Le Furie infernali e l’ars memoriae in Inf. IX [Claudia Crevenna]

Dati bibliografici

Autore: Claudia Crevenna

Tratto da: L'Alighieri. Rassegna dantesca

Numero: 48

Anno: 2008

Pagine: 73-90

Nella Commedia si incontrano episodi di tersa trasparenza, che permettono di analizzare da vicino le trame dell’impalcatura di tutto il poema; questi momenti rivelano al lettore attento la complessa tessitura dell’opera. E il caso del IX canto dell’Inferno, osservatorio privilegiato per verificare in atto, perfettamente intessuto nel meccanismo narrativo, il tema fondamentale della memoria e dell’oblio, sua imprescindibile controparte.
La memoria è da considerarsi un vero e proprio elemento strutturale, alla base dell’operazione dell'intero poema. Diversi studi hanno indagato in dettaglio il valore della memoria nel testo di Dante, intesa sia come strumento retorico interno, cioè come “memoria nella Commedia”, fondamento della fictio narrativa, sia come strumento retorico estero, ovvero “memoria della Commedia”, volto a rendere memorabile il testo stesso e il suo messaggio. Si è così arrivati sino a considerare la Commedia «una precisa riproduzione letteraria dell’antica arte della memoria». A questi studi si aggiungono anche i contributi essenziali sull’arte della memoria nel Medioevo e nel Rinascimento, secondo un filone, talvolta sotterraneo ma mai interrotto, che dal mondo classico-pagano attraversa il cristianesimo e riemerge parzialmente nel Medioevo per poi trionfare nei grandi “teatri della memoria” rinascimentali .
L’arte della memoria arriva a Dante da un doppio canale: da un lato il mondo retorico classico, dall’altro la riflessione patristica. Le fonti classiche, l’Inistitutio oratoria di Quintiliano, il De oratore di Cicerone e l’anonima Ad Herennium (detta anche Seconda Retorica perché erroneamente attribuita a Cicerone) forniscono indicazioni pratiche su come esercitare e potenziare la memoria, rielaborando il metodo dei loci e delle imagines agentes . Sia Quintiliano sia Cicerone riportano il mito della fondazione dell’arte della memoria, attribuita a Simonide di Ceo, il poeta che, unico sopravvissuto al crollo rovinoso di una casa in cui morirono tutti i convitati a banchetto, riuscì a restituire alle famiglie i corpi dei loro cari, resi irriconoscibili dalla tragedia, perché ricordava le posizioni che ciascun convitato aveva occupato a tavola . Le informazioni tecniche sul funzionamento dell’arte della memoria si uniscono alla sua rivalutazione in ambito teologico, grazie soprattutto alla mediazione di Tommaso d'Aquino, che tradusse e chiosò il De memoria et reminiscentia aristotelico. La patristica si interessò all’arte della memoria anzitutto perché, da un punto di vista teologico, venne considerata pars prudentiae e quindi integrata entro l'orizzonte delle virtù cardinali . Ciò permise un recupero anche dell’aspetto tecnico dell’ars memoriae, oltre che una riflessione sui risvolti più interiori e profondi del valore della memoria , da parte di quegli autori cristiani che si preoccuparono di valorizzarla anche come metodo per mandare a mente e interiorizzare il testo sacro.
A ciò si aggiunge l’arte della predicazione, che si serviva delle tecniche mnemoniche allo scopo di favorire nel pubblico dei fedeli la memorizzazione della lezione morale. La tecnica della predicazione, variamente declinata, riprende sempre lo schema base dei loci e soprattutto delle imagines, proposte all’attenzione e alla memoria del fedele per mezzo di exempla .
Se dunque il valore attribuito da Dante alla memoria rimanda all’eredità della cultura classica, d’altro lato dipende dal senso stretto del poema, che si propone come testimonianza e ricordo di una rivelazione. Se la rivelazione non fosse ricordata non sarebbe comunicabile, e dunque lo scopo del viaggio verrebbe vanificato, perché, come mette in guardia Dante stesso, «non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso» .
Il canto IX dell'Inferno può essere considerato un osservatorio privilegiato per verificare gli esiti dell’operazione sincretica di fusione delle due tradizioni, classica e cristiana, in una struttura retorica perfettamente coerente con la poetica sottesa alla Commedia. Il canto propone una situazione “teatrale” molto familiare al lettore medievale: una scena allegorica con tutti gli elementi tipici della sacra rappresentazione. Con essa, per la prima volta da quando Dante ha intrapreso il cammino, si ha la manifestazione diretta della forza divina tramite la figura del Messo celeste, che con il suo arrivo risolve la situazione di blocco in cui si trovano Dante e Virgilio e permette il passaggio oltre le mura della città di Dite. L'arrivo del Messo costituisce il momento culminante di una scena complessa, ricca di attori, comparse, meccanismi narrativi e scenografici che sono implicati in profondità nel tema del percorso memoriale .
Tutta la letteratura dedicata al canto IX non manca di mettere in correlazione i vari attori di questa singolare rappresentazione: le furie, Medusa, il Messo celeste, il mito di Teseo ed Ercole chiamato in causa dalle furie. Si tratta di elementi che compongono un quadro caleidoscopico entro il quale si legge, percorrendo una delle possibili strade interpretative, lo scontro cruciale tra memoria e oblio, necessità di proseguire il cammino e blocco paralizzante. Oggetto di questa analisi saranno dunque le furie, i primi monstra che impediscono ai due pellegrini di procedere nel viaggio infernale. La loro connessione con la memoria sarà resa esplicita sia nell’interpretazione dei mostri stessi come imagines agentes, sia nella considerazione del motivo della scelta di queste figure, mitologicamente connesse con il tema della memoria, sia infine nell’insieme dei gesti di Virgilio e Dante che accompagnano la comparsa delle furie, gesti che si possono interpretare come altrettante spie di un preciso atteggiamento rispettoso dei dettami dell’arte della memoria.
La scena della sacra rappresentazione prende avvio dopo che Dante ha cercato di sondare la competenza della sua guida circa il luogo nel quale si trova, intimo- rito dalla minaccia dei diavoli accorsi alle mura alte della città di Dite, e ancor più dalla perplessità di Virgilio, che sembra incerto sul da farsi. Il momentaneo turbamento di Virgilio diventa affanno allarmato in Dante, forse troppo precipitoso nell’interpretare nel modo peggiore una frase del maestro lasciata In sospeso.

