Il mito delle Furie in Dante [Raffaello Fornaciari]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Raffaello Fornaciari

Tratto da: Studj su Dante

Editore: Sansoni, Firenze

Anno: 1900

Pagine: 59-101

1. Sezione 1

Dopo le allegorie del primo e secondo canto, uno dei passi di più incerta interpretazione nella cantica dell'Inferno, è certamente quello che ritrae il pericolo corso dal Poeta di diventare freddo smalto, quando le Furie, rizzate sopra una torre, con minacciose parole chiamano Medusa. Anzi questo luogo ha per avventura incontrato peggior sorte delle stesse simboliche fiere e di quanto altro precede la entrata di Dante in Inferno, poiché le tre fiere si possono ormai considerare come spiegate con sufficiente probabilità da Giacinto Casella, per coloro almeno che vogliono davvero interpretare Dante con Dante stesso; e parimente le tre donne, dopo la felice spiegazione che il Ruth fece della Lucia, non presentano serie difficoltà, e si può dire ormai che tali questioni, uscite dal campo delle mere congetture, offrano agli uomini intelligenti e discreti una relativa certezza. Al contrario questo passo di che parliamo, per quanto ci è riuscito di indagare fin qui, non ha avuto che congetture, varie bensì e più o meno ingegnose, ma non fondate sovra alcuna solida base fondata sul contesto del poema stesso; né altrimenti poteva essere, perché le indicazioni date dal Poeta sono cosi vaghe e generiche, e si prestano a tante interpretazioni che, mentre nissuna si può dir assolutamente falsa, ancora non si è mostrato se alcuna di quelle abbia chiari contrassegni di verità e di perfetta convenienza con ciò che segue o precede. D'altra parte la spiegazione allegorica di tal passo deve apparire di somma importanza anche a coloro che, forse per leggerezza di studj e di considerazioni, trascurano le allegorie chiamandole giuochi d’ingegno e ricerche futili e vane; poiché in questo luogo il Poeta stesso, contro la sua usanza, ci avverte e quasi ci impone di penetrare al di là del velo poetico, per iscoprire la dottrina ivi contenuta. Credo pertanto che non parrà tempo gettato, né tornerà sgradito, se tenterò di chiarire cotesto passo, non coll’intendimento di aggiungere nuove congetture, o di dir cose non mai dette (condizione questa difficile nell’interpretazione di libri già tante volte commentati, e, ad ogni modo, quasi impossibile in Dante), ma di stabilire qualche fondamento saldo e certo, ricavato cioè dalla struttura stessa del poema e da altri passi del medesimo, e cosi fra le varie spiegazioni trar fuori quella che meriti d’esser riguardata più che semplice congettura. Per ottenere talè intento nel modo più chiaro e più agevole, tre cose mi restano a fare: recar prima qui tutto per disteso il brano sovraccennato; far conoscere in secondo luogo un buon numero almeno delle spiegazioni antiche e moderne che se ne sono date, senza che stimi per altro di doverle ad una ad una confutare, bastandomi, a generale confutazione, il carattere che tutte hanno di semplice probabilità; e finalmente studiare prima il mito delle Furie in relazione cogli altri personaggi mitologici dell’ Inferno, e determinato bene il loro posto e significato, trovare, con opportuni riscontri d’altri luoghi, il senso dell’allegoria contenuta nel minacciato pietrificamento del sommo Poeta.

