Tradurre l’allegoria: Convivio II, i [Albert R. Ascoli]

Dati bibliografici

Autore: Robert Russell Ascoli

Tratto da: Critica del testo

Numero: XIV

Anno: 2011

Pagine: 153-175

Cosa vuol dire “tradurre l’allegoria”? Ci sono varie possibilità, e in questo saggio ne affronterò più d’una. Si potrebbe pensare innanzitutto al vasto programma di traduzioni dal latino nei volgari europei tra Duecento e Trecento , il cui esempio di rilievo è la Rettorica ciceroniana di Brunetto Latini. Non ci dovrebbero essere dubbi sul fatto che il Convivio di Dante appartiene, nonostante le sue innegabili specificità, a questo diffuso movimento culturale, soprattutto data la definizione lata di “traduzione” in questo periodo . In secondo luogo, in connessione con questo primo fenomeno, si pensi all’adozione in testi volgari delle tecniche di scrittura e di lettura allegorica sviluppate negli autorevoli testi latini, sia teologici sia “poetici” , e nei commenti, sempre in latino, che li circondavano (anche letteralmente) . Vale la pena di precisare fin d’ora che non mi occuperò in questa sede della prassi di scrittura allegorica che Dante rivendica per le canzoni commentate nel secondo e terzo libro del Convivio (la canzone del quarto libro, Le dolci rime d’amore ch’i’ solia avrebbe, sempre secondo Dante, solo un significato letterale) . La mia attenzione si indirizzerà invece sulla traduzione che è simultaneamente trasformazione – effettuata per l’appunto nel primo capitolo del secondo libro del Convivio – delle principali teorie medievali dell’allegoria (cioè scrittura allegorica) e dell’allegoresi (cioè lettura allegorizzante) che si trovano in una varietà di testi latini ai quali Dante ebbe accesso diretto e indiretto . L’ultimo aspetto della “traduzione dell’allegoria”, infine, si gioca sul fatto che questa figura retorica è tradizionalmente considerata una metafora prolungata, e che perciò partecipa della definizione di metafora come “translatio”, ovverosia “traduzione” . In senso più lato, quindi, il titolo di questo mio saggio vuole indicare, da parte dell’Alighieri, e non solo nel singolo capitolo del Convivio che qui occuperà la mia attenzione, un’appropriazione e trasformazione, una vera e propria “translatio”, storicamente significativa delle tecniche medievali dell’allegoria (scrittura) e dell’allegoresi (lettura).
Prima di immergermi nel pelago di quest’intervento, mi sembra importante sottolineare che esso si inserisce nel contesto di un progetto molto più ampio che mira a collocare Dante e le sue opere in seno alle complesse vicende storiche che portano da un concetto di autore basato sull’idea di auctoritas nella latinità medievale ad un altro, quello dello scrittore “moderno”, individualista, storicizzato, “volgare”. Il presente saggio è dunque una sorta di continuazione di due miei contributi pubblicati in precedenza. Il primo è un saggio apparso quattordici anni fa (Access to Authority: Dante in the Epistle to Cangrande); l’altro è il mio libro del 2008, di prossima pubblicazione in Italia presso Laterza, intitolato Dante and the Making of a Modern Author . In Access to Authority sostenevo che l’accesa controversia sulla provenienza autoriale che investe l’Epistola ha reso impossibile una lettura seria del documento in sé, in quanto i partigiani di entrambe le posizioni (autenticità/inautenticità dell’attribuzione a Dante) tendevano, e tendono ancora, a concentrare l’attenzione su pochi brani decontestualizzati (per lo più i capitoli 7, 8, 9 e 10) e volti a confermare la loro interpretazione della Commedia. Per restituire al suo significato storico l’Epistola (che, del resto, non è propriamente un’epistola, bensì un testo ibrido che comprende un’epistola, un accessus ad auctorem, e un commento incompleto), sostenevo l’opportunità di sospendere il giudizio sulla questione dell’autenticità conducendo invece una lettura organica del testo. Come corollario a questo principio metodologico argomentavo che l’insistenza ad oltranza sul contenuto dell’Epistola ha oscurato la sua identità generica, in particolare per quanto riguarda l’adozione delle forme dell’accessus e del commentario tardo-medievali e le sue funzioni retoriche nel processo di “autorizzazione”, che si potrebbe pure dire “autorializzazione”, di Dante e del “poema sacro”. In altre parole, mi sembrava molto meno importante verificare che l’Epistola fornisse una chiave di lettura autoriale della Commedia secondo i “quattro sensi” biblici, o che le definizioni di “comedìa” fornite fossero adeguate al poema, e molto più importante constatare il suo tentativo di conferire a Dante e alla Commedia un trattamento di solito riservato agli auctores classici e cristiani. Seguendo questo criterio, ho elaborato una mia proposta di lettura basata su uno stretto rapporto genealogico tra l’Epistola e il primo intervento dantesco sulla questione dell’allegoria, proprio quella spiegazione, nel primo capitolo del secondo libro del Convivio, su come la prassi di auto-commento (grande innovazione dantesca, prima sperimentata nella Vita Nova) segua le norme di una lettura “poetica” anziché “teologica” .
Access to Authority si fondava su tre premesse metodologiche esposte e messe in atto anche in Dante and the Making of a Modern Author:

