A proposito della città di Dite [Umberto Moricca]

Dati bibliografici

Autore: Umberto Moricca

Tratto da: Giornale Dantesco

Volume: XXII

Anno: 1914

Pagine: 264-187

Il signor Lorenzo Filomusi-Guelfi, a pagine 239-243 di un suo recente volume (Paralipomeni danteschi, pubblicato a cura della Casa Ed. S. Lapi), con un articoletto a cui dà il titolo di Critica allegra prende graziosamente a confutare la mia Città di Dite comparsa. in Giornale dantesco, anno XXI, pagg. 1-38.
Prima però eh' io attenda a discorrere delle. obbiezioni mossemi dal signor Filomusi, bisognerà pur che risponda ad alcune questioni che, veramente, non han nulla a che vedere con la Città di Dite.
Il signor Filomusi a pag. 243 in una noticina più che allegra, anzi spiritosissima, da farti proprio smascellar dalle risa quand'anche non ne abbia la voglia, ha il merito incontestabile di aver fatto alle sue poche diecine di lettori (vedi op. cit., pag. VII. Il signor Filomusi, modestissimo com’egli è, non ne desidera di più!), strombazzandola ai quattro venti come una vittoria da non dirsi, una considerevole scoperta. (Peccato eh' essa, in verità, giunge ai lettori del signor Filomusi un po' troppo tardi!...). Ha scoperto, dunque, con l'aiuto della Relazione del Rettore dell'Università di Roma ch’io, nientemeno, mi son laureato in lettere, con lode, nell'estate del 1913; e che, siccome la mia Città di Dite è stata pubblicata nel dicembre del 1912, essa evidentemente e naturalmente è stata composta quand’io ero ancora studente di quarto, se non di terz’anno d'università. Povero signor Filomusi! mi assomiglia a un di quei cosiddetti mozzorecchi che, trattando o maltrattando una causa in Tribunale, alzano a un tratto la voce, si accendono in volto e nella foga della declamazione ti fanno uno sproloquio su dei particolari del tutto, o quasi, estranei alla loro causa, ma crassa ignoranza, che eh' essi credono, per debbano necessariamente esercitare sull'animo dei giudici un'influenza straordinaria. Di simil fallo il signor Filomusi pecca più d' una volta, come vedremo, nella sua Critica allegra.... fra l'allegria di tanti allegri argomenti!... Intanto mi si permetta eh' io chiarisca e rettifichi, certe sue curiosissime congetture.
Egli, estremamente buono ed umano, non sa proprio rassegnarsi a vedere così miserevolmente crollare l'edificio della mia Città di Dite sotto i colpi spaventevoli vedremo più tardi quali siano!) della sua critica; e giudice terribile quanto clemente, cerca delle attenuanti per il mio caso infelice nel fatto che il mio studio reca la data dell'anno nel quale io non ero ancora che uno studentello di terzo o quart'anno d'università. E, come se questo non bastasse, pensa e ripensa, premi e spremi... ed ecco ti cava fuori un'altra attenuante assai più stupefacente della prima: che cioè vi dev’essere stato chi mi abbia incoraggiato a pubblicare un compito scolastico. A parte il fatto che il signor Filomusi si mostra sempre dominato da un ombroso pregiudizio, molto simile, psichiatricamente parlando, alla mania di persecuzione, che tutti cioè di lui si preoccupino, tutti parlino o sparlino di lui, tutti non abbiano in mente al mondo altro che lui (anche nella Critica di coalizione, op. cit., pag. 245 fantastica che il P. Busnelli è stato incaricato dal Parodi a scrivere contro di lui: «Il Parodi... affida al suo ammiratore, il P. Busnelli, l'incarico di dare... notizia delle mie due ultime pubblicazioni...: naturalmente, il P. Busnelli accetta quest'incarico col maggior piacere, perché ciò gli fornisce l' occasione di difender sé stesso e il suo Parodi ecc, ecc.» ), a parte, ripeto, tutto questo, il signor Filomusi non immagina menomamente che le cose possono stare in ben altro modo.
Abbia ora egli la compiacenza di dar un tantino di tregua al suo molto maniaco furore, e sappia fin d'ora ch’io mi son laureato invece... (indovinala grillo!...) in letteratura latina; sappia ancora, poiché di notizie biografiche a mio riguardo egli si mostra assai ghiotto, che del latino e del greco io sono appassionatissimo studioso e in certo modo anche, modestia a parte, un tantino competente; si che già da due anni insegno materie letterarie nei RR. Ginnasi superiori del bello italo regno; sappia inoltre ch' io durante i miei studi non ho mai goduto della benché minima esortazione da parte di nessun maestro; che non ho mai riconosciuto limiti d'età né freni di scuola per quel che riguardasse la mia educazione intellettuale, ma ho mirato e miro assiduamente con occhio d'amore a una cosa sola : lo studio come a me piace; sappia il signor Filomusi che ho sempre disprezzato le opinioni degli altri perché ne ho avuta sempre qualcuna mia propria; eh' egli in fin dei conti l'ha da fare con me, cioè con una creatura di Dio, che non ha mai ammesso autorità di sorta al di sopra di sé, ch’è stata sempre avvezza a dir corna e corna di tutti quelli che credono, com’egli crede, di contar qualche cosa a questo mondo; ed è capace di farlo girare come un quattrino sulla palma d'una mano.
Quand'abbia saputo tutto questo, il signor Filomusi si rassegnerà, spero, cli buon grado a credere che Dante, dopo tutto, può piacermi moltissimo, e che posso occuparmene con amore e con scienza, essendo egli, com'è noto, il genio del medioevo che direttamente si riallaccia con la gloriosa tradizione letteraria latina, oggetto speciale dei miei studi ; mi permetterà, spero, (bontà sua, del resto !) di affermare solennemente che la mia Città di Ditee non è stato affatto un semplice compito scolastico, com’egli suppone, ma uno studio meditato e scritto con l'unico intendimento di far cosa utile al progresso degli studi danteschi. Quindi via i maestri, via le suocere e le nuore che abbarbagliano la piccioletta mente del povero signor Filomusi! Il quale con una mal dissimulata cert'aria, che vuol essere di superiorità, ma che invece è il meschino atteggiamento di chi, sapendosi sopraffatto, cerca avvilire il proprio avversario con volgari insolenze, sistema questo troppo antico e troppo frequente in critica, perché anche il più ingenuo oramai abbia ad accorgersene, parla di me come di un giovinetto (vedi la spiritosa noticina a pag. 243), come di uno studentello inesperto ed imberbe, come, insomma, di un essere che bisogna metter da parte, che non ha voce in capitolo, del quale non fa conto in nessun modo occuparsi.
Via! Il signor Filomusi, per amor del cielo, le smetta una buona volta codeste arie; tanto più che a lui, per la qualità del personaggio, non sono punto appropriate!!... Egli pensi a confutare, come non ha saputo fare sino ad oggi, quello ch’io ho scritto contro le sue strampalerie, e non si curi di siffatte ridicole e insensate puerilità! Ché non si acquistano arie di grandezza sol perché si lanciano, per accecarli, sugli occhi del pubblico, come coriandoli, volumi e volumi ogni mese ed ogni anno! Il signor Filomusi si persuada inoltre che autorità non hanno i suoi... così vantati volumi, i quali del resto non serbano alcuna unità di argomento, essendo composti di tanti disparatissimi articoletti pubblicati alla spicciolata in qualche periodico e poi raccolti, anzi accozzati in volumi; ch’essi son destinati a sonnecchiare sotto la polvere negli scaffali di qualche Biblioteca che li riceva per diritto di stampa, e che nessuno li legge, se non allo scopo di confutarli o, in qualsiasi caso, di parlarne, come a me accadde, per debito di critica; si persuada d'essere uno dei tanti che non hanno ancora nessuna direttiva e organicità di pensiero, d'essere un ingegno, come benissimo lo definì il Parodi, più sottile che acuto, più minuzioso che largo, d'essere, come lo definisco io, un fastidiosissimo spigolatore di preziosità dantesche!...
Il signor Filomusi, dunque, quando cita sé stesso, dica piuttosto: - i miei articoletti - e non: - i miei volumi -; sarà così lodato di modestia e di buonsenso.
Ritornando ora all'argomento di poc'anzi, io non so invero quale altra grande sorpresa deve aver ricevuto il signor Filomusi, quando ha pensato che gli altri miei scritterelli danteschi, comparsi nel Giornale prima della Città di Dite debbon essere stati composti quand'io ero ancora addirittura un bambino. Signor Filomusi, quando mai saranno stati essi scritti?! che corso universitario frequentavo mai allora?! Ecco una questione che il signor Filomusi potrebbe da par suo ottimamente affrontare, e con la solita sagacia, e con l’aiuto di qualche documento del tempo, risolvere in un suo studio da inserire poi in una prossima raccolta di articoletti d' argomento affine, alla quale potrebbe dare, per esempio, il titolo di «Critica allegra». Non pare a Lei una buona, un'ottima idea cotesta, signor Filomusi? A me già par di vederlo tutto raggiante di serafica gioia mettere a soqquadro la propria officina per apprestare alle sue... poche diecine di lettori un altro bel volumetto paffuto e grassoccio di un paio di migliaia di pagine!
Ciò premesso, veniamo ora direttamente a parlare della Critica allegra. Ora, si, finalmente che, dopo la Relazione del Rettore dell'Università di Roma, potrò aver la coscienza netta e sicura da farmi innanzi e trattar da pari a pari con Lorenzo Filomusi-Guelfi, cotesto Colosso... di Creta (che, naturalmente, non ha nulla a che vedere con quello di Rodi) per la letteratura dantesca!...
Il signor Filomusi (tralascio a bella posta certe stenterellesche meschinerie, come indegne ch’io le confuti, con le quali comincia il suo scritterello) dice eh' egli non vuole infliggere al lettore la penitenza d'un riassunto del mio studio; ma che tuttavia ne compendierà le conclusioni principali, perché non sembri d'incoraggiare col silenzio... certi sfoghi di grafomania. Ora il lettore ha da sapere che il signor Filomusi ha scritto (vediamo di fargli esitare qualche copia dei suoi volumi): 1) Studi su Dante, Città di Castello, ecc., in-8 pagg. VIII-605; 2) Nuovi studi su Dante, ecc., in-8, pag. 464; 3) Novissimi studi su Dante, ecc., in 08, pagg. IV-216; 4) Paralipomeni danteschi, ecc., in-8, pagg. VIIn-277; in tutto la bellezza di pagine... milleciniquecentottantuna!
Modesto Lorenzino! Non è malato, no, di grafomania lui! non infligge lui alle... sue poche diecine di lettori la penitenza di leggere, se pur le leggono, migliaia di pagine gravi, noiose, petulanti, indigeste come ostriche!
Secondo lui, si è colpevoli di grafomania quando si cerca, com' io feci, di stabilire la verità e di mettere le cose a posto; però lui in questioni di tal genere non c' entra mica, lui che con aria burbanzosa e spavalda ammonisce d'aver confutato questo e quello, come se li avesse, nuovo Rodomonte in quarantaquattresimo, spaccati in due fette con un colpo di lancia. Ma mi fa venire in mente la nota favoletta esopiana, ove si parla di quel tale dalle due bisacce. Ohé! signor Filomusi, a che gioco giochiamo!
