L’episodio di Medusa nel canto IX dell’Inferno e il finale del libro XI dell’Odissea. A proposito di un libro recente [Luigi Ferreri]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Luigi Ferreri

Tratto da: L'Alighieri. Rassegna dantesca

Numero: 49

Anno: 2008

Pagine: 131-148

Il libro Dante e Omero di Giovanni Cerri intende sviluppare un'indagine ambiziosa finora mai tentata. Lo studio ha un duplice obiettivo: ricostruire quale conoscenza «ebbe e non poté non avere» Dante dei poemi omerici e come essa, altrettanto necessariamente, abbia influito «sulla maniera in cui Dante vide il proprio poema in rapporto a quelli di Omero» (p. 9). Ambizioso è soprattutto il tentativo di dimostrare che l'episodio di Medusa del canto IX dell’Inferno riecheggia il finale della Nekyia (Od. XI, 627-37). La dimostrazione di questo riecheggiamento, ritenuto dall'A. «indiscutibile», rappresenta la linea portante dell’indagine, l’aspetto che viene presentato come il più originale e «rilevante» della ricerca. Non solo perché il riecheggiamento è stato finora ignorato dalla quasi totalità della critica , ma anche perché, data la rilevanza dell'episodio di Medusa nell’economia del poema, il risultato raggiunto potrebbe aprire prospettive rivoluzionarie innanzitutto alla critica dantesca, e in subordine allo studio della fortuna di Omero in Occidente. Potrebbe... In realtà la ricostruzione di Cerri non risulta affatto persuasiva. Più interessante — non saprei però dire se risolutivo — risulta invece un aspetto dell'indagine secondario rispetto al problema di Medusa (anche se non secondario in sé): l'individuazione nell’episodio del Messo celeste di un riferimento intertestuale a Lucano, finora non rilevato adeguatamente, che secondo Cerri potrebbe aiutare a comprendere la dinamica dell’intero episodio (p. 10). In ciò, a mio avviso, va visto il contributo di maggior rilievo del libro.
Il volume è strutturato in due parti. Nella prima (Il volto di Medusa, pp. 15- 93, capp. I-XVII), dopo aver analizzato la Nekyia (in particolare il suo finale) e l'episodio di Medusa, Cerri cerca di dimostrare il riecheggiamento da parte di Dante di Od. XI, 627-37. Tutto ciò occupa i primi dodici capitoli (pp. 15-67). Ad essi fa seguito (capp. XIII-XVII) uno studio volto a ipotizzare attraverso quali vie (florilegi o antologie latini, fonti orali, ecc.) Dante, che — come è a tutti noto — non conosceva il greco, sia giunto a conoscenza del passo omerico. La seconda parte (Dante ed Omero, pp. 95-137, capp. XVII-XXIV), sviluppa un’analisi di brani dell'Iliade e dell’Odissea noti a Dante tramite le fonti latine che hanno potuto esercitare qualche influenza sulla composizione della Commedia «non a livello di dettaglio, ma di struttura generale o episodi nodali» (p. 97). In tal modo Cerri cerca di spiegare l’«elogio entusiastico» (p. 9) dato dall’Alighieri al «poeta sovrano» (Inf. IV, 88) «che le Muse lattar più ch’altro mai» (Purg. XXI, 102).
Nelle prossime pagine mi occuperò esclusivamente del confronto filologico tra il finale della Nekyia e l'episodio di Medusa; alle altre parti del libro dedicherò solo qualche cenno cursorio nell’ultimo paragrafo. Nel ripercorrere il confronto tra i due brani mi atterrò all’avvertenza formulata da Cerri a principio del cap. VIII e farò quindi attenzione «non soltanto al dettato dei due brani considerati in se stessi, ma anche al contesto narrativo e topografico nel quale ognuno di essi è inserito» (p. 46). E naturalmente terrò conto, nel caso della Commedia, del significato allegorico dei personaggi e delle situazioni in questione.

1. Il finale della Nekyia

L'ultimo dei personaggi che Odisseo incontra davanti alle porte dell’Ade è Eracle. Tornato lui nell’ Ade, Odisseo è spaventato dalla folla delle anime che gli si accalca intorno e decide di fuggire temendo che Persefone gli invii contro «la testa gorgonia» (Od. XI, 627-37) :

Detto così [Eracle] ritornò nella casa di Ade,
mentre io restavo lì fermo, se altri venisse
degli uomini eroi, che in passato morirono.
E avrei visto gente ancora più antica , come pure volevo:
Teseo e Piritoo, figli gloriosi di dèi;
ma s’adunavano intanto frotte infinite di morte,
in un immane gridìo; e mi prese verde paura ,
che contro me la testa gorgonia (Gorgeien kephalèn) del mostro terribile
mandasse fuori Persefone veneranda.
Subito allora corsi alla nave e dissi ai compagni
di salirvi sopra e sciogliere le gomene.

Cerri non esclude un significato più profondo del finale della Nekyia, che per comodità potremmo dire allegorico, perché così Dante l’avrebbe definito, «se lo avesse conosciuto» (p. 47). Essendo la Nekyia «il vertice della parabola investigativa» che porta Odisseo al di là dei confini che gli dei hanno assegnato al sapere dei comuni mortali, il paventato intervento della Gorgone simboleggerebbe «chiaramente il limite imposto dagli dei e dal destino alla conoscenza umana» (p. 25).