«Pur a noi converrà vincer la punga»,
cominciò el, «se non... Tal ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».

I’ vidi ben sì com’ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;

ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
(Inf. IX, 7-15)

A questo punto Dante cerca di sondare quanto Virgilio sia esperto delle vie dell’Inferno. Si propone così una scena di gustoso realismo, dove il tentativo del protagonista di dissimulare con tatto la propria preoccupazione viene subito smascherato da un Virgilio pronto a rassicurare il discepolo:

«In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?».

Questa question fec’ io; e quei «Di rado
incontra», mi rispuose, «che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado.

Ver è ch’altra fiata qua giù fui,

[…]

ben so ’l cammin; però ti fa sicuro».
(vv. 16-30)

Il pellegrino è dubbioso sulle effettive capacità del maestro di avere la situazione sotto controllo, ma Virgilio si prodiga a rincuorarlo, spiegando di essere già in altra circostanza, costretto dalla maga Erittone, disceso in quello stesso luogo. Dante però interrompe alquanto bruscamente il resoconto di Virgilio con un riferimento diretto alla torre della città di Dite, quella torre con la cima infuocata già indicata a più riprese, una prima volta da lontano e una seconda dalla barca di Flegiàs .

[...]

L’auctor, giunto a un grado di consapevolezza maggiore rispetto al viator in quanto ha già concluso per intero il percorso nell’aldilà, conosce i meccanismi alla base della memoria umana (di Dante viator come del lettore). In questa terzina dunque l’autore pone sullo stesso piano Dante personaggio e il lettore, e perciò non narra altri dettagli dell’episodio affinché il lettore possa concentrarsi su quanto, al tempo del viaggio, già aveva catturato l’attenzione di Dante personaggio. Il «ma» del v. 65 ha quindi una sfumatura causale e indica il motivo dell’interruzione del discorso. Rispetto a quanto avverrà in seguito, l’attrazione della voluntas del personaggio coinvolge prima l’udito, «mi percosse un duolo», ma poi, ben più intensamente, la vista: «avante l'occhio intento sbarro». Si noti per altro che in quest’ultimo verso, esattamente come nel caso già esaminato, si usa il tempo presente (come accade in altri momenti particolarmente significativi ). Per un istante, ripercorrendo mentalmente l’episodio eccezionale che si è impresso nella memoria, lo stupore di Dante personaggio si ripresenta, nell’intensità dell’emozione provata, alla viva memoria dell’auctor, quasi egli stesse rivivendo la scena. Nel v. 66 dunque auctor, viator e lettore sono per un istante assimilati nella stessa tensione mentale di meravigliata attesa del nuovo, efficacemente resa dall’intensità del verbo «sbarro».
Rafforzato dunque da un analogo antecedente, il richiamo alla memoria visiva dei versi 34-36 del canto IX predispone a un episodio eccezionale. Ecco l’evento che ha attratto a sé completamente l’attenzione del protagonista:

dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,

e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
(vv. 37-42)

Essenziale, per inquadrare la scena, la ripresa spaziale: «dove». L'indicazione di luogo rimanda alla «torre» menzionata nella terzina precedente. Ecco rispettato uno dei capisaldi dell’arte della memoria ancorare ogni imago a un locus ben definito. La torre costituisce il punto di riferimento spaziale, il locus in cui depositare le immagini che si presentano in seguito . Tutto il primo verso, dopo l'indicazione spaziale, è studiato per dare energia e rapidità alla manifestazione delle furie. Prima Dante precisa: «in un punto», ovvero in modo imprevisto e improvviso. Segue il verbo, prima ancora del soggetto, che segna l’apparizione: «furon dritte ratto». L’avverbio «ratto» rende particolarmente dinamica la scena e permette di velocizzare il movimento descritto rafforzando l’artificio retorico dell’allitterazione, che si fa doppia, estendendosi per le ultime tre parole del verso nella ripetizione della r, ed è rincalzata, nelle ultime due parole, dal secco suono della dentale sorda r. Segue il soggetto, in posizione iniziale del verso successivo: «tre furie», dove l’indicazione numerica costituisce una sorta di coda del suono allitterante precedente e introduce rapidamente il nome, il soggetto dell’apparizione improvvisa.
La mitologia racconta che le furie, o Erinni, erano tre sorelle figlie di Acheronte e della Notte. Simbolo del rimorso e della vendetta, tormentavano i colpevoli dei delitti. Queste figure sono pertanto particolarmente interessanti sotto l’aspetto della memoria. Il richiamo al sangue (non a caso una delle prime connotazioni date dall’autore: «di sangue tinte») rimanda alla memoria del delitto commesso, memoria che non può essere cancellata se non con la vendetta. Le Erinni costituiscono dunque un segno del passato che incombe sul presente; sono la memoria del passato che reclama vendetta. Trasformate da Dante in mostri infernali, vengono reinterpretate dai commentatori antichi come altrettanti segni del male: nel pensiero, nella parola e nei fatti, cioè «malo pensamento, disonesto parlare, malvagia operazione» .
La raffigurazione dantesca delle furie sembra in tutto rispettare i precetti classici circa la costruzione delle imagines agentes: esse devono colpire in modo particolare l’immaginazione e quindi la loro efficacia sta nella forza d Fia to, sia in senso positivo, sia soprattutto — come si evince dalle trattazioni sulla memoria — in negativo, cioè con immagini spaventose. È esattamente quanto prescrive la Seconda Retorica:

Imagines igitur nos in eo genere constituere oportebit quod genus in memoria diutissime potest haberi. Id accidit [...] si egregiam pulcritudinem aut unican turpitudinem eis adtribuemus; si aliquas exornabimus, ut si coronis aut veste purpurea, quo nobis notatior sit similitudo; aut si quam rem deformabimus, ut si cruentam aut caeno si ridiculas oblitam aut rubrica delibutam inducamus, quo magis insignita sit forma; aut si ridiculas res aliquas imaginibus adtribuamus: nam ea res quos faciet ut facilius meminisse valeamus. Nam, quas res facile [veras] facile meminerimus, easdem fictas et diligenter notatas meminisse non difficile est .

