ad exercitium studiosorum, et contra irrisiones infidelium; de quibus dicitur: Nolite sanctum dare canibus.
Ad tertium dicendum, quod, sicut docet Dionysius, magis est conveniens quod divina in Scripturis tradantur sub figuris vilium corporum quad nobilium. Et hoc propter tria. Primo, quia per hoc magis liberatur humanus animus ab errore... Secundo, quia hic modus convenientior est cognitioni quam de Deo habemus in hac vita... Tertio, quia per hujusmodi, divina magis occultantur indignis».
Come si vede, il senso parabolico è dunque, attraverso la metafora, ricondotto al senso letterale, e S. Tommaso è chiamato a definite la differenza che nelle Scritture, nell'accezione piri ampia del termine, la metafora assume. Tutta la «Questione» dell'Aquinate, e proprio con la stessa immagine «Dei brachium», vien da Dante sintetizzata a Par. IV, 4.3-8:

Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio, ed altro intende;

e Santa Chiesa con aspetto umano
Gabriel e Miche! vi rappresenta,
e l'altro che Tobia rifece sano.

Del resto, la differenza di cui sopra, tradizionale nell'esegesi biblica, era stata ripresa e quadrifariamente esemplificata, nel suo Commento al Cantico, da Remigio de' Girolami, il maestro di Dante:

... Sensus enim metaphoricus sub litterali reponitur. Unde, cum ipse (Spiritus), secundum omnes sanctos, in isto libro loquatur de Christo et Ecclesia sub metaphora spensi et sponsae carnaliter, certum est, quod sensus ille, cum alias dicitur pertinere ad allegoriam, hic pertinet ad litteram (nostri i corsivi). Item etiam, cum sub metaphora sponsi et sponsae carnaliter videatur Ioqui de omni sponso et sponsa spirituali, cum sponsa spiritualis Christi non solum sit Ecdesia militans, sed etiam Ecclesia triumphans, et etiam anima fidelis, videtur sub litterali sensu non solum sensus allegoricus, immo etiam tropologicus et anagogico contineri...

Remigio de' Girolami, come chiaramente vedesi, non solo sottolinea la dicotomia tra l'uso della metafora nelle Scritture, già stabilita da San Tommaso, ma addirittura nell'intricato mondo dell'esegesi afferma evidenziando che il criterio basilare per collegare la metafora al senso letterale o allegorico è legato all'autore del testo, Autore divino - «hic pertinet ad litteram» - o umano - «ad allegoriam» -, criterio basilare dell'intenzione dell'autore e per consequens dell'esegeta.
La metafora, in altre parole, diventa così vertiente tra le Scritture, e il suo defluire nell'uno o nell'altro dei sensi è dovuto ad una scelta aprioristica ed esterna al testo, da identificare con il principio fideistico, principio e cardine dell'esegesi biblica, e con la dicotomica teleologia, per ripetere con San Tommaso, «propter repraesentationem», il cui fine dunque è la «delectatio», e «propter necessitatem et utilitatem», il cui fine è invece la «salvatio». A conclusione ci sia dato di enucleare il tutto nel grafico seguente:

Scritture  Autore  metafora: a) senso letterale; b) senso allegorico

La differenza dunque tra il Convivio e l'Epistola a Cangrande, alla luce di quanto è stato fin qui discusso, si estende quindi fino a quei limiti apertamente dichiarati o suggeriti di esterna scelta atti a provare chi è l'autore vero o alluso, delle opere da chiosare: la Canzone del Convivio e la Divina Commedia. Differenza che si rivelerà magistralmente nell'opposizione sottile tra i due termini fondamentali di necessità (di registrare il proprio nome nella Commedia, in Pur g. XXX, 63) e di non-necessità nel Convivio (I, ii, 3).
In altre parole, il problema dell'autore non materiale, che è Dante, ma dell'autore vero o alluso, e cioè lo Spirito Santo di cui Dante alla maniera di tutti gli altri «scribi divini» vuol apparire «instrumentum».
E sarà proprio una metafora, quella. del pane e del suo artefice, quel principium individuationis - e il termine necessità - che ci permetterà di provare questo nostro assunto.

