Sotto il velame delli versi strani [Giuseppe Severino]

Dati bibliografici

Autore: Giuseppe Severino

Tratto da: Sotto il velame delli versi strani

Editore: Arti Grafiche C. Di Nunzio, Campobasso

Anno: 1961

Pagine: 5-24

Al Professore Emilio Romano lodato umanista e critico acuto e arguto.

Dopo la scena tragicomica di Filippo Argenti la nave piccioletta di Flegiàs, nocchiero iracondo, ripiglia la sua corsa. Oramai non si ode più lo schiamazzo dei dannati che dileggiano il fiorentino spirito bizzarro, ma, in direzione della rotta, a grande distanza, un lungo doloroso lamento che induce Dante a guardare innanzi con gli occhi sbarrati e intenti a scorgere da chi e donde provenga. Il suo maestro sempre premuroso a dargli spiegazioni e a soddisfare ogni curiosità pur non richiesto, lo avverte che si stanno avvicinando alla città di Dite dove soffrono gravi pene i colpevoli di gravi peccati, e dove risiede lo stuolo innumerevole e potente dei diavoli.

…“omai, figliuolo,
s'appressa la città che ha nome Dite
coi gravi cittadin, col grande stuolo.”

È la città dell'imperador del doloroso Regno, in perenne lotta contro l’onnipotente Signore dell'universo; è il Regno di Satana contro il Regno di Dio; la materia contro lo spirito; la ragione umana contro quella divina.
Giunta nelle profonde fosse che circondano, per renderne più valida la difesa, le mura turrite di quella Terra sconsolata, e dopo aver percorso un altro lungo giro, volgendo sempre a sinistra, per la via cioè del male, la navicella approda in direzione della porta di accesso, davanti alla quale Dante vede diavoli in gran numero che la presidiano. È la prima volta che compaiono: sul limitare del luogo dove vengono puniti i peccati di malizia stanno i rappresentanti di essa, e sono in molti, laddove fino allora a ogni cerchio era stato trovato un solo guardiano. La fortezza è inespugnabile per opere difensive e per oste potente.
Allo scorgere nel regno della morta gente, ossia dei dannati, un vivo in carne e ossa, e vivo altresì alla grazia, e perciò loro nemico, non sapendo chi sia che abbia potuto osare tanto, e il perché della sua venuta, incolleriti e stupiti si chiedono l'un l'altro:

… “Chi è costui che sanza morte
va per lo regno della morta gente?”

Minaccioso è il loro sembiante per far comprendere al singolare arrivato che essi sono lì per sbarrargli il passo, ma non le loro parole che esprimono stupore e sospetto. Onde il saggio Virgilio, la ragione illuminata e sostenuta dalla grazia, che vuole vincere l'ostacolo del male, fiaccarne e distruggerne la resistenza, fa segno

di voler lor parlar secretamente.

Mai per l’innanzi era avvenuto ciò, né avverrà in seguito: aveva parlato e parlerà sempre palesemente e in tono imperativo: coi diavoli occorre altra tattica: essi non riconoscono l'autorità di Dio: bisogna parlar loro da solo a soli, rispondere al loro interrogativo, persuaderli, calmarli; diversamente la lotta sarebbe diventata più aspra e pericolosa.
Per tale accorgimento infatti essi placano un poco il loro grande disdegno, ma non al punto da accettare senza condizioni la tacita proposta. Con l’usata scaltrezza, per mettersi al riparo da eventuali sorprese ed insidie, acconsentono a patto che Virgilio avanzi solo e resti prigioniero per avere scortato il vivo per la buia contrada dell'inferno, e che quello se ne torni senza guida (e aggiungono sarcasticamente: se capace) per la strada già percorsa con tanta temeraria dissennatezza. Deve rimanere tra i dannati: lo spirito del male vuole tutti sua preda.

Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: “Vien tu solo e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo Regno.

Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; chè tu qui rimarrai
che li ha' iscorta sì buia contrada.»

Come concitato, imperioso il loro parlare in coro, e come concorde il loro volere.
Sono diffidenti, guardinghi, cauti nell'accettare, decisi nel pretendere. Virgilio all'opposto, certo del fatto suo, non teme e va sicuro.
Nella lotta tra il bene e il male, questo per perdere l’uomo, tenta di separarlo dalla retta ragione, la quale ricorre a ogni accorgimento per salvarlo.
Dante, fragile creatura, all'udire le parole di quei maledetti vacilla, perde la speranza di redimersi, teme di restare nelle tenebre dell'errore, in balia della colpa.

Pensa, lettor, s'io mi sconfortai
al suon delle parole maledette,
ch'io non credetti ritornarci mai.

E supplica la guida, facendo appello all'amore che le porta, di non abbandonarlo, di ridargli la sicurezza come già altre volte in passato; e nel caso sia proprio impossibile andare oltre, riprendere subito insieme la via già percorsa.
È lo smarrimento del naufrago che dispera tornare alla vita mentre è aggrappato alla tavola di salvataggio; è la difficoltà che incontra la materia, la carne, a resistere al male.
L'attuale smarrimento è assai più grave del primo avuto innanzi alle tre fiere all'uscita dalla selva selvaggia e aspra e forte. Era bastato allora che Virgilio gli avesse detto che occorreva tenere altro viaggio; che gli avesse reso noto che tre donne del Paradiso si erano interessate alla sua salvezza, che egli, pur non ritenendosi degno, gli si era affidato. Ora si perde d'animo, si spaventa, si avvilisce a tal segno da rinunziare a proseguire.