1) che il close reading all’americana, adoperato con cautela, può essere a volte il modo più diretto per arrivare a una lettura “storicizzata” ;
2) che è di primaria importanza evitare di ricadere nel modello “teologico”, o, forse meglio ancora, “escatologico” , che ha guidato le tendenze principali della critica dantesca nord-americana da Singleton in poi, e che fa sì che tutte le altre opere dantesche, anche quelle successive, siano lette subordinatamente al capolavoro della Commedia;
3) che, infine, nello studio del modo (o dei modi) in cui Dante mette in discussione l’allegoria come modo di scrivere o come metodo di lettura, e pure nelle ipotesi su come Dante mette in atto l’allegoria nelle sue opere, laddove gli studiosi di Dante hanno tipicamente sfruttato i brani “teorici” (Convivio II, i; Epistola cap. 7) per poi definire la sua pratica nella Commedia, sarebbe al tempo stesso più cauto e potenzialmente più interessante, almeno in una prospettiva storica più ampia, leggere i testi “teorici” e le opere “minori” in generale secondo le loro logiche interne.

Fatte queste precisazioni, siamo ormai pronti ad affrontare una lettura dettagliata – un close reading – di Convivio II, i, lettura affine per certi aspetti a quella già svolta nel mio saggio sull’Epistola, e attraverso la quale metterò a fuoco alcuni problemi già affrontati, almeno in parte, nel mio libro. Tra l’altro, vorrei anche suggerire che:

1) ancora una volta, il tentativo di sciogliere un nodo interpretativo cruciale – e cioè la distinzione, parzialmente creata da correzioni editoriali di lacune nella tradizione manoscritta, tra l’“allegoria dei poeti” e l’“allegoria dei teologi” – che riguarda soprattutto l’interpretazione della Commedia, è andata a scapito dell’analisi della logica del capitolo, visto nel contesto integrale del Convivio;
2) l’impiego, del tutto particolare, in seno al Convivio dello schema dei quattro sensi proveniente dalla tradizione dell’esegesi biblica (quello letterale, ovverosia “storico”, seguito da tre sensi allegorici, l’allegoria vera e propria, la “tropologia”, e l’anagogia) è per molti versi assai più suggestivo, originale, e potenzialmente scandaloso del brano equivalente nell’Epistola – e ci può dire molto sul rapporto eclettico, sintetico e trasformativo di Dante con le tradizioni culturali a lui familiari;
3) l’enfasi degli studiosi sulla differenza tra i due tipi d’allegoria, distinguibili, apparentemente, dal senso letterale (fittizio, perfino menzognero, nella poesia; storico e verace nella Bibbia), ha offuscato il fatto cruciale che per Dante la lettera costituisce in tutt’e due i casi il punto di partenza obbligatorio per qualunque interpretazione allegorica – un concetto al quale viene dedicata più della metà del capitolo;
4) l’enfasi altrettanto spiccata degli studiosi sull’allegoria come modo di scrivere (sempre in rapporto al presunto modus significandi della Commedia) ha oscurato il fatto che il capitolo in realtà parte come una discussione, non dell’allegoria in quanto scrittura, ma dell’allegoresi come interpretazione, e cioè si offre come guida alla lettura delle canzoni di Dante, o, meglio ancora, come spiegazione della funzione esegetica della prosa del Convivio in rapporto a quelle poesie, e che quindi il capitolo sarebbe scritto dal punto di vista di Dante-commentatore anziché di Dante-poeta.