A un certo punto egli osserva: «e poiché il signor Moricca mi dà più d'una volta del pedante - anche il d'Ancona poté, dal Bovio, esser detto pedante! - non si meraviglierà ecc.».
Ora io sarei tanto curioso di domandargli quale sia lo scopo di quella parentesi. Pretende forse il signor Filomusi di mettersi al1' altezza del D'Ancona? Via I non è il caso neppur di discorrerne!...
E tiriamo avanti. Il signor Filomusi incomincia dal mio esordio e lo giudica «quanto pretensioso ed enfatico, altrettanto vano e sciatto: vano, perché ripete cose notissime; sciatto, perché il periodo sonante non copre così le frasi improprie, o vaghe, o scorrette, che queste non dian subito la misura... dell’abitudine,... allo scriver proprio, preciso, corretto».
Qui mette conto di fermarcisi un poco. Anzitutto non è vano (e mi dispiace di dover dare delle lezioni) che in un'introduzione, anche a costo di dir cose note, l’autore raccolga insieme le fila delle idee ch’egli svolgerà in seguito, v'imprima quella intonazione eh' esse dovran conservare sino alla fine, le indirizzi a quello scopo che, dopo tutto, è lo scopo stesso del lavoro. Orbene: sappia il signor Filomusi ch’io appunto scrissi l’esordio, avendo di mira proprio lui (ed è prova eloquentissima il fatto ch’egli me lo rimprovera come chi se ne sia sentito pungere), in quanto a me premeva, per il rigore scientifico del mio metodo, checché ne pensi in proposito il signor Filomusi, avvisar fin da principio il lettore che la via da me seguita non sarebbe stata quella degli altri, come, per es., del signor Filomusi, il quale, per le questioni attinenti alla Città di Dite non ha fatto che spiegar Dante con san Tommaso piuttosto che con Dante; come, per es., di «alcuni, tra i quali il Fornaciari, che, pur proponendosi (son parole mie. Le ricorda il signor Filomusi?!) quel fine (cioè, di spiegar Dante con Dante), van tuttavia racimolando dal Purgatorio e dal Paradiso versi e situazioni che non han proprio nulla a che vedere col mito delle Furie e di Medusa nel IX dell'Inferno». Questo allora io scrissi, e frattanto ricordavo, per esempio, che nelle membra e negli atti delle Furie anche Calandrino, alias il signor Filomusi, avea voluto vederci la femmina balba del Canto XIX del Purg. Che poi l'esordio avesse per iscopo d'indicare al lettore quale sarebbe stato il particolare svolgimento del mio lavoro, risulta evidentissimo tuttora, a mio giudizio, dalle parole stesse che vi son contenute, e che il signor Filomusi, non senza qualche furberiola matricolata, ha voluto dimenticare: «Noi dunque in questo studio, presenteremo dapprima, confutandoli secondo quel che a noi sembra contenere maggior forza e sostegno di verità, i risultati ai quali son giunti gli ultimi studiosi di Dante... Passeremo poi alla visione complessiva dell'episodio dantesco e alla esposizione del valore morale e filosofico, eternalmente e universalmente umano, delle circostanze su cui poggia l'avvenimento straordinario ecc. ecc.».
Quanto all' altra gratuita accusa, che il mio modo di periodare ossia il mio stile (ché vale perfettamente lo stesso) è sciatto, che le frasi sono improprie o vagite o scorrette eccetera eccetera, io, di grazia, vorrei chiedere ancor una volta a messer Lorenzo che diavolo abbia inteso egli dire con tutta questa... vocaboleria peregrina ed amena; poiché io, a dirla schietta, non vedo nulla che sia più vano e più sciatto di cotesta bella maniera di esprimersi! Egli infatti avrebbe potuto procurarsi un buon dizionario italiano, e continuare su quel tono a infilzare, senz’altra ispirazione che una bile gretta e maligna, isteriche frasi e vocaboli vuoti affatto d’immagine e di senso.
Io un bel giorno apro, per esempio, le prose dell'Alfieri con tutte le sue bizzarrie e le sue storture, le prose del Carducci e del Foscolo con tutte le loro eleganze e rifioriture declamatorie, leggo alcune pagine e poi giudico, osservando, non senza avvicinarmi per più d'un caso al vero: «Che stile sciatto, vano, pretensioso, enfatico, retorico, prolisso, ecc. ecc.!».
Mi sa dire il signor Filomusi che diavolo verrei a conchiudere con un giudizio di tal fatta? Nulla, se non che mostrarmi pienamente digiuno dei primi elementi di stilistica. Ecco; io non voglio ricorrere a trattati scientifici e superiori, mi contento di citare da un semplicissimo libro di testo scolastico. A pag. 125 io leggo e trascrivo per il signor Filomusi quanto segue: «Non vi sono regole per formarsi uno stile, come non vi sono regole per nascere uomo o pianta, artista di genio o povero di spirito. Si possono imparare le regole della grammatica, le parole d'una lingua; non s’impara a creare. Il modo di esprimere le idee, di comunicarle, pure servendosi di elementi comuni, come la lingua ecc., è affatto particolare a ciascun uomo: chi si serve dei mezzi altrui è scimmia. Lo stile è quanto di più personale si trova in un uomo; non avere stile significa non aver pensiero, non aver carattere, esser privi di fisionomia». Questo a me basta aver trascritto. Ché se il signor Filomusi si fa venire la lodevole voglia di apprendere altre piacevoli ed utili nozioni al riguardo, lo rimando senz'altro all'opera che gli ho citata. Dunque ciascuno è libero di scrivere a suo gusto e talento, o perché allora messer Lorenzo fa il grazioso col rimproverarmi lo stile? Io son certo che se al signor Filomusi io ripetessi, per una sua pagina, quella tale sua filastrocca che abbiam veduto di sopra, egli da uomo di spirito, mi dovrebbe ridere, com' io gli rido, solennemente in faccia; non tanto perché sia sicuro di scriver bene (nessuno può menar questo vanto al mondo, dato che tutti scrivono ciascuno a suo modo), quanto perché a lui piace com’egli scrive e vuole che gli altri lo rispettino in quella parte, come si vuole che si rispettino le persone altrui.
Ecco le ragioni per le quali non vi è cosa che mi sembri più stupida e più insulsa del muovere ad uno scrittore rimproveri, senza prove per giunta, del genere di quelli mossi dal signor Filomusi. Io piuttosto sarei d'avviso che uno scrittore si dovesse rimproverare nel caso ch’egli o fosse sgrammaticato o le sue opinioni fossero errate.
Anche il Carducci (Critica e Arte in Prose ed. da Zanichelli, 1905, pag. 666) in uno sfogo rabbioso contro il Guerzoni giudica: «Né il signor Guerzoni ha diritto a parlare in nome dell'arte, scrittore faticoso, pesante, imbarazzato, gonfio, vano; rimpinzo di retorica; mal fermo nella grammatica, non sicuro nell’ortografia; spropositato di lingua; duro di orecchio; egli non può levarsi giudice di stile e di versificazione ecc. ecc.». È senza dubbio un bel tratto retorico il suo; è un'aspra requisitoria, volta ad impressionare gl’ingenui, ma che non può commuovere il lettore dal giudizio spassionato, come non ha commosso me che ho letto i libri del Guerzoni, e non vi ho mai trovato tutte quelle sgrammaticature e quegli spropositi che in un momento di collera il Carducci avea voluto vederci dentro. Parimenti discorrendo ancora (in Critica e Arte pag. 699) di una poesia dello Zendrini dal titolo Domani è festa il C. scrive: «Bellina non è vero? un po' bolsa, un po' gialla, un po' sbilenca, un po' sucida; ma bellina ecc.». Poesia bolsa, gialla, sbilenca, sucida? Quanto a me, se questi aggettivi non sono i figli legittimi di quella tal collera, io attendo ancora chi si compiaccia di spiegarmi questo rebus. Ma è da credere piuttosto, come tutti credono, che alle volte il Carducci non sapeva neppur egli che diavolo si dicesse, e che in certi momenti di troppo vulcanici sdegni egli apriva la bocca e lasciava parlar lo spirito. Quel che press’a poco accade oggi al nostro signor Filomusi, con la grave differenza che lui non è il Carducci com' io non sono il Guerzoni.
Ad ogni modo io taglio netto e gli dico: «A me piace di scrivere precisamente a quella maniera. Che ci vuol far Ella, caro il mio messère?»
E continuiamo. Il sig. Filomusi a pag. 240 confessa di non poter tacere d'una mia svista, la quale consisterebbe nell'aver io parlato della Civitas Babylonis e della Civitas Dei come di due opere distinte di sant'Agostino. Al solito, il signor Filumusi continua pedantescamente a sillogizzare ché sarebbe in verità, troppo ingenuo il credere ch’io ignori una notiziola non ignorata ormai neppure... dal mio barbiere, che cioè sant'Agostino non ha scritto una Civitas Babylonis.
Gli è in vece, a voler dir lo vero, eh' io, discorrendo cli quella speciale questione, avevo realmente sott'occhio due luoghi appartenenti a due opere di sant’Agostino: l'uno alla Civilas Dei citato dal signor Filomusi; l'altro, che avrebbe dovuto parimenti esser da lui conosciuto e citato, alla Enarratio in Psalmum LXI, 6 dove anche molto similmente e con ben netta distinzione si discorre di una Civitas Dei e di uria Civitas Babylonis: Omnes qui terrena sapiunt, omnes qui felicitatem terrenam Dea praeferunt, omnes qui sua quaerunt, non quae Jesu Christi, AD UNAM ILLAM CIVITATEM PERTINENT QUAE DICITUR BABYLONIA MISTICE ET HABET REGEM DIABOLUM. Omnes aute qui ea quae sursum sunt sapiunt, qui caelestia meditantur, qui cum solicitudine in seculo vivun! ne Deum offendant, qui cavent peccare, quos peccantes non pudet confiteri, humiles, milites, sancti, iusti, pii, boni, OMNES AD UNAM CIVITATEM PERTINENT, QUAE REGEM HABET CHRISTUM. Orbene; non fa certo, io credo, bisogno di un grande sforzo mentale per convincersi che, nel fervore della confutazione, quando a me premeva anzitutto individuare quelle due Civitates, in modo che ne potessi discorrere come di due cose ben distinte l' una dall' altra, e perciò distratto, io abbia parlato di due luoghi, spettanti a due opere diverse di san Agostino, come se l'una di queste due opere trattasse tutta quanta della Civitas Dei e l'altra tutta quanta della Civitas Babylonis. E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni! Ché se il signor Filomusi ha lo stomaco delicato, e un tal modo d'esprimersi gli dà sui nervi, io non so proprio che fare, se non lasciargli credere a bell'agio quel che a lui sembri. Dopo tutto, quanti anche celebri scrittori non sono andati e non vanno soggetti a sviste? Non sarebbe questo un fallo da metter sossopra un tribunale e, molto meno, un fatto tale, come vorrebbe il Signor Filomusi, che basterebbe da solo (accidempoli!) a mostrare con qual preparazione (nientemeno!) io mi sia accinto a trattar questioni dantesche. Ma, a parte ora lo scherzo, l'importante si è invece eh' io ho mosso una grave obbiezione a una delle sue tante minuterie pedantesche... e messer Lorenzo quel tasto li non lo tocca mica!...