2. L’episodio di Medusa nell’Inferno

Dopo che Flegiàs ha sbarcato Dante e Virgilio davanti alla porta della città di Dite, Dante ha modo di osservare «più di mille diavoli in su le porte / da ciel piovuti» (Inf. VIII, 82-83) che minacciosi domandano perché un vivo abbia violato l’oltretomba. Virgilio chiede di parlare con loro «secretamente» (VI, 87), ed essi accettano. Non viene rivelato il contenuto della conversazione, che Dante afferma di non aver potuto udire (VIII, 112). Il colloquio tuttavia si conclude bruscamente: i diavoli chiudono la porta in faccia a Virgilio (VIII, 114), che umiliato torna da Dante dichiarando di aspettare il soccorso di un «tal che per lui ne fia la terra aperta» (VII, 130). Con questo verso si conclude il canto VIII. Il canto IX si apre con i due poeti in attesa del Messo celeste. Dante, impaurito, chiede a Virgilio se altra volta qualche anima del Limbo (come appunto è Virgilio) sia penetrata nel basso Inferno. Virgilio, che comprende il senso della domanda e vuole perciò rassicurare il discepolo, gli rivela che già un’altra volta lui aveva attraversato quella parte dell’inferno, «congiurato» (IX, 23), cioè obbligato per mezzo di scongiuri, dalla maga Eritone. La maga compare nel libro VI della Farsaglia di Lucano (vv. 508-827). Cerri ritiene che l'episodio convogli «un messaggio metatestuale, discreto, addirittura criptico, ma inequivocabile: il modello poetico di riferimento è sì Virgilio, Eneide VI, ma anche Lucano, Farsaglia VI» (p. 35). Al v. 33 termina la risposta di Virgilio. Trascrivo i vv. 34-63 che ci interessano da vicino:

E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,

dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,

e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.

E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.

Quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifon è nel mezzo»; e tacque a tanto.

Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme, e gridavan sì alto,
ch'i’ mi strinsi al poeta per sospetto.

«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Teséo l’assalto».

«Volgiti ‘n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ’l Gorgén si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe del tornar mai suso».

Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.

O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.

I versi 64-105 sono occupati dalla descrizione del Messo celeste, grazie al cui intervento la porta della città di Dite si apre e Dante e Virgilio possono entrare. Rivolgendosi ai diavoli il Messo rimprovera la loro «oltracotanza» (v. 93) e stigmatizza il loro ricalcitrare ai decreti immutabili di Dio (vv. 94-96), concludendo (vv. 97-99):

«Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».

3. «Coincidenze biunivoche»

Nel capitolo VIII (pp. 46-48) Cerri elenca in 12 punti le «coincidenze biunivoche» da lui rilevate tra Od. XI, 627-37 e Inf. IX, 52-60. Ripropongo l’elenco in maniera sintetica utilizzando largamente le stesse parole dell’A.

1) Il Gorgoneion si configura come funzionario permanente nel regno dei morti.
2) La sua funzione specifica è quella di mettere in fuga ed eventualmente impietrire coloro che ancora vivi si avventurano nell’Ade.
3) Il Gorgoneion non appare effettivamente, viene solo prospettato il pericolo incombente che appaia.
4) Non viene descritto dal poeta.
5) Il protagonista è all’esterno del luogo-città da dove teme possa affacciarsi il Gorgoneion, più precisamente è in prossimità della sua soglia ed è da questa che il mostro potrebbe uscire alla ribalta. Ulisse sta evocando i morti in uno spazio antistante all'ingresso dell’Ade e viene preso dalla paura che il Gorgoneion venga fuori come hanno fatto finora le altre anime; Dante è di fronte alla porta chiusa della Città di Dite.
6) Il Gorgoneion non esce di sua iniziativa, ma su ordine di Proserpina (Persefone), la regina degli Inferi (in Dante il mostro per uscire viene evocato dalle Erinni, che però sono «le meschine», cioè le ancelle, «de la regina de l’etterno pianto», v. 43).
7) La paura del Gorgoneion produce effetti risolutivi a livello narrativo: Ulisse volta le spalle e fugge alla nave; Dante volta le spalle e tiene gli occhi chiusi fino all’arrivo del suo salvatore.
8) La figurazione mostruosa segna comunque la fine di una sezione del poema: la fine della Nekyia e la fine della prima parte dell'Inferno. Per Ulisse termina il viaggio nell’Aldilà, per Dante la prima parte del viaggio infernale. Certo c’è una differenza, in quanto Dante continua il suo viaggio nell’oltretomba, ma questa è “obbligata” dalla diversa struttura delle due opere.
9) Entrambi i brani, al di là della narrazione bruta, rinviano ad una stessa nozione cosmologico-religiosa di base: il limite imposto alla conoscenza umana, rispetto all’oltretomba, alla natura del mondo, al senso della vita. Il significato allegorico dell’episodio dantesco corrisponde al significato profondo dell'episodio odissiaco (che, a rigore di termini, allegorico non è, ma sarebbe stato così definito da Dante, se lo avesse conosciuto).
10) Il rammarico delle Erinni «Mal non vengiammo in Teséo l’assalto» (v. 54) dipende per imitatio da Od. XI, 98-99. Diversamente, Dante avrebbe piuttosto ricordato la violazione dell’Ade perpetrata da Ercole, menzionata dal Messo celeste ai vv. 98-99.
11) I «mille e più diavoli in su le porte / da ciel piovuti» di Inf. VIII, 82-83 corrispondono ai myria (‘a miriadi’, ‘a decine di migliaia’, quindi ‘infiniti’) di morti che gridano in Od. XI, 632-33.
12) Per Inf. IX, 1 «Quel color che viltà di fuor mi pinse» cfr. Od. XI, 633 «e mi prese verde paura».