La descrizione dantesca sembra modellata a partire da questi suggerimenti: sono infatti immagini di unicam turpitudinem; sono a loro modo exornatae coronis aut veste purpurea (i serpenti alle tempie e la lordura del sangue); sono infine — in modo ambiguo e ambivalente — sia imagines fictae, perché sono tolte dalla mitologia, sia imagines verae, perché nella finzione narrativa il pellegrino se le trova concretamente davanti. Particolare attenzione va all'elemento del sangue, il primo dettaglio dato dall’autore sulle figure, elemento su cui anche il passo della Rhetorica ad Herennium insiste in modo particolare. Dante sfrutta efficacemente la possibilità di un doppio rimando: il sangue come elemento mnemonico suggerito dall’Ad Herennium, nonché il sangue come eco letteraria di Ovidio e Virgilio. La descrizione delle furie sembra infatti modellata dietro suggestione sia del passo ovidiano («Nec mora, Tisiphone madefactam sanguine sumit / importuna facem fluidoque cruore rubentem /induitur pallam tortoque incingitur angue» ), sia di quello virgiliano («stat ferrea turris ad auras, / Tisiphoneque sedens palla succinta cruenta / vestibulum exsomnis servat noctesque diesque» ), oltre a echeggiare altri riferimenti alle furie presenti in Virgilio e in Stazio .
La scelta del sangue come elemento distintivo per connotare le furie è perciò una via quasi obbligata, dal momento che la loro funzione è essenzialmente di tormentare i colpevoli di delitti di sangue; ma meno ovvio, e quindi tanto più significativo per impreziosire e superare la prevedibilità dell’immagine, è il valore del sangue come elemento di supporto alla memoria, secondo quanto precisato dalla Rhetorica ad Herennium. Le furie sono dunque, per certo verso, rubricate, evidenziate nel loro valore di portatrici di un messaggio da affidare alla memoria che si stampa di rosso sangue nel ricordo del pellegrino.
Sangue e colore rosso sono naturalmente connessi tra loro e l’uno implica ed evoca l’altro; quindi il “sangue” delle furie è una variante particolare (e particolarmente macabra) del valore più generale del rosso, cui è affidato per eccellenza il compito di marcare i luoghi di maggiore rilevanza. Soprattutto Luigi De Poli ha evidenziato la funzionalità dell’elemento del rosso come connotato mnemonico essenziale nell’Inferno: «dans la première cantica, le rouge du sang marque le passage d’un groupe à un autre» . Sebbene questo non sia l’unico, ma solo uno degli elementi individuati da De Poli in merito alla marcatura dei punti di snodo del percorso mnemonico dantesco , esso si connota in questo locus come particolarmente significativo, perché si associa a un’intera riflessione sulla memoria che trama in profondità l'episodio. La memoria è già presente come motivo di fondo a partire dalla scelta di raffigurare proprio le furie, simbolo del ricordo del passato che torna a farsi vivo nel presente; ma, nel caso personale di Dante, se memoria di un passato colpevole può esserci, non può che essere memoria del traviamento avvenuto dopo la morte di Beatrice. Però non le furie tormentano e cercano soddisfazione in Dante di questa colpa, lo farà invece la stessa Beatrice nel Paradiso terrestre .
Nella descrizione incisiva delle imagines agentes, vivide e terribili nella loro apparizione con le chiome intrecciate di «idre verdissime» (il colore contribuisce, così sgargiante, a rendere memorabile l’immagine), ogni particolare descrittivo non risulta casuale, esattamente come avviene nel celebre esempio della Rhetorica ad Herennium, fornito proprio per spiegare come funzionino le imagines agentes. L’anonimo estensore del trattato, infatti, non solo spiega la tecnica di organizzazione dei loci mnemonici in cui collocare le immagini, ma mostra, con un esempio chiaro e concreto, come le immagini debbano essere elaborate con la maggiore economia possibile, ovvero in modo che ogni dettaglio non risulti superfluo ma rimandi a un preciso dato da ricordare. L'esempio concreto fornito dal trattato pone il caso di un avvocato che deve ricordare i particolari di una causa per veneficio:

Rei totius memoriam saepe una nota et imagine simplici conprehendimus; hoc modo, ut si accusator dixerit ab reo hominem veneno necatum, et hereditatis causa factum arguerit, et eius rei multos dixerit testes et conscios esse: si hoc primum, ut ad defendendum nobis expeditum [sit] meminisse volemus, in primo loco rei totius imaginem conformabimus: aegrotum in lecto cubantem faciemus ipsum illum, de quo agetur, si formam eius detinebimus; si eum non, at aliquem aegrotum [non] de minimo loco sumemus, ut cito in mentem venire possit. Et reum ad lectum eius adstituemus, dextera poculum, sinistra tabulas, medico testiculos arietinos tenentem: hoc modo et testium et hereditatis et veneno necati memoriam habere poterimus. Item deinceps cetera crimina ex ordine in locis ponemus; et, quotienscumque rem meminisse volemus, si formarum dispositione et imaginum diligenti notatione utemur, facile ea, quae volemus, memoria consequemur .