Abbiamo con ciò, finalmente, esaurito quel che forma, per così dire, l'introduzione alla Critica allegra.
Passiamo adesso alla parte più seria del lavoro.
Il signor Filomusi osserva: «Le Furie rappresentano le tre specie di violenza, contro il prossimo, contro sé, contro Dio» ma esse sono demoni; quindi, argomenta il signor Moricca, «non v' ha dubbio che la lor presenza indichi in fondo tentazione a peccare». Ma come si concilia la violenza con gli allettamenti, con le astuzie della tentazione a peccare? Come si può, a un tempo, atterrire e allettare? Come, con la suggestione dei propri alti e delle proprie paurose sembianze, ammaliare, attirare, conquistare?
Il signor Filomusi, evidentemente, non ha saputo intendere molte cose pur da me dette e, quel eh' è peggio, non ha neppure saputo rendersi una ragione del testo dantesco, del quale egli vuol passare per profondissimo conoscitore: onde a me tocca anche qui, purtroppo, il compito ingrato di stendere una lezione al signor Filomusi.
Per prima cosa è naturale eh' io mi riferisca specialmente alle pagg. 22-24 del mio studio, dove, sul fondamento dei relativi passi della Summa di san Tommaso, ho dimostrato che ufficio proprio del diavolo è quello di tentare per forza di suggestione o, com'è detto in P. III, q. VIII, a. 7, per mezzo di un signum, posto dinanzi agli occhi, perché sia dagli altri imitato. Ho avvertito inoltre, il che vuol essere una circostanza di gran peso, «che c'è dato nella questione distinguere nettamente i vari rapporti storici, psichici, intrinseci ed estrinseci dell'edificio allegorico, che ci si para dinanzi: la lotta fiera e tremenda tra un'anima perplessa, tentennante, agitata dal bene e dal male, in prossimità d'un atto, che dovrà essere la sua salvezza o la sua rovina, e il diavolo di contro con tutte le sue insidie, con tutti i suoi raggiri, con tutte le sue violenze». Ciò premesso, che cosa trova il signor Filomusi di contraditorio nelle mie interpretazioni dell’allegoria dantesca? che la violenza non si accorda con la tentazione a peccare? Ma che cosa egli crede che debba intendersi per violenza? crede forse che si tratti davvero davvero di assalti, di aggressioni, di ricatti, di brigantaggi e simili lordure?
Il signor Filomusi ha da sapere, quello che del resto tutti oggi sanno, che concetto generale e comune all’intera apologetica cristiana, a cominciare dalla più antica, a noi nota, del II sec. di Cristo tanto greca che latina, è questo, che i demoni non fanno mai violenza all' uomo, nel senso ch’essi, dominando il suo libero arbitrio, lo costringono con la forza a credere alla loro potenza piuttosto che a quella di Dio vivente; ma che tentano di attirarlo, per modo che l’uomo aderisca al loro culto di sua spontanea volontà. Da ciò la credenza che i demoni approfittino sempre degli animi più deboli, più indecisi, più disposti, insomma, ad accogliere i loro malefici influssi, in virtù dei quali essi poi prendono ad insinuarsi a poco a poco nei corpi, e a dominarli in perpetuo; da ciò infine la credenza che i cristiani riuscissero ad esorcizzare gli ossessionati, credenza che si rivela ad ogni piè sospinto negli evangeli, nelle apologie di Atenagora, di Giustino, di Tertulliano, per il 2° secolo, e nelle moltissime dei secoli successivi; pur tacendo di Agostino, di Tommaso e d'altri, nelle cui opere la teoria dei demoni, com'è noto, uscita finalmente da quella vaga indeterminatezza della scuola platonica e neoplatonica, che aveva esercitato una influenza dominante sui primi apologisti, appare più decisa nei suoi contorni, più viva, più corporea e, direi quasi, palpitante di realtà. Ciò posto, a me sembra che non vi sia gran difficoltà per intendere che, se il diavolo non costringe con la forza l'uomo a peccare, tuttavia, sempre all'erta e di notte e di giorno, non fa che escogitar nuovi mezzi opportuni per indurvelo a tutti i costi; e che quella la quale apparentemente può giudicarsi una semplice tentazione, un’influenza suggestiva senza l'idea d'un dominio diretto e prepotente sugli uomini, non è altro in effetti che una violenza bella e buona, un assalto continuo, al quale specialmente soggiacciono le anime deboli e non preparate, come si conviene, alla fede. Gli uomini, in altri termini, non sostenuti da un solido convincimento dell’idea del bene, somigliano, né più né meno, a degl’ingenui fanciulli, non protetti dalla vigilanza paterna, ma che, abbandonati alle insidie del mondo, subiscono, solo per virtù d'esempio, le perniciose conseguenze dell’ambiente corrotto, in mezzo a quale essi per avventura sien posti a vivere, senza che né un uomo determinato né una forza qualsiasi li costringa a coltivare il male piuttosto che il bene. Questo in ultima analisi, vuol essere, e non c’è chi s’ostini a non riconoscerlo, il significato intrinseco, positivo, reale della teoria demoniaca la quale viene così ad acquistare l’importanza d'una allegoria cristiana, ispirata ai più remoti padri della Chiesa dallo spettacolo miserando della tristissima vita umana e infine utilizzata da Dante come il fondamento essenziale della sua prima Cantica: la lotta cioè fra il Diavolo, fra la luce e le tenebre, fra il bene ed il male.
Orbene; se è vero che le Furie, com' io suppongo, sono incarnazioni visibili della potenza del nostro antico avversaro, e, come tali, son da intendere come individualità demoniche, esse necessariamente tengono della natura del diavolo e ne compiono anche tutti gli uffici. E se, ancora, tali uffici in sostanza consistono nell'assalire le nostre anime con assidue tentazioni, le quali, come abbiamo dimostrato, non son altro che violenze morali, le Furie, ossia questi signa diabolica, possono ottimamente erigersi a rappresentare le tre specie di violenza contro il prossimo, contro sé, contro Dio, i tre peccati nei quali si compendia la malvagità umana nelle sue manifestazioni più gravi. Vediamo ora di concludere se il demone, date siffatte premesse, può a un tempo con la suggestione dei propri atti e delle proprie paurose sembianze ammaliare, attirare, conquistare. Si osservi intanto, per l’integrità delle nostre affermazioni, che il diavolo nell’intendimento dei Padri della Chiesa e dei teologi più antichi, altro non era né voleva essere che una rappresentazione simbolica delle varie cupidigie umane, delle nostre cieche e brutali passioni per le felicità momentanee, per le passeggiere soddisfazioni di sensi; rappresentazione la quale nel corso dei secoli - anche questo è noto, - a mano a mano che l’organizzazione della Chiesa cristiana si veniva solidamente sistemando, e che le dottrine teologiche, su cui essa era fondata, si chiarivano e si determinavano, andò soggetta a svariate modificazioni progressive, sino a che assunse limiti, contorni e caratteri d'un vero e proprio personaggio allegorico, arbitro malefico di questo mondo con tutte le sue nequizie e tutte le sue tentazioni. Ed ecco numerosi passi atti a confermare la verità del mio asserto: San Cipriano, de Mortalitate lib.: cum avaritia nobis, cum impeudicitia, cum ira, cum ambitione congressio est, cum carnalibus vitiis, cum illecebris secularibus assidua et molesta luctatio est. Obsessa mens hominis, et undique diaboli infestatione vallata, vix occurrit singulis, vix resistit.
Si avaritia prostrata est exsurgit libido: si libido compressa est, succedit ambitio. Si ambitio contempla est, ira exasperat, instat superbia, violentia invitat etc. Tot perscutiones animus quotidie patitur, tot periculis petus urgetru, et delectat hic inter diaboli gladios diu stare etc. . Sant’Ambrogio, in Psalmum CXVIII. Octon. VIII, 42, vinculum nostrum avaritia est, vinculum nostrum ebrietas est, vinculum nostrum concupiscentia est, vinculum nostrum superbia est. Sunt et diaboli vincula… Ligat nos etiam diabolus criminum nexu, ligat nos vinculo fornicarionis, vinculo adulteri, vinculo perfidiae, qua Christus negatur (cfr. in Dante: violenza contro Dio); vinculo invifiae, qua frequenter etiam frater appetitur: vinculo crudelitatis, qua nonnumquam socius et conformis occiditur (cfr. in Dante: violenza lenza contro il prossimo). Haec sunt: vincula quibus ligatus unusquisque ita inclinatur ut animam suam levare non possit, nec obtutus ad coelum mentis erigere, nisi ei dixerit Dominus: Dimissus es ab infirmitate tua (cfr. in Dante: messo dal cielo) et munere eum suae benedictionis erexerit. Haec sunt sceleratorum vincula quibus dure peccatores ligant diabolus et ministri eius etc.
S. Ambrogio, Comment lib. IV in Evang. Luc. Cap. IV, febris nostra avaritia est, febris nostra libido est, eo quod ignitae sint cupiditates… Febris nostra luxuria est, febris nostra ambitio est, febris nostra iracundia est. Quae licet corporis vitia sint, ignem tamen ossibus implicant, mentem animum, sensumque pertentant.
Haec prior diaboli sollicitatur arte. Etenim ager bonus, vestis pretiosa, monile suadela serpentis est. Honorum gratia, sublimitas potestatum, epularum suavitas, forma meretricis, laqueus est diaboli, et quasi quidam nequitiae spiritalis illecebrosus affatus, qui per carins illecebram quae cito foeminea quadam lenitate mollitur, animum quoque de gradu deiicit.
Confrontisi anche questo caratteristico scolio di Mariano all'Epistola XLIII di san Girolamo: lob intelligit, qui virtutem diaboli in lumbis esse propter luxuriam et impudicitiam dixit: at Bonosum Hieremiae instar tulisse asserit lum bare suum et abscindisse in petra, quae Christus est: et hoc, quia Chirsti gratia pudicitiam custo diebat.