4. I modelli: Virgilio e Lucano

Dopo aver elencato le coincidenze biunivoche, Cerri passa ad occuparsi dei due modelli a cui Dante si rifà nei canti VIII e IX dell’Inferno: Virgilio, Aen. VI, 540-636 (a cui è dedicato il cap. IX, pp. 51-55) e Lucano, Fars. VI, 423-749 (a cui è riservato il cap. X, pp. 56-62).
Da Virgilio Dante mutua in particolare la rappresentazione della città di Dite (per cui cfr. Aen. VI, 548-63) e la rappresentazione delle Erinni (che si rifà alla scena in cui Tisifone chiama le sue sorelle Furie: Aen. VI, 570-72).
Ma è sulle analogie con Lucano evidenziate da Cerri che occorre spendere qualche parola in più. Nel vi libro della Farsaglia Sesto Pompeo si rivolge alla maga tessala Erittone, dedita alla negromanzia, per conoscere l’esito della battaglia imminente. La maga sceglie uno dei cadaveri della recente battaglia e lo richiama in vita per profetare. Intanto gli dei dell’Ade — tra cui compaiono Persefone e le Furie — tardano ad esaudire la richiesta. Erittone li minaccia in questo modo (VI, 744-49):

Paretis, an ille
compellandus erit, quo numquam terra vocato
non concussa tremit, qui Gorgona cernit apertam
verberibusque suis trepidam castigat Erinyn,
indespecta tenet vobis qui Tartara, cuius
vos estis superi, Stygias qui peierat undas?

Dunque, le prerogative di questo minaccioso «ille» includono la possibilità di punire le Erinni, di guardare in faccia la Gorgone senza subire alcun danno .
Secondo Cerri nell’«ille» andrebbe ricercato il modello del Messo celeste. Lo studioso ritiene che Dante abbia volutamente inteso lasciarlo in incognito. Infatti la relazione intertestuale con il VI libro della Farsaglia spiegherebbe questa ed altre “stranezze” dei versi danteschi. Virgilio vuole parlare «secretamente» con i diavoli

perché deve fare cosa necessaria, quindi giusta, ma non bella, soprattutto non educativa per il suo discepolo: li deve minacciare con una formula di magia nera, quella di Eritone. I diavoli, a differenza delle divinità infernali di Lucano, non cedono: dunque, quel “tale”, l’ille, arriverà davvero. Per questo i diavoli sono presi dal panico, si rifugiano in tutta fretta dentro e sbarrano la porta in faccia a Virgilio, presumendo così di poter resistere all'assalto. (p. 61)

Questa proposta va presa in seria considerazione. Tuttavia non saprei dire se essa sia davvero quella giusta. Non intendo escludere decisamente l’esegesi proposta. Mi limito a rilevare come il fatto che questo strano personaggio sia lasciato in incognito si possa spiegare anche alla luce di due passi biblici su cui gli studiosi hanno da tempo richiamato l’attenzione : Apoc. 20, dove si parla di un angelo, di cui non viene fornito il nome, che detiene la chiave dell’abisso e il potere di chiudervi il demonio per mille anni, e II Thess. 2, 1-11, dove si parla di tò katéchon («quid detineat» secondo il testo della Vulgata), il misterioso essere che tiene a freno le potenze infernali. Non si può escludere che Dante abbia tenuto presente questi passi, tanto più perché il Messo celeste appare come una figura assimilabile a quella di un angelo che debella l’arroganza degli angeli-demoni «da ciel piovuti» (Inf. VIII, 83) . Per il Messo-angelo è stata proposta l’identificazione con angeli ben precisi e in particolare con l’arcangelo Michele . Ad ogni modo, non si può escludere che Dante, pur avendo in mente un personaggio preciso e pur consapevole che i suoi lettori medioevali facilmente avrebbero identificato questo personaggio, abbia optato per l'anonimato per conformarsi alle fonti bibliche seguite . Meriterebbe inoltre un approfondimento la questione della “magia” di Virgilio. Si tratta di un tema complesso, su cui qui non è possibile dilungarsi. Mi limito a segnalare l’opinione negativa espressa da Alessandro Ronconi (che si rifà a precedenti autorevoli prese di posizione di Francesco D’Ovidio e di Giorgio Pasquali), il quale in riferimento a questi versi di Inf. IX (che rappresentano l’unico possibile appiglio, in tutta la Commedia, per suffragare l’idea di un Virgilio “mago”) scrive:

In realtà quando Dante riferisce nei versi citati, senza peraltro prendere posizione in un senso o nell’altro, è, da solo, troppo poco per attrarre Virgilio nella sfera di attive esperienze magiche. Sottolineiamo l’aggettivo ‘attive’. In quei versi infatti il cantore di Enea ci si presenta come oggetto di un’operazione cui non contribuisce in alcun modo. E ciò non basta a farne un mago. Il D’Ovidio crede anzi che la dura condanna della gente ‘travolta’ messa in bocca a Virgilio in If. XX, 16-57 e 106-123 nasconda la protesta indignata del discepolo fiorentino contro ogni diceria sulle virtù magiche del maestro. [...] Nulla del Virgilio mago, dunque, nella Commedia? È conclusione che si presenta assai probabile E poco anche del Virgilio contaminato e adulterato in senso paracristiano dalle favole sorte e diffuse in ambienti indotti o semidotti .