“O caro duca mio, che più di sette
volte m'hai sicurtà renduta, e tratto
d'alto periglio che ‘ncontra mi stette,

non mi lasciar” diss'io “così disfatto,
e se il passar più oltre c'è negato,
ritroviam l'orme nostre insieme ratto.”

Anche l’uomo che ha ricevuto il dono della grazia, di fronte alle difficoltà che frappone la malizia, dispera talvolta di poter continuare nella via della virtù, che da principio sembra agevole e piana ma che man mano diviene sempre più difficile e aspra, e può perdersi se non gli viene concessa la grazia perseverante. Virgilio, simbolo di questa, calmo e sicuro invita Dante a star saldo perché nessuno avrebbe potuto impedire il volere dell'Onnipotente. Si Deus pro nobis, quis contra nos?
Io vado; tu non muoverti di costà:

... “non temer; chè il nostro passo
non ci può torre alcun: da Tal n'è dato.”

Attendi il mio ritorno; il tuo spirito avvilito e depresso trovi conforto e cibo per sostenersi, nella certezza che anche questo ostacolo, per quanto grave, sarà rimosso; che io non ti abbandonerò nel mondo della colpa; tu compirai il viaggio; uscirai dalle tenebre; ascenderai negli alti cieli della redenzione.

“Ma qui m'attendi e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza bòna,
ch'i' non ti lascerò nel mondo basso.”

E va, incurante dei patti imposti, per nulla impaurito dei torvi ceffi, sicuro dell'aiuto divino; sa che non potranno arrecargli offesa né separarlo da Dante che gli è stato affidato dalla misericordia di Dio.
Nel lasciarlo gli ha parlato con dolcezza paterna ma con tono deciso: purtuttavia Dante resta perplesso e dubbioso: “E se i diavoli cattureranno la mia guida? Sono così perversi, audaci, numerosi! Tornerà? Non tornerà? Quale il mio destino?”

Così sen va, e quivi m'abbandona
lo dolce padre mio, e io rimango in forse
che no e si nel capo mi tenciona.

Quanta mestizia in quel “sen va”; quanta angoscia in quel “quivi m’abbandona”; quanto amore in quel “’lo dolce padre mio”: vi è tutto il trasporto del figliuolo consapevole che il padre ha per lui un'infinita sollecitudine; che si arrischia e lotta per lui; che vuole a ogni costo salvarlo, e ne sorregge la debolezza. Qui Virgilio non è soltanto duce, signore e maestro, è sopratutto padre sollecito del bene di chi ama teneramente come figlio.
Dante lo segue con lo sguardo accoratamente, ansiosamente; trepida per lui e per sè; ha l'animo sospeso per quello che potrà accadere: tende l'orecchio per sentire ciò che dice, ma non ode: vi deve essere una certa distanza, e l'ombra deve parlare a voce non alta per spiegare ai diavoli che gli si sono fatti da presso e pendono muti e intenti dalle sue labbra, che il vivo è un predestinato alla salvezza, nonché il motivo del viaggio: svelare cioè il mistero della salvazione mediante la grazia; e ricordare che ogni tentativo di contrastare il volere dell’Onnipotente è assurdo e verrebbe senz'altro infranto con la conseguenza di una nuova sconfitta e una nuova umiliazione per loro.
Ai precedenti dèmoni pagani, preposti ai cerchi degli incontinenti, era bastato affermare che il viaggio era fatale, perché ogni opposizione fosse cessata d'incanto. I diavoli resistono. Man mano che i due poeti discendono nell'inferno, quella si fa più torte in ragione della sempre maggiore gravità della colpa che viene espiata. Da Caronte che avverte Dante di aver sbagliata strada, e lo invita a cambiarla, e gli predice la salvezza; a Minosse che lo mette in guardia a non fidarsi dell'ampiezza dell'entrata; a Cerbero che digrigna e vorrebbe morderlo; a Plutone che desta terrore con il suo verso incomprensibile; a Flegiàs che gli corre incontro per acciuffarlo e calarlo nelle palude stigia, si arriva all'opposizione dura, accanita, inflessibile dei diavoli.
I peccati d'incontinenza sono meno gravi, e dovuti a difetto di volontà; quelli di malizia a pravità d’intelletto: in essi si attua in piena coscienza la ribellione a Dio, ribellione che comincia dagli Angeli, le più pure energie cosmogoniche emanate dal Logos, che diventano diavoli nella ulteriore condensazione ci questa emanazione, che si manifesta come materia sensibile, come il contrario e l'opposto dello spirito.
Questo vuol significare il mito degli Angeli cacciati, ossia emanati dal Cielo, ossia da Dio, e precipitati, ossia condensati, nella materia pesante e opaca, nell’Adamo.
La ribellione proterva è eterna e insormontabile essendo eterna e insormontabile la causa che la determina, e che consiste nella deficienza della materia al perfetto funzionamento della ragione.
Il discorso è breve ed ha per risposta l'improvvisa precipitosa tuga dei diavoli nella roccaforte di cui sbarrano la porta come si usava all'avvicinarsi di un nemico agguerrito e temibile.

Udir non potti quello che a lor porse,
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.

Come evidente il fuggi fuggi dello stuolo diabolico.

Chiuser le porte quei nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase,
e rivolsesi a me con passi rari.