Dante pare aver applicato alla lettera la tecnica proposta dall’Ad Herennium, e i dettagli sulle furie non sono certamente privi ciascuno di un preciso significato simbolico e allegorico, come soprattutto alcuni tra i commentatori antichi si sono sforzati di indicare punto per punto . Fissata così la prima immagine, secondo quanto previsto dalla tecnica della memoria, è necessaria una pausa prima di passare all’“unità di memoria” successiva. La pausa permette di ripartire il materiale da memorizzare in unità di memoria gestibili dalla mente (la ripartizione infatti evita che si crei un affastellamento di immagini che verrebbero poi memorizzate in modo confuso) . Ecco dunque due versi di commento all’apparizione mostruosa, che fissano e ribadiscono quanto appena acquisito, dando allo spettatore il tempo di “archiviare” l’immagine mnemonica: «E quei, che ben conobbe le meschine / de la regina de l’etterno pianto» . La scelta lessicale dell’autore non è priva di sottigliezza: il sintagma «ben conobbe le meschine», in chiusura di verso, rimanda con uno stretto nesso fonico all’espressione «già le sue meschite» , usata nel canto precedente proprio per indicare la vista delle mura della città di Dite e quelle torri (le «meschite») sulle quali appaiono ora le furie. La scelta lessicale meschine-meschite riguarda l’impiego, tipicamente medievale, di termini di derivazione araba per indicare l’anti-divino e quindi il demoniaco . Ma c’è molto di più: le due parole si rimandano a vicenda sia per la fonte comune sia per un semplice gioco fonico , che permette di richiamare alla mente quanto detto in precedenza e quindi di rafforzare il nesso imago-locus, ovvero furie-torre. A ciò si aggiunge un ultimo particolare a rendere davvero fitte le maglie tra i diversi passi del testo: il rosso sangue delle furie richiama il rosso fuoco delle torri, infatti le «meschite» sono «vermiglie come se di foco uscite / fossero» . Legate a doppio filo da parola e colore, le furie sono così decisamente associate in modo stabile al locus che le contiene, o meglio, che le esibisce.
Dopo la pausa di rinforzo, la descrizione delle imagines agentes prosegue con altri particolari orrorosi per fissare in modo definitivo queste figure nella memoria del pellegrino.

«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.

Quest’ è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifon è nel mezzo»; e tacque a tanto.
(vv. 45-48)