2. Sezione 2

I due poeti, dopo avere traversato nella barchetta di Flegias la palude stigia, e le fosse che vallano la terra di Dite, approdano all'entrata di essa, dove veggono più di mille dal ciel piovuti, che stizzosi vogliono impedire a Dante di passar quelle porte. Indarno il mantovano scrittore parla loro segretamente, ché essi, udite poche parole, si richiudono dentro; ed egli, tornato a Dante, cerca di confortarlo col fargli sperare che a momenti giungerà tale per cui la terra sarà loro aperta. Mentre se ne stanno ad aspettare, Virgilio, per viepiù rianimarlo, gli racconta d’essere stato altre volte all'Inferno, e di conoscer bene tutto quel luogo:

Ed altro disse, ma non l’ho a mente,
Però che l'occhio m’avea tutto tratto
Vèr l’alta torre alla cima rovente,

Ove in un punto furon dritte ratto
Tre furie infernal di sangue tinte,
Che membra femminili avieno ed atto;

E con idre verdissime eran cinte;
Serpentelli e ceraste avean per crine,
Onde le fiere tempie erano avvinte.

E quei che ben conobbe le meschine
Della regina dell’eterno pianto,
Guarda, mi disse, le feroci Erine.

Questa è Megera dal sinistro canto:
Quella che piange dal destro, è Aletto;
Tesifone è nel mezzo; e tacque a tanto.

Coll’unghie si fendea ciascuna il petto,
Batteansi a palme, e gridavan si alto,
Ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.

Venga Medusa, si ’l farem di smalto
(Gridavan tutte riguardando in giuso),
Mal non vengiammo in Teseo l’assalto.

Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso,
Ché se il Gorgon si mostra, e tu ’l vedessi,
Nulla sarebbe del tornar mai suso.

Così disse ’l maestro; ed egli stessi
Mi volse, e non si tenne alle mie mani,
Che con le sue ancor non mi chiudessi.

O voi, che avete gl’intelletti sani,
Mirate la dottrina che s’asconde
Sotto il velame degli versi strani».