5. Le coincidenze si riducono della metà

Terminata l’analisi dei passi dell’Eneide e della Farsaglia, Cerri non può che rilevare come diverse coincidenze tra Dante e Omero possano essere ricondotte a questi modelli intermedi. Procede quindi ad una scrematura delle coincidenze biunivoche; a cui sottrae interamente i punti 2, 3, 4 e 5. I punti 2, 3 e 4 hanno un riscontro in Lucano, dove la Gorgone svolge una funzione apotropaica (2), è presentata «come potenziale arma difensiva dell’Ade» (3), manca di una descrizione (4). Invece la collocazione topografica del paventato incontro con Medusa (punto 5) può essere stata mutuata sia da Lucano sia da Virgilio.
Oltre a questi, Cerri provvede a sottrarre, ma solo parzialmente, anche i punti 1 e 9. Riguardo al punto 1, l'A. fa notare come anche in Lucano la Gorgone si configuri «come funzionario stabile dell’Ade». Tuttavia mentre il poeta latino parla di Gorgone al femminile, Dante, come Omero, parla di un gorgoneion. Tale uso non sarebbe casuale, perché l'intento era quello di indicare non Medusa nella sua interezza, bensì la sua testa isolata (cfr. p. 45). Comunque, Cerri ammette che «Dante potrebbe aver desunto questo dettaglio da altre rappresentazioni poetiche a lui note» (p. 65). Credo però che i dubbi residui si possano fugare. Anziché scomodare l'Odissea, bastava dire che la forma maschile (ma probabilmente con valore neutro) ‘Gorgòn’ era «corrente» nel volgare trecentesco . Verosimilmente lo era «per riferimento al capo reciso di Medusa» , di cui parlava il mito, nel Medioevo noto principalmente da Lucano (Phars. 1X, 629 ss.) e Ovidio (Met. Iv, 627 ss.). Ad ogni modo, il mito ha influenzato il linguaggio corrente che Dante ha adottato: non c’è bisogno di pensare a particolari influenze delle fonti.
Riguardo al punto 9, Cerri non esclude che «la medesima azione cosmologico-religiosa» che egli ritiene presente nei due brani possa essere desunta da Verg. Aen. VI, 563 , ma ritiene che l’accenno sia «molto parziale» (p. 65). Ciononostante, dal momento che la figura come simbolo di razionalità è presente in fonti latine tarde, l’A. ritiene pure plausibile che Dante possa avere desunto questo dato da esse e averlo inserito nella vicenda del suo viaggio ultraterreno alle porte della città di Dite. A mio avviso, questa conclusione è corretta e non conviene pensare ad una derivazione da Omero a fronte di una soluzione più economica. Non mi sembra quindi il caso di insistere su questo punto, a cui del resto lo stesso Cerri non sembra dare eccessivo peso.

6. L’effettiva consistenza delle coincidenze rimanenti

Metà delle coincidenze restano ancora sul tappeto: precisamente i punti 6, 7, 8, 10, 11 e 12. Ma davvero questi punti di contatto con il finale della Nekyia non sono spiegabili diversamente?
Senza remore occorre dire che i punti 7 e 8 sono inconsistenti. La fuga di Odisseo e il voltarsi indietro di Dante sono atteggiamenti differenti. A differenza di Odisseo, Dante non può e non deve fuggire, perché deve proseguire il viaggio. L'azione di voltarsi e coprirsi gli occhi, a cui lo esorta Virgilio, è un atto scontato di fronte alla minaccia della Gorgone. L’analogia avanzata al punto 8 è altrettanto labile perché, come lo stesso Cerri non può fare a meno di rilevare, in Dante non termina il viaggio, come invece avviene nella Nekyia. Ma, a ben guardare, anche gli effetti del paventato arrivo di Medusa sono diversi. Mentre nell’ Odissea esso segna davvero la fine del viaggio, nella Commedia la fine della sezione è determinata dall’arrivo del Messo celeste, mentre l'apparizione delle Furie e l’invocazione di Medusa occupano lo spazio di impasse dell’azione che segue la decisione dei diavoli di chiudere la porta in faccia Virgilio (Inf. VIII, 114) e che viene sbloccato dall'arrivo del Messo.
Ma anche la solidità dei punti rimanenti è vacillante. Osserviamoli nel dettaglio.
6) Secondo Cerri in Dante e in Omero la Gorgone, qualora venisse fuori, lo farebbe non di sua iniziativa ma per ordine di Proserpina (Persefone). Al contrario, in Virgilio il mostro «manca del tutto» e in Lucano «se si attivasse, si attiverebbe in proprio, ponendosi allo stesso livello gerarchico delle Erinni». In realtà in Dante non ci sono elementi per parlare di una subordinazione della Gorgone alle Erinni. Le Furie invocano la Gorgone, e basta. Solo in modo arbitrario si può vedere nel vegna di Inf. IX, 52 un comando da parte di esseri superiori in grado. Nulla toglie che qui ci sia un’invocazione per così dire a un monstrum-collega che ha lo stesso interesse a che l’ancora vivente Dante non violi la città di Dite. Del resto, non si vede perché Dante debba fare quistione di gerarchia dove le fonti non si ponevano il problema. Si è visto come in Luc. Phars. VI, 746-47 Gorgoni e Erinni siano posti sullo stesso piano . Lo stesso vale per Virgilio. In Aen. VI, 273-89 vengono elencati una serie di «monstra» infernali (“numerosi” «monstra», un particolare su cui occorrerà ritornare) che abitano «proprio davanti al vestibolo dell’Averno, sull'orlo delle fauci dell’Orco» («Vestibulum ante ipsum primisque in faucibus Orci») . In questa schiera compaiono, tra gli altri, le Eumenidi («ferreique Eumenidum thalami», v. 280) e, più oltre, le Gorgoni (v. 289). Come in Lucano, non c’è differenziazione gerarchica tra Eumenidi e Gorgoni .
È opportuno, a questo proposito, fare alcune precisazioni. L’Ade virgiliano è diviso in più settori e la città di Dite vera e propria circondata dai «moenia» corrisponde in realtà ad una sua parte, che viene descritta in Aen. VI, 541 ss. Che Dante derivi da Virgilio è stato da tempo sottolineato e nel capitolo IX (pp. 53-54) Cerri elenca con precisione le analogie tra le due descrizioni. L'unica differenza sostanziale è rappresentata dal fatto che mentre in Dante la città è circondata dalla palude Stigia, in Virgilio è cinta dal fiume Flegetonte (di cui Dante parla invece in Inf. XIV). Per il resto le analogie sono abbastanza stringenti. Anche la menzione delle Furie ha un riscontro nella presenza in Virgilio di Tisifone «assisa, avvolta in un mantello insanguinato», la quale «custodisce insonne il vestibolo [della città di Dite] notte e giorno» (vv. 555-56). In questo caso però l'analogia è parziale. Non solo perché in Dante compaiono tutte e tre le Furie, mentre in Virgilio solamente Tisifone. A Dante difficilmente poteva sfuggire una contraddizione o quantomeno una difficoltà che emerge in Virgilio. In Aen. VI, 280 le Eumenidi (cioè le Furie) sono collocate alle soglie dell’Averno, mentre in VI, 555-56 Tisifone svolge le sue mansioni all’interno della città di Dite. La contraddizione è stata risolta facendo notare che al v. 572 Tisifone «vocat agmina saeva sororum» «il che può far pensare ch’essa le raduni dalla soglia dell’Averno» . Albert Forbiger sulla base di Esiodo, Theog. 758 ha avanzato dubbiosamente l’ipotesi che le Furie avessero la sede alle soglie dell’Averno e da lì si muovessero per altri luoghi infernali. L'una o l’altra ipotesi, sempre che si accetti una, obbliga comunque a ritenere che Dante abbia innovato rispetto a Virgilio. Risulta pertanto poco perspicuo ciò che Cerri scrive a p. 54:

Nella descrizione virgiliana, la Gòrgone Medusa manca del tutto. Anzi, non avrebbe potuto in alcun modo esserci: delle Gorgoni nel loro insieme si era parlato prima, In Aen. 6, 285-289, e se ne era parlato soltanto nell’ambito di un secco elenco di esseri mostruosi, vagolanti intorno all'albero dei sogni vani, appena fuori dell’Ade, davanti al suo vestibolo: Centauri, Scille, Briareo, Idra di Lerna, Chimera, Gorgoni, appunto, Arpie, Gerione. Di Medusa in particolare non si era parlato affatto. Men che meno della testa-gorgoneion (il Gorgòn di Dante).

Se vale questa considerazione, si dovrebbe concludere che anche le Furie non avevano da esserci all’interno della città di Dite, perché anch’esse in Virgilio abitano solamente alle soglie dell’Ade (da cui si spostano) ovvero sono collocate in maniera contraddittoria in due luoghi diversi dell’Ade. E chiaro invece che nel momento in cui Dante ristruttura il suo oltretomba e sceglie per le Furie la città di Dite, non ha difficoltà a collocare accanto a loro anche la Gorgone Medusa, conservando in tal modo la contiguità Furie-Gorgoni che c'è in Virgilio e in Lucano. Quanto al fatto che in Dante si parli di Medusa (al singolare), a motivare la risposta basterebbe Phars. VI, 746, dove Gorgona è al singolare e indica Medusa. Riguardo all'uso del maschile gorgoneion si è già detto (vedi supra, par. 5).
L'utilizzazione delle fonti da parte di Dante, come avremo modo di ribadire, è molto complessa e scaltrita. Nel canto IX dell’Inferno vengono rielaborati dati ricavati da Virgilio e Lucano, ma non solamente da essi . L’indugio che subisce l’azione è creato per poter introdurre Medusa, il cui significato allegorico insieme con il significato allegorico del voltarsi e del coprirsi gli occhi di Dante, delle mani di Virgilio che si aggiungono a quelle di Dante e dell’arrivo del Messo, è l'aspetto saliente della narrazione. Anche le Erinni hanno un significato allegorico, e pure per esse i dantisti si sono sbizzarriti nella ricerca di significati nascosti . Come è noto, una certa fortuna ha riscosso l’interpretazione di Pietro di Dante che vuole le tre sorelle simboli rispettivamente della «prava cogitatio» (Aletto), della «prava elocutio» (Tisifone) e della «prava operatio» (Megera) . Un seguito ha avuto anche l’interpretazione di Giovanni Andrea Scartazzini, che ha visto nelle Furie la raffigurazione de «la mala coscienza» . Giorgio Padoan ritiene invece che sia difficile individuare un significato allegorico autonomo delle Erinni e che, se esse lo hanno, questo andrà ricondotto al significato allegorico di Medusa (di cui le Erinni sarebbero «aralde») . Anche però trascurando il significato allegorico, è innegabile che Dante ha voluto rappresentare le Furie in questo contesto perché esse hanno un ruolo di preminenza nelle fonti da cui il poeta mutua la rappresentazione della città di Dite, tanto che in Stazio, Theb. I, 85 Tisifone è definita da Edipo «Tartarei regina barathri». La presenza accanto alle Gorgoni pure è scontata. Si è visto come in Aen. VI, 289 e in Phars. VI, 746 le Gorgoni (o la sola Medusa, in Lucano) sono accostate alle Furie. In Aen. VI, 341 la Furia Alletto è «infettata dai veleni gorgonii» («Gorgoneis Allecto infecta venenis») .
Notiamo ora un altro particolare. In Virgilio, in Lucano, in Stazio le Furie appaiono in relazione molto stretta con Proserpina. In Aen. VI, 249-51 Enea sacrifica alla Notte definita «mater Eumenidum» (cioè madre delle Furie), alla Terra (sorella della Notte) e a Proserpina. In Phars. VI 695 ss. Erittone invoca una serie di divinità infernali e, tra esse, menziona le Eumenidi, definite significativamente «vergogna dello Stige e castigo dei colpevoli» («Stygiumque nefas Poenaeque nocentium», v. 695). In Phars. VI, 730 ss. sempre Erittone apostrofa minacciosamente prima le Furie (vv. 730-35), poi Ecate — cioè Proserpina — (vv. 7136-42) e infine Plutone (vv. 742-44). In Theb. I, 111 si dice che Proserpina in persona insieme ad Atropo, una delle Parche, si prende cura del manto orrendo («horrida palla») di Tisifone. L'accostamento di Eumenidi e Proserpina è presente in Theb. VIII, 10. La raffigurazione di Proserpina, che Virgilio (Aen. VI, 138) definisce «Iuno inferna» , come regina dell’Ade è comune al mondo classico ed è recepita dagli autori medievali . La presenza ricorrente di Proserpina regina dell’Ade nelle fonti direttamente utilizzate per i canti VIII e IX spiega perché essa venga ricordata da Dante proprio nel contesto della rappresentazione della città di Dite, in Inf. IX, 43-44, sebbene la dea «di fatto non appaia mai nella concreta rappresentazione dell’inferno dantesco» , forse perché «troppo contrario alla tradizione ecclesiastica e all’immaginazione popolare» . Dante non ha trascurato la regina degli inferi e l’ha citata in relazione alle Furie perché ha trovato questa connessione nelle fonti direttamente utilizzate. È vero che nelle fonti le Furie sono presentate piuttosto come ancelle di Plutone ed è probabile che Dante nel definirle «meschine» abbia tenuto presente Seneca Herc. fur. 100, dove le Furie sono dette «famulae Ditis» . Tuttavia un’attestazione delle Furie come ancelle di Proserpina si trova in Prudenzio: «Cum subnixa sedet solio, Plutonia coniunx / imperitat Furiis et dictat iura Megaerae» (Contr Symm. I, 367-68), passo che Dante potrebbe aver conosciuto direttamente . Fa notare inoltre Roberto Mercuri :