È la prima e l'unica volta che Virgilio è impotente di fronte all'opposizione. I peccati di malizia sono dovuti a una più grave deficienza fisiologica che causa più grave ostacolo al sopradetto funzionamento della ragione; onde per rimuoverlo occorre l'intervento assoluto della potenza sovrannaturale. Ecco perché in seguito Dante dirà:

…maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che i dimon duri
ch' all'entrar della porta incontra uscinci.

Per ciò ora la lotta si svolgerà direttamente tra le due supreme forze antagonistiche, tra le due espressioni antitetiche della medesima sostanza.
Evidentemente la preoccupazione di apprestare d'urgenza una valida difesa non diede tempo o fece dimenticare ai diavoli di catturare Virgilio, che rimasto fuori, ritorna a passi lenti, con lo sguardo a terra, umiliato e crucciato, rammaricandosi tra i sospiri che esseri da nulla abbiano osato impedire l’accesso alla casa del dolore.

Li occhi alla terra e le ciglia avea rase
d'ogni baldanza, e dicea ne’ sospiri:
“Chi m'ha negate le dolenti case!”

Che quadro stupendo di meravigliosa potenza descrittiva! Ma conserva intatta la fede - che deriva dalla grazia - nel potere di Dio che travolgerà ogni difesa avversaria, ed esorta Dante a non sbigottirsi se lo vede crucciato.

… “Tu perch'io m'adiro
non sbigottir, ch'io vincerò la prova

(è la prova dello spirito del male a soverchiare la ragione)

qual ch'alla defension dentro s’aggiri.”

Non devi aver dubbi su ciò: i diavoli (l'Adamo) sono stati sempre in lotta col loro creatore (lo spirito); anche quando il Cristo discese nel limbo tentarono d’impedirgli l’entrata sbarrando la porta esterna, quella su cui vedesti la scritta morta, e che da allora fu da lui infranta per sempre.

“Questa lor tracotanza non è nova
chè già l'usaro a men secreta porta
la qual senza serrame ancor si trova.”

Io non sono solo; da solo non potrei nulla; con me è l’onnipotenza di Dio; con Dio è la vittoria. Dominus a destris tuis. Un suo messo ha già oltrepassata quella porta esterna, e sta venendo in nostro aiuto; viene senza scorta perché non gliene occorre; solo ad affrontare lo stuolo numeroso dei diavoli; per mezzo suo ci sarà aperto, e noi passeremo.

“e già di qua da lei discende l’erta
passando per li cerchi senza scorta
Tal che per lui ne fia la Terra aperta.”

Dante, debole e senza speranza è pallido di paura per quanto sta accadendo; Virgilio è pallido di sdegno: ma il pensiero che il soccorso si avvicina gli ridona la serenità e il colorito normale; vuole infondere anche al suo discepolo la propria tranquillità e la propria certezza: è impaziente di attendere; gli pare che il messo tardi troppo a giungere; i secondi gli sembrano ore.
Chi cammina verso la salvezza, chi è inteso a liberarsi da uno stato di miseria, di inferiorità, di pena, chi nelle tenebre cerca la luce vorrebbe eliminare senza indugio qualunque ostacolo si trappone al raggiungimento della sua aspirazione.
Non potendo scorgere nulla in distanza a causa della profonda oscurità in cui è immerso l’inferno e la fitta nebbia che si leva dalla palude stigia

(chè l'occhio nol potea menare a lungo
per l'aere nero e per la nebbia folta)

si ferma, per non far rumore; tende l'orecchio per sentire se giunga qualche suono che annunzi il suo avvicinarsi.

Attento si fermò com'uom che ascolta.

Par di vederlo, trattenere il respiro, ascoltare attentamente con l'ansia di chi aspetta cosa agognata, di chi aspetta l’aiuto per non soccombere in una lotta decisiva, impari e disperata.
Poi rompe il silenzio, per il bisogno incontenibile di confermare, come a meglio persuadersene, la sua incrollabile fede nella vittoria.

“Pure a noi converrà vincer la punga
… se non... Tal ne s'offerse.”

Dante anzichè rincorarsi si perde vieppiù d'animo per la reticenza che interpreta in senso non buono, in senso peggiore di quello che effettivamente abbia: “Se non vinceremo resteremo qui in eterno.” oppure: “Se non vinceremo dovremo tornare indietro, e tutto sarà perduto.” o qualcosa di simile; laddove la reticenza altro non sottintende che questo: Se non vincessimo, Iddio sarebbe da meno di Satana. La frase non è completata perché la supposizione è assurda, blasfema; e il maestro si affretta a ribadire il concetto della onnipotenza di Dio, il potens super omnes deos, l’EI, la Potenza delle Potenze:

Tal ne s'offerse.

Come insistente l’idea dell'’onnipotenza di Dio, come incrollabile la fede nel suo aiuto, come impaziente l’attesa del soccorso divino.

“Oh quanto tarda a me ch' altri qui giunga.”

È la brama della rivincita sull'umiliazione subìta, la brama di prostrare l'avversario, la brama di proseguire il viaggio per salvare Dante. Da un lato costui, la ragione umana, a cui manca la forza e il coraggio per fronteggiare il male, dall'altro la stessa sorretta dalla grazia perseverante, che vuole vincere ed è certa della vittoria, perché nessuno può soggiacere al male quando la salvezza è decretata da Dio.
Le parole che seguono non bastano a infondere a Dante la fede: egli dubita ancora e teme: la sua mente è rimasta fissa in quel ‘’se non”

I’ vidi ben com' ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole alle prime diverse;

ma nondimeno paura il suo dir dienne
perch'io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.