Jacopo della Lana prende le Furie come personificazioni dell’ira, e le mette in relazione col pantano degli iracondi, che circonda la città; se non che le distingue secondo le tre cattive tendenze che aiutano l’ira, e sono la incontinenza, la malizia, la bestialità, e, a proposito di Medusa, conclude: «Chi si lascia a tali vizj vincere, si disumana e diventa insensibile pietra».
Secondo le Chiose anonime pubblicate dal Selmi, Megera vale incontinenza, Tisifone bestialità, Aletto malizia.
Pietro di Dante, al quale si attribuisce un commento latino della D. C., vede nelle Furie il simbolo della superbia, figurandosi in Aletto il cattivo pensiero, in Tisifone la cattiva parola, in Megera la cattiva operazione del superbo. E, per tacere qui di altre sottigliezze allegoriche, interpreta il mito di Medusa in questo senso, che Dante, mirando gli atti e gli spaventi de’superbi, sarebbe diventato pietra, se la ragione non l’avesse difeso.
La stessa interpretazione si trova sostanzialmente in Benvenuto da Imola, il quale, più chiaramente ancora, riconosce in Medusa il terrore, che istupidisce e riduce l’uomo come un sasso.
L’Ottimo Commento, pur ritenendo la distinzione di pensiero, parola, opera, vede rappresentata nelle Furie l’eretica malizia, e Medusa interpreta dimenticanza.
L'anonimo Trecentista vede pur nelle Furie gli effetti dell’ira, e in Medusa l’oblivione per la timidezza.
Iacopo di Dante non differisce da questi quanto alle Furie, e nella Gorgone trova l'appetito di peccato.
Il Boccaccio nelle Furie riscontra anch’esso gli effetti dell’ira in pensieri, parole ed opere, e nella Medusa i beni umani che rendon freddi gli uomini nel divino amore, e nella carità del prossimo.
Secondo il Da Buti, le Furie significano le radici e il nascimento della superbia e dell’invidia procedenti da malizia, e Medusa è quella che fa diventare il peccatore ostinato; ma altrove il medesimo commentatore ricorre anch'esso al pensiero, parola ed opera, e, per Medusa, al simbolo del terrore.
Nelle chiose sopra Dante, pubblicate da lord Vernon Medusa è considerata come «il diletto sensuale».
Il Landino riscontra nelle tre Furie l’eresia, la violenza e la frode, come contrapposto ai tre vizi più leggieri, rappresentati nelle fiere della selva; e in Medusa, i lusinghevoli diletti delle cose mondane.
Il Bargigi pone nelle tre Furie il mal pensiero, parola ed opera, e in Medusa, i beni mondani che rendono l’uomo ostinato ed incorreggibile.
Passando ai moderni commentatori, il Lombardi vede nelle Furie il pentimento, e in Medusa la libidine, causa principale dell’apostasia. Il Costa spiega: «Guardatevi dalle false lusinghe della voluttà, la quale fa gli uomini materiali». Il Biagioli pure concorda col Costa. Il Cesari pure non discorda sostanzialmente. Il Fraticelli, il Bianchi e Gregorio di Siena spiegano le Furie col rimorso che tormenta più specialmente i delitti di pura malizia, e Medusa per la libidine. Il Blanc, il Filalete ed altri tedeschi considerano Medusa come figura del dubbio e dell’eresia, che spegne la fede. L’Andreoli vede nelle Furie la punizione dei peccatori, e in Medusa il terrore che avrebbe arrestato Dante nella sua contemplazione dell’Inferno. Il Ruth vede nelle Furie la superbia, l’avarizia e l’invidia, e in Medusa l'orrore della ribellione. Il Bennassuti crede che Dante sia tentato di disperazione. Il Giuliani vede nelle Furie le passioni dell’ira, e in Medusa la sensualità che spegne l’amore verso Dio e verso l’anima propria. Lo Scartazzini finalmente vede nelle Erinni la mala coscienza, e in Medusa il dubbio contro la fede, che la mala coscienza chiama in soccorso, e che rende l’uomo insensibile come pietra.
Come si vede da questa rapida rassegna che abbiamo fatto delle principali opinioni manifestate sull’allegoria del presente passo dalla maggior parte dei commentatori, tutte, nelle lor varietà, si riducono a queste poche. Le Furie simboleggiano, o furiose passioni d’iracondia e di superbia nelle tre forme del pensiero, della parola e della azione; o altri peccati puniti fuori e dentro Dite; o i rimorsi che traggon l’uomo alla disperazione col terrore dell’ira divina: e Medusa è figura o dell’ostinazione nel peccato, o del piacere, o del dubbio, o della disperazione. E, per quanto si cerchino altri commentatori, sarà difficile poter trovare un'opinione sostanzialmente diversa da queste. Dai pagani stessi le Furie ci sono rappresentate in modo, che chiaro se ne ricavi un significato morale, non dissimile da quelli qui indicati, poiché o sono esse le ministre della Nemesi degli Dei, le quali vanno in traccia del colpevole finché non l'hanno fatto cadere nella punizione, e figurano, come attesta Cicerone, i rimorsi della coscienza che straziano l’animo dell’uomo reo d'un grave delitto; ovvero sono quelle, che, senza cessare di eseguire la volontà degli Dei, pur si deliziano di quanto è più funesto agli uomini, seminano discordie e guerre, e gavazzano nel sangue e nelle stragi. La Medusa poi o Gorgone, divenne, come le favole attestano, un’armatura, con la quale o Giove o Minerva o altri Dei spaventavano i nemici (l’ègida), e in Omero noi troviamo, che Ulisse, disceso all’inferno per parlare con Tiresia, dopo avere tenuto colloquio con questo indovino e con altre illustri ombre, avrebbe voluto trattenersi ancora per parlare con Teseo e Piritoo:

E que’ duo forse mi sarien comparsi
Teseo e Piritoo, gloriosa prole
Degl’immortali Dei. Ma un infinito
Popol di spirti con frastuono immenso
Si ragunava; e
… in quella un improvviso
Timor m'assalse, non l’orribil testa
Della tremenda Gòrgone la diva
Proserpina inviasse a me dall’Orco,
(Vers. Pindemonte)

il qual passo somiglia pur assai a quello di Dante, tanto per il personaggio che teme, quanto per Proserpina che manda la Gorgone; poiché le Furie che vorrebbero mostrarla a Dante, sono appunto le ancelle di Proserpina:

…le meschine
Della regina dell’eterno pianto;

e ancora per la provenienza della Gorgone, che in Omero viene dalla casa di Dite, cioè dalla parte più profonda dell'inferno, sede stessa della regina, come in Virgilio; e sino per la menzione di Teseo (Mal non vengiammo in Teseo l'assalto). E non è improbabile che Dante, giovandosi di qualche citazione dell’Odissea, pigliasse da questo passo l’idea della minaccia fattagli dalle Furie. Anzi questa medesima rassomiglianza potrebbe favorire l'opinione di coloro, che vedono nella Medusa dantesca il simbolo dello spavento, ossia uno spauracchio per distorre il poeta dal suo viaggio, è farlo diventare immobile come pietra.
Ma più su sta monna luna. Qui non si tratta di semplici ragioni di convenienza; non si tratta, cioè, di vedere se queste o altre spiegazioni possano star bene nel luogo dantesco (ché in tal caso la questione non potrebbe mai fare un passo); ma si tratta di vedere se si potesse scoprire nel poema stesso qualche indizio per determinare la spiegazione del mito, e se dalla simmetria e struttura generale di esso o da riscontri troppo esatti, perché s’abbiano a dire casuali e fortuiti, sorgesse per avventura una morale ed estetica necessità di preferire una spiegazione, scartando, come congetture e lavori d’ingegno, tutte le altre.
Poiché sta in saldo per me, che la via più sicura per interpetrar Dante sia il riscontro del poema colle altre sue opere, e soprattutto poi col poema stesso, vedendosi una mirabile unità e concordia fra le sue parti ed immagini, e quasi lo sbozzo di un unico e colossale disegno, che egli lascia finire e determinare dall’attento studio de’ suoi lettori.
E infatti, quando dico riscontro del poema col poema, non intendo tanto per le parole o le frasi, quanto per le convenienze e corrispondenze matematiche fra parte e parte, e per le immagini e i concetti generali. La Divina Commedia, come tutti i grandi poemi, somiglia ad un sistema mondiale, ove tutte le parti sono bi- lanciate per guisa, che l’una sia contrappeso e faccia simmetria all’altra; e chi con sicurezza ne conosca una, può per essa determinare l'indole e la qualità della parte corrispondente, per quanto oscura gli si appresenti. Sembra anzi che Dante, non avendo potuto o vo- luto dir tutto esplicitamente e chiaramente al suo luogo, sì sia ingegnato di supplire, ora con richiami e cenni passeggieri che ti giungono inaspettati e facilmente ti fuggono d’occhio, ma che, bene osservati, spiegano altre espressioni men chiare; ora con paralleli di invenzioni, d'immagini, di concetti, o con ravvicinamenti simbolici di cose che parevano diverse, delle quali poi l'una chiarisce l’altra. Frequenti sono i casi ne’ quali una espressione che vien seconda, illustra la prima; e diresti che il Poeta l’abbia aggiunta a bella posta perché il lettore non restasse incerto; come nel primo canto, quando la via che nel terzo verso è chiamata diritta, più sotto ha il nome di verace, quasi a significare che per quella via si mette capo alla verità, cioè all'oggetto della vita contemplativa, nella quale Dante ripone la suprema beatitudine; e nel secondo canto, poco dopo l’espressione vaga e indeterminata, l'alto effetto e il che e il quale, segue l’altra determinata l’alma Roma e il suo impero, che ha chiaro riscontro con la precedente. E di tali esempi molti mi è venuto fatto di notare leggendo l’opera dantesca, e più se ne noterà, quanto più d’attenzione e di cura si ponga nello studiarla. Che se vogliamo esempj di riscontri e paralleli nei concetti, mi basti ricordare, fra i moltissimi, la relazione stabilita nel c. xvi dell’Inf. fra la lonza del primo canto e Gerione, per mezzo della corda che, destinata dal Poeta a prender l’una, prende invece l’altro, con che egli ci viene a dire, per chi vuole ascoltarlo, che tutte e due quelle figure significano lo stesso vizio, e così illustra quanto oscuramente era accennato nel primo canto del poema; e non meno potrei ricordare il ravvicinamento di Lucia coll’aquila, nel canto XI del Purgatorio, pel quale ravvicinamento il simbolo di Lucia, poco chiaramente manifestato nel canto n dell'Inferno, riceve luce dal simbolo dell'aquila, e questo alla sua volta si illustra viepiù per l’aquila de’ giusti nel cielo di Giove.

