Un riscontro testuale inedito per 'dal ciel messo' (Inferno IX, 85) [Massimo Seriacopi]

Dati bibliografici

Autore: Massimo Seriacopi

Tratto da: Dieci studi danteschi (con un'appendice bonifaciana)

Editore: FirenzeLibri - Libreria Chiari, Firenze

Anno: 2008

Pagine: 153-166

[…] Quanto alla seconda questione, relativa all’interpretazione del personaggio dal ciel messo, si noterà che il codice conservato nella Biblioteca Mediceo Laurenziana di Firenze con segnatura Pluteo XL 24, cartaceo di 204 carte e di misura 28,9x22 cm, il cui testo dantesco è stato copiato negli anni 1418-1419, contiene, oltre a rubriche e divisioni “in parti” in volgare per ogni canto dell’intera Commedìa, un fitto apparato esegetico inedito ai canti I-XI del Purgatorio; il copista è Giovanni Stefano da Prato, ed organizza il testo in una colonna, intorno alla quale, preferibilmente sui margini destro e sinistro, vengono apposte le chiose, sempre di sua mano.
All'altezza delle carte 82r-82v, relativamente all’episodio di Bonconte da Montefeltro e della sua “fuga” nel canto V del Purgatorio, per il v. 99 (Fugendo a piè...), appare una chiosa, all’interno di questo “stralcio” di commento inedito, che mi sembra possa assumere un ruolo di contributo esplicativo in riferimento all’identificazione del “messo celeste” rappresentato nel canto IX dell’Inferno:

ch’essendo caduto da cavallo [Bonconte da Montefeltro] fugiva a piè, e così andava insaguinando 'l piano. / c. 82v / E così corendo li mancò la parola: 'E caddi e rimase la mia carne sola, ciò è che l’anima si partì dal corpo e lo corpo rimase solo. E nel finir mia vita invocai lo nome della Vergine Maria, ciò è io ricorsi a contrezione e sperai nella misercordia di Dio; onde l’angelo, ch’è “messo di Dio” [corsivo mio], mi pigliò l’anima e puosemi in Purgatorio; onde lo demonio se ne lamentava, pensando lui averlo: e vedendo non poterlo avere, fece quel parlare.

Relativamente al verso 108, ma io farò de l’altro altro governo, si aggiungerà che la volontà dell’angelo, o “messo celeste”, è “confermata, imperò ch’e’ non può voler se non bene, e lo demonio non vuol se non male; imperò lo chiama l’altore mal volere”, caratterizzando quindi una delle componenti e costituenti principali della natura angelica, cioè il totale accordo con la volontà divina, della quale diventare attivo strumento.
In realtà, la spiegazione del ruolo angelico proposta dall’anonimo commentatore non è altro che la traduzione etimologica, la parafrasi della parola “angelo”, e la questione risulta tutt'altro che piana, se l’espressione “messo di Dio” viene confrontata con l’identica definizione di Purgatorio, XXXIII 44 relativa al cinquecento diece e cinque evocato con un tipico stile apocalittico, anche nella sua enigmaticità.
Con ogni probabilità, in questo passo il messo è da identificare con Arrigo VII di Lussemburgo: già Benvenuto da Imola, pur con indicazioni caute, si muoveva in questa direzione; e che ci si riferisca ad un imperatore deriva dalla prima parte del discorso di Beatrice, con il chiaro richiamo all’aguglia, e con un tono che indica un avvento non lontano, tra l’altro.
L'autore dell’Epistola VII, indirizzata per l’appunto