Il diavolo, dunque, è un personaggio allegorico che rappresenta, allo stesso modo che altri nei miti più antichi, specialmente nelle religioni orientali, il male della vita terrena, la materia fervida di peccati, di passioni, di cupidigie; e all'immaginazione degli scrittori cristiani appariva come alcunché di orribile, di laido, di funesto, perché appunto lugubri, funesti, spaventevoli sono gli effetti d'una vita tutta dedita alle brame e alle ignominiose turpitudini di questo mondo.
Né d'altra parte è difficile e senza vantaggio per il nostro assunto, rinvenire nella letteratura cristiana qua e là motivi ed accenti, concordi nel ritrarre un'immagine, come quella del diavolo, così ributtante e così paurosa a un tempo.
In forma di un terribile leone lo descrive l'apostolo Pietro in Epist. I, 5, 8: adversarius vester diabolus tanquam leo rapiens et rugiens quaerit quem devoret.
Come un mostro lo rappresenta sant’Ambrogio, Conimmt. lib. IV in Evang. Luc. Cap. IV, diabolum tanquam procellosi saeculi istius cetum Dominus noster Jesus C!tristus oppressit. A rettili immondi san Giovanni paragona i demoni, secondo l'interpretazione di sant' Ambrogio, Comment in Cap. X VI Apocal., ranis nihilominus, quae sunt reptilia immunda, et in luto viventia, recte assimilantur (scil. discipuli Antichristi). Nel cap. r 6 dei Soliloquia il diavolo è detto draco ille magnus et rufus et serpens antiquus; tal altra volta, come nei capp. 18 e 27, è assomigliato a un leone che rugge. Insomma non v'è scrittore cristiano (chiunque potrebbe qui riferire a centinaia le citazioni), il quale, accingendosi a discorrere del naturale nemico nostro e di Dio, non gli abbia attribuito i caratteri e le forme dei più terribili e perniciosi animali della terra. Ebbene; questo fierissimo, questo formidabile mostro eh' è il diavolo, con buona pace del signor Filomusi, tenta per ogni mezzo, infaticabilmente la miserella anima umana, che incerta pencola tra il bene ed il male. E gli assalti (stia bene attento il signor Filomusi!), accaniti sempre in sostanza, variano però di continuo quanto alla forma. Ecco qui un buon fascio di citazioni che stanno luminosamente a dimostrarlo:
Sant'Ambrogio, de Paradiso liber cp. XII, 55: alia sunti per principem istius mundi, qui quaedam venena sapientiae in hunc mundum evomuit, ut vera putarent homines esse quae falsa sunt, et specie quadam hominum caperetur affectus: non enim semper quasi apertus hostis ingreditur; sed sunt quaedam potestates quae amorem simulent gratiamque praetendant, ut paulatim cogitationibus nostris venenum suae iniquitatis infundant a quibus oriuntur illa peccata, quae vel ex delectatione vel ex quadam mentis facilitate nascuntur… Volunt enim hac quadam contentione nos frangere et veluti quoddam animae nostrae corpus elidere. Unde et Paulus quasi bonus athleta non solum ictus adversantium potestatum vitare cognoverat; verum atiam adversantes ferire. Unde et ait: PERCUTIO PUGNIS NON UT AERA CAEDENS… Ergo multiplicia tentamenta sunt atque lethalis, eo quod diaboli minister aliud lingua loquaturaliud corde meditetur.
Id., in Psalmum XXXVI David cp. 56: ira, furor, caedes arma sunt diaboli; id. in Psalmum CXVIII Octon. VIII 43: sequamur ergo vincula Christi, fugiamus vincula venatorum: ne dum incedimus, dum ignoramus laqueos eorum per nostrae mentis iucurrat; nec animae nostrae cervicem nexibus inseramus: insidiantur enim quasi pessimi venatores; et quando properorum eventu enimum relaxamus, ac secundis rebus remittimus; nec excubias cautionis habemus intentas, tunc plus iactant laqucos sous, aut in via, qua ambulamus, abscondunt, ut cum fuerint eorum laqueis innexa vestigia, trahant quo securum supplantent viantem, vel collo adstricto strngulent commeantes. Id., Comm. lib VII in Evang. Luc. Cap. X: Adam… incidit in latrones: in quos non incidisset, nisi his mandati caelestis devius se fecisset obnoxium. Qui sunt isti latrones, nisi angeli noctis atque tenebrarum qui se nonnunquam trasfigurant in angelos lucis; sed perseverare non possunt? Hi ante dispoliant quae accepimus indumenta gratiae spiritalis, et sic vulnera inferre consuerunt… Cave ergo ne ante nideris, sicut Adam nudatus est, mandati caelestis custodia destitutus et exutus fidei vestimento at sic lethale vulnus accepit.
Id. Comm. lib. X in Evang., Luc. Cap. XXI: est et alius Antichristus auctor huius, diabolus scilicet, qui meam Hierusalem, meam animam, certe animam Dei, animam pacificam obsidere nititur suae legionis exercitu. Id., Comm. in cap. IV Apocal.: quicumque enim converti ad Deum desiderat, necesse est ut vitia de reliquant: et quicunque vitia deserere cupit, necesse est ut per doctrinam divinarum Scripturarum, sive per praedicationem sanctorum virorum, discat quae sint genera vitrotum, qualiter homines illaqueent, et quibus modis extingui possint: quae sint etiam decepriones daemonum, et qualiter contra eos pugnandum sit: hoc est scientiae spiritum possidere… A scientia ad fortitudinis spiritum consdenditur: nam sicut quilibet proeliator non contra eum, qui est in vinculis, pugnat; sed potius contra eum, qui resistere ei vult; ita et diabolus non contra eum quem vinculis peccatorum constrictum tenet, dimicat; sed potius contra eum qui peccare desistit et ad Deum tota mente convertitur. Quicumque ergo per scientiae spiritum bellum cupit instruere, necesse habet ut a Spiritu Sancto fortitudinis donum accipiat: quo instrictus et interiores hostes, id est, vitia funditus possit extinguere et exteriores, videlicet homines, per patientiam superare omniaque iacula daemonum scuto fidei a se repellere.
Con i colori più foschi d' una immaginazione morbosamente esaltata, l'autore dei Soliloquia scorge la paurosa minaccia del demone che gli si fa innanzi, e contro il quale egli invoca smarrito, come un naufrago, l' efficace intervento della mano divina: cap 16: ipse enim est antiquus ille draco, qui ortus est in paradiso volupatatis, qui cauda sua trahit tertiam partem stellarum caeli et eas mittit in terram, qui veneno suo corrumpit aquas terrae, ut bibentes homines moriantur… Et quis defendet a morsibus eius, quis eruet ad ore eius: nisi tu, Domine, qui confregisti capita draconis magni? Adiuva nos, praetende Domine super nos alas tuas, UT FUGIAMUS SUB EIS A FACIE DRACONIS HUIUS, QUI NONS PERSEQUITUR ET SCUTO TUO LIBERA NOS A CORNIBUS EIUS: HOC ENIN EST CONTINUUM STUDIUM SUUM, HOC UNICUM DESIDERIUM SUUM, UT ANIMAS QUAS CREASTI DEVORET… Et tamen , Domine, pessima insania nostra: quia cum continue videmus contra nos draconem ore aperto paratum ad devorandum, nihilominus dorminmus et lascivimus in prigritiis nostris, tanquam securi ante eum: qui nihil aliud desiderat quam ut non perdat… Et quis affugiet? Laqueos posuit in divitiis, laqueos posuit in paupertate…Sed tu, Domine, libera nos de laqueo venantium et a verbo aspero.
Mirabile, oltre che a causa dell’evidenza con cui l’autore descrive la persistente minaccia del demonio, anche, sotto certi rispetti, a causa della sua somiglianza con la scena dantesca, per quel che riguarda l’intendimento morale, è questo passo del cap. 18 dei Soliloquia: Quotiens me iam absorbuerat ille draco? Et tu, Domine, ab ore eius extraxisti me. Quotiens ego peccavi? ET IPSE PARATUS FUIT DEGLUTIRE ME, SED TU, DOMINE DEUS MEUS DEFENDISTI ME. Cum contra te inique agebam, cum tua mandata frangebam, STABAT IPSE PARATUS UT ME RAPERET AD INFERNUM, SED TU PROHIBEBAS. Ego te offendebam et tu me defendebas: ego te non timebam et tu me custodiebas. A TE RECEDEBAM ET INIMICO MEO ME EXIBEBAM: TU IPSUM NE ME ACCIPERET, DETERRABAS… SIC ENIM ME MULTOTIES A FAUCIBUS DIABOLI LIBERASTI, DE ORE LEONIS ERIPUISTI, ET AB INFERNO LICET NESCIENTEM ME MULTIS VICIBUS REDUXISTI. DESCENDI ENIM USQUE AD PORTAS INFERNI: ET NE ILLUC INTRAREM, TU ME TENUISTI. APROPINQUAVI USQUE AD PORTAS MORTIS, ET NE ME IPSAE CAPERENT, TU FECISTI.
Utile finalmente (ché a citarli tutti se farebbe un volume) per il nostro proposito è quest’ altro passo di Sant’ Agostino de tempore sermo LXXXV Feria II post III Dom. in Quadrag. serm. I: sicut iam diximus, et in hoc tempore diabolus et angeli eius fideles Christianos et bonis operibus deditos impugnare vel inquietare non cessant. Hoc tamen scitote, fratres, quia diabolus non persequitur nisi bonos… Habet ergo Dues ministros suos, habet et diabolus adiutores suos.
Dai numerosi passi fin qui citati appare dunque chiaro e lampante come il sole, che il diavolo è personaggio spaventoso e abbominevole in tutte le sue manifestazioni, che non costringe gli uomini al male, ma soltanto ve l’induce mediante la forza della suggestione, assoggettandoli instancabilmente, ferocemente ad assidue tentazioni; talché quelli soccomberebbero tutti, se l’onnipotenza divina non li proteggesse con l’opera sua grande e benefica.
Senonché, nel momento in cui più mi affatico a stendere per il signor Filomusi una di quelle.... lezioni etico filosofiche da lui tanto agognate, mi accorgo di una obbiezione che mi si potrebbe fare, e cioè che i luoghi da me dianzi trascritti dalle opere di san Ambrogio e di san Agostino a nient’altro servono che a mostrare la rappresentanza figurativa del demonio, secondo l'immaginazione dei padri della Chiesa e le violente aggressioni, onde quello indissolubilmente le anime umane; mentre fa bisogno ancora di citazioni che dichiarino come il demonio, pur rivestendo forme paurosissime, riesca nondimeno a tentare, ad ammaliare, a conquistare. È questo precisamente che preme di sapere al signor Filomusi!
