Varo, hapax letterario dantesco. Inf. IX, 115 [Orazio Antonio Bologna]

Dati bibliografici

Autore: Orazio Antonio Bologna

Tratto da: Esperienze letterarie

Numero: 14

Anno: 1989

Pagine: 99-102

Nonostante l'impegno e l’acribia dei commentatori e degli eruditi antichi e moderni, la Divina Commedia offre ancora oggi, dopo secoli di intensa ricerca, versi e parole non ancora esaurientemente spiegati: la vastità del Poema e la complessa organizzazione della materia hanno spesso spinto gli studiosi a ripetere passivamente, fondandosi sul principio d’autorità, quanto era stato precedentemente detto o semplicemente accennato.
Utile ed interessante per moltissimi aspetti, che altrimenti non saremmo in grado di comprendere, l’erudizione degli antichi esegeti e commentatori, in nessun modo paragonabile, per vastità e profondità, a quella del Poeta, il quale, unitamente alla produzione letteraria della Penisola, aveva della lingua una conoscenza tale da piegarla senza sforzo, dominandone l'aspetto e morfologico e semantico, alle molteplici sfumature del pensiero.
I due aspetti, il morfologico ed il semantico, strettamente legati l’uno all’altro, hanno sovente fuorviato validi ingegni, che hanno trascorso la vita nell'amorosa ed appassionata lettura del testo dantesco riuscendo a carpirne le sfumature più lievi. La non esatta comprensione dell'uno, però, ha influito negativamente sull’altro; e, per conferire un senso al testo, si è ricorso ad analogie e ad interpretazioni, più o meno valide, non sempre in armonia con il pensiero dell'Autore.
Il principio dell’autorità, spesso chiamato in causa da critici, commentatori ed esegeti, ha fuorviato anche quanti, linguisticamente e lessicologicamente più preparati, si sono, in seguito, accinti a fornire del testo dantesco interpretazioni più vicine a quelle volute e dal contesto e dal Poeta.
Di molti brani, a torto ritenuti di passaggio, si è cercato di cogliere il senso generale, senza soffermarsi troppo su quello particolare che nell’economia della terzina acquista il singolo lessema, cui per il carattere vincolante della rima, che sovente porta a modificarne la struttura morfologica fino a renderlo irriconoscibile, si sono conferiti significati mai avuti. Spesso, però, proprio perché non si è colto il significato esatto d'un lessema, non si è compreso bene neppure il senso generale del brano. È, questo, il caso dei versi in esame e, in modo particolare, del v. 115, su cui non è infruttuoso fermare l’attenzione:

Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì come a Pola presso del Quarnaro,
che Italia chiude e i suoi termini bagna,

fanno i sepolcri tutto il loco varo ;

Non poco sgomento e perplessità desta ancora oggi la Divina Commedia in chi, per un motivo o per un altro, si accinge a leggerne il testo, che per la ricchezza lessicale e le sfumature che le parole acquistano nei diversi contesti, apre ampi spazi di ricerca pressocché inesauribili.
Tralasciando l'interpretazione del brano riportato, ampiamente ed esaurientemente spiegato e commentato in tutti i manuali scolastici e non, qui si intende richiamare l’attenzione sul lessema varo, al quale si cercherà di conferire senso e significato in armonia col contesto.
Generalmente inteso come vario, tutti gli editori adducono, a conferma di questa interpretazione, altri versi della Commedia, nei quali il Poeta, per ragione di rima, riduce il gruppo atono -rio in -ro .
Questa deduzione per analogia, mentre è valida per tutti gli altri versi e conferisce loro il senso voluto dal Poeta, non è, per ragioni ermeneutiche, esatta per varo, in quanto vario non si inserisce bene nel verso né conferisce al contesto il senso voluto da Dante, il quale, con il riferimento topografico di Arles e di Pola, voleva semplicemente intendere pieno.
L'analogia, colta da tutti i commentatori, non è stata sviluppata nel senso inteso da Dante, il quale, secondo una diversa e più precisa interpretazione di varo, intendeva dire che il girone dell'Inferno, dove si trovava, era pieno di sarcofaghi come il sepolcreto romano presso Arles e quello presso Pola, con la differenza che ben si evince dalla lettura dei versi successivi.
Il lessema varo, sinonimo più raro di paro, di uso piuttosto limitato anche al tempo di Dante, sopravvive in alcuni dialetti dell’Italia meridionale con il significato di pieno e si adopera unito sempre con misure di capacità sia per i liquidi che per i cereali. Non è raro sentirlo nell’area linguistica di Pago Veiano, Molinara e di altri centri limitrofi in provincia di Benevento. È probabile, però, l’esistenza del lessema anche in altri centri e del beneventano e di altre province, soprattutto della Sicilia, cui, per certi aspetti, si ricollega il dialetto di Pago Veiano; ma non se ne può affermare con certezza l’esistenza, perché l'indagine è stata limitata solo ai centri menzionati, dove in forza d’una tradizione linguistica, che affonda le radici in epoche lontanissime e trasmette intatte locuzioni e modi di dire antichissimi, soprattutto in bocca alle persone più anziane, mentre si mesce il vino, si sente l'esortazione a render varo il bicchiere, cioè a riempirlo fino all’orlo .
Il lessema, però, si trova solo nel sintagma fare varo, cioè riempire fino all'orlo, proprio come in Inf. IX v. 115:

fanno i sepulcri tutto il loco varo.

Varo, anticamente, doveva essere usato in un’area linguistica abbastanza estesa, limitatasi con il passar del tempo, fino a scomparire e sopravvivere come fossile in qualche dialetto.
Dalle persone meno attempate, però, non è difficile sentire quasi con la stessa frequenza la dizione varro, molto più facile da pronunciare, in ottemperanza ad alcune leggi fonetiche, le quali, in alcuni dialetti, spingono a raddoppiare le consonanti interne di diverse parole. Nei centri menzionati è frequente il raddoppiamento del fonema pretonico o postonico anche in bocca a persone d’una certa levatura culturale, sulle quali l’influenza del dialetto è notevole: normale è abbile per abile, tabbacco per tabacco, libbro per libro, viggile per vigile, carrabbinero per carabiniere, raggione per ragione, ‘dirrupo per dirupo, doppo per dopo. Non è improbabile che Dante, costretto dalla rima, abbia semplificato il fonema, che nella parlata o nella prosa dell’epoca era, come in bocca ad una buona parte degli abitanti dei centri precedentemente menzionati, già doppia.
Il lessema nella sua duplice dizione, con preferenza per la geminata in alcuni centri e con la consonante semplice in altri, viene adoperato ancora adesso in occasione della trebbiatura per misurare la quantità dei cereali ottenuti. Il recipiente, che, anticamente di legno e di ferro nei tempi più recenti, contiene circa 25 Kg., è il mizzetto, la mezzetta. Il mizzetto è fatto varo, quando viene riempito fino all’orlo ed il contenuto è in linea con questo. Il mizzetto si fa varo con la mano, quando si riempie tutto in maniera uniforme, senza lasciare nessuna cavità o interstizio vuoto, proprio come un bicchiere prima che trabocchi.
Il significato di pieno, nel testo dantesco, è confermato dal verso successivo. Il termine, d’uso assai raro probabilmente già al tempo di Dante, dal momento che costituisce un hapax sia nella Divina Commedia sia nella produzione letteraria italiana, si è conservato nelle aree periferiche, assai più lente e recepire nuovi termini e ad imprimere nuovi significati a quelli già esistenti, almeno rispetto all’intenso rigoglio culturale verificatosi a Firenze e negli altri centri della Penisola.
Nelle aree linguistiche precedentemente menzionate si notano, a distanza di tempo, soprattutto nelle parlate di Pago Veiano e di Molinara, rilevanti influssi della lingua letteraria fiorentina e siciliana: vi si conservano, infatti, numerosi vocaboli ed espressioni, che riportano chiaramente all’una e all’altra cultura. Anche la pronuncia, limitatamente ai due centri, eccettuato qualche influsso del dialetto napoletano e delle dominazioni straniere che vi si sono succedute, si è conservata sostanzialmente pura, molto vicina alla più nobile tradizione fiorentina e siciliana.
Nel dialetto di Pago Veiano non è raro sentire espressioni e modi di dire fiorentini, riscontrabili persino nella Divina Commedia: se si prevede, in seguito ad una cattiva annata, un esorbitante rincaro del grano, si suol dire che si parla tòsco, cioè amaro, riscontrabile nei seguenti versi dell'Inferno:

VI, 84: se ‘l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca;
XIII, 6: non pomi v’eran, ma stecchi con tosco.

Probabile, quindi, che il sintagma fare varo, letterariamente attestato solo in Dante, si sia conservato con il suo esatto significato solo nei dialetti dei centri più sopra citati.

Date: 2022-01-09