Prendendo atto di quest’ultima osservazione, bisogna riconoscere ancora una volta la straordinaria importanza del fatto che il Convivio è un’opera di auto-commento, una forma di scrittura senza precedenti nel tardo Medioevo che è tuttavia profondamente radicata nella prassi diffusissima nell’epoca di sottoporre i testi prestigiosi degli auctores antichi (sia classici che cristiani) al lavoro esegetico dei commentatores moderni . Detto in altri termini, Dante qui, come altrove, fa suo il duplice ruolo di lettore e scrittore, al tempo stesso distinguendo l’allegoria – prassi di scrittura – dall’allegoresi – prassi di lettura – e avvicinando le due attività tanto da invitarci a concludere che l’autore di un testo sia il suo interprete migliore. Il desiderio ossessivo di Dante di definire il significato dei propri testi e perciò di guidarne l’interpretazione – desiderio che si manifesta attraverso tutta la sua carriera, almeno a partire dalla Vita nova – indica un atteggiamento innovativo nella storia dell’autore occidentale che consiste nell’insistere sul potere dello scrittore di realizzare le proprie intenzioni nei propri scritti e di controllarne la ricezione da parte dei lettori.
Ora osserviamo più da vicino il testo, che renderà, spero, molto più chiaro ciò che ho appena dichiarato. Il Convivio, per indicazione del testo stesso, doveva essere composto di quindici libri, con lo scopo di commentare quattordici canzoni dantesche (I, i, 14), e invece, come tutti sanno, ne rimangono solo quattro – un primo libro che introduce e difende il progetto di auto-commento a scopi didattici, seguito da tre libri che commentano altrettante canzoni. All’inizio del primo libro di commento (cioè il secondo libro, che offre un’interpretazione letterale e poi allegorica della canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete), prima di avviare il commento vero e proprio, Dante offre come premessa una spiegazione del metodo esegetico che verrà impiegato qui e nei libri seguenti:

Ma però che più profittabile sia questo mio cibo, prima che vegna la prima vivanda voglio mostrare come mangiare si dee. Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L’uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato. Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria: sì come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Che avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s’intende, cioè che ne l’uscita de l’anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico (II, i, 1-8) .