Ed eccomi ad insegnarglielo ora ch’egli, credo, ha perfettamente imparate le nozioni elementari per quel che riguarda siffatto particolarissimo quanto noto argomento. Ogni buon maestro non costringe i propri scolaretti all’ardua fatica degli esercizi di lettura, se prima non li abbia a lungo e con gran cura trattenuti sulle pagine d’un sillabario…: è chiaro!!...
Richiamiamoci alla mente le linee fondamentali dell’episodio dantesco: le Furie giganteggiano in vetta alla torre della Città di Dite, ribellandosi al volere divino, significato nel mistico viaggio di Dante, il figliol della Grazia (simbolo della superbia diabolica. Vedi il mio studio pag. 21); son cinte di serpi verdissime; gridan alto; si fendono con l’unghie il petto (simbolo dell’ira); e sono intrise di sangue, circostanza nella quale io intesi, come tuttora fermamente intendo, riscontrare un simbolo alludente con perfetta affinità di rapporti al girone della violenza contro il prossimo. A tale spettacolo Dante, tutto invaso da un brivido di paura, si stringe forte forte a Virgilio e guarda immobile, impietrito, quasi privo di senno e con gli occhi sbarrati verso la torre, da dove le Furie gridano e minacciano; fino a che Medusa, evocata dai demoni, mostrasi alta, torva, fulminea nel vuoto, e il Poeta è salvo per l’opportuno intervento di Virgilio. Ricostruita in tal modo la situazione dantesca, il mio signor critico si provi a rileggere le stesse osservazioni di san Ambrogio da me sopra già riferite: Comm. in Cap, IX Apocal.: nam sicut scorpio corpus aculcis vulnerat, ut per vulnus venenum intromittat, per quod hominen interficiat: ITA ET DIABOLUS, AUT IRA, AUT SUPERBIA aut libidine aut aliqua delectatione carnali MENTEM VULNERAT, UT PER HOC VENENUM SUAE MALITIAE INFUNDAT, ANIMAMQUE INTERFICIAT.
Secondo il mio debolissimo giudizio, tutto questo non ci viene a significare che perfettamente lo stesso di quel che significa la poetica situazione dantesca.
In altri termini, il diavolo insidia la vita dell’anima umana, facendo, mediante la sua virtù del tentare, in modo ch’ essa finalmente ceda, e si avvezzi a lasciarsi, come per naturale inclinazione, signoreggiar dall’ ira, dalla superbia o da qualche altra siffatta passione che annebbi il ben dell'intelletto, che v’ instilli il veleno del male, che tolga ogni speranza di salvezza dopo la morte, che abbrutisca insomma, che uccida. Stando così le cose, ci vuol tanto per il signor Filomusi a capire che Dante ha rivestito di forme eminentemente poetiche un concetto comune a tutta intera un’interminabile produzione letteraria cristiana; e che le Furie, emanazione diabolica, e, come tali, simbolo, secondo di sopra abbiam visto, dell’ ira, della superbia e d' ogni altra malefica passione, stan li ritte sulla torre in forma di persone, poeticamente s’ intende, individuate e concrete, con atti e qualità loro proprie, perché inducano ex suggestione l'anima di Dante a peccare o, come direbbe san Ambrogio, ut per hoc venenum suae malitiae infundant animamque inierficiant?
Dunque al paese del signor Filomusi è proprio vero che ciò non significa affatto affatto tentare, ammaliare, attirare, conquistare? e dire che la mia ipotesi rimane mirabilmente confermata da alcuni passi di san Tommaso, ch’io citai a suo tempo a pag. 23 della mia Città di Dite, e dei quali il mio signor critico non ha saputo fare quell’ apprezzamento che pur doveva!
Ché se codesto signore, nella supposizione ch’ egli sia un po’ troppo duro di mente, non si mostrasse pienamente convinto su ciò che parmi con molta evidenza di aver fin qui dimostrato, sarei già pronto a stendergli un’altra osservazione, non senza, naturalmente, corredarla di qualche opportuna citazioncella. Il signor Filomusi intanto ha da sapere che, oltre a un buon patrimonio di erudizione, per la retta intelligenza d’un’opera d’arte in genere, e di quella di Dante sopra qualunque altra, fa bisogno che quella tale opera sia considerata sotto quanti punti di vista è possibile: filologico, storico, morale, psicologico, e chi più ne ha più ne metta.
E nel caso nostro, precisamente, è necessario anche un tantino d’analisi psicologica, in quanto si tratta di studiare le condizioni d’anime d’un uomo che trovasi improvvisamente dinanzi a una portentosa visione di paura, e allibisce né più né meno che, poniamo, un sorcio dinanzi alla bocca orrendamente spalancata di un gran serpe: fenomeno comunissimo in natura, del quale parlano tutte le storie naturali di questo mondo e che san Ambrogio prima del Griffini, del Genè, del Darwin, vale a dire diciassette secoli orsono, conosceva certo assai meglio che oggi, nella piena luce del sec. XX, non mostri di conoscere il signor Filomusi: cfr. Hexaimeron, lib. VI, cp. 3 Congregavit enim biabolus gentiles, quos non creaverat: sed ubi in Evangelio suam vocem Christus emisit, ad eum se potissimum contulerunt, quos sub umbra alarum suarum ipse suscepit et matri dedit Ecclesiae nutriendos. Leo naturae suae vi superbus, ferocitatem sui aliarum ferarum generibus miscere se nescit; sed quasi rex quidam plurimorum dedignatur consortium. Quin etiam cibum fastidit hesternum et ipsas suae escae reliquias aversatur. Quae autem se ei sociare fera audeat, CUIUS VOCI TANTUS NATURALITER INEST TERROR, UT MULTA ANIMANTIUM QUAE PER CELERITATEM POSSENT IMPETUM EIUS EVADERE, RUGIENTIS EIUS SONITU VELUT QUADAM VI ATTONITA ATQUE ICTA DEFICIANT?
Se non erro, con questo brano congiunto con tutto quel che precede e che qui per brevità non ho trascritto, si vuol proprio significare che, come i sonanti ruggiti del leone esercitano sugli altri animali per legge di natura un effetto, direi quasi, magnetico che li paralizza nei loro movimenti, si ch’ essi divengano facile preda di quello, anche quando, dotati d’ una meravigliosa agilità, potrebbero esser salvi con la fuga; allo stesso modo gli uomini istupidiscono dinanzi alle tremende aggressioni del demonio, divenendone facile preda, quand’ essi non riescano a rifugiarsi sub umbra alarum Christi; allo stesso modo, ripeto, Dante avrebbe corso pericolo di rimaner vittima del demonio, il quale con le paurose apparizioni prima delle Furie e poi di Medusa ha cercato appunto di tentarlo, di ammaliarlo, di attirarlo, di conquistarselo, se prima Virgilio e poi il messo celeste non lo avessero protetto a tempo; se Dante, in altri termini non si fosse rifugiato sub umbra alarum Christi.
La cosa a me veramente par chiara più della luce del sole.
Ché se il signor Filomusi mostrasse di nutrir ancora dei dubbi, lo esorterei a leggere, per esempio, quest'altro brano di sant'Ambrogio, Comm. in Epist. ad Rom. Cap. IX: neque si virtus ab aliguo facta fuerit, sicut dicitur facta a Simone Mago, qui dicitur in aere sursum, ut populo Christi scandalo esset, volasse, fidem nostram debebit minuere, scientium Salvatorem nube famulante susceptum ascendisse supra omnes coelos. Neque si in altitudinem se nobis ostendat. De qua dicit Ioannes Apostolus: an ignoratis altitudinem Satanae? a devotione nos Domini Jesu debebit auferre.... NEQUE SI PER PHANTASIAM, QUA SEDUCERE MEDITATUR, PROFONDUM NOBIS OSTENDAT HORRORE MIRANDUM, QUA TERRITI FORTE SUCCUMBAMUS ILLI, etc.
Dopo di che l’autore continua col dire che a tutti questi artificii diabolici — precisa mente come avviene in Dante — dobbiam resistere con l’egida della fede. Dunque il signor Filomusi può mettersi l'animo in pace e credere, senza lo scrupolo di dar luogo a contradizioni di sorta, che il diavolo può bene ammaliare e conquistare con immagini di terrore.
Ma no! mi sembra di vederlo in atto di chiedere, come un accattone palliduccio e stracciatello, il beneficio di qualche altra prova! Ebbene, contentiamolo!... apriamo il libro dei Soliloquia al cap. 17 e leggiamo: versutus est enim, Domine, iste hostis et tortuosus: nec facile deprehendi possunt circuitus viae eius, nec cognosci species vultus eius, nisi tu illumines. Nam nunc hic, nunc illic: nunc agnum nunc lupum: nunc tenebras, nunc lucem se ostendit; sed SINGULIS QUIBUSLIBET QUALITATIBUS, LOCIS ET TEMPORIBUS, SECUNDUM VARIAS RERUM MUTATIONES VARIAS EXHIBET TENTATIONES. Nam ut tristes decipiat, tristatur et ipse: ut gaudentes illudat fingit se et ipse gaudere: ut spiritales defraudet, in angelum lucis se transfigurat: ut fortes comprimat, apparet ut agnus: UT MITES DEVORET, APPARET UT LUPUS.
Si noti a questo proposito non solo che, secondo l’autore dei Soiloquia, l’assumere il diavolo aspetti paurosi è una forma sua propria di tentazione (varias exhibet tentationes), e che quindi ho avuto io mille ragioni per dire nella mia Città di Dite che la spettacolosa visione delle Furie è stata prodotta solo a fin di tentare il Poeta cristiano; ma anche l’altro fatto che il diavolo appare in sembianza di lupo, vale a dire si veste di forme estremamente spaventevoli, solo quando si tratti di conquistare quelle anime che, timide per natura, facilmente si arrendono dinanzi a tutto ciò che supera le loro forze e la loro aspettazione. Tanto è ciò vero per la situazione dantesca che il Poeta non solo all’ apparir delle Furie (...gridavan s’ alto CH'IO MI STRINSI AL POETA PER SOSPETTO), ma similmente anche prima, quando Virgilio si è allontanato dal suo fianco per recarsi a parlare segretamente con i demoni, e questi han pronunziato atroci parole di disprezzo per lui, rimasto per poco senza il conforto della sua guida, mostra i segni evidenti d’ una grande paura:

«...Vien tu solo, e quei sen vada,
che si ardito entrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:

Provi se sa; ché tu qui rimarrai
che gli hai scorta si buia contrada»,

PENSA, LETTOR, SE IO MI SCONFORTAI
NEL SUON DELLE PAROLE MALEDETTE;
CH’IO NON CREDETTI RITORNARCI MAI.
(Canto VIII, v. 89 sgg.).

Sol ch’ io m’indugi a vagheggiare col pensiero la scena riprodotta da questi versi, a me sembra già di scorgere lo sguardo bieco e maligno dei demoni, i quali, parlando a quel modo, cercano il mezzo di spiare, com'è loro costume, di che natura, se forte o timida, sia l’anima di Dante; e basta loro di avere scorto sul volto di lui gl’indizî manifesti della paura, perché poscia raddoppino gli assalti e tentino risolutamente di sgomentare il Poeta, a fin di trattenerlo senza contrasto e per sempre nei vincoli del peccato, ossia nei luoghi della dannazione eterna (cfr. il luogo di sopra citato: ut mites devoret, apparet lupus).
Ché se poi il signor Filomusi fosse ancor avido di prove, gli stenderei molto piacevolmente sotto il naso quest'altro splendido luogo di sant'Agostino, in Psalmum LXII Enarratio, cp. 17: quis enim pertinens ad Christun, non variis TENTATIONIBUS agitatur, et quotidie agit cum illo diabolus et angeli eius, UT PERVERTATUR qudlibet cupiditate, QUALIBET SUGGESTIONE, AUT PROMISSIONE lucri VEL TERRORE DAMNI, vel promissione vitae VEL TERRORE MORTIS, aut alicuius potentis inimicitiis, aut alicuius potentis amiicittis? OMNIBUS MODIS INSTAT DIABOLUS, QUEMADMODUM DEIICIAT. Et in persecutionibus vivimus ET HABEMUS PERPETUOS INIMICOS, DIABOLUM ET ANGELOS EIUS: SED NON TIMEAMUS. SIC SUNT DIABOLUS ET ANGELI EIUS, QUASI MILVI. SUB ILLIUS GALLINAE ALIS SIMUS, ET NON NOS POTEST CONTINGERE. Gallina enim quae nos protegit fortis est etc.
S’immagini per un istante il signor Filomusi di trovare poeticamente al posto di Virgilio e del messo celeste una gallina con le ali tutte stese, e pensi quindi che razza di danno sarebbe venuto a quel poveretto di Dante, se non si fosse presto presto ricoverato sotto le possenti ali della.... gallina di Gesù Cristo!!...
Ma, purtroppo, io so che il signor mio critico è alquanto ottuso d’intelletto (lo confessa del resto, egli medesimo per il primo. Vedi op. cit., pag. 240) e potrebbe continuare a nutrir dubbi; sicché val proprio la pena ch’io gli sia prodigo di un altro e, PER ORA, ultimo... panino della mia scienza, facendogli leggere queste poche righe che seguono: Quod nunquam diabolus adversus hominem iustum pugnare cessat, aut enim tribulationes cordis illius exagitat, aut dolorem corporis suscitat. Ut forte contra nos duplicem aciem perducat inimicus, blandietur fraudulenter, ut decipiat, TERREBIT, UT FRANGAT, blandietur sub spe boni, ut decipiat, quia teste Augustino: Nemo umquam bonus, si sub boni spem et simulatione deceptus est, terrebiturque etiam malitia, et crudelitate aliena : — Sed nolite timere, custodit Dominus omnes diligentes se et cor hominis in manu Dei est, et quodcumque voluerit vertet illud.
Ehi! signor Filomusi, rimane ora sì o no dimostrato per lungo e per largo che il diavolo atterrisce e nello stesso tempo ammalia, tenta a peccare, attira, conquista eccetera eccetera? rimane sì o no confermato quello che nel mio studio, da Lei riletto e non inteso, ho pur chiaramente esposto a suo tempo? è Vero sì o no, signor Filomusi, che nello scrivere la mia Città di Dite io mi son limitato, per non tediar troppo il mio prossimo, a un numero discreto di citazioni, sia perché pensavo che l’ erudito lettore con la sua vasta cultura sarebbe riuscito da sé stesso a ficcar lo viso più al fondo in questo scabrosissimo argomento; e sia perché non credevo mai che un signor Filomusi mi sarebbe venuto incontro con delle osservazioni della portata ch’ Ella sa? è vero sì o no che tra il numero degli studiosi veramente seri di qualsivoglia disciplina, specialmente in Italia (e l’ebbe già in altre occasioni più volte a notare il nostro Carducci, buon’ anima!) v'è stato, v'è, vi sarà sempre un buon numero di quelli che si aiutano, a scapito dei buoni, a far figura in mezzo agli altri con le vane appariscenze d'una cultura miseramente accattata, con le citazioncelle di seconda mano, con la ciarlataneria petulante, sfacciata, birbona; e ch’ Ella, signor mio caro, appartiene precisamente al numero di questi ultimi? Vuole inoltre o non vuole una buona volta persuadersi che prima di mettersi a studiare un autore come Dante occorre assolutamente conoscere quanto Dante conosceva e molto più che Dante non conoscesse? e che quindi fa d’uopo sui libri aver logorati molti anni e averne sfogliate le pagine manu nocturna et diurna, si da vantare una grande familiarità con autori della portata di sant’Ambrogio, di sant'Agostino, di san Girolamo, e, insomma, con tutta la letteratura cristiana greca e latina, perché poi si sia in grado d’ intendere le ragioni della vita filosofica, politica, religiosa, morale dei tempi di Dante? è vero, finalmente, si o no, signor Filomusi, ch’ Ella tutta questa dottrina, tutta questa conoscenza, tutta quest’ ampiezza di vedute nei secoli, con sua buona pace, non la possiede affatto, o molto, anzi troppo superficialmente?
Ma nossignore! quel poderoso dantomane di professione, ciononostante, con una faccia tosta unica al mondo vi continuerà a cantare sempre sulla stessa nota: «ma non posso tacer d’ una svista del signor Moricca, che basterebbe da sola a mostrare qual preparazione ei (proprio lui eh! signor Filomusi!...) si sia accinto a trattar questioni dantesche»; vi continuerà, per esempio, a cantare con tanto d’occhi aperti, dopo quel po’ po’ di roba che gli ho sciorinato in queste pagine: «Ma come si concilia la violenza con gli allettamenti, con le astuzie della tentazione a peccare... Come con la suggestione dei propri atti e delle proprie paurose sembianze «si può ammaliare, attirare, conquistare?» Ma piuttosto mi vien da credere che il signor Filomusi, per assoluta ignoranza di ciò che tali verbi in buona lingua italiana intendano significare, si sia lasciato indurre a credere che non può non esistere un contrasto stridente fra essi e il concetto di violenza.
Egli, per esempio, ignora che in italiano ammaliare, attirare, conquistare adoperati per esprimere il fine, a cui tendono le operazioni diaboliche, corrispondono perfettamente al latino rapere, che di solito ricorre in qualunque scrittore cristiano, come lo abbiam già visto ricorrere nella prosa di sant’Ambrogio e di sant'Agostino. Il signor Filomusi ignora che ammaliare in buona lingua italiana e figuratamente riferito allo spirito e alle sue facoltà vale rendere stupido, accecare, travolgere e simili; ignora che il significato fondamentale di tentare è quello di sperimentare, toccare e ritoccare per chiarirsi di alcun dubbio, provare, cercare di vedere? ecc. ecc.; e che in seguito si passò all’altro senso di travagliare, assalire, instigare al male; ignora che i verbi ammaliare, attirare, conquistare adoperati da me tutti e tre insieme e precisamente in quest’ordine (vedi pag. 25 della mia Città di Dite) stanno appunto, secondo la mia intenzione, a designare con intensità. progressiva l’effetto dell'apparizione diabolica: il demonio con le sue proprie paurose sembianze prima ammalia, ossia istupidisce, quindi a poco a poco, come per forza di calamita, attrae a sé la vittima, fino a che una volta per sempre la conquista, vale a dire, la possiede e la signoreggia senza timore che più gli si ribelli e gli sfugga; il che sarebbe certamente capitato a Dante, se il conforto prima delle parole e poi della mano di Virgilio non lo avessero miracolosamente salvato. E che la cosa stia così, ormai, dato il sostegno poderoso dei molti passi da me sopra citati, parmi che non debba esistere neppur la menoma ombra del dubbio. Insisto però a far notare quanto mi meraviglia che il signor Filomusi levi tant’alto il volo fino alle sublimi regioni della critica dantesca, quando invece avrebbe ancor bisogno di leggere il vocabolario italiano e di approfondire lo studio della nostra bella ed armonica lingua del sì; insisto inoltre a far notare che su queste bazzecole mi son soffermato alquanto... per non sembrar d’incoraggiare col silenzio certi sfoghi di grafomania (è proprio il caso ch'io mi serva ora contro il mio signor critico delle medesime parole, con le quali egli ha cercato di rintuzzar me, che po’ poi non son certo quel giovincello imberbe ch'egli s' immagina!... Ah! ah! ah! Lorenzino è caduto in trappola....).
E passiamo, ch’ è ormai tempo, al secondo appunto, del quale il signor Filomusi molto: graziosamente ha voluto degnarmi.
Egli dice: «Medusa simboleggia l’eresia: essa «è intimamente connessa con le Furie, perché son queste che la chiamano»; e «dalle tre forme di violenza personificate nelle Erinni si passa con facile derivazione,... all’indifferenza verso l’idea del divino» ecc. Sarò d’ottuso intelletto; ma come dalla violenza possa originarsi l’eresia, io da me non lo veggo ecc. ecc».