Sanctissimo gloriosissimo atque felicissimo [corsivo mio] triumphatori et domino singulari domino Henrico,

lo invita a sterminare il re di Francia, restituendo così la libertà ai popoli cristiani, consonando quindi con le parole di Benvenuto; e lo definisce anche Dei ministrum, portandolo addirittura alla significazione di speculum Christi quando il “mittente” ricorda che, al suo primo incontro con l’imperatore,

exultavit in te spiritus meus, cum tacitus dixi mecum: “Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi”;

e l’atteggiamento è, ovviamente, di grande reverenza manifestata inginocchiandosi a terra.
Come avverte Sapegno nel suo commento, esiste anche un ritmo latino d’inizio Trecento in cui Arrigo VII è designato appunto Dei missus dux.
Vorrei proporre, a questo punto, un confronto con due passi conviviali che credo contribuiscano a chiarire l’ottica in cui si può inserire la figura di Arrigo per Dante, non in contraddizione con l’identificazione del messo di Inferno IX 85 con un angelo, se si comprende la natura “angelica”, “divina”, che assume l’imperatore come ricettacolo adatto e rispondente della grazia e della volontà divina.
Scrive infatti Dante:

[...] e così è da porre e da credere fermamente, che sia alcuno tanto nobile e di sì alta condizione che quasi non sia altro che angelo [corsivo mio];

e aggiunge poi:

[...] così come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono nobilissimi e divini [corsivo mio].

Ecco, io credo dunque che, innegabilmente, Arrigo VII sia per Dante un esempio vivente di queste categorie; e, nel primo caso, torna appunto in modo esplicito la parola angelo, che mi permette di compiere questa liaison e di affermare la non gratuità dell’uso di messo (di Dio, da ciel, ecc.) nella sua piena valenza etimologica.
Il che dà una qualche sostanza anche all’ipotesi di chi, con il “messo celeste” del IX canto dell’Inferzo, ha voluto identificare proprio Arrigo VII: è il caso di Gabriele Rossetti e poi del Pietrobono, e ora, all’interno di un complesso sistema esegetico, del Ferretto.
Ma è il caso, a questo punto, di ripercorrere, almeno per sommi capi, la storia dell’esegesi di questo sintagma a livello del testo di Inferno IX; non prima, però, di aver ricordato l'importante attestazione riscontrabile grazie all’edizione, compiuta per primo da parte di G. Mazzoni, delle Laudi cortonesi.
Guido Mazzoni, dunque, si fa editore a fine Ottocento della prima parte del codice 91 conservato nella Biblioteca Comunale di Cortona, cioè di 47 laudi dugentesche; l’incipit della settima recita per l'appunto: “Da ciel venne messo novello”, e il verso successivo specifica “ciò fò l’angel Gabriello”.
La natura “angelica” costituente di chi risulta investito da questo ruolo di messo celeste è quindi innegabile; resta da verificare se può essere accettabile la proposta precedente di “componente angelicata” di esseri umani, ma le stesse concezioni conviviali mi sembra che portino in questa direzione, più ancora di tutta la teoria culturale-letteraria del periodo relativa alla “donna-angelo”.
Per Inferno IX 85, già Jacopo della Lana, seguito dall’Ottimo, dall’Anonimo Fiorentino e dal Buti, propendeva per l’identificazione con un angelo; e su questa linea si pone con decisione anche Boccaccio, seguito da molti altri, con tentativo addirittura di denominatio di tale creatura celeste, spesso identificata con san Michele, l’arcangelo Michele.
A questo proposito, notava Pasquazi che non mancano certo elementi di convalida a questa ipotesi: riconosce infatti vari indizi che attestano il credito dato all’esistenza di un angelo buono guardiano del Limbo, e nota che il messo celeste, di fronte alla città di Dite, “non assiste soltanto Dante, ma anche Virgilio e tutto ciò che in Virgilio si riassume”.
Né la tradizione manca di soccorrere in questo senso, riconoscendo l’esistenza di angeli buoni che provvisoriamente non abitano in cielo per adempiere ad altre speciali attività di guardiani e aiutanti, come mostra l’Offertorio della messa per i defunti proprio a proposito di s. Michele; e l’Apocalisse, al capitolo 20, insieme alla II Epistola ai Tessalonicesi di s. Paolo, propone figure di angeli preposti all’impedimento dello scatenarsi sulla Terra delle forze infernali, che Pasquazi ricollega all'angelo guardiano del Limbo.
Si aggiungono inoltre dati che contribuiscono a proporne l’identificazione con s. Michele, ricollegando la disposizione topografica dell’Inferno con l’antica tradizione giudaica raccolta nell’Epistola di s. Giuda Taddeo, per cui l’arcangelo principe delle milizie angeliche risulterebbe possedere la giurisdizione e la custodia del Limbo e dell’abisso infernale.
Infine si passa all’analisi di altri dati “comportamentali” che comproverebbero questa identificazione, per mezzo di un confronto diretto col testo dantesco e con l’esperienza di san Francesco, oltre che per considerazioni relative all’utilizzo “ideologico” di fonti scolastiche come Dionigi Areopagita e il “Dottore Angelico”.
Al di là della economicità di questa puntuale identificazione, mi sembra importante ricordare ciò che Pasquazi offre per l’identificazione del messo celeste con una creatura propriamente angelica.
Prima sconfessa due dei punti che hanno potuto portare alcuni esegeti ad identificarlo con un essere umano:

Contro l’identificazione del M. in un angelo celeste si possono presentare poche e deboli obbiezioni. Una è che quest'angelo non dovrebbe avere quel sembiante umano che D. gli attribuisce [...]. Le altre note che risultano dalla descrizione di If 64- 103 sono anche applicabili agli angeli, secondo la loro figurazione tradizionale. Un'obbiezione più valida, anche perché confortata da quel che afferma Beatrice sull’intangibile beatitudine di un abitatore del cielo che ponga i piedi nei luoghi inferi, è che il M. appare infastidito e in qualche modo preoccupato: le quali cose sarebbero in contrasto con la sua qualità di beato abitatore del cielo. Ma occorre notare che i beati abitatori del cielo, nella Commedia, non appaiono esenti da certe generose emozioni, d’ira buona per es., o di affannosa cura: si ricordi, tra l’altro, lo sdegno espresso dal grido dei beati o il pianto di Beatrice.

Poi viene sottolineato, a proposito dei fenomeni che accompagnano l’arrivo del messo (vento, tuono e terremoto), che

nella tradizione e nella Sacra Scrittura, D. trovava bene attestato il rapporto fra l’intervento angelico e l’insorgere del vento; e un discorso analogo più esteso ed esplicito D. poteva leggere nell’Areopagita, a lui ben noto (De coelesti hyerarchia XV 6). Quest'angelo deve scendere dal Limbo, e non dal Paradiso, come viene ad attestare il verso e già di qua da lei discende l’erta, verso che suona: e già, appena or ora i diavoli mi hanno respinto, la forza angelica è partita in nostro soccorso, e si trova in un punto al di qua della porta dell’Inferzo. Per far scendere il M. dal Paradiso, quella precisazione del v. 128 sarebbe inutile, anzi quasi assurda: infatti, in forza di essa, l'angelo impiegherebbe un istante o poco più per spostarsi dal cielo alla porta dell’Inferno, e un tempo molto più lungo (tutto quello corrispondente a quanto si dice nei vv. 1-63 del canto IX) per discendere l’erta, che è cammino di gran lunga più breve. Inoltre, se il M. ha preso a muoversi dal di qua della porta, cioè dal Limbo, Virgilio può sapere che scende da lì, poiché - e questo è il punto — sa che ivi è la dimora di lui, e le sue parole dunque hanno un significato; se invece il M. ha preso a muoversi dal cielo, non si comprende come possa Virgilio sapere con tanta esattezza a qual punto il M. sia arrivato in quel momento.