Questa lunga citazione mira a sottolineare la complessità, e soprattutto la novità, di questa famosissima e interpretatissima definizione del modo in cui Dante dice di voler esporre il significato, ovverosia i molteplici significati, delle sue poesie.
La stragrande maggioranza della critica, quando parla di questo brano, mette a fuoco due punti tanto importanti quanto evidenti : e cioè l’impiego, da un lato, del metodo esegetico dei quattro sensi, che deriva dalla tradizione dei commentari sulla Bibbia; e d’altro canto, una distinzione – resa difficile dallo stato lacunoso del testo pervenutoci, ma nondimeno cruciale – tra l’uso dell’allegoria da parte dei poeti e l’uso di questa da parte dei “teologi”, con un Dante che si schiera dalla parte dei poeti (la parola “poeti”, si direbbe, fa riferimento specifico ai poeti classici latini, in primo luogo Ovidio, come si vedrà, ma anche Virgilio, Orazio, ed altri). Tuttavia, l’esigenza fortemente sentita sia di stabilire quali siano le intenzioni precise di Dante in questo brano, sia di definire il significato del capitolo II, i in rapporto all’allegoria della Commedia, fa sì che le ambiguità e, diciamo pure, le confusioni, intrinseche al capitolo vengano minimizzate o almeno viste soltanto come un ostacolo provvisorio da superare. Ma sono proprio queste ambiguità e confusioni che, secondo me, rappresentano gli aspetti più significativi del brano, sia da un punto di vista concettuale, sia da quello storico. In particolar modo, l’importanza degli esempi scelti per illustrare i quattro sensi non è stata sufficientemente sottolineata.
Il primo punto su cui vale la pena insistere è questo: mentre le interpretazioni date dagli studiosi solitamente vogliono far capire che il capitolo II, i offre una spia attendibile del modus significandi della poesia di Dante, o almeno dell’intenzione dell’autore in proposito, la mèta dichiarata di Dante, invece, è quella di spiegare come egli, commentatore in prosa, intenda procedere ad esporre i sensi letterali e nascosti delle sue canzoni. In altre parole, come ho già anticipato, il capitolo non si presenta come disamina dell’allegoria quale modo espressivo poetico e/o teologico, ma dell’allegoresi come prassi interpretativa, come è evidenziato dalla metafora iniziale del “consumo” del testo («voglio mostrare come mangiare si dee»), e poi dall’impiego per due volte nel secondo paragrafo della parola «intendere», chiaramente nel senso della comprensione del lettore , e per due volte delle parole «esponere» e «esposizione» nel senso di glossa esegetica . D’altro canto, non è possibile semplicemente rovesciare la situazione, insistendo, come fa, per esempio, John Scott, sul fatto che Dante parla soltanto di lettura allegorica anziché di scrittura allegorica . La confusione tra allegoria e allegoresi non è soltanto un’imposizione esterna dei critici che cercano la “verità” sulla poetica dantesca: tale confusione emerge direttamente dal testo.
Quando Dante afferma di non “prendere” il senso (i sensi) dell’allegoria come fanno i “teologi”, fa riferimento a coloro che studiano la “regina delle scienze”, la teologia, e non all’altro uso possibile della parola in questi tempi, cioè agli autori umani della Bibbia . Quando invece afferma di voler “seguitare” il modo dei poeti, fa ovviamente riferimento agli scrittori di poesia, e non ai suoi interpreti. In altre parole, Dante ci presenta la distinzione tra allegoria e allegoresi, e poi non la rispetta. Cosa si cela dietro questa mossa apparentemente confusa? Il fatto, già sottolineato, che nel Convivio, a differenza di quasi tutti gli altri commenti medievali ai poeti o ad altri testi , Dante è simultaneamente interprete e autore della poesia. La confusione si potrebbe dunque spiegare almeno in parte come effetto di questa coincidenza di ruoli solitamente separati: Dante interprete non fa altro che rendere esplicite (oppure “aprire”, metafora spesso usata nel Convivio e altrove negli scritti danteschi) le proprie intenzioni poetiche precedenti .
Secondo punto. Laddove si verrebbe a supporre, a leggere la tradizione critica, che il capitolo II, i abbia come scopo principale l’interpretazione del senso o dei sensi allegorici dei testi, sia poetici che biblici, Dante invece tiene a precisare che la sua esposizione «conviene essere» sia letterale che allegorica . A prova di questa affermazione sta il fatto, incontestabile, che metà del capitolo (II, i, 8-15) è dedicato a spiegare che ogni comprensione dei sensi nascosti, allegorici, dipende strettamente da un’interpretazione accurata della lettera del testo e non ne può fare a meno. L’enfasi sulla lettera viene esemplificata e rafforzata dalle esposizioni testuali che seguono. Il secondo e il terzo libro sono entrambi composti da quindici capitoli, ed entrambi dedicano ben dieci capitoli all’esposizione della lettera, di cui solo quattro (nel secondo libro) e cinque (nel terzo) all’esegesi allegorica. Mentre il libro quarto, lungo quanto gli altri due messi insieme, cioè trenta capitoli, offre solo un’interpretazione letterale .
Lo scopo principale della critica, e in modo particolare quello della scuola nord-americana che ha calcato per tanti anni le orme di Singleton, è di stabilire se la lettera della Commedia ci venga offerta da Dante come una «bella menzogna» poetica o invece come una verità profetico-biblica, o quasi . Ma da un punto di vista che tenga conto dell’importanza storica della “traduzione” che Dante fa della tradizione allegorica latina, quello che invece importa è che la lettera, menzogna o verità che sia, sta all’origine di ogni significato testuale. Questo secondo punto, bisogna riconoscerlo, è strettamente legato al primo. Perché le intenzioni allegoriche dell’autore delle canzoni e l’allegoresi dell’esegeta coincidano fuori dalla mente dello stesso Dante, la lettera deve servire da tramite tra il poeta e i suoi lettori. Di fatti, la lettera deve, almeno fino a un certo punto, essere capace di rivelare, di “aprire”, ciò che per definizione sarebbe nascosto. È proprio questo che Dante vuole dire verso la fine del capitolo quando dice che la lettera costituisce la materia prima con cui si costruisce il significato allegorico, come il legno con cui è costruita un’arca .