Dubita finanche che Virgilio conosca il cammino da percorrere e le difficoltà da superare.
Il cammino della virtù è difficile e aspro se non proprio impossibile. Egli pensa: l'uomo nella sua materiale consistenza riuscirà a dominare i sensi, i bassi istinti, le passioni? Avrà la forza e la costanza di vincere sempre sè stesso, di annientare sè stesso per risorgere e vivere nella vita della perfezione? la grazia non lo abbandonerà mai? ... Non osa esprimere apertamente i suoi dubbi, ma domanda se accade mai che qualcuno del limbo, dove Virgilio senza speme vive in disio, discenda nell'inferno.

“In questo fondo della triste conca
discende mai alcun del primo grado
che sol per pena ha la speranza cionca?”

La guida ben comprende il senso riposto dell’interrogazione e risponde che ciò avviene di rado, ma che proprio lui vi è stato altra volta: oltrepassò quelle mura, percorse l’intiero inferno sino al cerchio di Giuda, il più profondo, il più buio, il più lontano dall'empireo, inviatovi poco dopo la sua morte dalla efferata maga Eritone a trarne uno spirito per sue pratiche magiche.

“Ben so il cammin, però ti fa sicuro.”

E a meglio dimostrare che conosce l'inferno, spiega che la fetida palude dell’odio cinge tutto all'intorno la città di Dite: l’attuale difficoltà non dipende dalla sua ignoranza del luogo, sibbene dalla ostinazione diabolica, per superare la quale occorrerà purtroppo lottare.

Questa palude che il gran puzzo spira
cinge d'intorno la città dolente
u' non potremo intrare omai sen'ira.”

Aggiunge altro che Dante non ricorda perché la sua attenzione è presa completamente dalla subitanea apparizione di tre Furie sulla cima rovente dell’alta torre.

E altro disse che non l'ho a mente
però che l'occhio m'avea tutto tratto
ver l'alta torre alla cima rovente,

dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte
che membra femminili avieno e atto,

e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avean per crine
onde le fiere tempie erano avvinte.

I diavoli consapevoli della potenza del loro avversario e della gravità del pericolo, comprendendo che non basta a stonarlo l'aver sbarrata la porta, hanno predisposta la difesa interna in modo da mettere Dante, anche se aiutato da Dio, nella materiale impossibilità di muoversi quando l’aiuto fosse giunto, e rendere vana la potenza divina. Le Furie e Medusa devono compiere la prava impresa: le prime con i loro aspetti e con i loro atti terrificanti vieppiù spaventarlo e avvilirlo al segno da renderlo incapace di reazione; l’altra pietrificarlo: insomma stordirlo per poi ucciderlo, come fa il peccato.
Ciò rappresenta l’antitesi del volere e dell'operato delle tre donne benedette: La Vergine, Lucia e Beatrice.

Con l'unghie si fendea ciascuna il petto
battiensi a palma, e gridavan sì alto
ch' i' mi strinsi al poeta per sospetto

ossia per la paura. E il poeta che conosceva le Erinni - ne aveva narrato nell’Eneide - senza scomporsi, come si trattasse della cosa più naturale del mondo, (era il miglior modo di rincuorare Dante) gli dice:

… “Guarda le feroci Erini”

Vuole che osservi i tremendi effetti della colpa nella coscienza dei colpevoli. E fa il nome di ciascuna, e le individua a seconda il posto che occupano:

“Questa è Megera, dal sinistro canto,
quella che piange dal destro è Aletto:
Tesifone è nel mezzo.”

Le Erinni erano nate, insieme con i Titani, da Gea, la Terra, e il sangue dei genitali di Urano, il Cielo, lo spirito creatore, mutilato da Saturno suo figlio (l'uomo).
Il peccato anche nel mito pagano è ribellione a Dio; conseguenza della trasformazione di Lui in materia; causa di infelicità.
Megera personifica l’esacerbazione e l'ira; Aletto che piange, il tormento incessante del colpevole senza pace; Tesifone, la pena intesa come vendetta: sono i simboli del travaglio, delle torture che dilaniano le coscienze dei peccatori. Cicerone, riportato nel Convivio, spiega: “Non v'immaginate che gli empi e gli scellerati vengano tormentati dalle Furie che li perseguitano effettivamente con torce ardenti: i rimorsi che accompagnano i delitti sono le vere Furie delle quali parlano i poeti.”
Esse, tinte di sangue, per ricordare la loro origine, cinte e crinite di serpenti come le divinità ctoniche, si danno ad atti di ira bestiale e furente, e urlano in maniera spaventevole; invocano a gran voce Medusa, la bellissima Gorgona dagli splendidi capelli color d'oro lucente per i quali sopratutto era stato preso da travolgente amore il dio Nettuno che nel folle impeto afrodisiaco l'aveva rapita, trasportata e violentata nel tempio di Minerva, la quale per vendicarsi dell'oltraggio le aveva mutati i capelli in serpenti perché chiunque al guardarla fosse rimasto pietrificato.
La colpa, per sè orrenda, è tuttavia piena di fascino e di seduzione; offusca l'intelletto e lo rende insensibile e duro come sasso al richiamo della grazia, alle attrattive della beatitudine celeste.

Vegna Medusa, sì il farem di smalto.