Ma prima sarà opportuno ritornare alla teoria dei «sensi» nel Convivio e nell'Epistola per far rilevare in quali punti il Poeta concordi e discordi. Come si sa, la successione dei «sensi» da quello letterale a quello anagogico è uguale sia nel Convivio che nell' Epistola, ed è quella che vuole il senso allegorico anteposto al tropologico, successione già definita come la tradizionale e classica, e tipica di San Tommaso e dei domenicani, contro San Bonaventura e i francescani.
Un secondo punto in comune, se teniam presente il supplemento del testo Della Torre - non accettato dal Moore - l'avremmo ancora nella successione dei «sensi» seguiti dal rispettivo exemplum che invece non appare nel testo dell'edizione critica.
Si veda del resto:

Convivio

(testo critico)

1. senso letterale: Le favole dei poeti

2. senso allegorico: Orfeo

(Della Torre)

1. letterale: Canzone III (Nobilitade)

2. allegorico: Orfeo

3. senso tropologico: Trasfigurazione di Cristo e i tre disc. («in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia»).

4. senso anagogico: Salmo CXIII: canto del Profeta («e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso letterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria, si come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l'uscita del popolo d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Che avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate»).

Epistola

1. letterale: Salmo CXIII («exitus fIliorum Israel de Egipto, tempere Moysis»).

2. allegorico: Salmo CXIII («nostra redemptio facta per Christum»)

3. tropologico: Salmo CXIII («conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratie»)

4. anagogico: Salmo CXIII. («significatur exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem»)

Come si può agevolmente vedere, mentre la successione dei «sensi» si presenta dimorfa e dinamicamente reversibile nel Convivio, e con la stessa equazione antitetica poeta  profeta, che abbiamo fatto rilevare a proposito di Alano de Insulis, rigorosa ed unitaria diventa nell'Epistola dove però lo stesso exemplum del senso anagogico nel Convivio, quello cioè del Salmo CXIII, diventerà ragion sufficiente. Ma quel che più deve essere sottolineato, è che già nel Convivio troviamo gli elementi necessari per tale scelta, e cioè la stretta interdipendenza tra il senso letterale e quello anagogico che riapparirà ad verbum nell'Epistola, e soprattutto la natura profetica del Salmo CXIII, quello appunto che nell’esegesi di Ugo di Santo Caro, per citare l'esegeta già segnalato dal Busnelli e Vandelli, diventerà il salmo della visione di Dio.
Si veda del resto nella Expositio in Psal. CXIII:

In exitu Israel, etc.] Tit. Alleluia. Supra invitavit Gentes ad laudem: In isto Psalmo invitat litteraliter Judaeos, recolendo Dei beneficia sibi facta: Spiritualiter autem Christianos, qui sunt novus popolus Domini, quibus per quaedam beneficia antiquo populo collata in hoc Psalm. ostendit Propheta: quae, et quanta beneficia Dominus spiritualiter conferat. Unde et alleluja, quae est vox laudis, praeponitur. Intentionem vocat ad laudem, et cultum veri Dei. Modus: Tripartitus est Psalmus. In prima parte dicit Propheta, quae mirabilia fecit Deus, Judaeis in figura, Christianis in spiritu. In secunda, quare Deus hoc fecerit, ibi [Quid est tibi mare] Et solvit, ibi [A facie]. In tertia simulacra Gentium inania esse demonstrat, et Religionem Christianam commendat, ibi [simulacra] Dicit itaque; In exitu Israel de Aegipto] i. e., duro ille populus ad litteram veniret de Aegipto. Domus J acob de populo Barbaro] Idem est: Barbari enim sunt omnes praeter Graecos, Haebraeos, et Latinos. De hoc exitu habetur Exod. 12...
Alleg. In exitu Israel] i. e., populi Christiani, Deum videntis per fidem. De Aegipto] vel ad litter., quia de Aegipto, et aliis gentibus conversi sunt ad fìdem. Vel de Aegipto, i. e., de tenebris infìdelitatis. Et in exitu Domus Jacob] i. e., Ecclesiae, contra vita luctantis. De populo barbaro] i. e., infi.delium: vel Demonum. Omnis enim lingua, guae Deum non confitetur, barbara est.
Moral. In exitu...] i. c. cum homo Deum habens prae oculis, cui timor Dei est ante oculos ejus, exire vult de tenebris, et ergastulo peccatorum, de Munda al clastrum. Et Domus Jacob] i. e., cum illi, qui volunt resistere, et luctari contra vitia, et Diabolum supplantare, volunt exire. De populo barbaro] i. de coetu peccatorum quorum lingua barbara est, eo quod non laudat, sed magis blasphemat...
Anagogice etiam posset legis breviter. In exitu...] Curo enim anima sancta exit de corpore, tunc exit Israel. De Aegipto] qnia exit de tenebris ad lucem, ut videat Deum facie ad fadem... Facta est Judaea] i. terra promissionis... .