L'invito a guardare segna il passaggio alla seconda unità mnemonica e l’attenzione di Dante deve attivarsi per compiere il passo successivo: la memorizzazione. Nell’ordine, dunque, prima vi è stata la concentrazione della voluntas, calamitata dall’imago eccezionale delle furie, ora invece si deve passare alla tensione della mente per imprimere la lezione mnemonica. La concentrazione di Dante è di nuovo espressa tramite un’intensificazione dello sguardo: «Guarda» è precetto essenziale impartito da Virgilio al suo discepolo.
Le nuove informazioni servono a nominare e collocare spazialmente in modo più preciso le immagini prima delineate. I deittici sono d'aiuto per cercare di definire nello spazio la posizione delle tre furie rispetto a Dante; la più vicina a lui sembra Megera, indicata appunto con il deittico questa . Perciò delle tre furie, quella che più direttamente potrebbe minacciare Dante è probabilmente anche quella che gli sta più vicina. Questo dato comporta conseguenze interessanti proprio sotto l’aspetto mnemonico. Seguendo infatti la traccia dei commentatori antichi, si trova nell’Ottimo una preziosa indicazione: «questa eresia venenosa, e empia, prima prende la imaginativa che è dinanzi, poi la deliberativa, che è in mezzo, ultimo la memoria, ch'è di dietro; sicchè potemo dire che Megera occupa la memoria, Tesifone la discretiva, Aletto la imaginativa» . L’Ottimo interpreta il significato della posizione delle tre furie avendo come punto di riferimento il peccato di eresia e il modo in cui si radica nell'animo umano .
Anche tralasciando il concetto di eresia come elemento comune delle tre furie, nondimeno la loro posizione rimanda a una speculare organizzazione mentale dello spazio, dove proprio a Megera, la più vicina a Dante, è dato il luogo della memoria. La memoria perciò emerge in primo piano come elemento fortemente a rischio nell’impresa che Dante affronta: essa potrebbe essere inficiata e quindi irrimediabilmente corrotta, resa confusa e impotente nelle sue facoltà; ma ciò significherebbe di fatto l’impossibilità per il pellegrino di proseguire il proprio cammino, perché porterebbe alla devianza, di cui l’eresia è una forma. La devianza è appunto la curiositas risolta in malo, cioè il divagare dal retto cammino mnemonico, con il risultato di rimanere invischiati in sentieri tortuosi che non conducono più alla meta .
La posizione delle tre furie, secondo la lettura dell’Ottimo, condivisa, con minime variazioni, da altri commentatori antichi, viene interpretata con riferimento alle tre “stanze” della mente umana. Era infatti dottrina medievale diffusa che nel cervello vi fossero tre celle dove avevano sede le diverse facoltà mentali: nell’ultima cella, la più arretrata, si trovava la memoria, come testimonia anche Landino, che commentando l’Inferno precisa: «nel terzo e ultimo ventricolo è la memoria». Landino ribadisce il medesimo concetto anche nel commento al Purgatorio, sostenendo che la memoria «è l’ultima cella del ventricolo del cervello». Sulla stessa linea anche Vellutello, valendosi dell’auctoritas della scienza, sostiene che «nel terzo ventricolo, secondo i fisici, è locata la memoria».
Le furie però non sono le uniche tre sorelle associate alle stanze della memoria; una situazione analoga si verifica anche per altre tre figure, delle quali una, molto più avanti nel viaggio oltremondano, sarà oggetto dell’attenzione di Dante: si tratta di Aglauro e delle sue sorelle. Aglauro è uno degli exempla di invidia punita della seconda cornice del Purgatorio, e — proprio in quanto exemplum — anch’esso si può definire, quasi per statuto, una vera imago agens. L’exemplum della misera sorte di Aglauro è affidato a una voce aerea, che trascorre rapidissima per la cornice testimoniando la tragica vicenda della fanciulla, quasi come si trattasse di un auto-epitaffio: «Io sono Aglauro che divenni sasso» .
Le Metamorfosi di Ovidio raccontano che Aglauro, figlia di Cecrope, re dell’Attica, ebbe due sorelle: Erse e Pandroso. La bellezza di Erse infiammò d’amore Mercurio che comprò a peso d’oro la complicità di Aglauro per potersi unire all’amata. Ma Minerva fece in modo che l’Invidia insufflasse il suo veleno in Aglauro, come punizione per la curiosità della fanciulla. Infatti ad Aglauro e alle sue sorelle era stato affidato in custodia un cesto, dove era nascosto il neonato Erittonio; nonostante il divieto imposto da Minerva di guardare dentro il cesto, la curiosità prese il sopravvento e Aglauro non rispettò l'ordine divino. Minerva dunque intese punire Aglauro e ricorse all’aiuto dell’Invidia. Rosa dall’invidia, Aglauro tentò di opporsi agli amori della sorella e di Mercurio, ponendosi sulla porta all’arrivo del dio e impedendogli di accedere alla camera della sorella Erse. Adirato per l’ardire della donna, il dio la trasformò in pietra livida . Ci si soffermi ora, nell’episodio della tragica metamorfosi di Aglauro in pietra, sulla descrizione iniziale della posizione delle stanze occupate dalle tre sorelle: «Pars secreta domus ebore et testudine cultos / tris habuit thalamos, quorum tu, Pandrose, dextrum / Aglauros laevum, medium possederat Herse» .
La distribuzione delle stanze ricorda anche la posizione delle furie nel canto IX dell’Inferno. Se è vero che la collocazione delle tre furie, così come delle tre stanze delle figlie di Cecrope, ha qualche nesso con le celle del cervello e dunque con la facoltà della memoria, allora le analogie tra le due situazioni, se ci sono, per essere davvero rilevanti devono andare ben oltre la semplice collocazione spaziale e coinvolgere in particolare le figure che occupano la stessa posizione, ovvero Megera e Aglauro. L'ipotesi viene confermata perché in effetti le analogie previste emergono in modo lampante laddove si consideri non solo il rapporto diretto tra Dante e Ovidio, ma l’imprescindibile mediazione cristiana di un classico come le Metamorfosi, cioè le varie “moralizzazioni” di Ovidio che tanta fortuna ebbero nel Medioevo . Tra esse si ricordino soprattutto i distici degli Integumenta Ovidii di Giovanni di Garlandia: «Mens domus Invidie, Pallas sapientia, sermo / aliger, Aglauros invida facta lapis» . Secondo la chiosa di questi versi le tre figlie di Cecrope sono la rappresentazione di tre virtù: Immaginazione, Intelletto e Memoria. L'autore del codice Vaticano Latino 1479 fornisce addirittura una dubbia etimologia del nome di Aglauro che significherebbe «sine oblivione» :