Se ci fossimo vendicate in tal maniera di Teseo quando venne per rapire Proserpina nostra, Ercole non avrebbe trovato altro che un macigno.
Anche Orfeo era diventato di sasso per essersi voltato a guardare la sua Euridice: perciò era rimasto nell'inferno della colpa; e Sara era stata trasformata in statua di sale per essersi voltata a mirare Sodoma arsa dalle fiamme della libidine e della impudicizia. Il fascino della colpa li aveva vinti e perduti per sempre pur essendo stato loro offerto il mezzo per liberarsene. Induraverunt facies suas super petram, et noluerunt reverti.
L'interno ha raccolto le sue forze: è il supremo tentativo per eludere e neutralizzare la potenza di Dio, per rendere vano il soccorso, per impedire al predestinato il cammino che dovrebbe attraverso la visione dei martirii conseguenti alla colpa, condurlo alla salvezza.
Contro questo tentativo Virgilio corre sollecito al riparo: impone a Dante di voltarsi di spalle, di non guardare, di tenere gli occhi ben chiusi,

“chè se il Gorgon si mostra e tu il vedessi
nulla sarebbe del tornar mai suso.”

resteresti immerso nei bassi fondi del peccato senza più speranza di tornare a galla. Ed egli stesso lo volta, e gli fa mettere le mani sugli occhi, e per maggiore sicurezza vi sovrappone le sue, non fidandosi della capacità di resistenza del discepolo alla tentazione.
Il pericolo è grande: se per caso, vinto dalla curiosità avesse guardato, sarebbe rimasto ammaliato e perduto per sempre.

…ed elli stessi
mi volse, e non si tenne alle mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.

La ragione, forte della grazia che per misericordia di Dio persevera in lui, interviene a sostenere la vacillante materia e la costringe a non cedere agli allettamenti e ai richiami del male. Come accanita e serrata la lotta tra questo e il bene.
Così il pericolo di Medusa è scongiurato, i piani degli avversari sono crollati; ma la porta rimane ancora chiusa; per entrare nel Regno di Satana occorre l’arrivo di

Tal che per lui ne fia la Terra aperta.

Siamo all'atto culminante e conclusivo dell'episodio drammatico, il quale, spoglio del velo dell'allegoria, e rettamente inteso, dà la chiave per l’interpretazione di esso nonché del concetto fondamentale dell’intera Commedia.
Dante a questo punto invita, come altre volte nel Poema, i lettori a interpretare il senso allegorico della narrazione; ma non sì rivolge a tutti indistintamente, sibbene solo a coloro che hanno li intelletti sani, a coloro cioè che sono in grado di intenderlo. Ciò significa che la cosa è di grande importanza e l'allegoria difficile a interpretare.
Nel Convivio è detto: “Le scritture si possono e debbono intendere massimamente per quattro sensi: l'uno si chiama litterale, e questo è quello che non si estende più oltre che la lettera propria, siccome è la narrazione propria di quelle cose che tu tratti. L'altro si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto il manto di queste favole, ed è una verità nascosta sotto bella menzogna... Il terzo si chiama morale; e questo è quello che i lettori devono intensamente andare appostando... per le scritture, a utilità loro e di loro discenti... Il quarto si chiamo anagogico, cioè sovrasenso…” Gli ultimi tre sensi, specialmente l’allegorico, debbonsi ricavare dal litterale perché in ciascuna cosa che ha il di dentro e il di fuori, è impossibile venire al dentro se prima non si viene al di fuori.”
Dal che scaturisce che anche alla Commedia vanno applicate tali massime; che la medesima si deve considerare opera allegorica, e non soltanto nei singoli episodi ma pure nella sua concezione generale; che l'aggettivo “divina” aggiunto dai posteri al titolo originario non deve trarre in inganno; che l'intero poema nella sua espressione letterale è una favola, la cui verità è nascosta sotto bella menzogna. In effetti esso vuol rappresentare la vita dell'uomo sulla terra: è la commedia dell'umanità nei suoi diversi stati di colpa e di infelicità, di pentimento e di purificazione, di redenzione e di beatitudine.
Nello stesso Convivio leggiamo: “Sano si può dire (l’intelletto, ossia la mente) quando per malizia d'animo o di corpo impedito non è nella sua operazione che è conoscere quello che le cose sono... Sono sue infermità la iattanza, la pusillanimità, la leggerezza, da parte dell'anima; la mentecattagine e la frenesia da parte del corpo.”

O voi che avete li ‘ntelletti sani
mirate la dottrina che s'asconde
sotto il velame delli versi strani.

Agli urli frenetici delle Erinni dall'alto della torre, risponde dalla palude stigia un fracasso spaventevole che le soverchia e le annienta, come di furiosissimo travolgente uragano che fa tremare l'inferno.

E già venìa su per le torbid’ onde
un fracasso d'un suon pien di spavento
per cui tremavano ambedue le sponde.

È la potenza di Dio che si annunzia terribile e paurosa nella sua ira. Commota est, et contremit terra: quoniam iratus eis.
Appare in distanza il messo celeste. Virgilio allontana subitamente le sue mani e quelle di Dante dagli occhi di costui, e lo incita a scrutare con lo sguardo sulla schiuma dell’antico Stige per quella parte ove la nebbia è più intensa.

Li occhi mi sciolse e disse: “or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per ivi ove quel fummo è più acerbo.”