Del resto proprio perché Dante non può rinunciare alla figura di Lucifero come re dell’Inferno per un evidente obbligo al verbo cristiano (relega Plutone al rango di semplice demonio dopo averlo spodestato dal trono che la tradizione classica gli aveva assegnato) è comprensibile che abbia accentrato le prerogative di Plutone sulla sua consorte.

Parlare di Proserpina come «mandante di Medusa», come fa Cerri, è una forzatura. Si basa su un sillogismo inesatto. Proserpina comanda sulle Furie che a loro volta dispongono di Medusa. Ma nella Commedia Medusa non è subordinata alle Furie e, Soprattutto, Dante parla di un rapporto ancillare tra le Furie e Proserpina perché di ciò trovava esplicita attestazione nelle fonti (Prudenzio), ovvero trovava tutti gli elementi che ne giustificavano quella specifica relazione (nel caso egli avesse presente fonti diverse da Prudenzio). Del rapporto diretto Medusa-Proserpina Dante non parla come non parlavano le fonti a lui note. AI più si può dire che anche Medusa e le sue sorelle Gorgoni sono sotto la giurisdizione infernale della regina Proserpina, ma ciò vale per tutti i «monstra» infernali. La collocazione gerarchica di Medusa è un dato non pertinente, un dato che Dante non ritiene rilevante, a differenza di quello delle Furie.
10) Secondo Cerri, la menzione di Teseo, completamente assente nel contesto lucaneo, non potrebbe essere derivata da Virgilio. In Aen. VI, 393-95 Caronte ricorda la discesa negli inferi di Teseo e del compagno Piritoo: «Nec vero Alciden nec sum laetatus euntem / accepisse lacu nec Thesea Pirithoumque / dis quamquam geniti atque invicti viribus essent». Teseo insieme ad Eracle è menzionato (da Enea) in Aen. VI, 122-23: «Quid Thesea, magnum / quid memorem Alciden?». Secondo Cerri la menzione di Teseo in Dante non potrebbe essere dovuta a questi precedenti virgiliani: «Teseo è elencato da Virgilio tra i dannati del Tartaro, è per giunta “infelice” (v. 617 sg.), evidentemente proprio in quanto subisce la pena eterna per aver violato l’Ade e tentato di rapirne la regina; ed è anche lui sotto le grinfie di Tisìfone» (p. 54). Ma davvero la contraddizione tra Aen. VI, 122-23 più 393-95 e Aen. VI, 617-18 sarebbe stata ostativa per Dante? Innanzitutto, a Dante non dovette essere ignoto il commento di Servio ad Aen. VI, 617 (II, p. 87, 5-10, ed. THILO): «Aeternum sedebit infelix Theseus contra opinionem, nam fertur ab Hercule esse liberatus: quo tempore eum ita abstraxit, ut illic corporis eius relinqueret partem. frequenter enim variant fabulas poetas: Hippolytum Vergilus [Aen. VII, 765] liberatum ab inferis dicit, Horatius [Carm. IV, 7, 25-26] contra neque enim Diana pudicum liberat Hippolytum» . Se si allarga l’orizzonte delle fonti ben note a Dante, ci si imbatte in un passo della Tebaide di Stazio (vm, 53 ss.) che attesta la buona riuscita della violazione dell’Ade da parte di Teseo e Piritoo . Ma osserviamo da vicino i versi di Dante. In Inf. IX, 98-99, il Messo celeste rammenta la sconfitta di Cerbero: «Cerbero vostro, se ben vi ricorda, / ne porta ancora pelato il mento e ’l gozzo». Il riferimento sembra essere alla nota impresa di Ercole. Eppure, come ha rilevato Giorgio Padoan in un importante saggio di circa mezzo secolo fa , se così fosse e se Dante seguisse la versione del mito che voleva Ercole responsabile della liberazione dall’Ade di Teseo, entrerebbe in palese contraddizione con quanto affermato al v. 54: «Mal non vengiammo in Testo l’assalto». In realtà Dante sembra seguire una diversa versione del mito. Di essa c’è una traccia di una qualche consistenza nell’Hercules furens di Seneca, in cui si precisa (vv. 818-19) che Teseo, liberato, collaborò con Ercole alla cattura di Cerbero. Ma, soprattutto, ci sono riscontri nei primi commentatori di Dante. Padoan quindi non esclude che in Inf. IX, 98-99 il castigatore di Cerbero sia Teseo e non Ercole (o al limite che i due abbiano collaborato):