3. Sezione 3

Posto questo principio, passiamo ad esaminare la questione, cercando qual sia il vero significato delle Furie e di Medusa. E prima, non vi ha dubbio che il punto più difficile, e anche il più importante, consista nelle Furie. Una volta chiarito il loro senso allegorico, e il fine che si propongono verso Dante, la Medusa, figura secondaria, e semplice mezzo per ottenere quel fine, viene a coordinarsi col mito principale, e riceve luce da quello. Ora, quanto al significato delle Furie, per procedere ordinatamente, tenteremo di desumerlo: 1° dal posto che occupano nell'inferno dantesco, ossia dal cerchio a cui sembrano presedere; 2° dalle proprietà che loro il poeta attribuisce, figura, attitudini, nome ed altro.
Essendo l'Inferno dantesco diviso chiaramente in due parti principali (che sott’altro aspetto diventano tre), cioè nei cerchi esterni a Dite, e nella città di Dite, divisione su cui insiste il Poeta medesimo nel canto XI della 1° Cantica, si può in primo luogo di- mandare se il significato morale delle Furie abbia relazione coi cerchi anteriori alla città di Dite, o con quelli contenuti dentro la città stessa. Ma perché ciò si intenda meglio, non sia grave al lettore ch’ io gli richiami a mente per tratti generali la partizione dell’Inferno dantesco.
Come l’autore ci avverte nel canto ora citato, fuori della città di Dite sono puniti i peccati più leggieri, cioè quelli dell’incontinenza, con quest'ordine: 1° cerchio (o limbo); rei del peccato originale, per mancanza di battesimo; 2° lussuriosi; 3° golosi; 4° avari, e prodighi; 5° iracondi, accidiosi, superbi, invidiosi; ossia tutti que’ peccati d’incontinenza, che hanno radice nell’odio, a differenza dei primi, che hanno radice in un amore disordinato. Dentro la città di Dite, al contrario, sono puniti i peccati più gravi, in quest'ordine: 6° eretici ed epicurei; 7° violenti contro il prossimo, contro sé stessi, contro Dio e la natura; 8° frodolenti di varie specie; 9° traditori. Ora si può notare che quanti sono i cerchi, altrettanti sono i demòni o mostri principali, tolti dalla mitologia greca, che sembrano riferirsi a ciascuno, oltre ad altri minori che si trovano. nelle suddivisioni de’ cerchi stessi, e dei quali non accade parlare. I primi sono Caronte barcaiuolo, che vediamo approdare alla riviera esterna d’Acheronte, per prendere i dannati, e portarli sino al cerchio primo, ossia al limbo; Minosse che troviamo giudice nell’entrata del secondo cerchio; Cerbero, posto nel cerchio de’ golosi, o nel terzo; Pluto (dio della ricchezza) preposto agli avari ed ai prodighi, nel quarto; Flegias, barcaiuolo, che approda all’orlo della palude stigia, o del quinto cerchio, e porta i dannati all’altra riva, dove la città stessa è situata: le Furie, sedute, come per guardia, sopra una torre dalla cima rovente, che sembra un contrafforte della città di Dite; il Minotauro, sopra lo scoscendimento che conduce ai violenti; Gerione, la sozza immagine di frode, nuotante nel baratro donde si cala ai frodolenti; i Giganti, che posano i piedi sull'ultimo cerchio, dove son puniti i traditori.