Considerando queste osservazioni, ricollegandosi alle attestazioni ritrovate in una serie di opere (in senso culturale e più strettamente linguistico) e grazie al confronto diretto con il testo dantesco, è difficile negare validità al processo di identificazione del messo con un angelo, al di là dell’accettazione o meno della denominatio; ma non è mancato, comunque, chi ha avanzato proposte assai diversificate.
È il caso, per esempio, di Pietro Alighieri, di Benvenuto da Imola e di Giovanni da Serravalle, che nel messo hanno voluto vedere la figura di Mercurio (che è comunque guida e protettore nelle opere civili degli esseri umani, secondo la visione mitologica; e anche chi ha proposto Ercole, con le sue componenti semidivine e sovrumane, si avvicina in qual- che modo a tali concezioni ideologiche).
Per alcuni commentatori moderni, il messo potrebbe es- sere un personaggio biblico: Mosè, per Piersantelli e Cianciulli; Aronne, per Filomusi Guelfi; e sempre Piersantelli ha proposto anche s. Pietro.
Sempre da esegeti moderni, un certo credito è stato assegnato anche a personaggi del mondo classico: oltre a Cesare, c'è stata la proposta, avanzata da Caetani, Pascoli, Valli e Toffanin, di Enea: che in effetti è un abitante del Limbo, e, dato il suo valore simbolico, la sua candidatura non manca di fascino: ma perché Dante si inginocchierebbe ora soltanto al suo cospetto? Per il nuovo ruolo assunto? Ma non ne aveva avuto già uno provvidenziale e di altissimo livello secondo l’Eneide?
Fornaciari e Federzoni hanno avanzato addirittura l’ipotesi che ci si trovi di fronte a Gesù Cristo, mentre Gabriele Rossetti ha sostenuto la candidatura di Arrigo VII, ripreso da Pietrobono e, in questi ultimi tempi, da G. M. Ferretto.
Sarà comunque il caso di ritornare al contatto diretto con il testo dantesco, considerando, oltre alle caratteristiche del discorso, dei gesti e dell’atteggiamento del messo, anche il valore simbolico che potrebbe assumere la verghetta con la quale apre l’ingresso sbarrato della città infernale: è vero che si può ricollegare per qualche verso al testo virgiliano nel caso si sostenga l’identificazione con Enea (e anche a Mercurio, ricordando che Stazio lo descrive nell’atto di placare Cerbero appunto con una verga); ma si potrebbe tentare anche un richiamo a quelle connotazioni angeliche che fanno ritrarre, nell’iconografia medievale, l’angelo annunciante a Maria (il già ricordato Gabriele) con tra le mani un giglio, simbolo di umiltà e di purezza.
Forse anche per l’identificazione del messo celeste con una creatura propriamente angelica si potrebbe ipotizzare una valenza simbolica in qualche modo analoga, o collaterale.
Sottolineo per prima cosa quello che non c'è nel testo dantesco, e che dirimerebbe in modo definitivo la questione: manca un qualsiasi riferimento alle ali che caratterizzano ogni angelo, semplici o multiple che siano.
Il dettato dantesco fornisce invece i seguenti elementi per la ricezione del messaggio da parte del lettore: i dannati, le anime distrutte, provano spavento nei confronti dell’inviato celeste (perché in lui riconoscono la virtù “nemica”, come fossero rane innanzi a la nimica | biscia), e questi, appunto, manifestava la sua essenza sovrumana o, quantomeno, di “nobilissimo” e di investito d’autorità della Provvidenza, non necessitando di toccare la sudicia onda nemmeno con le piante dei piedi; esattamente come per Beatrice,!53 non c'è possibilità che la miseria del luogo lo possa toccare: appare infatti infastidito solo dalla rimozione dell’aere grasso dal volto ottenuta menando la sinistra innanzi spesso (evidentemente nella destra tiene la verghetta; e a volte nell’iconografia medievale gli angeli vengono rappresentati con una specie di scettro d’oro); né la reazione così “umana” rappresenta un ostacolo, quando si pensi che Beatrice piange e arrossisce, i beati del Paradiso lanciano un grido di disdegno, ecc.