appare pertanto assai verosimile che Dante non conoscesse quella particolare versione del mito che voleva Teseo vinto dalle forze infernali, o conoscendola, non l’accettasse. Egli doveva piuttosto pensare alle discese di Teseo e di Ercole come avvenute indipendentemente l’una dall’altra, oppure (ma è meno probabile) che i tre, Teseo, Pirotoo ed Ercole, fossero discesi assieme (come lasciava credere Tebaide VIII, 53-56), e che tra essi Teseo avesse assunto la parte principale come vincitore dei demoni .

Riguardo alle contraddizioni di Virgilio Padoan opportunamente scrive: «sappiamo benissimo a quanti e quali fraintendimenti andassero soggetti, anche da parte dei commentatori, cioè dei maestri di grammatica questi passi, mentre per i miti le chiose si rifacevano assai più ai mitografi che al testo» . Qui, in particolare, va sottolineato come il trattamento “benevolo” che riceve Teseo nella Commedia abbia una motivazione più profonda. Come ha dimostrato Padoan, adducendo una serie di riscontri in fonti medievali che avvalorano questa lettura allegorica (fonti sulle quali qui non possiamo intrattenerci), Teseo è, in Dante, una «figura» di Cristo .
11) Che l’opposizione di «più di mille» diavoli, cioè un numero indefinito € altissimo, non trovi un riscontro in Virgilio non è propriamente esatto. Si cfr. Aen. VI, 285: «Multaque [...] variarum monstra ferarum». Questo gruppo numeroso comprende i Centauri (v. 286), Briareo e l’Idra di Lerna (v. 287), la Chimera (v. 288) e le Gorgoni, le Arpie e Gerione (v. 289). Ma in questo caso è il dato scritturistico quello che conta. Il riferimento è ovviamente agli angeli cacciati dal cielo insieme a Lucifero, di cui si parla in Apoc. 12, 7-13 (cfr. Inf. VII, 11-12). Si tratta di una schiera numerosa, come si può evincere da un passo del Convivio (II.v, 12): «Dico che di tutti questi ordini [angelici] si perdettero alquanti tosto che furono creati, forse in numero de la decima parte; a la quale Testaurare fu l’umana natura poi creata»; confrontato con Conv. II.v, 5, in cui il numero degli angeli rimasti fedeli è detto «lunghissimo» . Un numero altissimo dunque, quello degli angeli cacciati dal cielo (praticamente comparabile col numero degli uomini destinati a salvarsi), e generico («alquanti»), anche perché noto nella sua esattezza solamente a Dio. Va inoltre detto che mentre nella Nekyia le anime dei morti che si accalcano attorno ad Odisseo gridano («in un immane gridio», Od. XI, 633), il particolare è assente in Inf. VIII, dove le anime si limitano a chiedere: «Chi è costui che sanza morte / va per lo regno della morta gente?» (vv. 84-85).
12) L’unico dato pertinente sembra essere quello del pallore del volto. È curioso però notare come Cerri rilevi questa analogia, ma ometta di dire che differente è la causa della paura. In Od. XI, 633 la «verde» o «pallida» paura è Spiegata col possibile arrivo della testa della Gorgone, in Dante invece la paura si presenta — o meglio si ri-presenta, perché già più volte si era manifestata nel canto VI — nel momento in cui vede tornare Virgilio «con l'aspetto del vinto» , come viene esplicitato al v. 2: «veggendo il duca mio tornare in volta». Dunque, la paura prende Dante ancor prima che compaiano le Furie e venga evocato l’arrivo di Medusa. In realtà l’accenno alla «viltà» fatto da Dante serve a collegare questa situazione a quella di Inf. II, 45 ss., in cui Virgilio rileva come l’anima di Dante sia «da viltate offesa», cioè dalla pusillanimità, «la qual — continua Virgilio, vv. 46-48 — molte fiate l’omo ingombra / sì che d’onrata impresa lo rivolve / como falso veder bestia quand’ombra». Come spiega il Buti: «come la bestia si rivolge e torna a dietro, quando adombra per falso vedere; cioè che li par vedere quel che non vede; così l’uomo spesse volte torna a dietro di quello che à preso di fare, avendo paura di quello che non dee avere» .

L'analisi delle fonti utilizzate da Dante e dei contesti narrativi e topografici in cui sono inseriti il finale della Nekyia e l'episodio di Medusa evidenzia le carenze dell’analisi di Cerri, così sintetizzabili:

a) si danno per scontate coincidenze che non lo sono perché il testo di Dante non si presta ad una lettura univoca;
b) vengono sovrainterpretati elementi che possono avere, ed hanno, spiegazioni molto più economiche e in un caso (mi riferisco all’uso del maschile ‘Gorgòn’) più pertinenti sotto il profilo della linguistica storica;
c) nel caso di Teseo (Inf. IX, 54) viene trascurato il significato allegorico della figura;
d) la maniera con cui viene valutata l'utilizzazione delle fonti classiche da parte di Dante è inadeguata e trascura la complessità e la raffinatezza (da «filologo» ) messa in opera dal poeta.
L'ultimo punto merita qualche parola. Non è semplice valutare nella sua interezza l’approccio di Dante alle fonti; si tratta di una questione estremamente complessa, che qui non può essere affrontata. Tra gli studi più recenti e interessanti si segnala il lavoro del compianto Giorgio Brugnoli sul canto XXVI dell’Inferno . Dante, come acutamente rileva lo studioso, ha verso le fonti un approccio da vero e proprio filologo, tanto scaltrito da riuscire, in alcuni casi, a ricostruire (in maniera “razionale” più che “intuitiva”, come invece pensava Eduard Norden) l’ipotesto che sottostà alla fonte . Nel caso di Medusa si verifica per alcuni versi una situazione simile. Dante ricava da Virgilio e da Lucano la presenza delle Gorgoni nell’Ade, e da Lucano apprende che la funzione di Medusa è quella di «distruggere chiunque si accosti senza averne titolo», come scrive Cerri a p. 64. Da questi dati egli elabora una eventuale e solamente paventata apparizione della Gorgone, finendo in tal modo per ricostruire l’ipotesto omerico che sottostà al modello lucaneo . La ricostruzione è funzionale ed è razionale. Funzionale, perché la Gorgone si inserisce benissimo per contenuto nella narrazione e veicola un messaggio allegorico rilevante. Razionale, perché partendo da elementi logici Dante finisce per ricreare l’ipotesto: l'apparizione della Gorgone deve essere solamente paventata, non reale; pena l’interruzione del viaggio ultramondano.
Mi sembra inoltre che la maniera con cui Cerri appiattisce le sue ricognizioni sul libro VI dell’Eneide e sul VI della Farsaglia, che certamente sono i modelli principalmente utilizzati da Dante, ma non le sue fonti esclusive, lo induca a trascurare altri apporti intertestuali che pure non andavano trascurati. Eppure, le migliori analisi intertestuali — per tutte valga proprio il libro di Brugnoli appena citato — dimostrano ampiamente di quale spettro di richiami e di echi siano in- tessuti i versi della Commedia.

7. Qualche considerazione finale

Ho limitato la mia analisi al confronto filologico tra il finale della Nekyia e l’episodio di Medusa ed ho utilizzato l’interpretazione allegorica nella stretta misura in cui essa serve ad illuminare il confronto tra i due brani. Non intendo analizzare quella parte della ricerca di Cerri che più da vicino entra nel merito della lettura allegorica. Mi riferisco al parallelo istituito tra il volto di Medusa e il volto di Cristo, a cui è dedicato il cap. VI (pp. 44-45), e a tutta la seconda parte del libro. Pare anche a me evidente che l'episodio di Medusa abbia rilevanza nell’economia della Commedia. Non saprei però dire se davvero il parallelo con il volto di Cristo sia pertinente e, per conseguenza, se il mito di Medusa abbia influenzato anche il finale della Commedia, o se, al contrario, la rappresentazione del volto di Cristo come anti-gorgoneion sia forzata. Ad ogni modo, ammesso che Cerri colga nel segno, è la rappresentazione del Gorgòn posto sullo scudo di Atena, a Dante e al Medioevo nota dalle fonti latine, che determinerebbe il parallelo con il volto di Cristo. Non c’è affatto bisogno di pensare che la conoscenza del finale della Nekyia abbia permesso a Dante «di strutturare il delicatissimo momento di passaggio dall’alto al basso Inferno, con il suo complesso gioco allegorico, nonché il finale dell’intero poema, con la prospettiva di una visione mistica assoluta» (p. 97). Il metodo di partire da premesse congetturali, di costruirci sopra sequenze totalmente congetturali e di tirare però conclusioni certe, impronta, in una maniera che oserei dire sublime, anche il cap. XV (pp. 75-79), in cui si sviluppa un’«ipotesi estrema» (la definizione è dello stesso A.). L'ipotesi è basata su questo passo di una lettera di Petrarca a Zanobi da Strada datata al 6 aprile (l’anno manca, ma si tratta del 1351):

Homericum illud, ne dubites, mittam cum primum facultas affuerit. Ceterum ex eo tempore Parmense domicilium et quam ille nunc incolit bibliothecam nostram non revisi. Scito brevissimum opus esse, quoque facilius ad scribendum eo laboriosius ad querendum; sed hanc tibi libens diurnam operam dicabo, neque, quod iucundo admodum figmento timere te innuis, metuendum est, ne ille divini vir ingenii, audito quo mittendus est, fugiat et profundioribus latebris caput abdat: illud potius spero, ut, ubicunque fuerit, ad tuum nomen exiliat.

Secondo Cerri il frammento omerico richiesto da Zanobi e non ancora trovato da Petrarca potrebbe essere una traduzione latina del finale della Nekyia. Il timore, il fuggir via, il fatto che Omero dovrebbe nascondere la testa sarebbero, secondo lo studioso, tutte allusioni ad Od. XI, 633-36. Non intendo soffermarmi su questa superfetazione di ipotesi: tutto ciò che si può dire del passo è che in esso si parla di un frammento di Omero, che in quel momento si trovava a Parma (e che forse in precedenza si trovava altrove). In particolare, risulta bizzarra la maniera con cui Cerri proceda trionfale e scriva «A me sembra proprio così», salvo poi, come preso da improvvisa resipiscenza, aggiungere «anche se mi rendo conto che la mia ipotesi può a sua volta apparire, o forse essere davvero, un iucundum admodum figmentum» (p. 78). La prudenza però dura poco, e Cerri, intenzionato a «percorrere fino in fondo» la strada intrapresa, arriva persino ad ipotizzare che il frammento possa essere stato messo a conoscenza di Dante da Petracco, il padre di Petrarca. Sopraggiunge però una nuova resipiscenza e l’A. chiude «finalmente» — e noi con lui — la sua «fantasticheria».

Date: 2022-01-10