Mercurius [...] vidit puellas sorores sapientie que dicuntur esse virtutes inter quas erat hec Herse et Aglauros et Pandrasos que interpretantur tres virtutes principales videlicet fantasis, intellectus, memoria. Et sunt in domo triclinio, quia dicunt philosophi quod in cerebro sunt tres camere quarum Aglauros tenet levam que interpretatur sine oblivione. [...] Aglauros [...] mutata fuit in lapidem quia firmiore natura conservat illa cella que sibi tradita sunt quam alie .

Seguendo questa interpretazione, Dante, trovandosi vicino ad Aglauro-Megera, si confronterebbe perciò proprio con la memoria, custode esterna delle stanze successive. Sul motivo per cui la memoria occupa lo spazio più esterno del cervello ha riflettuto Pézard, concludendo che la memoria è esterna perché «est considérée comme la plus mécanique, la moins spirituelle des facultés de l’àme» . Ciò non comporta una sua svalutazione, essa è piuttosto il primo ostacolo da superare: senza una memoria efficace è inutile tentare di addentrarsi nelle stanze più interne, e quindi verso l’intelligenza, giacché se la memoria non è dalla parte del pellegrino a nulla vale la possibilità di accedere alla conoscenza. Ciò avviene per una duplice ragione: anzitutto perché, come preciserà Beatrice, «non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso» , in secondo luogo anche perché senza una memoria salda ed esatta non sarebbe possibile il percorso di ritorno, cioè si perderebbe quel filo conduttore che permette di percorrere e ripercorrere il tragitto. Le conseguenze sarebbero non solo di non poter più ritornare alla conoscenza inizialmente acquisita, ma persino di non poter più tornare indietro rimanendo dunque bloccati a metà strada. Si tratta di un rischio che ben avverte Dante, e lo evidenzia già nelle minacce dei demoni che rivolgono a Virgilio queste parole:

[...] «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno.

Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada».
(Inf. VIII, 89-93)

Resta sottinteso, naturalmente, lo smarrimento del pellegrino, per nulla in grado di tornare da solo per un sentiero che, a questo punto, sarebbe «folle», come «folle» fu il volo di Ulisse, anch’egli incapace di tenersi entro il percorso consentito, anch’egli colpevole di mala curiositas. Nello specifico il ritorno sarebbe impossibile perché determinerebbe una confusio memoriale, violerebbe il precetto di non voltarsi indietro. Affinché infatti il percorso mnemonico abbia buon esito, è necessario rispettare l’ordo, ovvero percorrere sempre secondo ordine e sequenza rigorosi le successive tappe memoriali.
Forse le parole delle furie celano anche un riferimento biblico che rende molto più pregnante e profondo il senso dell’espressione. Nei Proverbi, a proposito del “banchetto” allestito dalla Sapienza, così è scritto:

sapientia aedificavit sibi domum excidit columnas septem [...]
misit ancillas suas ut vocarent ad arcem et ad moenia civitatis
si quis est parvulus veniat ad me et insipientibus locuta est
venite comedite panem meum et bibite vinum quod miscui vobis
relinquite infantiam et vivite et ambulate per vias prudentiae .