Ecco un’altra buona occasione per stendere sotto gli occhi di quel signore una seconda lezioncella, ma questa volta d’indole assai diversa dalle precedenti: il signor Filomusi, a quanto pare, non capisce neppur l’italiano!... A pag. 29 del mio studio io ho semplicemente osservato, per maggior chiarezza di quel che sostenevo, che dalle tre forme di peccato (violenza contro il prossimo, contro sé, contro Dio) simboleggiate rispettivamente, secondo la mia interpretazione, nella triplice unità delle Furie, a quello ch’è il peccato supremo per eccellenza, l'eresia o l’ateismo, parole che nel medioevo suonarono press’ a poco tutt’uno, si passa con facile derivazione; nel senso che la pratica delle volgari passioni che offende direttamente o indirettamente Dio, che trasgredisce i suoi comandamenti, i quali al contrario consigliano la venerazione del suo nome, l’amore e la carità verso il prossimo, conduce quasi per gradi l’uomo al disprezzo di tutto ciò che vive ed è creatura del sommo Artefice, non solo quindi all’ indifferenza verso l’idea del divino, ma anche, finalmente, alla negazione stessa di Dio, o, come allora io ebbi a scrivere, «all’incredulità per tutto ciò che concerne l’oltretomba: all’apostasia insomma». Si ricordino, per esempio, utilmente a questo riguardo le parole di Benvenuto da Imola, il quale a proposito del verso 109 del Canto XV dell’Inferno osserva che Prisciano è stato posto da Dante nel numero dei sodomiti «tamquam clericus, QUIA monachus fuit et APOSTATAVIT ut acquireret sibi maiorem maiorem famam et gloriam». Ma io prevedo che il signor Filomusi, avido sempre di prove, mostri, al solito, qualche dubbio anche per ciò che ora affermo; sicché non potrò neppur qui far a meno di qualche citazioncella del caso. In un’admonitio ad homiliam in Psalmum XIII etc. Cap. 1 compresa tra gli Spuria di san Giovanni Crisostomo leggo: Propheta cum intellexit creatorem ignominia affici a creatura et figulum a luto contumeliis incessi et Deum ab atheo ludibrio haberi, perinde ac si lapidis ictum in corde accepisset et dolorem non ferret, exclamavit: — Dixit insipiens in corde suo — Non est Deus —… Insipiens qui dicit non esse Deum; QUI ENIM ADVERSUS DEUM EXTOLLITUR, MULTO MAGIS EXTOLLETUR ADVERSUS DEI PROPHETAS; ET QUI CONTRA DOMINUM ERIGITUR, ETIAM ADVERSUS CONSERVOS ERIGETUR... Et quod non solum verbis, sed etiam factis quis neget Deum.... cadem dicat quae insipiens: — Non est Deus — testis est Apostolus, qui dicit: — Deum fatentur se scire, factis autem negant — Quanta sunt autem facta potentiora verbis ad persuadendmn, TANTO FACTIS QUAM DICTIS DEUM ORE VEL CORDE NEGARE GRAVIUS... Qui in ore dicit: — Diligam te, Domine, et in corde fratrem habet odio, quomodo Deum diligit, non aboediens ei qui dicit: — Diliges Dominum Deum tuum et proximum tuum sicut te ipsum —... Quod autem qui fratrem suum habet odio, is etiam Deum odio habeat etc. etc. Per chi abbia in zucca un granellin di sale la cosa parmi che debba essere più chiara della luce del giorno e che non richiegga alcun commento di sorta.
Ma il signor Filomusi col suo tardo intelletto arriva sempre per ultimo nelle cose, anche le più chiare; sicché, per un riguardo a questa sua debolezza, dovrò ancora ricorrere al rimedio di trascrivergli qui appresso un'intera paginetta di mediocrissimo latino: (cap. 4, Op. cit.).
Quoniam ergo iis studebant quae fieri non poterant, traditi sunt corruptioni, Dicit Propheta deflens: — Corrupti sunt et abominabiles facti sunt in studiis suis. Cum enim diaboli fuissent discipuli, lapsu diaboli deciderunt: sicut ille de coelis: ita hi e sedibus regalibus delapsi. Quem quis enim sequitur, candem cum eo partem capit. — Corrupti sunt et abominabiles facti sunt in studiis.
Corrupti sunt, quoniam eum conati sunt corrumpere qui corrumpi non potest: et mutaverunt gloriam incorruptibilis Dei in similitudinem imaginis hominis corruptibilis. Homines mente corrupti, corrupti sunt et abominabiles facti sunt. Quare? QUONIAM ABOMINIATONEM DESOLATIONIS IMPIETATEM IN TEMPLO CORDIS SUI COLLOCARUNT (si allude appunto all’ eresia). — In studiis suis —, quamobren? Quoniam quae natura negavit, ca mala excogitavit effectio. Corrupti sunt ut Pharao et Nabuchodonosor. Corrupti sunt, quoniam vulnerati et putrefacti et male olentes et tabo sanieque madentes, non quaesierunt medicum. — Abominabiles facti sunt —, QUONIAM TANQUAM PORCI IN PECCATORUM COENO VOLUTATI, ET TANQUAM CANES AD SUUM VOMITUM REVERTENTES, EXOSI EVASERUNT. Ita enim scriptum est: Abominatio peccatoribus est Dei cultus. QUONIAM ERGO ABOMINATI SUNT DEI COGNITIONEM, EOS VIRI PII SUNT ABOMINATI. Corrupti sunt fanguam vestis a tineis, tanquam ferrum quod exeditur a rubigine. Abominabiles facti sunt, ut qui ossa et mortuos tetigerunt. Propterea enim lex eum qui moriuum tetigerat, fecit abominabilem, quoniam Iudas Christum moriuum semper tangens, et viventen non aspiciens, factus est abominabilis. — Corruptioni tuae, Israel, quis opem feret? Deinde ut impietatis fructum ostendat, subiungit; — Non est qui faciat bonum. Qui enim Deum negavit, et de éo qui providet, et curam gerit, non cogitat: non mortem, non consummationem, non resurrectionem, non iudicium, non retributionem expectat, et ideo nihil boni facit. Quemadmodum enim qui alicui regi dat nomen, in eius legibus et praeceptis ambulat: qui auten tyrannum sequitur, non facit quae Rex praecipit: ITA ETIAM QUI DEUM NEGAT, DEI MANDATA AVERSATUR, ET REIPUBLICAE INUTILIS ET PERNICIOSUS EVADIT. Et de hoc satis!
Che cosa infine ha da rimproverarmi il povero signor Filomusi?! Ah! ecco: egli riferisce le mie parole, con le quali ho confutato la sua ipotesi che nel creare il suo messo del cielo, Dante fissava il suo sguardo in Aronne, e bamboleggia con una ideal grazia raffaellesca da far invidia a Truffaldino. Vediamo un poco! In una sua noterella dantesca, da me citata a pag. 32, il signor Filomusi affermò a suo tempo che Aronne riunisce in sé tutte le qualità che il Messo dal cielo alla porta della Città di Dite deve riunire, e con quella sua cert’aria di dottorale spavalderia sfidò chiunque a trovare nella Sacra Scrittura o altrove un secondo personaggio della portata di Aronne. Io allora, venuto veramente in sospetto d’ una si temeraria e, direi quasi, militaresca intimazione, osservai a pagg. 32-33: «Sta bene! Ma non è proprio questo il difetto di origine della sua interpretazione, che sia cioè difficile, ricercando nell’ antichità pagana, giudaica o cristiana, l’identificazione di un personaggio, il quale si addica a rappresentare il Messo dal cielo dinanzi alla porta di Dite? E se il soggetto di Aronne è così peregrino che nessun altro gli assomigli, perché dobbiam credere che Dante abbia pensato unicamente ed esclusivamente ad esso?».
A me sembra d’aver cantato chiaro! Ebbene; il signor Filomusi sapete con che mi risponde? con questo magnifico arzigogolo: «Se questo non è cambiar le carte in mano al lettore, sfido il signor Moricca a dimostrare che trovar nella Sacra Scrittura o altrove due personaggi che riuniscano ciascuno tutte le qualità che il Messo dantesco deve riunire, sia tutt’ uno che trovarne uno solo». Io ancora sto qui a domandarmi, con la meraviglia di chi si trovi come caduto dal cielo in terra, che mai abbia egli con ciò voluto conchiudere! Se abbia sì o no risposto una buona volta alle mie parole, con le quali a suo tempo gli obbiettai che quanto più è difficile trovar pela Sacra Scrittura o altrove un personaggio della portata di Aronne, tanto meno è da ritener probabile che Dante a un simile personaggio abbia volto alludere col suo messo celeste. Nessuno infatti ci aveva pensato sino ad oggi, all’infuori dell’acutissimo Filomusi, il quale si assoggetta, povero lui!, all’immane fatica di mettersi «in caccia si trattati, di Apostoli e di Testamenti per ritrovare (indovinate chi?...) la persona ad cui l’Alighieri deve aver pensato ad ogni costo». Ma più bellina è quest’ altra! Il signor Filomusi in quella tal sua noterella, volendo vedere in Aronne una fra tutte le qualità che il Messo dal cielo alla porta di Dite deve riunire, ricordò l'avvenimento biblico che Aronne batté con la verga il suolo d’Egitto, e le rane «morirono e le case e i cortili e i campi ne furono liberati»; e a me, che mi son provato ad obbiettargli che «quanto alle rane non è da farci gran caso: se i dannati han vergogna di sé stessi, rimorso della loro colpa, e si dileguano innanzi al Messo di Dio, a tutto ciò, in altri termini, che, essendo purissima e celeste incarnazione divina, possa far sentir loro maggiormente l’abbiezione e la turpitudine propria, nulla è più naturale che l’essersi affacciata a Dante, e molte circostanze comuni la dovevano per spontanea elezione richiamare, la similitudine che ammiriamo nei versi 76-81» a me, dico, a cui sembra che la similitudine dantesca è dovuta esclusivamente a una ragione estetica e nient’affatto a una ragione allegorica, e che essa è del genere di quella del Canto 13, v. 39 del Purgatorio:

come il ramarro sotto la gran fersa
dei di canicular, cangiando siepe,
folgore par se la via attraversa

o anche del genere di quell’ altra usata da san Giovanni nell’Apocalissi, il signor Filomusi, tutto ciò non ostante, ha il barbarissimo coraggio di rispondermi: «Ma sa egli che «in ranis haeretici intelliguntur atque philosophi?». Dunque, s’è vero che nelle rane bisogna ravvisar gli eretici e i filosofi, le anime dantesche assomigliate a delle rane saranno necessariamente anime di eretici e di filosofi?! Sarebbe addirittura lo stesso che io discorressi di cavoli, e il signor Filomusi immediatamente dopo, mi soggiungesse: «Ma sa egli che cosa son le patate?». Ahi! ahi! ahi! signor Filomusi, dove s'è andata a ficcare la sua povera logica, e fino a quando ci darà a bere tante sue splendide corbellerie... Ma ei veramente mi assomiglia a un disgraziato che sta per affogare, e nel delirio della disperazione scambia qualsiasi ombra per una tavola di salvezza, e tenta di aggrapparcisi con tutte le forze; anzi, meglio, mi dà l’idea del celebre Simon Mago, come ci vien rappresentato, per esempio, nei primi libri delle Recogritiones, cioè in atto di costringere con rappresaglie d’ogni genere, con appositi arzigogoli, con falsi sillogismi, il suo apostolico interlocutore a contradirsi e a riconoscere eventualmente la falsità della propria dottrina. Grazioso davvero il quale viene a trattarmi di questioni dantesche con in corpo lo spirito di Simon Magno!!...
Ma io ritorno al mio proposito, e dico che nella interpretazione delle allegorie dantesche bisogna andar molto cauti, tropo cauti, se si vuol veramente evitare di prender fischi per fiaschi; nel senso che chi si accinga all’ardua impresa di commentar Dante, sol che s’incontri (come, nel nostro caso, il signor Filomusi in Aronne) in alcunché di peregrino, che presenti ai suoi occhi per fortunata eventualità certi caratteri comuni col tal personaggio o con l’ episodio tale del divino Poema, ha l'obbligo di ripensare a lungo quale sia stato lo scopo del Poema; in quali tempi, per quali cause e per qual classe di persone esso è stato propriamente composto; affinché possa con maggior sicurezza affermar se sia o no verosimile che il poeta, con quel tal personaggio o con quel tale episodio, al tal altro episodio o al tal altro personaggio abbia voluto effettivamente alludere.
Ché se uno dei caratteri comuni ad Aronne ed al messo celeste insieme intende il signor Filomusi riconoscere in quelle benedette rane, egli, come sopra abbiam visto, prende senz’ accorgersene, un solennissimo granchio a secco. Ché se, infine, Aronne possiede tutte le qualità che il Messo dal cielo alla porta della Città di Dite deve riunire, sol perché Aronne portava la verga, come il Messo del cielo; e batté con la verga il suolo d’ Egitto ; e passò a piedi asciutti il Mar Rosso, io mi permetto d’ osservare al signor Filomusi che, con sua buona pace, non è Aronne il solo personaggio a cui possa Dante aver pensato: anche Mosè, come Aronne, (questo primo particolare, del resto, è affermato dallo stesso signor Filomusi), passò il Mar Rosso a piedi asciutti; anche Mosè, come Aronne, era armato della sua brava e portentosa verga, con la quale percosse il mare, e il mare ne restò diviso: cfr. sant'Agostino, de Cataclysmo III, 4, exsurgit Moyses famulus Dei portans virgam quam a Domino acceperat, et per quam iam multa signa fecerat: percussit mare et divisum est… Virga extensa manu acqua percutit Moyses, et statim cogitur fluctus in cumulum et unda in semetipsa repressa curvatur: soliditatem recipit liquour et solum maris arescit in pulverem etc.
Stando dunque così le cose, qual buona ragione ha mai il signor Filomusi di sostenere, con sì sprezzante e altezzosa borietta, che Dante col suo pensiero deve assolutamente essersi concentrato tutto quanto in Aronne e nient’ affatto in Mosè ? Ma io lascio al lettore sano di mente le conclusioni troppo amare che dovrei qui raccogliere da ciò che ho detto a proposito del modo con cui ragiona in questioni pur così gravi e spinose il sullaudato mio signor critico; lascio anche al lettore i debiti apprezzamenti da farsi intorno a certe minuzie, come, ad es,. quella che riprende di enfatica e di non breve la mia similitudine «Come colui che, dopo puerili e insensate aver asceso l’ ardua schiena d’ un monte ecc.»; lascio gli apprezzamenti circa il modo con cui quel signore giudica l’ultima parte del mio studio, e, per conseguenza, di osservare con che grossolana semplicità egli mostri di non aver capito che quest’ ultima parte serve esclusivamente a dare, insieme con l’ interpretazione dell’allegoria, la visione complessiva della situazione dantesca, senza pretensioni d'insegnar nulla a nessuno, dopo un buon numero, di tanto gravi argomenti di critica da me affrontati e isolatamente discussi, come del resto — bontà sua! — riconosce, a pag. 242 op. cit., lo stesso signor Filomusi; tutto ciò lascio da considerare al lettore di buon senno, ed io finalmente conchiudo, confessando che a scrivere queste pagine sono stato indotto più dall’idea di confermare con nuove lucentissime prove le opinioni già sostenute nella mia Città di Dite, che per mostrare l’ inesperienza del signor Filomusi per quel che concerne la letteratura cristiana; che per mostrare il modo sguaiato, imbarazzato, pesante con cui egli, per evidente mancanza di approfondimento, usa ed abusa di peregrine citazioncelle; che per mostrare, infine, la superficialità, la leggerezza nel formular giudizi, e la scarsa, sciancata, sbrandellata, spropositata cultura ch' egli sciaguratamente possiede. Sarei quasi quasi tentato di paragonarlo a quel famoso poetastro che Orazio ci ha descritto. Anche il signor Filomusi infatti ha la sua particolare fissazione di volersi ad ogni costo, rabbiosamente occupare del divino Poema, benché non abbia la cultura necessaria per farlo, allo stesso modo che il poetastro d’ Orazio, non avendo la benché minima attitudine a comporre versi, fosse pur cascato il mondo, dovea per sì o per forza comporne, E con un buon migliaio di pagine sotto l'ascella mi sembra già di vederlo il signor Filomusi, come un bracco di buon naso, Sulla pista delle sue poche diecine di lettori ; fino a che, raggiuntili, si attacca al loro fianco Per non staccarsene più, se non quando li abbia ben bene storditi e massacrati:

indoctum doctumque fugat recitator acerbus
quem vero arripuit, tenet occiditque legendo
non missura cutem nisi plena cruoris hirudo.
(Ars. Poet., 474-76).

Io non so se dovrò ancora occuparmi di codesto signore.
Ad ogni modo tengo fin da questo momento a dichiarare che da quel che ho detto sull’argomento non intendo sottrarre neppur mezza sillaba, e che d'ora innanzi io mi rifiuto sdegnosamente e solennemente di continuar la polemica con un signore di quella tempra, nel caso ch’ egli scenda, come ha fatto sinora, a tesser chiacchiere, per sostenere testardamente le proprie opinioni, piuttosto che a discutere per giovare al progresso degli studi danteschi.
Dinanzi allo spettacolo miserando di tante puerilità false e bislacche, di tanti arlecchineschi arzigogoli e comiche balorditaggini, intonate ad altezzosa burbanza, formate di atteggiamenti che si addicono più al Capitano Spavento della Vall' Inferna della nostra vecchia commedia che a una persona intesa a discutere seriamente e con disinteressato amore di scienza per il trionfo della giustizia e della verità, io penso che a colui il quale senta altamente di sé e degli studi che coltiva con grande amore e fatica di tutti i giorni e di tutte le ore, convenga d’ oggi in poi non sorridere, come il signor Filomusi, con evidente ostentazione, asserisce di aver fatto a proposito di certe mie critiche a certe sue magnifiche strampalerie, ma dignitosamente tacere.
Per signori di simil razza è un benefico rimedio il far valere il noto verso di Dante,

non ragioniam di lor ma guarda e passa!

Ferentino, 16 dicembre, 1914.

Date: 2022-01-17