Non io ma Dio (If, VIII-IX) [Gabriella Di Paola]

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Dati bibliografici

Autore: Gabriella Di Paola

Tratto da: Lo stilo puntuto. Percorsi nella Commedia di Dante

Editore: Edizioni Studium, Roma

Anno: 2005

Pagine: 81-105

L’aver individuato nella superbia il filo di Arianna che possa orientarci nell’intricato labirinto dei canti VIII e IX, reso tale dalla folla di interpretazioni antiche e moderne sui protagonisti di questi canti, ci permette forse di circoscrivere uno dei nodi problematici più interessanti della Commedia, che coinvolge il significato stesso del viaggio di Dante (e il pericolo del peccato di superbia insito in questo viaggio). La classificazione settenaria dei vizi comprendenti la superbia è presente nel Tesoretto di Brunetto Latini, nel Libro de’ vizi e delle virtudi di Bono Giamboni e nella Summa de’ vitiis et virtutibus di Guido Faba. Sulle tracce dell’aristotelismo e vivendo in prima persona il tormento della liberazione da questo peccato, Dante approfondisce nozioni vulgate.
«Come annunciatore d’una rivelazione — nota Auerbach — il poeta sorpassa i suoi lettori, poiché egli conosce qualcosa di grandissima importanza che essi devono apprendere da lui. Malgrado la carità che egli esercita verso gli altri uomini, impartendo loro il suo sapere, malgrado il fatto che, in quanto uomo, egli è loro uguale al cospetto di Dio, la Grazia divina, scegliendolo per codesta rivelazione speciale, lo ha innalzato al di sopra degli altri mortali» .
Da questa speciale rivelazione, di cui Dante è diventato protagonista, può scaturire il peccato di superbia, forse quello che più tocca il peota e in generale ogni essere umano quando crede di operare solo per il Ben (non a caso uno dei gradi più bassi del paradiso, il cielo di Mercurio, ospita gli spiriti che operarono il Bene ma per desiderio di gloria). Che cosa sia per Dante la superbia è detto chiaramente da Virgilio nel presentare l’ordinamento morale del purgatorio: è uno dei tre modi (con l’invidia e l’ira) per cui l’amore di elezione può torcersi al Male. I versi di queste terzine sembrano tradure la definizione che San Tommaso dà della superbia: «Supervia dicitur esse amor propriae excellentiae, in quantum ex amore causatur inordinata praesumtio alios superandi» (ST, II, II, 162, 6):

Resta, se dividendo bene stimo,
che ’l mal che s’ama è del prossimo; ed esso
amor nasce in tre mod in vostro limo.
È chi, per esser suo vicin soppresso,
spera eccellenza, e sol per questo brama
ch'el sia di sua grandezza in basso messo;
è chi podere, grazia, onore e fama
teme di perder perc’altri sormonti,
onde s'attrista sì che ’l contrario ama;
ed è chi per ingiuria par ch’aonti,
sì che si fa de la vendetta ghiotto,
e tal convien che ’l male altrui impronti.
PG, XVII, 115-123

Dante dunque non condanna la giusta aspirazione ad eccellere ma la volontà di annullare gli altri. La superbia è vicina all’invidia in quanto il superbo vuole deprimere gli altri per rimanere in alto e l’invidioso vuole abbassare al suo livello gli altri per non rimane al di sotto di essi .
La mancanza di una collocazione specifica del peccato di superbi nell'inferno, spiegabile col fatto che alla superbia non corrisponde una specie determinata di azioni, ha indotto molti commentatori, da Pietro Alighieri in poi, a cercare nella palude Stigia questa collocazione. Con questo non si vuol definire il canto VIII dell’Inferno come il canto dei Superbi, ma tentare di evidenziare un nodo drammatico, fondamentale nell'economia dell’opera, da cui scaturisce la cosiddetta «tragedia delle porte chiuse», per usare una espressione cara a Bacchelli .
Alla fine del canto VII si trova la descrizione delle anime del quinto cerchio. Si tratta di un passo che ha sollevato una delle più complesse e dibattute questioni di esegesi dantesca, producendo un gran numero di studi soprattutto tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento:

Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
e anche vo’ che tu per certo credi
che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.
Fitti nel limo dicono: “Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidioso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra»
IF, VII, 115-124

L’identificazione di queste anime ha conosciuto molteplici letture riconducibili a tre grandi linee interpretative. La prima fa capo a Pietro di Dante e individua nella palude Stigia il luogo infernale in cui sono puniti i peccati di superbia e invidia. Nel quinto cerchio si troverebbero così superbi, invidiosi, iracondi e accidiosi. La tesi di Pietro Alighieri è accolta da Benvenuto da Imola, Giovanni da Serravalle e, tra i moderni, da Tommaseo, Del Lungo, Rajna, Casini, Pagliaro. Un altro filone interpretativo, per così dire “letterale”, ipotizza nello Stige la presenza di iracondi in superfice e di accidiosi fitti nel limo. Questa tesi è sostenuta da commentatori antichi come il Buti, il Boccaccio, il Landino e, tra i moderni, dallo Scartazzini, dal Romagnuoli, dal Fallani e da altri. Infine abbiamo l’ipotesi critica che risale a Bernardino Daniello secondo la quale gli iracondi si distinguono in acuti, amari, difficili in base alle categorie aristoteliche e tomistiche dell’ira; tra i moderni seguono Daniello Momigliano e Sapegno.
Quanto il problema sia centrale nel pensiero dantesco è confermato da un ulteriore passo dell’Inferno e precisamente quando Virgilio espone all’alunno l'ordinamento morale del basso inferno e si sente chiedere:

Ma dimmi: quei della palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che s’incontran con sì aspre lingue,
perché non dentro dalla città roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perché sono a tal foggia?
IF XI, 70-75

Anche in questa occasione gli abitanti dello Stige sono indicati con una perifrasi, senza dire chiaramente il loro peccato. La risposta di Virgilio è costruita sulle “tre disposizioni” non volute dal Cielo e trattate nell’Etica Nicomachea (incontinenza, malizia e matta bestialitade) di Aristotele, ma in sostanza dice soltanto che tutti i dannati fuori della Città di Dite e quindi anche quelli della palude Stigia sono peccatori di incontinenza (si tratterebbe nel nostro caso di ciò che Aristotele designa come incontinenza nella brama d’onore).
Secondo Vittorio Russo , la tristitia sarebbe la colpa più grave di questi dannati, espressa chiaramente nelle parole che essi dicono: “Tristi fummo e ci attristiam nella belletta negra” (e si ricordi la terzina del XVII del Purgatorio in cui si definisce l’invidioso come colui che “s’attrista sì che il contrario ama”). Assolutamente peculiare è il concetto di tristitia, assente in Aristotele e proprio della religione cristiana; esso rimanda ad una delle verità fondamentali della teologia dantesca: Dio ha creato l’uomo a causa di un infinito atto di bontà, non avendo bisogno di lui; chi è triste disprezza questo dono, cioè non ringrazia Dio con la gioia e la letizia di aver ricevuto la vita, pertanto è meritevole dell’inferno.
La concezione teologica che Dante ha della vita è adombrata quindi nel verso “Tristi fummo / nell’aere dolce che dal sol si allegra” (VII, 121-122). Senza pretendere di appianare le difficoltà interpretative che abbiamo cercato di illustrare, a noi sembra che Dante voglia qui considerare nelle sue sfumature (superbia, invidia, ira) quell’amore del male del prossimo, cioè l’odio del prossimo, di cui è effetto la tristitia ma anche l’accidia di questi dannati. Secondo le parole di Bonaventura da Bagnoregio: «Ira, cum non potest se vindicare, tristatur, et ideo ex ea nascitur accidia» .
Superbia, invidia, ira, accidia sono vizi strettamente collegati ed hanno lo stesso effetto, come già Benvenuto da Imola aveva rilevato: «Ista quator vicia [...] sunt quasi fraterna et habent eandem originem et tendunt ad tristitiam. Ideo Auctor punit ipsa in Stygia palude, que interpretatur “tristitia”» . Ma il primo e più grave di questi vizi è la superbia, primo peccato dell’uomo, nonché di Lucifero e inizio di ogni azione peccaminosa. Se è vero che la superbia non è limitata a questi due canti (e basti pensare a Capaneo, Vanni Fucci, Fialte), poiché degli effetti pratici del vizio Dante offre una vasta gamma in tutto il poema, è anche vero che il canto VIII e il canto IX servono a Dante per definire i due poli del concetto di superbia e la linea di confine che separa il territorio del Bene da quello del Male.

1. Sezione 1

Entrando nel vivo dell’analisi, ci si imbatte subito in una delle cruces dell’esegesi dantesca relativa al significato del v. 1: “lo dico seguitando” . Senza nulla aggiungere ad un dibattito ancora aperto, vorremmo invece sottolineare che il canto comincia con Io dico: «In tutte le sue opere volgari Dante parla sempre in prima persona, dice sempre “Io”, attribuendo a quell’Io un valore di Homo universalis» . In questo caso si tratta di una forma solenne con cui il poeta riprende in mano la narrazione per riportare il lettore al tempo precedente a quello con cui terminava il canto VII (il quale si era concluso con: “Venimmo al piè d’una torre da sezzo” e il canto VIII comincia: “Io dico, seguitando, ch’assai prima / che noi fossimo al piè de l’alta torre”).
Io dico è uno stilema attraverso il quale Dante riafferma la sua scansione temporale immediata in un mondo che non conosce alcuna scansione temporale ed è in qualche modo un’autoaffermazione, un elogio di se stesso.
Il dramma della superbia punita e del trionfo del giusto sdegno (giusto perché voluto da Dio) comincia a configurarsi. Il dramma si svolge davanti alla Civitas diaboli, la cui vista è già prefigurata all’inizio del canto: è una città in armi, con i tipici segnali di guerra sulla cima delle torri:

li occhi nostri n’andar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno,
tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.
E io mi volsi al mar di tutto ‘l senno;
dissi: «Questo che dice? e che risponde
quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?».
Ed elli a me: «Su per le sucide onde
già scorger puoi quello che s’aspetta,
se ’l fummo del pantan nol ti nasconde».
IF VIII, 3-12