E anche ad osservatore superficiale apparirà evidente la relazione tra il commento di Ugo di Santo Caro, così vario ed articolato, e la consapevole scelta dantesca, e massime se traguardata attraverso il commento solo «morale» del francescano Nicola da Lyra che ha scritto: «Moraliter autem potest exponi de Dei beneficio circa quemlibet Christianum de peccatis egressum... de tenebra peccati... [Facta est Judea] i.e. perfecta conversio» ; scelta che permette di stabilire, dunque, una capitale dicotomia tra i due Commenti sul piano dell'accessus e per consequens la linea seguita dai Commentatori antichi consapevoli, e quella che noi dobbiamo seguire.
Quello però che a noi interessa mostrare è la stretta relazione ed interdipendenza ma in forma antitetica che corre tra il senso allegorico dei poeti e quello dei teologi negli exempla danteschi.
Si veda:

Convivio

«senso allegorico»: ...L'altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sè muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d'arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre.

Epistola

«si ad allegoriam (inspiciamus), nobis significatur nostra redemptio facta per Christum...»

Orbene, quando il Poeta nel Convivio scrive che «veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti», sia pur per preterizione si dimostra ben conscio che proprio il mito d'Orfeo e l'identificazione tipologica Orfeo-Cristo era stato «as ancient a theme as Christianity itself, and one of the major Medieval and Renaissance interpretations of the classical myth devotes itself to elaborating the parallelism» . Di questa tradizione la Metamorphosis Ovidiana attribuita al domenicano Tommaso Walleys ma probabilmente di Berchorius può essere considerata addirittura caratteristica e presa quale esempio limite. In essa Orfeo, figlio del sole, è Cristo, figlio di Dio, legato ad Euridice, l'anima umana, «per specialem praerogativam a principio». Quando l'anima umana venne «morsa» dal peccato e trascinata nell'Inferno, personalmente Orfeo-Cristo discese a riscattarla, al canto della parola divina e della croce suonata come una lira. Interpretazione tipologica che continuerà ad essere riecheggiata e diventerà tema ricorrente nel dramma spagnolo fino al XVIII secolo, e ancora per dirla con il Wasserman non sarà dimenticata dal Pope nell'Ode for Musick.
E a proposito del mito d'Orfeo, sarà importante far rilevare che Dante del mito, quale appare nel Commento alle Metamorfosi di Arnolfo, cita soltanto l'ultima parte, tralasciando il significato allegorico di Euridice, consapevole forse della fine peccaminosa del poeta come narrata nel testo dell'Ovide moralisé:

Trop est crueulz à desmesure
Teulz amours où contre nature
Mes pour son duel reconforter
Se vault aus malles deporter,
Dont il usoit en leu de fame
S'en perdi puis le cors et l'ame

[…]

Trop est crueulz à desmesure
Teulz amours où contre nature
Get I'en dou malie femelin
Sanz nulle esperance de lin .