Infine, e tornando alla vexata quaestio dell’apparente distinzione tra diversi tipi di allegoria e/o allegoresi, rimangono da prendere in esame gli esempi specifici che Dante utilizza per illustrare i quattro sensi della scrittura. Questi vengono generalmente citati per rilevare la differenza tra le allegorie tradizionalmente attribuite ai testi poetici (come, per esempio, le letture morali o spirituali di Ovidio e di Virgilio) e quelle che sono fornite dall’esegesi biblica. Tuttavia, sia i singoli esempi, vuoi poetici, vuoi biblici, nonché l’insieme dei tre esempi forniti per illustrare rispettivamente i tre sensi (quello “allegorico” in senso stretto; quello etico-tropologico; quello anagogico-escatologico) appaiono profondamente idiosincratici e sollevano seri problemi nel tentativo di stabilire un collegamento tra il testo di Dante e le tradizioni dell’allegoria medievale su cui vuole evidentemente fare leva. Detto in altri termini, nel tentativo di giustapporre e poi di distinguere due tipi diversi di allegoria e/o allegoresi (poetico e teologico), Dante li trasforma entrambi fino al punto di renderli appena riconoscibili.
L’esempio più interessante, e meno apprezzato, è il primo, cioè, la favola ovidiana, ma anche oraziana , di Orfeo che muove le rocce e le pietre con la sua musica, interpretata allegoricamente come l’uomo saggio che rende mansueti e dotti gli ignoranti con le sue parole . Seguendo lo schema quadripartito dell’esegesi biblica (modello subito adottato da Dante nel capitolo), questo esempio dovrebbe illustrare il trapasso dal senso letterale e/o storico a quello cristologico, e talvolta ecclesiologico, quello “allegorico” in senso stretto del «quod credas», sul quale sono fondati gli altri due sensi – quello morale-tropologico («quid agas») e anagogico-escatologico («quo tendas») . Tuttavia, sebbene il testo indichi una divergenza dell’esempio “poetico” di Orfeo dalle intenzioni e/o interpretazioni dei teologi, non spiega in cosa consista tale differenza – non rende neppure chiaro se la differenza inerisca al testo letterale che viene interpretato (poetico o biblico) o all’interpretazione allegorica derivata da quello (etico o cristologico). A prima vista, l’esempio offerto da Dante sembra essere un’istanza perfetta di allegoresi tipica di un testo poetico, che quasi sempre si limita a scoprire un solo senso nascosto, di solito “morale” nella sua applicabilità alla vita del lettore . Questo senso, secondo una logica rigorosa, dovrebbe corrispondere al secondo dei tre sensi allegorici dell’esegesi biblica, quello morale-tropologico, che riguarda il comportamento del soggetto cristiano in quanto individuo, altrimenti detto “everyman” – e non il primo di questi sensi, che ha un contenuto epistemologico («quod credas»: cosa credi, cosa sai essere vero).
A ben guardare, però, l’istanza orfica addotta da Dante non è un esempio qualunque di allegoria tropologico-morale, bensì un esempio di “secondo livello”, un meta-esempio, del poeta stesso che scrive l’allegoria. Con questa «allegoria dell’allegoria» (così felicemente definita da Ronald Martinez) , ci troviamo davanti non ad una lezione etica che il lettore dovrebbe imitare nella propria vita, ma invece a un’esemplificazione di come il poeta-filosofo o poeta-teologo possa infondere tali lezioni tramite la forza del suo linguaggio “musicale” . In altre parole, l’esempio di Orfeo costituisce un’allegorizzazione del lavoro di Dante-poeta, i bei versi che hanno come mèta il “delectare, docere, movere” della retorica ciceroniana . Questo fatto è coerente con la tesi, da me esposta in altra sede, che la dichiarata missione pedagogica del trattato – che avrebbe come mira principale l’istruzione di un lettore poco preparato nella cultura filosofica latina – si trova ad essere consistentemente dirottata verso una meditazione giustificatoria sull’autorità rivendicata dallo scrittore per sé, per la sua opera, e per la lingua che adopera .
Visti in quest’ottica, il secondo e il terzo libro offrono un riassunto dell’esperienza del soggetto “Dante”, che, dopo la morte di Beatrice, ha compiuto una specie di ascesi consolatoria verso uno stato di conoscenza elevato, dal quale può guardare indietro per poi offrirsi come guida agli altri. A prima vista, poi, il quarto libro sembra abbandonare il modo autobiografico (anche se il discorso lì esposto sarebbe frutto di una non specificata crisi nei rapporti di Dante con la sua “donna”, cioè la Filosofia), per elaborare definizioni “impersonali” di cosa siano prima l’“autorità” e poi la “nobiltà”. Tuttavia, come ho mostrato altrove, queste definizioni hanno una rilevanza immediata e del tutto personale per quanto riguarda Dante e i suoi testi.
Tornando al nostro capitolo, una volta riconosciuto il modo in cui l’esempio di Orfeo si discosta dalla forma tipica dell’“allegoria dei poeti”, possiamo anche riconoscervi una certa affinità con il senso cristologico dell’esegesi biblica, nonostante le smentite di Dante. Infatti, come tutti sanno, Orfeo, in base alla sua mitica discesa all’Inferno e al successivo ritorno alla luce, è spesso visto come “figura Christi” nelle allegorizzazioni medievali . In questo caso ciò significherebbe che è proprio il “saggio”, cioè Dante-poeta, il significato allegorico del testo, laddove nel tipico uso dello schema dei quattro sensi, sarebbe lo stesso Cristo. Il che non significa, ovviamente, che Dante si metta davvero sullo stesso piano del Verbo Incarnato. Significa, invece, che la proposta distinzione tra l’“allegoria dei poeti” e l’“allegoria dei teologi” si attenua proprio nel momento in cui la si esemplifica – e che tutto ciò avviene allo scopo di giustificare le ambizioni di Dante per se stesso e per i suoi scritti.
Per riassumere: nell’esemplificazione del primo e più importante dei tre sensi allegorici, Dante impiega un testo poetico, non biblico. Vero è che si premette che un teologo avrebbe interpretato questo senso in modo diverso da Dante, il quale invece segue la procedura interpretativa dei poeti, ma non si spiega in che cosa sarebbe consistita questa differenza e, come abbiamo visto, sussiste un’analogia implicita tra l’allegorizzazione poetica della favola di Orfeo e quella teologica che in qualche modo sovverte la distinzione esplicita che è stata fatta tra i due tipi di allegoresi .
Nelle esemplificazioni degli altri due sensi allegorici – quello tropologico e quello anagogico – accade qualcosa di ben diverso: entrambi vengono illustrati in rapporto a testi biblici letterali, nel primo caso l’episodio della Trasfigurazione di Gesù, nel secondo l’esodo degli ebrei dall’Egitto. Non si può dire che il legame tra tali sensi e l’esegesi delle canzoni proposta da Dante sia chiaro, anche se alla fine del capitolo egli sostiene che toccherà questi sensi “incidentalmente” nel trattato (non è affatto chiaro dove, o se, questo avvenga nel testo). Nonostante l’uso di testi biblici, non si può dire neppure che Dante stia impiegando in modo riconoscibile gli strumenti tradizionali dell’esegesi teologica. Tanto per cominciare, le illustrazioni del modello esegetico biblico partono di solito da un unico brano o da un’immagine biblica e poi passano a dimostrare come tutti e tre i sensi allegorici procedano dalla lettera di quello. Un esempio di questo fenomeno si ha, per l’appunto, nel capitolo settimo dell’Epistola a Cangrande, che ha come scopo esplicito di definire il «modus tractandi» a più sensi della Commedia:

(…) sciendum est quod istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polysemos, hoc est plurium sensuum; nam primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus, sive moralis, sive anagogicus. Qui modus tractandi, ut melius pateat, potest considerari in hiis versibus: «In exitu Israel de Egipto, domus Iacob de populo barbaro, facta est Iudea sanctificatio eius, Israel potestas eius» [Salmi 113:1-2]. Nam si ad litteram solam inspiciamus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Egipto, tempore Moysis; si ad allegoriam, nobis significatur nostra redemptio facta per Christum; si ad moralem sensum, significatur nobis conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratie; si ad anagogicum, significatur exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem. Et quamquam isti sensus mistici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi. Nam allegoria dicitur ab ‘alleon’ grece, quod in latinum dicitur ‘alienum’, sive ‘diversum’ .

(bisogna premettere che il significato di codesta opera non è uno solo, anzi può definirsi un significato polisemos, cioè da più significati. Infatti il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’altro è quello che si ha da quello che si volle significare con la lettera del testo. Il primo si dice letterale, il secondo invece significato allegorico o morale o anagogico. Questi diversi modi di trattare un argomento si possono esemplificare, per maggior chiarezza, con i versetti: «allorché dall’Egitto uscì Israele, e la casa di Giacobbe (si partì) da un popolo barbaro; la nazione giudea venne consacrata a Dio; e dominio di Lui venne ad essere Israele» (Salmi 113:1-2). Infatti se guardiamo alla sola lettera del testo, il significato è che i figli di Israele uscirono d’Egitto, al tempo di Mosè; se guardiamo all’allegoria, il significato è che noi siamo stati redenti da Cristo; se guardiamo al significato morale, il senso è che l’anima passa dalle tenebre e dalla infelicità del peccato allo stato di grazia; se guardiamo al significato anagogico, il senso è che l’anima santificata esce dalla schiavitù della presente corruzione terrena alla libertà dell’eterna gloria. E benché questi significati mistici siano definiti con diversi nomi, generalmente si possono tutti definire allegorici, in quanto si differenziano dal significato letterale ossia storico. Infatti la parola “allegoria” deriva dal greco “alleon” che è reso in latino con “alienum” ossia “diverso”.)