L'inquietudine che suscita la Città di Dite è accentuata dalla sequenza di domande concitate e dalla perifrasi “già scorger puoi quello che s’aspetta” tesa ad indicare, attraverso il denso fumo della palude, l’ombra della città di Lucifero. Solo dopo le interruzioni di Flegiàs e Filippo Argenti ci sarà la piena rivelazione:

Lo buon maestro diSSe: «Omai, figliuolo,
s’appreSSa la città c'ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande Stuolo».
E io: «MaeStro, già le sue meSchite
là entro Certe ne la valle Cerno,
vermiglie come se di Foco uscite
FoSSero». Ed ei mi diSSe: «Il Foco etterno
ch’entro l’aFFoca le dimoStra roSSe,
come tu vedi in questo baSSo inFerno».
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte foSSe
che vallan quella terra SconSolata:
le mura mi parean che Ferro FoSSe.
IF VII, 67-78

Lo spettacolo della Città di Dite è costruito sopra una violenta nota cromatica emergente dal colore rosso-fuoco che illumina le meschite (= moschee, arabismo), luoghi in cui non si adora il vero Dio. L’apocalittica visione è resa attraverso l’ossessione coloristica (vermiglie, v. 72, rosse, v. 74) e la presenza ossessiva del fuoco (fuoco, vv. 72 e 73, affoca, v. 74), mentre tutta la descrizione è attraversata da catene foniche e allitteranti (Certe-Cerno, Foco-Fossero-Foco-aFFoca-inFerno-Fosse-Ferro-Fosse, foSSero-roSSe-baSSo-fòSSe-fóSSe).
Qui «i suoni delle rime risalgono lungo i versi per cui si ha un effetto a mezza strada fra la rima interna e l’allitterazione vera e propria» . Il valore dell’allitterazione nella Comedia è duplice: espressivo e didattico, teso cioè a sollecitare l’attenzione del lettore. In questo caso però l'espediente retorico mira a «rendere sensibile l’immagine attraverso particolari suoni capaci di evocarla analogicamente» . Inoltre la presenza della rima equivoca fòsse: fosse e delle rime consecutive dei successivi vv. 94-105 in -ette (maladette: sette: stette), -atto (tratto: disfatto: ratto) -ato (negato: menato: dato), dimostrano che la nimia repercussio è chiaramente ricercata .
Le quattro terzine esibiscono volutamente l’intento educativo così come lo propone Dante. Virgilio lo chiama, come in altre occasioni, figliuolo (v. 67); Dante risponde Maestro (v. 70), quindi riprende “Ed ei mi disse” (v. 73) e conclude “Noi pur giugnemmo” (v. 70) Come vedremo più avanti, la vicenda della superbia punita coinvolge entrambi, ma a questo punto dell’iter-itinerarium ancora Virgilio e Dante non hanno superato i limiti, giusti limiti, loro assegnati: quello del maestro che ama come un figlio il suo alunno e quello dell’alunno che, riconoscendo l’autorità di chi lo guida, manifesta timidamente il suo stupore-terrore.
Le mura di Dite separano l’alto dal basso inferno, dove Dante conoscerà, attraverso i suoi sensi terreni, le punte più acuminate del Male; è perciò necessario che la discesa conosca qui, come in una drammatizzazione efficace, lo scarto. La Città di Dite racchiude i peccati propri di Lucifero, che ne è il monarca, così come Dio lo è dell’Empireo. Essendo il regno della ingiustizia, la civitas diaboli rap- presenta anche il luogo della rovina sociale: «È vero che — nota Auerbach — essa è ordinata come una parte dell’ordine divino, in cui an- che il male è compreso, e in questo essa è bene ordinata; ma persiste in impotente ribellione contro l’alto potere di Dio, perché la cattiva volontà ha privato i suoi abitanti del bene e della retta conoscenza e con esso della libertà» . La città dei diavoli diviene così metafora della città degli uomini quando si abbandonano alla “matta bestialitade”, all’orgoglio smisurato, alla superbia.
Prima di entrare nella Città di Dite Dante incontra due personaggi, che di quei vizi sopraelencati sono in qualche modo la prefigurazione: il nocchiero di Stige e il fiorentino spirito bizzarro.
Li accomuna l’incredibile rabbia che li consuma profondamente quando il loro attacco è vanificato da Virgilio:

Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto e poi se ne rammarca
fecesi Flegiàs ne l’ira accolta.
IF, VIII, 22-24

Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”;
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.
IF, VIII 61-63

Li accomuna il desiderio di vendetta che Flegiàs nutrì contro Apollo, seduttore della figlia Coronide, e che l'Argenti nutre contro Dante.
Flegiàs reca nel nome un’allusione al fuoco e, come altri demoni dell’alto inferno, proviene dal mito; sembra riproporre, nella sua funzione di galeotto, la figura di Caronte e come Minosse accoglie minacciosamente Dante. Ma la tensione creata nel canto è diversa: questa volta Virgilio non usa la formula delle altre occasioni: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare”, all’ira del diavolo risponde che lui e Dante saranno in suo potere solo nel breve tratto della palude .
Ma ecco una nuova minaccia sembra aggravare ulteriormente l’atmosfera di tensione spasmodica, riproposta in questo luogo dopo la primitiva formulazione della Selva Oscura. È proprio attraverso il serrato e drammatico dialogo con Filippo Argenti e la battuta finale di Virgilio, che Dante può accrescere la forza d’urto di questo incontro. Tutto avviene rapidamente: l'emergere del dannato sconosciuto, il suo gesto contro Dante che lo riconosce, la massima conclusiva di Virgilio:

Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango
e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».
E io a lui: «S’i vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango».
E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch'i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».
Allor distese al legno ambo le mani;
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani».
IF, VIII, 31-42

Se da una parte Dante sembra escludere il lettore dal riconoscimento dell’Argenti e dal privato gioco verbale che intreccia col peccatore e che ricorda la Terzone con Forese (tu che vieni - s’i vegno; un che piango - con piangere, ecc.), in realtà fin dalla prima battuta di Filippo: “Chi se’ tu che vieni anzi ora?” (v. 33), che significativamente preannuncia quella dei diavoli: “Chi è costui che sanza morte / va per lo regno de la morta gente?” (vv. 84-85), emergono tutto l'orgoglio e l’invidia del personaggio. L'accanimento che Dante dimostra (“spirito maladetto ti rimani”) e sul quale insisterà successivamente (“Maestro molto sarei vago / di vederlo attuffare in questa broda”) (vv. 52-53), sembra dettato da un sentimento che va oltre l’odio per un nemico, pur senza escluderlo.
La vicenda si svolge nello schema dell’exemplum, teso alla condanna di uno dei peggiori vizi umani: quello dell’orgoglio, segno di superbia. Illuminante, a questo proposito, ci sembra il commento di Benvenuto da Imola al verso “S’i’ vegno, non rimango”: «Quasi dicere velit non venio ut remaneam [...] sed tu aeternaliter remanebis in poena, quia si fui aliquando superbus, tamen semper amator virtutis et scientiae, recedo a loco superborum, et te superbum, inutilem, pertinacem dimitto in mala hora» .
L'exemplum si conclude con l’abbraccio e il bacio di Virgilio che, dopo aver respinto il dannato, pronuncia quella esclamazione di derivazione evangelica: “Alma sdegnosa / benedetta colei che in te s’incinse” e la massima suprema:

Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago
di sé lasciando orribili dispregi!
IF, VIII, 49-51

2. Sezione 2

Dopo aver esemplificato in Filippo Argenti il dramma della superbia punita, Dante lo ripropone davanti alla seconda porta infernale, facendone protagonisti se stesso e Virgilio:

Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?».
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno,
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada».
IF, VIII, 82-93

Dante per la prima volta mette in scena dei diavoli cristiani, avendo rappresentato finora solo personaggi del mito pagano trasformati in demoni. Seguendo la teologia del suo tempo, egli riconosce nei “da ciel piovuti” un inestinguibile sentimento di invidia per l’uomo, destinato da Dio a subentrare al loro posto nell’Empireo; a questo si aggiunge la rabbiosa caparbietà nell’ostacolare il cammino del poeta.
La violazione dell'inferno è inaccettabile per tutti i custodi del regno dei dannati; questo atteggiamento da una parte rimanda al divieto del Tartaro, inaccessibile ai vivi (infatti le Furie diranno: “Mal non vengiammo in Teseo l’assalto”, IF, IX, 54), dall'altra è giustificato dal fatto che Dante, descrivendo le pene infernali, avrebbe distolto gli altri dal peccare .
I diavoli di Dite in primo luogo si accorgono, tra la rabbia e lo scherno, che Dante è vivo e poi, quando Virgilio chiede loro di parlare in disparte, sembrano acquietarsi, ma non verso Dante. Insistono nella provocazione (“pruovi se sa”, v. 92), poiché giudicano folle quella strada che il poeta ha avuto l’ardire di compiere. Si noti l’uso dell’aggettivo folle, già usato all’inizio del viaggio (“temo che la venuta non sia folle”, IF II, 35) e qui inserito da Dante nel discorso dei diavoli per sottolineare tutta la drammaticità del momento, così affine a quella della Selva Oscura.
Folle è colui che si allontana dalle leggi divine o dalle norme etiche umane. Questo significato lega fra loro i vari usi dell'aggettivo al- l'interno della Commedia, ma quasi tutte le volte sembra riferirsi a personaggi travolti da cieca cupidigia o da dissennata superbia. Ac- canto alla folle avidità dei monaci che frodano i fedeli per appropriar- si delle rendite ecclesiastiche (PD, XXII, 81) e di Acàn che rubò una parte del bottino conquistato dagli ebrei (PG, XX, 109), Dante sotto- linea la folle superbia di Ulisse (“folle volo”, IF XXVI, 125; “varco / folle”, PD, XXVII, 82-83), di Aracne, mutata in ragno per aver osato sfidare Minerva (PG, XII, 43), di Edoardo II re d'Inghilterra e Robert Bruce re di Scozia (“la superbia ch’asseta / che fa lo Scotto e l’Inghilese folle”, PD, XIX, 121-122), di Sapia, sopraffatta da tale superbia da dire a Dio: “Omai più non ti temo!” (PG, XII, vv. 113 e 122).
La follia spesso è generata da eccessivo orgoglio e fiducia nelle proprie capacità; ecco perché Dante all’inizio del viaggio ha affermato: “temo che la venuta non sia folle” (IF, II, 35). Ma esiste anche un altro parallelismo tra l’inizio del viaggio e questa prima sosta forzata e che è legato alle porte infernali: la prima, aperta, da cui il viaggio è iniziato, la seconda, da aprire, davanti alla quale per ora il viaggio si arresta. Molto probabilmente Dante vuole rappresentare l’orgoglio di aver troppo osato e lo smarrimento che la protervia dei diavoli accentua paurosamente:

Pensa, lettor, se io mi sconfortai
Nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.
«O caro duca mio, che più di sette
volte m'hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette
non mi lasciar», diss’io, «così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto».
IF, VII, 94-102

In questo modo si chiude il primo atto del dramma ; l'appello al lettore a questo punto è necessario (come necessario sarà il secondo appello, rivolto ai lettori immediatamente prima dell’intervento del Messo).
Lo stilema retorico dell'appello al lettore è propriamente dantesco, in quanto, inesistente in Virgilio, traduce solo in parte il significato dell’apostrofe, teorizzata nel Medioevo come mezzo di amplificazione a fini morali. È, come nota Auerbach, «espressione di solidarietà fraterna [...], sforzo di convincere il lettore a fare di tutto per condividere spontaneamente l’esperienza del Poeta e per trarre frutto dal suo insegnamento» .
La risposta del Maestro alla preghiera dell’alunno è costruita da Dante come una tenzone (“Non mi lasciar - non ti lascerò; se il passar ci è negato - il nostro passo non ci può torre alcun”), ed è la risposta della ragione all'uomo preda del dubbio. Ma anche la ragione può vacillare:

Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette lì con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
«Chi m'ha negate le dolenti case!».
IF, VII, 112-120

Il tentativo fallito e la conseguente umiliazione di Virgilio, su cui Dante insiste attraverso i tratti mimici, si verificano dopo che c’era stato il suo trionfo su Flegiàs e Filippo Argenti e dopo la cosiddetta investitura di Dante, avvenuta tramite l’abbraccio, il bacio, la formula, la conclusione moraleggiante. Il secondo atto del dramma, a cui il lettore sta assistendo, si chiude didascalicamente sullo sconforto di Virgilio-ragione (“Chi m'ha negate le dolenti case!”, v. 120) sebbene esista la certezza che l’ostilità dei diavoli sarà vinta:

[...] «Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch'io vincerò la prova,
qual ch'a la difension dentro s’aggiri».
IF, VII, 121-123

Ma la situazione morale e materiale della vicenda si è così aggravata che occorrerà solo attendere l’arrivo di qualcuno, “tal che per lui ne fia la terra aperta” (v. 130), poiché se c’è una certezza in questo momento di dubbio è quella che il viaggio di Dante non avviene a caso ma “da tal n’è dato” (v. 105). Non è però questo il momento culminante della “tragedia delle porte chiuse” poiché prima dell’intervento divino ci sarà un’altra prova.
Dante inserisce nella narrazione quest’ultima e terribile minaccia infernale, che potrebbe causare la morte spirituale, proprio quando il dubbio e l’incertezza mettono in crisi le forze della ragione:

Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.
Attento si fermò com’uom ch’ascolta;
ché l’occhio nol potea menare a lunga
per l’aere nero e per la nebbia folta.
«Pur a noi converrà vincer la punga»,
cominciò el, «se non... Ta/ ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».
IF, IX, 1-9

La viltà a cui Dante accenna all’inizio del canto è la stessa viltà evidenziata da Virgilio prima di cominciare il viaggio (“l’anima tua è da viltade offesa”, IF, II, 45). Si ripropone dunque quella situazione di incertezza morale così gravida di conseguenze e di pericoli, ma questa volta Dante non rappresenta un Virgilio che lo rimprovera, bensì un Virgilio che sta dubitando sulla possibilità stessa di superare l'ostacolo: “Pur a noi converrà vincer la punga / - cominciò el - se non... Tal ne s'offerse” (vv. 7-8). Per la terza volta si ripropone questo Tal, alludendo a qualcuno dotato di speciali caratteristiche e di poteri sovrumani. La prima allusione aveva riguardato Dio (“’l nostro passo / non ci può tòrre alcun: da tal n'é dato”, IF, VIII, 105), la seconda un essere soprannaturale che avrebbe vinto la resistenza dei diavoli (“tal che per lui ne fia la terra aperta”, IF VIII, 130), la terza, forse, Beatrice (“Tal ne s’offerse”, IF, IX, 8), sicuramente qualcuno latore dell’intervento divino .
Senza voler definire con certezza l’identità di questo Ta/ (Beatrice, il Messo, Dio stesso), come interpreti antichi e moderni hanno voluto assolutamente fare, vorremmo sottolineare la voluta ambiguità in cui Dante immerge il discorso virgiliano. Le parole del Maestro aumentano l’incertezza del momento, sebbene lascino chiaramente capire che qualcuno sta tardando:

I’ vidi ben si com'ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
IF, IX, 10-15

È ormai improponibile una soluzione razionale della vicenda e Dante lo sottolinea nella domanda rivolta a Virgilio: se alcun del primo grado, cioè del Limbo, sia mai disceso nel basso inferno. La risposta: “Di rado / incontra - mi rispuose — che di noi / faccia il cammin alcun per qual io vado”, (vv. 19-21) è costruita contrapponendo all’indeterminato alcun, usato da Dante, il pronome di prima persona. Segue il racconto della precedente discesa di Virgilio nel cerchio di Giuda, finalizzato all'affermazione: “ben so ’l cammin; però ti fa sicuro” (v. 30).

3. Sezione 3

Il richiamo sia all’episodio narrato da Lucano, nel cap. VI della Farsalia, dove si ricorda Eritone, maga tessala che fece ritornare sulla terra un morto per predire a Sesto Pompeo l’esito della batta- glia di Farsalo, sia a quel luogo dell’Eneide (AEN, VI, 562-565), in cui la Sibilla racconta ad Enea di essere già scesa nell’Ade, ci permettono di fermare la nostra attenzione sul rapporto tra Dante e le sue fonti classiche, tanto più che in questa prima parte del canto IX campeggiano le Furie e Medusa.
Seguendo l’interpretazione figurale, Dante subordina le sue fonti classiche al progetto provvidenziale e cristiano di redenzione; in questo senso non c’è contrapposizione, nelle figure del mito e della storia classica, tra significato proprio (letterale o storico) e significato recondito: ci sono entrambi: «È la struttura figurale che conserva il fatto storico mentre lo interpreta rivelandolo e che lo può interpreta- re soltanto se lo conserva» .
Ora, proprio quando la ragione personificata in Virgilio sembra ritrovare la sua sicurezza (“ben so ’l cammin; però ti fa sicuro”, v. 30), pronunciando parole che quasi non hanno più ascolto (“E altro disse, ma non l’ho a mente”, v. 34), Dante inserisce nel racconto l’apparizione delle Furie che sembrano dare corpo e figura allo stato d’animo del momento:

E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
IF IX, 34-42

La descrizione delle Furie richiama alla memoria quella di Tesifone che, nel Tartaro virgiliano, si trova su un’alta torre, posta sull’entrata :

Respicit Aeneas: subito et sub rupe sinistra
moenia lata videt, triplici cireumdata muro,
quae rapidus flammis ambit torrentibus amnis,
Tartareus Phlegethon, torquetque sonantia saxa.
Porta adversa ingens solidoque adamante columnae,
vis ut nulla virum, non ipsi excindere bello
caelicolae valeant; stat ferrea turris ad auras,
Tisiphoneque sedens, palla succincta cruenta,
vestibulum exsomnis servat noctesque diesque.
AEN, VI, 548-556

Le Furie nei poeti latini cari a Dante assumono soprattutto il carattere di dee della discordia («ultricesque sedent in limine Dirae», AEN, IV, 473); i caratteri fisici di esse si ritrovano nell’Exeide, come abbiamo visto, ma anche nelle Metamorfosi di Ovidio e nella Tebaide di Stazio. Il loro aspetto terrificante (sporche di sangue, le tempie cinte da serpenti) serve a Dante per introdurre le parole di Virgilio che prontamente inviterà il discepolo a guardare la materializzazione concreta del Male:

«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
Quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifon è nel mezzo»; e tacque a tanto.
IF, IX, 45-48

Né i commentatori antichi né i moderni sono d’accordo sul significato allegorico delle Furie; la tesi dominante sembra essere quella di figure del rimorso. Infatti la loro potenzialità malefica supera quella degli altri personaggi mitologici dell'inferno, riluttanti custodi, ma pur sempre ministri della giustizia divina e il loro comportamento, il loro percuotersi e gridare sembrano indicare il destino di chi è preda dei rimorsi, il destino di Giuda:

Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.
«Vegna Medusa: si ’l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso [...].
IF, IX, 49-53

Il rimorso è uno stato diverso dal pentimento che conduce in- vece alla pace dell’animo; il rimorso è la consapevolezza del male commesso (in questo caso dell’aver troppo osato). Rappresenta l’incapacità umana ad uscire dal peccato e quindi il terribile pericolo della dannazione . Le Furie, portando fino in fondo la tentazione come prova della resistenza morale di Dante, invocano a gran voce Medusa, colei che, pietrificando, può impedire definitivamente la redenzione del poeta. In questo momento di particolare drammaticità Dante descrive Virgilio nell’estremo tentativo di salvezza:

«Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ’l Gorgén si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
IF, IX, 55-60