Di fronte a così contrastanti soluzioni che il mito d'Orfeo inchiude, non ci sorprenderemo se il poeta greco perderà ogni nominanza nella Commedia, dove invece emergerà il nuovo typus-Christi, nei due simboli cristomimetici del Veltro e del DXV, teologico-politicamente ricondotti ad Arrigo VII e più in generale ad un Imperatore, di cui Dante sarà il profeta, come dimostreremo più avanti, e come ribadiremo piri oltre. (v. Ila parte).
Quanto ad Arnolfo d'Orléans, aggiungeremo che riteniamo che la chiusa del Convivio: «Io adunque, per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosta veritade; e talvolta de li altri sensi toccherò incidentalmente, come a luogo e a tempo si converrà», (II, i, 15) appare se non direttamente desunta, certo molto cda vicino accostata alla dichiarazione quale leggesi nell'introduzione ai vasi libri da parte di Arnolfo che scrive d'interpretare: «Modo quasdam allegorice, quasdam moraliter (exponam) et quasdam historice». Facendo intendere distintamente così che «egli non darà di ogni mito un significato triplice ma, per ogni singola favola, una sola interpretazione o morale, o storica, o naturalistica. E precisamente in quest’ordine, giacché la moralità è l'oggetto principale della sua elucubrazione» .
Se anche questo è il programma di Dante nel Convivio, un'ulteriore giustificazione trova la lezione del Della Torre, perché cita delle Canzoni proprio quella Canzone III, «Le dolci rime d'amor ch'i' solia», di cui Dante dichiara «non sarà dunque mestiere ne la esposizione di costei [cioè della Canzone] alcuna allegoria aprire, ma solamente la sentenza secondo la lettera ragionare (IV, i, 11)», attenendosi dunque alla premessa che prevede disgiuntivamente l'impiego dei sensi, e creando per contro un contrasto profondo e perfino un rovesciamento di posizione relativamente all'impiego dei sensi nell'Epistola e quindi nella Commedia, ove la scelta del solo Salmo CXIII, impiegato però parametricamente con la successione globale dei sensi, sembra suggerire il metodo di lettura polisemo continuamente; e ciò dovrebbe togliere ogni autorità al luogo comune dei sostenitori della teoria dell'impiego dei sensi disgiuntivamente o, addirittura, ridotto ai soli luoghi dal Poeta segnalati.
Sulla lezione del Della Torre e su quest'ultimo punto ritorneremo ancora, e abbiamo argomenti già per avvertire quanto più complesso sia il problema, che crediamo addirittura uno dei punti di più alta audacia del Poeta.

Con questo in mente, si torni dunque alla metafora che abbiamo definito la vertiente fondamentale tra il Convivio e l'Epistola e quindi la Commedia. La Canzone I del Trattato II, nella cui larga chiosa appare la teoria dei sensi esposta nel Convivio, si chiude con i ben noti versi:

Canzone, io credo che saranno radi
color che tua ragione intendan bene,
tanto la parli faticosa e forte.
Onde, se per ventura elli addivene
che tu dinanzi da persone vadi
che non ti paian d'essa bene accorte,
allor ti priego che ti riconforte,
dicendo Ior, diletta mia novella:
«Ponete mente almen com'io son bella!»
(vv. 53-61).

Già è celebre l'accorato e pur consapevole commento, ma sarà opportuno ripeterlo per quel che più oltre diremo.
«E però dico» afferma il Poeta «al presente che la bontade e la bellezza di ciascuno sermone sono intra loro partite e diverse: chè la bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne l'ornamento de le parole; e l'una e l'altra è con diletto, avvegna che la bontade sia massimamente dilettosa. Onde con ciò sia cosa che la bontade di questa canzone fosse malagevole a sentire per le diverse persone che in essa s'inducono a parlare, dove si richieggiono molte distinzioni, e la bellezza fosse agevole a vedere, parvemi mestiero e la canzone che per li altri si ponesse più mente a la bellezza che a la bontade...», e Dante conchiude: «O uomini, che vedere non potete la sentenza di questa canzone, non la rifiutare però; ma ponete mente a la sua bellezza, ch'è grande sì per costruzione, la quale si pertiene a Ii gramatici, sì per l'ordine del sermone, che si pertiene a li rettorici, si per lo numero de le sue parti, che si pertiene a li musici. Le quali cose in essa si possono belle vedere, per chi guarda» (Conv. II, xi, 5; 9-10).
In quest’eulogistico sottolineare l'euritmia della Canzone, ciò che conta per il momento è il far rilevare che ci troviamo di fronte in nuce ai molti Addresses to the Readers, per usare una formula che l'Auerbach e lo Spitzer hanno sia pur diversamente resa canonica.
Si consideri precipuamente quello di Paradiso II:

O voi che siete in piccioletta barca,
disiderosi d'ascoltar, seguiti
dietro al mio Iegno che cantando varca,

tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché, forse,
perdendo me rimarreste smarriti.

L'acqua ch'io prendo già mai non si corse:
Minerva spira, e conducemi Apollo,
e nove Muse mi dimostran I'Orse,

Voi altri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,

metter potete ben per l'alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l'acqua che ritorna equale.

Que' gloriosi che passato a Colco
non s'ammiraron come voi farete,
quando Iason vider fatto bifolco
(vv. 1-18),

ove ritroviamo solo la dicotomia dei lettori, «O voi che siete» e «Voi altri pochi», ma diversa da quella della tornata della Canzone e nella chiosa, cosi la presenza-assenza suggerita del Poeta quale interprete: «tornate... non vi mettete in pelago, che, forse / perdendo me rimarreste smarriti».
A questo poi non mancheremo di aggiungere la metafora del «pane» e quella ben altrimenti significativa della «navigazione» che ricalca puntualmente la metafora d'apertura di quello stesso Trattato II di Convivio ove, ma capovolta e quasi antitetica, appare anche la metafora del «pane», non più degli angeli ma «pane orzato».
Si veda del resto, e si compari:

Poi che proemialmente ragionando, me ministro, è lo mio pane ne lo precedente trattato con sufficienza preparato, lo tempo chiama e domanda la mia nave uscir di porto; per che, dirizzato l'artimone de la ragione a l'òra del mio desiderio, entro in pelago con isperanza di dolce cammino e di salutevole porto e laudabile ne la fine de la mia cena. Ma però che più profittabile sia questo mio cibo, prima che vegna la prima vivanda voglio mostrare come mangiare si dee (Conv. II, i, 1) (nostri i corsivi).