In Convivio II, i, al contrario, abbiamo appena constatato che Dante esemplifica ciascuno dei tre sensi allegorici con un testo diverso: prima, Orfeo; poi, per il senso tropologico-morale, la Trasfigurazione di Cristo, e infine, per il senso anagogico-escatologico, lo stesso brano dei Salmi che viene usato per tutti e quattro i sensi nell’Epistola (e che poi viene cantato nel secondo canto del Purgatorio, versi 46-48, si direbbe a scopi anagogici) .
Da questa configurazione idiosincratica dello schema dei quattro sensi – la cui importanza, in quanto leggibile sia come riuso di una formula tradizionale, sia come trasformazione innovativa, non può essere sopravvalutata in una prospettiva storicizzante – si potrebbe inferire che Dante non avesse ancora capito la logica dei tre sensi allegorici, secondo la quale il primo rende possibile il secondo, che a sua volta spiana la via al terzo: cioè, l’esempio della vita Christi (allegoria vera e propria) è la base dell’imitatio Christi da parte di un individuo (tropologia); questa a sua volta, se compiuta in modo giusto, rende possibile l’ascesa dell’“anima santa” da questo mondo corrotto alla Gloria eterna (anagogia).
Un altro modo di interpretare lo stesso fenomeno, però, consiste nell’affermare che Dante ha volutamente intaccato i confini ideali che dovrebbero tenere separati i due tipi di allegoria, o che in qualche modo vorrebbe fare ammenda per la sostituzione iniziale di un testo classico e pagano – e soprattutto l’interpretazione “morale” di quello – a un brano biblico e alla solita glossa cristologica. Quest’ultima ipotesi sembra particolarmente adatta a spiegare il secondo esempio, dove la lettera, se non anche il senso allegorico derivante da essa, è cristologica. Difatti, la scena di Cristo che svela la sua identità di Messia in compagnia dei profeti del Vecchio Testamento (quelli che hanno, tipologicamente, anticipato proprio l’avvento di un Messia salvifico) e dei tre apostoli prediletti (Pietro, Giacomo, e Giovanni) può essere definita come l’evento che rivela sia il contenuto allegorico della Bibbia ebraica, sia il fatto che da ora in poi la parola di Dio può esprimersi senza nessun velo allegorico .
È un fatto particolarmente curioso, allora, che la lettera dell’episodio della Trasfigurazione (che come appena visto, non sembra prestarsi a interpretazione allegorica, o, meglio, che svela il rapporto tipologico tra Vecchio e Nuovo Testamento che sta dietro a tutto il sistema dell’allegorizzazione cristiana) renda una sententia allegorica che sembra più machiavellica che biblica col significato che «a le secrete cose noi dovemo avere poca compagnia». A ben guardare, però, anche questo esempio, come quello di Orfeo, si presta ad una lettura “meta-poetica”, in quanto, secondo la lettera, descrive l’adempimento figurale-allegorico degli eventi, dei personaggi, e delle profezie dell’Antico Testamento e nella sua sententia allegorica fornisce una giustificazione implicita (molto comune nella tradizione, a partire da Agostino nel De Doctrina Christiana) per il «parlar coperto» del discorso poetico. In quest’ultimo senso sembra coerente con l’oscillazione continua che si rileva attraverso tutto il Convivio tra il desiderio di divulgare i segreti della filosofia classica ai lettori poco istruiti da un lato, e, dall’altro, il bisogno di parlare in modo oscuro, comprensibile solo ai pochi, allo scopo di affermare l’autorità di Dante .
Dal Vangelo, che fornisce l’esempio appena esaminato, è soltanto con l’ultimo esempio del capitolo che Dante torna indietro ai Salmi (e di lì implicitamente al libro dell’Esodo che fornisce la sostanza degli eventi trattati in questo salmo in particolare). Quest’esempio sembrerebbe rappresentare un’istanza a-problematica del modello dell’esegesi biblica, se non fosse collocato in questa strana serie di esempi, e se non fosse sfruttato per effettuare una “traduzione” della tecnica di esegesi letterale biblica per un commento sulle canzoni filosofiche in volgare di Dante Alighieri.