Dante guarda e vede venire uno che cammina maestoso sulle acque della palude senza bagnarsi le piante dei piedi, rimovendo spesso dal volto con la sinistra l’aria grassa che si leva dal pantano, e di null'altro infastidito se non di quella oppressiva molestia.

Dal volto rimovea quell’aere grasso
menando la sinistra innanzi spesso
e sol di quell'angoscia parea lasso.

Al suo avanzare le ombre degli iracondi si sommergono atterrite come le rane innanzi alla nimica biscia; le Erinni scompaiono.
L'incedere sulle acque fangose con le piante asciutte, il passare cioè trionfalmente sulla lordura del peccato senza rimanerne contaminato; l'allontanare dal volto l'alito sozzo della colpa e averne fastidio (i giusti provano disgusto del peccato, e non ne restano insudiciati: anche Beatrice, discesa dal cielo avea detto:

… “la vostra miseria non mi tange
nè fiamma d'esto incendio non mi assale)

il dileguarsi e il nascondersi dei dannati al suo apparire; l'essere solo e senza scorta che lo guidi, lo accompagni, lo difenda; il rombo tremendo che lo precede e fa tremare la terra, rendono manifesto che costui è “messo da cielo”, uno che proviene dal cielo, un messaggero celeste, un angelo, ché gli angeli delle varie gerarchie sono i messaggeri celesti: ed è anche risplendente perché questi sono le più pure emanazioni radiose del Creatore, gli esseri nei quali più penetra e risplende la gloria di Colui che tutto muove. La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta.

Ben m'accorsi che era dal ciel messo
e volsimi al maestro; e quei fè segno
ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!

il disdegno per la tracotante ribellione dei diavoli al volere di Dio.
È l'atteso con fede e impazienza da Virgilio; è colui che deve infrangere la resistenza avversaria e permettere ai due viandanti di continuare e compiere il cammino.
Egli va diritto alla porta di Dite; la spalanca al tocco di una verghetta che tiene nella destra, simbolo della potestà divina la quale con minimi trascurabili mezzi abbatte qualsivoglia ostacolo per quanto formidabile. I diavoli che vi stanno dietro a presidio allibiscono atterriti all'apparire del princeps militiae coelestis che ben conoscono e temono; di colui che “fè la vendetta del superbo strupo”; che li sconfisse insieme con il loro condottiero follemente audace, quando osarono ribellarsi al loro Creatore e signore, li scacciò dal paradiso, li precipitò nella terra-uomo, nelle tenebre dell’errore, nel dolore, ed essi disconobbero la verità che è luce, perderono la visione di Dio, che è la suprema beatitudine.
L'arcangelo è fermo, tremendo, solo contro mille su l’orribile porta; le mura di Dite mandano sinistri bagliori.
Lucifero, la potenza degl’inferi dal profondo della terra buia ha inviata una coorte di diavoli; Iddio, la potenza dei superi, la potenza delle potenze, dall'alto dei cieli luminosi soltanto Micha-El, la sua potenza invitta e invincibile. Quis ut Deus? Micha-EI che sta alla destra dell'Altissimo; Micha-El che nelle scritture è contrapposto a Satana; che nella visione di Daniele rappresenta lehvè.
Nel più profondo silenzio si leva alto il suo grido di rampogna:

"O cacciati da ciel, gente dispetta
[…]

ond'esta tracotanza in voi s'alletta?

Perchè ricalcitrate a quella voglia
a cui non può il fin mai esser mozzo
e che più volte v'ha cresciuta doglia?

Che vale nelle fata dar di cozzo?”

Voluntatae eius quis resistit?
Li umilia ricordando che furono scacciati dal cielo; li insulta definendoli spregevoli; li avvilisce rilevando che la loro tra- cotanza non ha fondamento e che essi furono sempre vinti ogni qualvolta osarono misurarsi con l'Onnipotente; li confonde con la considerazione che chiunque lo abbia tentato è rimasto sconfitto, come Cerbero, il loro compagno, quando presumette opporsi a Ercole:

Cerbero vostro, se ben vi ricorda
ne porta ancor pelato il mento e il gozzo.

Il ricordo vale a meglio chiarire l'idea della vittoria del Bene sul Male.
Dante e Virgilio sono anch'essi in ascolto: il gruppo del vivo e dell'ombra con espressioni di trepida commossa attesa, al riverbero delle mura incandescenti, è di bellezza incomparabile.
I diavoli fuggono e scompaiono; Micha-El ha difeso nella lotta i due viandanti, li ha protetti contro le insidie e Ja malvagità dei militi infernali che ha dispersi quando stavano operando per perdere Dante; Iddio ha vinto Satana. Tutto come nell’invocazione: Sancte Michael arcangele, defende nos in proelio, contra nequitiam et insidias diabuli esto praesidium. Imperet illi Deus; tuque princeps militiae coelestis. Satanam aliosque spiritus malignos qui ad perditionem animarum pervangantur in mundo, divina virtute in inferno detrude.
Il messaggero celeste assolto il suo compito, fa a ritroso la sudicia strada già percorsa, con l'aspetto non più disdegnoso, ma di chi è preso da ben altra cura che di colui che gli è davanti: non guarda nemmeno i due poeti chini reverenti al suo passaggio, unica espressione di vita in quel campo sconfinato della morte; non si interessa di loro, né dice loro una sola parola.

Poi si rivolse per la strada lorda
e non fè motto a noi, ma fè sembiante
d'omo cui altra cura stringa e morda

che quella di colui che li è davante.