Questi nove mostri o gruppi è molto probabile che abbiano relazione coi peccati puniti nei nove cerchi; ed alcuni ve l'hanno tanto chiara, che non se ne può dubitare. Tali sono Cerbero con tre gole, che manda sempre fuori i latrati della fame, e che si acqueta solo quando morde la terra; rappresentante non dubbio dell’appetito insaziabile dei piaceri materiali e sensuali (terra), e più particolarmente dei piaceri della gola: Pluto, il cui nome suona ricchezza, e che però simboleggia naturalmente il desiderio sfrenato della ricchezza; il Minotauro, chiaro rappresentante della violenza contro il prossimo e contro la natura, perché nato da un accoppiamento di una donna con un toro, e perché mangiatore di uomini; ed esso stesso un misto d’uomo e di bestia, dunque un uomo bestiale, onde il Poeta stesso chiamalo ira bestiale; Gerione, finalmente, intorno al quale non può sorgere questione, poiché lo troviamo chiamato sozza immagine di frode. Quelli che lasciano qualche dubbio sul loro significato e sopra la relazione loro coi singoli cerchi, sono gli altri cinque: Caronte, Minosse, Flegias, le Furie, e i Giganti. Ma, tenuto conto della diligenza e del genio simmetrico del Poeta, si può supporre che anch'essi abbiano una relazione cogli altri cinque cerchi. Minore è la difficoltà quanto ai Giganti, come quelli che, essendosi ribellati al supremo Rettor delle cose, ben presiedono ai traditori, ossia a coloro che offesero chi aveva più ragione di fidarsi di loro; nel che il loro significato è parallelo a quel di Lucifero, cui essi, più in alto, fanno corona. Quanto a Caronte, parmi convenientissimo porlo in relazione col primo cerchio del limbo, dove esso porta continuamente le anime tutte, sia che debbano restare in quel cerchio, sia che debbano passar oltre; tutte simili in ciò solo, che, peccando senza poi convertirsi, ritornarono, per lo meno, nella condizione stessa in cui si trovavano innanzi al battesimo, Esso dunque sarebbe il rappresentante del mondo colle sue lusinghe, il VECCHIO bianco per ANTICO pelo, che, rinnovando la primitiva tentazione del serpente, tira le anime al peccato per cenni come augel per suo richiamo, che è quanto dire, adesca gli uomini al male per mezzo di quelle attrattive, che alla natural debolezza di ciascuno sono più acconcie. Minosse è comunemente interpretato per la mala coscienza, che giudica inappellabilmente chi ha commessa una colpa; la mala coscienza che suole cominciare, insieme colla malizia, al primo peccato di lussuria; e però convenientemente è preposto al cerchio de’ lussuriosi, ma in qualche modo anche a tutti i peccati volontarj, per ciascuno de’ quali si rinnova in noi il giudizio della coscienza, che sempre ci condanna a pena maggiore. Restano pertanto Flegias e le Furie, come restano d'altra parte due cerchi che aspettano i loro presidenti. A quale dei due simboli saranno da riferirsi i rei di passioni d'odio contro il prossimo, e a quale gli eretici, o i peccatori ribelli intellettualmente a Dio? I commentatori vedono comunemente in Flegias il rappresentante dell’ira, mossi dal traversar egli la palude ove appunto stanno gl’iracondi, e dall’aver esso per ira abbruciato il tempio d’Apollo che aveva violato la sua figlia Coronide. Io, con molto migliori ragioni, credo Flegias presidente della città di. Dite, come Caronte del limbo: 1° per il suo nome stesso che significa fuoco, e però ben si conviene colla città del fuoco, e con quel nocchiero che riceveva l’avviso e facea rendere la risposta col fuoco; e Dante conosceva assai bene questa etimologia, come apparisce dall’allusione al Flegetonte; 2° perché, quando Flegias si appresenta colla barchetta gridando Or se’ giunta, anima fella, Virgilio gli risponde:

Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a voto...
Più non ci avrai se non passando il loto;

col qual verso ultimo gli vien a dire: non ci avrai teco, in tua compagnia, se non quanto è necessario per passare il fango; perché ricordiamoci che Flegias non portava le anime iraconde nella palude, ché quelle non avean bisogno di barca, ma portava le anime meritevoli di stare dentro Dite, e che però non doveano toccar l’acqua riserbata ad altri peccatori; 3° perché l'espressione anima fella, non attribuita mai agli in- continenti, si vede per lo contrario attribuita, proprio come distintivo particolare, alle anime della città di Dite, quando Virgilio, dato ragione a Dante perché gli incontinenti sono separati dalle anime di Dite, usa queste parole:

Tu vedrai ben, perché da questi felli
Sian dipartiti, e perché men crucciata
La divina giustizia li martelli;

donde si può inferire che Flegias presiede ai felli, e che, quando vede levarsi due lumi sulla riva opposta, crede che sia giunta qualche anima fella; 4° perché il delitto principale di Flegias non fu l'ira, ma il sacrilegio, l'offesa fatta ad Apollo abbruciandogli il tempio; onde egli si acconcia meglio a rappresentare gli eretici che gli iracondi (anche nell'ipotesi che nella palude ci sieno solamente degli iracondi); e Virgilio stesso, che certo ebbe tanta parte nei concetti generali e particolari dell’Inferno dantesco, pone Flegias proprio dentro il Tartaro, che corrisponde alla città di Dite dantesca, e ve lo pone, sotto quale imputazione? proprio sotto quella dell’empietà. Si rammentino i versi.

... Phlegyasque miserrimus omnes
Admonet et magna testatur voce per umbras:
Discite justitiam moniti, et NON TEMNERE DIVOS.

5° perché finalmente gli altri rappresentanti dei cerchi dell’incontinenza, piuttosto che malfattori, sono semplici ministri dell’ira divina, mentre un vero malfattore è Flegias, il quale perciò sta bene dentro la città di Dite, in serie co’ suoi degni compagni, omicidi, ladroni e ribelli, quali sono il Minotauro, Gerione e i Giganti. Se pertanto a Flegias abbiamo trovato il posto conveniente, alle Furie altro cerchio non resterà che la palude stigia, quella ove si stanno riuniti i quattro peccati d’incontinenza, nascenti dall’odio; ed esse ne saranno le vere rappresentanti. Nella qual sentenza pare che s’accordino quasi tutti i commentatori, inquantoché ritrovano in esse, come abbiam veduto, 0 l'ira o la superbia; e alcuno, anche l'invidia.

4. Sezione 4

Veduta, per esclusione, la convenienza di tale significato, passiamo ora a vedere se gli attributi che loro dà il Poeta vi si acconcino bene. Questi possonsi ridurre ai seguenti: stanno a guardia di una torre, pronte a rizzarsi come un lampo, se scorgano qualche novità, la quale idea gli fu suggerita da Virgilio nel vi dell’Eneide, ché egli pure pone Tesifone seduta sopra una torre all’entrata del Tartaro, di fianco alla porta:

Porta adversa ingens, solidoque adamante columnae,
Vis ut nulla virum, non ipsi excindere ferro
Coelicolae valeant. Stat ferrea turris ad auras,
Tisiphoneque sedens, palla succincta cruenta,
Vestibulum exsomnis servat noctesque diesque.

Inoltre le Furie sono insanguinate, hanno membra e movimenti femminili, sono cinte di idre verdissime. e hanno per crine serpentelli e ceraste, legate intorno alle tempie. Attributi tutti, che il Poeta prese facilmente dai poeti latini, per esempio, da Virgilio nella Georgica.