Tralasciando per il momento la pur allettante metafora della navigazione e la «parallela» simmetria «a similibus» ed «a contrariis» dei pelaghi nei passi citati di Convivio e della Commedia, provata dall'opposizione nel Poema tra il «pelago» e l'«alto sale» (Par. II, vv. 5, 13), e su cui torneremo, sia doveroso invece sottolineare che in Convivio Dante parla di «mio cibo» e di come «mangiare si dee», e quindi di un cibo, e cioè di pane sia pur orzato «...del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale sorgerà là dove l'usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce» (Conv. I, xiii, 12); pane orzato che se pur trattato e definito in maniera quasi-soteriologica, per quei riferimenti così scoperti ai testi evangelici e biblici, non si può certo identificare con l'altro pane, quello degli angeli di cui si parla nella Commedia, e che anche nel Convivio stesso (I, i, 7), operata la «distinzione», appare.
Orbene, se noi consideriamo attentamente la linea dialitica che separa i due pani, noi ci rendiamo ben conto delle varie e diverse dimensioni che assumono gli Artefici dei pani e gli Interpreti, e quindi ci troviamo di fronte ad un fatto nuovo, e cioè al Poeta, Artefice ed Interprete nel Convivio e al Poeta, Artefice-ispirato-istrumento ed Interprete nel Poema a cui veramente «ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 2), e pertanto non ci sorprenderà la ben diversa regola ermeneutica che Dante impiega descrivendo i due accessus, diadica diremmo nel Convivio, con la distinzione tra le due allegorie, rigorosa ed unitaria nell'Epistola.
E a questo proposito, con il Pézard, potremmo anche noi ripetere che se nel Convivio si nota un «ton quasi religieux», e un desiderio di fare «d'une théorie littéraire, une application en quelque sorte théologique» , nella Commedia, invece, «les règles de la poesie, notamment la règle capitale des quatte sens..., sont un emprunt à l'usage des théologiens; et à juste titre, car la théologie est en fait une 'poésie de Dieu' [Boccaccio]» . Ma dobbiamo anche aggiungere che quell'ancorare al senso letterale tutto il suo sistema esegetico tanto nel Convivio - e proprio in grazia della distinzione tra le due allegorie - quanto nel Monarchia (che diventa così anello indispensabile) e nell'Epistola, come fa il Poeta, mentre da un lato rincalza ancor più il fondo teologico dall'altro lo svela dominatore accorto dell'epistemologia ermeneutica perfino nella scelta del mito d'Orfeo cioè d'uno dei miti in cui più evidente appare il fondo «istoriale» ; e anche questo fondo «istoriale» entrerà nell'ordito necessario ed indispensabile sul quale Dante tesserà la sua immensa tela nella Commedia, quando tutta la storia e la istorialità dei popoli eletti soprattutto sarà catalizzata dall'idea provvidenziale dell’universo, quando dunque la sola e vera finzione sarà non il Poema qua Poema, ma il Poema qua sovrumana impresa di scrivere - impiegando la nota e felicissima definizione del Singleton - in «a God’s way of writing», in forma e in modo non meno provvidenziale.
Queste idee interdipendenti e conseguenziali, del Poeta quale scriba Dei e della provvidenzialità, su cui torneremo nella pante IIa, riconsiderate qui alla luce delle fonti più o meno dirette enucleate nei corso del presente lavoro, dalla preminenza del senso letterale sul fondamento della fede, come s'è visto negli autori citati quali esempi limite, alla distinzione di Alano tra il Poeta e il Profeta, in accordo del resto con le teorie musicali da Boezio fino al XIII secolo, e tale da separare le allegorie dei poeti da quelle dei teologi, e infine alla distinzione bernardiana tra l'Autore e l'interprete incentrata nella metafora del libro-pane:

...Itaque parate fauces, non lacti, sed pani. Est panis apud Salomonem, isque admodum splendidus sapidusque; Iibrum dico, qui Cantica Canticorum inscribitur... Sed qui franget? Adest paterfamilias; cognoscite Dominum in fractione panis. Quis enim alter idoneus?... Oculi omnium in te sperant, Domine. Parvuli petierunt panem; non est qui frangat eis; speratur id a benignitate tua. O piissime frange esurientibus panem tuum, meis quidem, si dignaris, manibus, sed tuis viribus (nostri i corsivi),