Non brama se non uscire da quel sordido carcere e tornare nella purità dei cieli, nel gaudio ineffabile della contemplazione di Dio: come Beatrice:

“Vegno di loco ove tornar disio.”

Chi è assuefatto alla felicità che consegue alla pratica della virtù, non sente l’attrattiva del vizio; ne rifugge anzi con disgusto e orrore.
Ricomincia l'eterno lamento dei morti.
Rassicuràti dalle parole del santo arcangelo i due riprendono il cammino interrotto, varcano la porta, entrano nel Regno di Dite. Le forze dell'inferno sono stroncate. D'ora innanzi nessuna seria resistenza: il Minotauro si adira bestialmente ma non può nuocere; Chirone si placa alle parole del duca come già i custodi dei cerchi degli incontinenti, che anzi mette a disposizione il centauro Nesso; Gerione porta in groppa Dante e Virgilio; Anteo li discende a Cocito; i diavoli della quinta bolgia li scortano dietro ordine di Malacoda; Lucifero permette a Virgilio senza alcuna protesta di aggrapparsi ai peli del suo corpo per riportare Dante a riveder le stelle.

Il nucleo del poema, al quale per la grandiosità della concezione e dello svolgimento e per la forma sublime ha davvero posto mano e cielo e terra; il suo concetto fondamentale è la lotta tra il Bene e il Male che si conclude col trionfo del primo sul secondo mediante il tormento dell’infelicità che consegue alla colpa, e la visione di Dio e il gaudio celeste a cui si perviene per il dono gratuito della grazia concesso a pochi dalla misericordia divina per suoi fini imperscrutabili, in deroga al principio di giustizia.
È postulato non soltanto cristiano ma di tutte le antiche religioni orientali e altresì della filosofia pagana che la colpa genera l'infelicità, laddove, l’anima trova completa e vera felicità nella pratica della virtù.
Il viaggio simbolico per l'inferno comincia nel giorno in cui il Cristo muore nella carne, e finisce in quello in cui risorge nello spirito per significare la vittoria della vita sulla morte, ossia del Bene sul Male.
Dante si smarrisce nella selva del peccato, selva che non lasciò giammai persona viva, perché il peccato uccide tutti tranne pochi; non essendovi alcuno giusto a causa di quello di origi- ne, ossia della naturale deficienza fisiologica in cui la ragione trova la causa del suo imperfetto funzionamento: onde la legge della predestinazione, la legge della fatalità, intesa non come cieco e disordinato scatenarsi di eventi, sibbene come attuazione di un principio di superiore necessità, a noi ignoto, preordinato a governare l'intero cosmo e guidarlo con gli esseri che ne fanno parte, compreso l’uomo, al raggiungimento dei fini universali anch'essi a noi sconosciuti.
Praedestinatio, afferma S. Tommaso D'Aquino, proprie accepta est quaedam divina praeordinatio ab aeterno de his quae per gratiam Dei sunt fienda in tempore.
E la predestinazione così intesa è un arcano per gl’intelletti creati

che la prima cagion non veggion tota,

è un arcano altresì per gli spiriti beati, per tutti, finanche per i Serafini in cui più riluce la visione di Dio, che più lo comprendono.

Ma quell'alma nel ciel che più si schiara,
quel Serafin che ‘n Dio più l'occhio ha fisso,
alla dimanda tua non satisfara.

Soltanto l'Onnipotenza di Dio può annullare le leggi indistruttibili da Esso poste, può vincere l'ostacolo della materia, sua emanazione, (emitte spiritum tuum et creabuntur), può diradare la foschia per cui la mente umana non può conoscere la verità né avere la forza di seguirla, ossia di operare il bene. L'intervento divino per cui l’uomo si salva si è convenuto chiamare grazia.
Lo stesso S. Tommaso dice: Sensus corporis quantumcumque sit purus, non potest aliquid ratiocinando veritatem cognoscere absque illustratione divina quae ad auxilium gratiae pertinet.
E inoltre: Homo per sua naturalia non potest producere opera maeritoria proportionata vitae aeternae; sed ad hoc exigitur altior virtus, quae est virtus gratiae. Et ideo, sine gratia homo non potest maereri vitam aeternam.
Sant'Agostino insegna che tutti sono dannati e che la grazia salvatrice è concessa ai prescelti, ai predestinati.
Al principio della cantica Virgilio, il maestro, parlando della dimora dei beati, del Paradiso, ossia della salvazione, aveva detto con accento accorato:

oh felice colui cu' ivi elegge!

e precedentemente nell'Eneide:

Facilis descensus averno:
Noctes atque dies patet atri ianua Ditis:
Sed revocare gradus superasque evadere ad auras,
Hoc opus, hic labor est. Pauci, quos aequus amavit
Iuppiter, aut ardens evexit ad aethera virtus,
Dis geniti potuere.