Da qualche indizio, Dante ben si accorge ch’elli era da ciel messo: un angelo del cielo, quindi; rivolgendosi al maestro, riceve da questo un segnale che lo spinge a star tranquillo e, per la prima volta, ad inginocchiarsi: il personaggio sopraggiunto, già preannunciato a VIII, 128-130, è tale da essere passato per li cerchi sanza scorta, senza bisogno di guide o di protezioni perché, evidentemente, è lui stesso guida e protettore; grazie a lui, nonostante il timore subito frenato, e per l’investitura assegnata dal decreto divino (al tal, una creatura di tale eccellenza, di VIII, 130, fa eco il Tal di IX, 8, nel quale sarà indicata Beatrice e ancor meglio Dio, del quale lei si fa tramite), la porta della città di Dite verrà aperta, non si ostacolerà più il proseguimento dell’experientia del pellegrino.
Caratteristiche del personaggio sono l’esser pier di disdegno in questo ambiente infernale (il che lo caratterizza come forte e magnanimo); e l’avere potenza tale da aprire la porta serrata della città con solo una verghetta senza impedimento. Le sue parole, a rigore del verso 105, sono sante, e dopo queste i due poeti si muovono sicuri verso la città e le entrano dentro sanz'alcuna guerra: eppure il messo non si rivolge per nulla a loro, adempie al proprio ufficio andandosene con sembiante | d’omo cui altra cura stringa e morda.
Si rivolge invece ai cacciati del ciel, lui che è dal ciel messo, alla gente dispetta, spregevole, il che motiva ulteriormente anche il suo disdegno, e con parole ben dure. Sembra veramente di assistere alla contrapposizione diretta e specularmente oppositiva di due entità in relazione alla condizione celeste: “messo” vs. “cacciati”, angelo contro diavoli.
Questi ultimi dimostrano la stolta temerarietà del loro ardimento, del loro voler andare proprio “oltre” i retti intendimenti, in un certo senso perché ciò è connaturato nella loro essenza: è un'oltracotanza (oltracuidance) del tutto irragionevolmente accolta con una specie di compiacimento.
Il messo sa bene quanto sia assurdo recalcitrare alla voglia, “volontà”, divina, alla quale non può mai essere impedito il raggiungimento del fine proposto: lo sa proprio lui, che, come scrive l'anonimo commentatore registrato nel manoscritto Pluteo 40.24, “non può voler se non bene”, e quindi si accorda in pieno con questa superiore volontà, ne diventa concorde e deciso strumento, come fece già al tempo in cui le sue “controparti” riflesse in negativo, i meri cherubini, scelsero invece di sviarsi da Dio, il quale, ogni volta che hanno tentato ancora di ribellarsi al suo volere, ha accresciuto il loro dolore, conseguenza della loro impotenza e frustrazione.
Se “Fatum est in ipsis causis creatis, inquantum sunt ordinatae a Deo adaliquos effectos producendos”, come ricorda s. Tommaso in Summa, I, CXIV, 2, che giovamento potrebbe mai portare voler “cozzare” contro tali disposizioni provvidenziali non modificabili?
Ma come la creatura angelica segue la propria inclinazione, così il diavolo “non può voler se non male”, sottolinea il commentatore ricordato: ad ognuno il proprio ruolo, in quella concordia discordans che è il Creato.
L’exemplum che il messo richiama alla memoria è caratterizzato, nella descrizione, da toni bruscamente realistici, ben adattati all’ambiente, alla situazione e all’uditorio.
Compiuto il proprio ufficio, non c'è indugio: come in II, 71 e 84, c'è un'altra cura ricordata, un'evidente volontà di ritornare al cielo o comunque ad un ufficio a questo connesso (e ufficio provvidenziale è stato anche questo, momentaneo, appena compiuto).
Considerando anche i tanti punti di contatto con le figure angeliche purgatoriali, diventa difficile negare la forte consistenza dell’ipotesi che fa del messo una creatura angelica; l’unica alternativa accettabile, a questo punto, mi sembrerebbe la proposta di un personaggio nobilissimo, virtuosissimo, al punto di essere, secondo le parole conviviali già ricordate, quasi non altro che angelo.
Ma di nuovo mi domando: quanto è esegeticamente economico postulare un riferimento così oscuro, poco esplicitato, che si presta ad ambiguità e non sempre motivabile nel confronto con il testo, quando si propone con una certa linearità una possibilità anche etimologicamente così evidente?
In attesa quindi di un eventuale “segnale forte” in direzione contraria, mi sembra decisamente sostenibile l’equazione dal ciel messo = “angelo”.

Date: 2022-01-10