La situazione presenta qualche elemento analogo alla scena del canto IX dell’Inferno. Anche qui infatti ci sono delle ancelle che si trovano proprio sui punti più alti della fortificazione: le tre furie compaiono sulla cima della torre e Virgilio, al vederle, «ben conobbe le meschine / de la regina de l’etterno pianto» . Come nel passo biblico, le furie svolgono la funzione di ancelle , ma sono ancelle della regina degli Inferi e non della Sapienza. Infatti l’invito delle furie sembra porsi in antitesi con quello rivolto dalle ancelle della Sapienza; per di più l’invito della Sapienza ad accostarsi coincide specularmente con l’esortazione delle tre furie ad allontanarsi. Oltre a ciò ricorre un elemento essenziale che riprende il passo biblico e costituisce un dato-spia della sfera semantica legata alla memoria, cioè il riferimento al percorso da compiere: la Sapienza invita a procedere “dritti”, invece la minaccia delle furie comporta che l’uomo ritorni per la «folle strada». L'aggettivo «folle» impone un rimando immediato ad Ulisse, protagonista di un viaggio colpevole senza ritorno, e in questi versi si accostano la “strada folle” e il “sentiero torto”, in netta opposizione alla «diritta via» che porta al bene citata da Dante nel I canto dell'Inferno .
Così nel IX canto Dante accenna, seppur secondariamente (o al limite in concomitanza con il riferimento odissiaco del canto XXVI), anche al passo dei Proverbi di poco successivo a quello già ricordato, che descrive il “banchetto” della Follia . Di lei si dice:

sedit in foribus domus suae super sellam in excelso urbis loco
ut vocaret transeuntes per viam et pergentes itinere suo
qui est parvulus declinet ad me [...]
et ignoravit quod gigantes ibi sint et in profundis inferni convivae eius .

Sembrerebbe proprio che Ulisse abbia ceduto alle lusinghe della Follia, deviando dal sentiero dritto e incamminandosi per un sentiero distorto, «folle» appunto, con le conseguenze che ne seguirono.
Se questi riferimenti sono appropriati, le furie costituiscono in definitiva la controparte delle ancelle della Sapienza. In questo modo vengono a stringersi anche i legami tra Megera e Aglauro, perché laddove l’interpretazione degli Integumenta Ovidii vede nella memoria la difesa più esterna, che custodisce il tesoro riposto all’interno e contemporaneamente segna un punto di passaggio obbligato, così qui la furia che compromette la memoria, Megera, compie appunto la prima azione di allontanamento dell’uomo dalla Sapienza. Senza la memoria la Sapienza risulta inattingibile, in quanto la Sapienza ha in sé l’implicito fondamento di ricordare gli insegnamenti appresi, come spesso viene ripetuto nei Proverbi: «fili mi ne obliviscaris legis meae et praecepta mea custodiat cor tuum» ; e ancora «ausculta sermones meos et ad eloquia mea inclina aurem tuam / ne recedant ab oculis tuis custodi ea in medio cordis tui [...] / omni custodia serva cor tuum quia ex ipso vita procedit» . I riferimenti potrebbero moltiplicarsi. L'invito continuo a ricordare i precetti dati è segno evidente che la memoria costituisce un requisito indispensabile affinché il conseguimento della Sapienza possa essere effettivo e duraturo. Le furie, imagines agentes costruite secondo tutti i dettami delle tecniche retoriche sull’uso della memoria, mettono in guardia il pellegrino da uno dei più pericolosi rischi dell’intero percorso, che vanificherebbe lo scopo del viaggio: il rischio dell’oblio.
Questa costruzione costituisce solo la prima parte di una complessa rappresentazione, che avrà il suo culmine nella minaccia dell’arrivo di Medusa (vera imago di oblio) e il suo scioglimento nell’arrivo del Messo celeste, con il ripristino delle condizioni d'animo e mentali più adatte a un’efficace memorizzazione degli eventi e a un felice prosieguo del viaggio oltremondano. Tuttavia è in primo luogo indispensabile sceverare nei dettagli quest’episodio per dimostrare come la descrizione delle tre furie, considerata in sé, sia un esempio efficacissimo di fusione tra precettistica retorica classica, filtro biblico cristiano e rielaborazione poetica dantesca, che giunge, con il rimpasto di materiale narrativo ereditato da una lunga tradizione letteraria e mitologica, a risultati poetici assolutamente nuovi e perfettamente incastonati nella complessa costruzione narrativa e ideologica del poema.

Date: 2022-01-10