Gesù il Cristo di Nazareth conferma quanto sopra: (Matteo XX, 23; XXIV, 22; Marco X, 40; XIII, 20; Giovanni VI, 66 Atti XIII, 48).
Dante pieno di orrore e di spavento, uscito con sforzo immane dalla selva oscura, dalle spire del peccato, si riconforta a trovarsi in una piaggia di sì lieve pendìo che nel suo andare, il piede fermo, quello cioè che sostiene il corpo nel movimento di traslazione, era sempre più basso dell'altro che si solleva per portarlo avanti; ma senza alcuna anima viva perché i predestinati alla redenzione sono pochi. Gli sembra agevole procedere con le sole sue forze, ma non è così. È un mattino di primavera; l'ora e la dolce stagione lo rinfrancano e l'inducono a bene sperare; è l'inizio e la primavera della vita nuova. Sorge il sole della verità, che è luce agli uomini, (lucem tuam et veritatem tuam) a cui egli vuol pervenire con lieto animo salendo il dilettoso monte della virtù (montem sanctum tuum); ma ecco tre fiere a sbarrargli il passo, le tre sorgenti del male dalle quali hanno origini le singole molteplici colpe: un leone che gli va incontro con la testa alta e con rabbiosa fame (quaerens quem devoret): la superbia per cui ci si ribella alla potestà di Dio, alle sue leggi; una lonza agile e sveltissima dalla pelle piacevolmente chiazzata: la lussuria che subitamente infiamma e conquide i sensi con la sua seducente attrattiva, e li tiene perennemente avvinti a sè: una lupa sparuta, affamata, insaziabile: la cupidigia, di cui Cicerone, riportato nel Convivio, dice: “In nullo tempo si compie né si sazia la sete della cupiditate”; la cupidigia, radix omnium malorum, che suscita passioni di ogni genere (di tutte brame sembiava carca); lupa scatenata dall'inferno invidioso della felicità goduta dal genere umano nel paradiso terrestre, ossia nello stato istintivo, prima di passare, per la progressiva evoluzione della materia, a quello razionale (il serpente alato con faccia umana), che portandolo alla conoscenza del bene e del male Io rese infelice; lupa che infesta e infesterà il mondo, e in special modo la chiesa di Roma, finché il Cristo, tornato per la seconda volta sulla Terra, tanto povero da essere avvolto alla sua nascita in panni di misero feltro

(sua nazion sarà tra feltro e feltro),

privo, nella parusia, di qualsiasi potere temporale e di beni di fortuna,

(non ciberà terra né peltro)

soltanto con le eccelse doti dell'Uno-trino: l'amore, la Virtute, la Sapienza, (di cui le tre fiere sono il contrapposto) vincerà il peccato nella palingenesi universale della resurrezione ossia della spiritualizzazione della carne, per cui l'Adamo, il Dio-uomo, sarà trasformato in Uomo-dio.
Dante dunque pure animato dai migliori propositi e da grande fervore non riesce a liberarsi dalla paura che gli incutono le tre fiere, e sta per essere ricacciato nella selva tenebrosa del male: la materia non ha la forza di liberarsi dal peccato connaturato ad essa.
Ma d'improvviso, non richiesta, non attesa, gli appare l'ombra di Virgilio, il suo maestro, che lo ferma: è la ragione che ha ricevuto il dono della grazia, il cui procedimento Dante espone con bella favola nella allegoria delle tre donne celesti:
La grazia viene concessa per misericordia e bontà di Dio, simboleggiate nella Vergine-Madre;

(in te misericordia in te s'aduna
quantunque in creatura è di bontade)

misericordia che tempera la giustizia

(si che duro giudizio lassù franga)

Iddio schiarisce la mente dell'uomo con la luce della verità: Lucia: nimica di ciascun crudele, perché è crudeltà non illuminare chi brancola nelle tenebre dell'errore e non scorgendo la via precipita nella voragine della colpa e del conseguente dolore, Dante le è fedele perché nel buio, nella cecità intellettuale e morale cerca e implora la luce.
E la luce della verità è concessa per amore divino: Beatrice:

(Amor mi mosse che mi fa parlare)

Beatrice “loda di Dio vera” perché l'amore è l'elogio di Dio, che crea per amore e salva per amore; che emana da sè la materia e l'uomo, e poi spiritualizza e attrae a sè l'amato il quale a sua volta per divina grazia diviene amante:

(Lo raggio della grazia in che s'accende
verace amor e che poi cresce amando
moltiplicato in te tanto risplende

che ti conduce su per quella scala
u' senza risalir nessun discende)

Beatrice, l'amore così potentemente sentito da interrompere la beatitudine della contemplazione del sommo Bene

(che si sedea con l'antica Rachele)

che è la suprema attrazione, per venire in soccorso della carne ammorbata dalla colpa; Beatrice che per amore guida Dante attraverso il Paradiso, dove Virgilio non può accedere per non aver conosciuto e amato Dio; Beatrice, signora della virtù, che è concessione dell'amore divino, per la quale soltanto l'uomo sopravanza quanto esiste sulla terra, essendo dato a lui solo conoscerla e praticarla per potersi, purificato, immergere nella “luce intellettual piena d'amore”; Beatrice che viva rappresenta per Dante l'amore terreno, morta l'amore per la filosofia, in Paradiso l'amore divino, l'amore universale.
Così lo spirito trionfa sulla materia; Iddio che ama e arride nell'alto dei cieli luminosi su Lucifero, l'Adamo, confitto nella terra buia sotto il peso dell'odio e della disperazione, condannato a maciullare nelle tre bocche tre ribelli e traditori, lui il primo ribelle, il grande traditore, e a piangere la sua deficienza e il suo martirio.
Questa vittoria del Bene sul male, questo trionfo dell'onnipotenza e dell'amore divini costituiscono a mio avviso

... la dottrina che s'asconde
sotto il velame delli versi strani

nonché il senso precipuo dell'allegoria de la Commedia.

Ielsi, giugno 1959

Date: 2022-01-14