ci permetteranno di chiarire sempre più non solo l'intenzione del!' autore, per dirla sia pur in maniera uguale ma diversa col Barbi e con la tradizione esegetica medievale, ma anche ad una più soddisfacente definizione del Poema, oggi ancora incerta tra l'allegoria e la rivelazione e la profezia e il romanzo teologico, per mezzo di un'assunzione aprioristica concessa al dantologo e consapevolmente suggerita dal Poeta con la dicotomica od unitaria confluenza, o meno, della Bellezza nella Verità, come reductio ad Deum vel Veritatem.
La differenza tra il Convivio e l'Epistola, e quindi la Commedia, che il nostro studio sull'accessus dal punto di vista epistemologico ha dimostrato irta di sottili distinzioni, sarà da cercare proprio in quel principium individuationis rappresentato non solo dall'intenzione dell'autore, ma in quello ben più allusivo dell'autore-interprete qua autore-interprete o solo qua interprete e che si biforca nel Convivio nell'artefice e «ministro» del «pane orzato» e nella Commedia nel solo «instrumentum-ministro» del «pan degli angeli», e cioè «ministro della Filosofia» nel primo caso e di «Beatrice» nel secondo. E se tra il Convivio e la Commedia qualcosa di straordinario è avvenuto, sarà quel che già avvertito nello stesso Convivio, nel Trattata IV: «E così infrenato mostra Virgilio, Io maggior nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo Eneida ove questa etade si figura... Quanto spronare fu quello, quando esso Enea sostenette solo con Sibilla a intrare ne lo Inferno a cercare de l'anima di suo padre Anchise, contra tanti pericoli, come nel sesto de la detta istoria si dimostra» (xxvi, 8-9), e cioè la riscoperta di Virgilio e dell'Eneide, insieme con la riscoperta della missione soteriologica d'Enea e di Roma, provvidenzialmente collegate con la nascita di Davide, figura-Christi entrambi. Né taceremo il non meno provvidenziale profetare di Virgilio: «... Onde non da forza fu principalmente preso per la romana gente, ma da divina prooedenza, che è sopra ogni ragione. E in ciò s'accorda Virgilio nel primo de lo Eneida, quando dice, in persona di Dio parlando: «A costoro - cioè a li Romani - né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio senza fine» (iv, 11-12), ripetuto nel Monarchia (II, ili, 28) - dove lo stesso passo già citato vien ad litteram trascritto e Virgilio, allegato insieme con i testi scritturali, vien definito 'divinus poeta noster' -).
E sarà la folgorazione provvidenziale che farà scrivere a Dante nell'Epistola: «... Quod si cuiquam quod asseritur nunc videtur indignum, Spiritum Sanctum audiat, amicitie sue particips quosdam homines profitentem; nam in Sapientia de sapientia legitur «quoniam infinitus thesaurus est hominibus, quo qui usi sunt, participes facti sunt amicitie Dei» (XIII, 6-7), e cioè quella definizione dello Spirito Santo, quale autore - e considerata dal D'Ovidio ragion sufficiente per rigettare l'Epistola -, che nel Monarchia, e proprio nella serie degli exempla relativi al senso letterale e a quello mistico, diventerà prima un «Non peccatur in Moysen... sed in Spiritum Sanctum, qui loquitur in illis», e immediatamente dopo un categorico «unicus tamen dictator est Deus» (III, iv, 84-6 ).
Sarà cioè quella stessa folgorazione provvidenziale che indurrà il Poeta, nell'Epistola ai Cardinali, dopo aver citato il temerario exemplum di Oza («Forsitan et quis iste, qui Oze repentinum supplicium non formidans, ad arcam, quamvis labantem, se erigit?' indignanter obiurgabitis»), a scrivere accoratissimamente ma con la forza che solo il Cielo sembra poter autorizzare: «Quippe de ovibus pascue Iesu Christi minima una sum; quippe nulla pastorali auctoritate abutens, quoniam divitie mecum non sunt. Non ergo divitiarum, sed gratia Dei sum id quod sum, et ‘zelus domus eius comedit me'» (Xl, 9-10), a legare il Poema al verbo contingere («Se mai continga che il poema sacro...» Par. XXV, 1) - verbo provvidenziale qui per eccellenza, come dimostreremo, sulla scorta di S. Tommaso, nella IIIa parte, e da considerare interdipendente con la necessità di dover registrare il proprio nome, Dante, in Purg. XXX, 55 -, e infine a scegliere per la sua autoesegesi, nell'Epistola a Cangrande, proprio l’exemplum del Salmo CXIII, «In exitu Israel» , salmo profetico per eccellenza e culminante con la visione di Dio.
La sola, la visione trinitaria, dico, «pinta de la nostra effige» (Par. XXXIII, 131) per la quale - e siamo i primi a farlo rilevare - il Poeta-dramatis persona, e figura del senso letterale confluirà strategicamente (come più oltre dettagliatamente si vedrà) nel senso anagogico quando cioè uscito «de tenebris ad lucem» vedrà «Deum facie ad faciem» congiunto, per grazie speciale, «civibus coeli» («sanza fine cive / di quella Roma ove Cristo è romano» - (Purg. XXXII, 101-2), e cioè «Angelis et sanctis Animabus», come leggiamo sempre in Ugo di Santo Caro nel commento al Salmo CXIII e proprio nello exemplum del senso anagogico.

Date: 2022-01-18