Tutta la tensione narrativa che Dante aveva creato nel canto precedente e nella prima parte di questo, attraverso l’avvicendarsi degli eventi: gli attacchi di Flegiàs e dell’Argenti, il trionfo su di essi, l’esaltazione dei propri meriti, la nuova insidia dei diavoli, il tentativo di Virgilio, tutto il vario atteggiarsi dell'anima umana nella sua fallace fiducia nelle proprie forze e capacità, tocca nel verso “nulla sarebbe di tornar mai suso” il suo culmine e nello stesso tempo il suo scioglimento. Dante fa appena in tempo a richiamare il suo lettore sulla dottrina dei suoi versi strani, prima di narrare l’arrivo di qualcuno:

O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto 'l velame de li versi strani.
E già venìa [...].
IF, IX, 61-64

Il secondo appello, che Dante rivolge qui ai lettori, è forse più importante del primo (“Pensa lettor se io mi sconfortai; VII, 94), in quanto pone un punto fermo nel corso della narrazione. Già nel Convivio (IV, XV, 11) Dante aveva fornito una definizione dell’intelletto sano, come quello che non è impedito nella sua operazione per malizia d’animo e di corpo, citando tra gli impedimenti la naturale jattanza: «ché sono molti tanto presuntuosi che si credono tutto sapere, e per questo le non certe cose affermano per certe» (CV, IV, XV, 12). Sgombrato campo da pseudoconcetti bisogna dunque guardare all’allegoria come a «veritade ascosa sotto bella menzogna» (CV, II, I, 3). «Il mirate dantesco — sottolinea Auerbach — presuppone il vigilate cristiano, una dottrina cioè incentrata sulla memoria e l’attesa di eventi e viene pronunciato in un momento di pericolo imminente, immediatamente prima dell’intervento della Grazia» .
Questa terzina ha conosciuto diverse interpretazioni: vorremmo solo aggiungere, dopo aver già analizzato il significato allegorico delle Furie e di Medusa, che Dante stesso fornisce una qualche traccia quando fa dire a Virgilio: “Guarda le feroci Erine” e poi: “Volgiti ’ndietro e tien lo viso chiuso”, mentre si teme l'apparizione di Medusa, quasi ad indicare che la ragione vuole far conoscere all’uomo i suoi rimorsi, ma qualora essi determinino una disperazione così amara “che poco è più morte”, la ragione, confidando nell’aiuto divino, può e deve intervenire direttamente. Nota il Santangelo: «L'anima che pure ha risentito gli effetti dolorosi del rimorso evita l’indurimento nel male e si rende degna di una grazia speciale: difatti si umilia davanti alla divinità e ottiene la completa vittoria sulla tentazione diabolica» .

4. Sezione 4

Siamo all’ultimo atto del dramma sacro: la vittoria sulla tentazione diabolica non può non avvenire quando l’uomo annulla la sua superbia davanti a Dio:

E già venìa su per le torbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde.
IF, IX, 64-66

L'intervento divino è naturalmente accompagnato da un terremoto, così come era accaduto sulle rive dell’Acheronte quando la terra aveva tremato. Abbiamo già segnalato il parallelismo che si può istituire tra lo smarrimento descritto da Dante all’inizio del viaggio e la paura così drammaticamente delineata sulle soglie di Dite. Ma si noti lo svolgimento delle due situazioni affini: lì era intervenuto Virgilio, qui interviene il Messo; lì era bastato il racconto della pietà di Beatrice per rimuovere ogni vigliaccheria, qui, dato il mortale pericolo, occorre l’ausilio di un personaggio soprannaturale.
Retoricamente e solennemente l’arrivo della Grazia è accompagnato da due similitudini per conlationem, cioè per confronto. Si tratta, come per tutte le similitudini della Commedia, di due similitudini non esornative ma “necessarie” al discorso poetico: «Il carattere proprio della similitudine dantesca si manifesta bene quando il poeta riprende un motivo virgiliano [...]. In Dante (la similitudine) assume carattere funzionale in quanto fornisce un elemento nuovo e molto importante al decorso narrativo dell'episodio» . Quando la realtà fantastica presenta dei contorni imprecisi, allora la similitudine interviene richiamando il lettore all’esperienza viva e reale; ciò accade spesso attraverso il confronto tra realtà astratte e realtà concrete, utili per capire le prime.
La similitudine per conlationem, assente nelle opere giovanili di Dante e lontana dal gusto dei retori medievali, risponde dunque ad una duplice esigenza: da una parte si richiama alla similitudine epica classica, dall’altra la supera di gran lunga «acquisendo la “necessità” piuttosto dalla “necessità” del discorso biblico-strutturale» e divenendo uno dei cardini del discorso poetico della Comedia.
La prima delle due similitudini del canto IX riporta, come di consueto, ad una dimensione umana e terrena il sommovimento di forze celesti (e la sua fonte classica è reperibile nel secondo libro dell’Eneide, ai vv. 416 e ss.):

non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
IF, IX, 67-72

La seconda similitudine parte anch’essa dall'immagine tutta terrestre di uno stagno (le rane che fuggono davanti alla biscia), ma approda al solenne richiamo evangelico del Cristo che cammina sull’acqua:

Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,
vid’io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
passava Stige con le piante asciutte.
IF, IX, 76-81

Dante pone tra le due similitudini il gesto e le parole di Virgilio che, dopo l’esortazione a guardare le Furie e a voltarsi davanti a Medusa, ora, con la solennità che il momento richiede, dice al discepolo di fissare attentamente lo sguardo (e si noti: non dice “guarda”, dice “drizza il nerbo del viso”):

Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo».
IF, IX, 73-75

Solo dopo l'incipit retorico si passa alla descrizione-riconoscimento del Messo e del suo gesto denso di solennità liturgica, come gli Angeli della tradizione gotica ci hanno insegnato ad ammirare:

Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso.
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l’aperse, che non vebbe alcun ritegno.
IF, IX, 82-90

Secondo il Pasquazi, «la funzione principale del termine da ciel messo impedisce di definire con immediatezza se si tratti di un angelo o di altro personaggio, la qual cosa ha contribuito ad alimentare la serie delle ipotesi tendenti ad identificare il Messo celeste» , Queste ipotesi si sono moltiplicate nel corso dei secoli, partendo dalle iniziali interpretazioni dei commentatori antichi: da quella di Pietro di Dante e Benvenuto da Imola che vedevano nel Messo il dio pagano Mercurio a quella che poi ha prevalso, del Messo identificato in un Angelo, sostenuta dal Boccaccio, dal Lana, dall’Ottimo, dal Buti .
Preferiamo attenerci a quest’ultima ipotesi che fra tutte è la più convincente e che contrappone colui che è “da ciel messo” a coloro che sono “da ciel piovuti” e apostrofati come “cacciati del ciel, gente dispetta” (v. 91), senza tuttavia escludere, accanto all’allegoria principale, i significati secondari che vi possono essere reperiti. È vero che il personaggio “fe’ sembiante / d’omo” (vv. 101-102), la qual cosa contrasterebbe con la sua natura angelica, ma è anche vero che la sua venuta è accompagnata da vento, tuono e terremoto, come nelle Sacre Scritture avviene per gli interventi angelici, e la sua dipartita si verifica senza una sola parola per i due poeti, proprio secondo l’uso scritturale, in cui gli angeli, mandati ad eseguire la volontà di Dio, sono tutti in essa e non si curano d’altro.
L'Angelo appare pier di disdegno, ma si tratta certamente di un atteggiamento diverso dal gran disdegno dei diavoli (e stiamo citando il v. 88 del canto VIII e il v. 88 del canto IX). È la santa ira che davanti alla stizzosa e stupida superbia dei diavoli si trasforma in solenne espressione di giustizia. Dante può così stabilire lo spartiacque che separa il giusto orgoglio, sostenuto dalla grazia divina, e l’inane superbia e ira di chi ha voluto opporsi alla Divinità, ricevendo la giusta punizione:

«O cacciati del ciel, gente dispetta»;
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d’omo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
sicuri appresso le parole sante.
IF, IX, 91-105

La tracotanza diabolica, sottolineata precedentemente (“Questa lor tracotanza non è nova”, IF, VIII, 124), diventa o/tracotanza (gallicismo per “tracotanza”) nelle parole del Messo. Questi due lessemi per lo stesso concetto, che non hanno riscontro in nessun altro canto della Commedia, possono essere spiegati da un passo del Convivio.

Tullio, nel primo de li Offici, parlando de la bellezza che in su l’onestade risplende, dice la reverenza essere di quella; e così come questa è bellezza d’onestade, così lo suo contrario è turpezza e menomanza de l’onesto, lo quale contrario inreverenza, o vero tracotanza dicere in nostro volgare si può.
CV, IV, VIII, 2

Un'ulteriore definizione della inreverenza o tracotanza (CV, IV, VIII, 11) prevede tra le sue conseguenze l’atto di “disconfessare la debita subiezione, per manifesto segno”. Si tratta, per i diavoli, di un atteggiamento che vorrebbe imitare quello angelico, per l’alta stima che hanno di se stessi, ma che è molto più vicino alla testardaggine animale a cui Dante, attraverso le parole del Messo, allude con disprezzo e ironia, usando verbi come recalcitrare (= il dare calci dei muli) e dar di cozzo (= lo scontrarsi di animali con le corna) , e ancora alludendo all’episodio mitologico di Cerbero ed Ercole: “Cerbero vostro, se ben vi ricorda, /ne porta ancor pelato il mento e il gozzo” (vv. 98-99). S
i chiude così, in una climax trionfale, il rito di liberazione e propiziazione compiutosi davanti alle porte di Dite. Il significato filosofico, morale e teologico dell’intero episodio non si è tradotto in una trattazione sillogistica, ma si è concretizzato nella vivezza dei dialoghi e nella drammaticità delle scene. Emerge così l’educativo dantesco, come un iceberg che nasconde molto più di ciò che si vede.
L’ultima parte del canto IX è già immersa nell’atmosfera del canto successivo e di Farinata, ma il passaggio non è stato brusco. Lo strazio di Filippo Argenti, le parole maledette dei diavoli, le fiere tempie delle Erinni, la verghetta del Messo hanno segnato lo svolgimento di quell’exemplum celato dietro il titolo della nostra lettura a cui ora vorremmo aggiungere un’appendice: fra dannati per superbia e angeli decaduti per superbia si verifica quell’ostacolo alla salvezza, necessario nella via della redenzione.

Date: 2022-01-10