In base alla mia disamina di ciascuno dei tre esempi addotti da Dante per illustrare la pertinenza del modello dei quattro sensi al suo commento, viene la tentazione di azzardare una “tipologia” classificatoria (in senso moderno): in quest’ottica, il primo esempio si basa su un testo letterale poetico che viene interpretato in modo “poetico”; il secondo esempio è un miscuglio di elementi poetici e biblici (lettera “biblica”; allegoria “poetica”); il terzo segue in senso stretto il paradigma “teologico”. Di fatti, in quest’ultimo caso Dante sembra invocare la venerabile categoria dell’allegoria in factis, la quale, come viene usata dai teologi, da Agostino fino a Tommaso d’Aquino, è propria unicamente della scrittura di Dio, cioè della Bibbia («per le cose significate [letteralmente] significa de le superne cose») . Perfino in questo caso, però, l’“allegoria dei teologi” viene subito messa in rapporto all’allegoria e all’allegoresi dantesche in quanto diventa occasione per insistere, come osservato prima, sul fatto che qualunque interpretazione allegorica debba partire da un’analisi dettagliata della lettera.
Un modo per capire, alla stregua di Hollander, D’Andrea ed altri , il fenomeno qui descritto è quello di intenderlo come uno schema ibrido che fonda elementi dei due tipi di allegoria, e perciò rappresenta un momento di transizione nell’itinerario dantesco, un movimento da un’allegoria poetica “standard” a un’allegoria teologica come quella (secondo questi critici) messa integralmente in atto teoricamente nell’Epistola e come prassi nella Commedia. La mia prospettiva, però, è nettamente diversa. Qualunque sia la destinazione finale del rapporto che Dante vuole stabilire con la tradizione allegorica – e non mi risulta facile dire quale sia (e neppure che ci sia una posizione unica definitiva e coerente da estrarre da questi testi) – Convivio II, i tende a veicolare scopi facilmente collegabili a concetti moderni di auto-coscienza e intenzionalità autoriale e della lettera del testo come conditio sine qua non di qualunque atto ermeneutico-interpretativo .
In altre parole, una lettura tipica di Convivio II, i, oltre a fissare l’attenzione su pochi elementi presi isolatamente, interpreta il passo unicamente come parte della storia “interna” dell’oeuvre dantesca, il cui significato nascosto si rivela soltanto nel “Nuovo Testamento” della Commedia (in rapporto alla quale l’Epistola a Cangrande starebbe, seguendo in fondo quest’analogia precaria, una teorizzazione ermeneutica affine a quella compiuta da San Paolo nelle sue epistole). Nella prospettiva qui sviluppata, però, l’importanza di Convivio II, i sta proprio nella sua funzione di “spia” della destabilizzazione della tradizione allegorica medievale attraverso la contaminazione, insieme scandalosa e sistematica, nel volgare, di due modelli di allegoria e di allegoresi che tradizionalmente erano tenute distinte l’una dall’altra nella cultura latina medievale. La domanda chiave, allora, non è se la lettera dell’allegoria dantesca sia da intendere come finzione o come “storia”; è invece: quale spazio si può assegnare al suo discorso sull’allegoria nella lunga e aperta storia del mestiere di poeta e delle funzioni che di volta in volta gli sono state attribuite? – una storia nella quale non si può affermare che Dante sia origine, o telos.
Da quest’angolatura, l’Epistola a Cangrande può essere vista come profondamente conservatrice, in quanto il settimo capitolo riproduce un modello “standard” di allegoria medievale, seppure uno raramente applicato a testi non biblici. Da un altro punto di vista, l’Epistola invece può apparire come portatrice di un’innovazione “impossibile”, in quanto non esiste testo poetico tranne la stessa Commedia che si regga al confronto con la Bibbia – cosa provata anche dal fatto che nessun commentatore prima dei nostri tempi era mai stato pronto ad affermare la validità di tale confronto. L’impiego esplicito del modello biblico-teologico per descrivere un testo poetico risulta, perciò, una via senza uscita nella storia della letteratura occidentale. Bisogna comunque riconoscere, come ho messo in rilievo altrove, che il capitolo settimo dell’Epistola non si presenta neanche come una chiave di interpretazione della Commedia come “Bibbia nuova”, bensì come una spiegazione di cosa vuol dire parlare di una pluralità di sensi ritrovabili in uno stesso testo. E difatti la glossa dell’Epistola sulle prime righe del primo canto del Paradiso non tenta neanche di mettere in atto il modello dell’esegesi teologica dei sensi allegorici, nascosti: è, invece, una lettura esplicitamente e unicamente letterale.

Date: 2022-01-14