... Coeruleosque implexae crinibus angues
Eumenides...

o da Ovidio

... Tisiphone madefactam sanguine sumit
Importuna facem, fluidoque cruore rubentem
Induitur pallam, tortoque incingitur angue;

o ancor meglio da Stazio

Centum illi (Trisiph.) stantes umbrabant ora cerastae
Turba minor diri capitis….
.... riget horrida tergo Palla, et coerulei redeunt in pectore nodi;

o da altri.
Seguono altri particolari: l’essere ancelle di Proserpina, la loro ferocità (le feroci Erine), i nomi che portano, e lo stare, in mezzo alle altre due, Tesifone, come la principale, la quale ha a destra (a sinistra del Poeta) Megera, e a sinistra (a destra del Poeta) Aletto che piange: se non che dal modo con cui è detto, sembra che il pianto sia proprio di tutte e tre, poiché gli atti che seguono descritti, cioè, il fendersi colle unghie, il battersi colle palme, e il gridar alto costituiscono il senso più complesso della voce pianto.
Tutti questi particolari attribuiti alle Furie e con- formi alla tradizione classica, vengono, senza bisogno di dimostrazione, a concludere ferocità, sete di sangue, odio, rabbia, disperazione; e pare che il Poeta si ispirasse all’Aletto virgiliana:

…cui tristia bella,
Iraeque, insidiaeque et crimina noxia cordi.

o da quel che dice la Furia stessa più oltre:

... Bella manu, letumque gero.

Acconciamente dunque le Furie ritraggono quelle passioni d'ira, di superbia, d'invidia, che sono punite nello Stige, e che conducono l’uomo a gravi delitti di sangue, puniti dentro la città di Dite e rappresentati nei mostri che là presiedono agli ultimi tre cerchi.
Ma una obiezione, apparentemente di qualche peso, può sollevarsi contro questa nostra dimostrazione; cioè, per qual ragione se le Furie simboleggiano i peccati puniti nello Stige, stiano esse fuori della palude stessa, anzi siedano sopra una torre della città di Dite, la qual cosa sembrerebbe piuttosto metterle in relazione coll’eresia, punita nel cerchio che è limitato e circondato dalle torri medesime. Osservo primieramente che l'idea di collocare le Furie sedute sopra una torre della città fu certamente suggerita a Dante, come notammo di sopra, dall’esempio di Virgilio: di poi è da considerare, che le mura della città tanto appartengono al cerchio quinto come al sesto, appunto perché servono di confine tra l’uno e l’altro; e che le Furie, stando volte verso la palude dalla quale sola può venire l’assalto, guardano il cerchio quinto. Aggiungo che fra un ripa e l’altra della palude vi è corrispondenza, mediante le due torri, che si danno e rendono il segnale colle fiammelle, quasi a significare che esse trovansi amendue in un territorio comune. Infine, la collocazione delle Furie tra un cerchio e l’altro, tra gli ultimi degli incontinenti e i primi dei felli, è appropriata moltissimo a denotare che le passioni dell'odio predispongono ai peccati più gravi, o, se si vuole, armano e difendono, contro ogni assalto dell’amor divino, i cuori induriti degli eretici e dei peccatori di violenza e di frode. E poi, per riferire le Furie unicamente al cerchio sesto, bisognerebbe considerarle come personificazioni dell’eresia, il che non si potrebbe senza sforzo, anche nell’idea di coloro che l'eresia stessa veggono raffigurata in Medusa.
Se dunque le Furie, per legge di convenienza cogli altri personaggi infernali e pei loro stessi attributi, si manifestano come rappresentanti de’ peccati puniti nella palude stigia; essendo questi peccati in numero di quattro; ira, accidia, invidia, superbia; sorge la questione, se tutti esse li rappresentino, ovvero uno solo, o quale di preferenza tra quelli. Prima di tutto, è da ricordarsi che quei quattro peccati hanno, come già accennammo, un fondamento comune, che è l’appetito d'odio, al contrario dei tre superiori, originati da appetito di amore, e il Poeta, che li ha messi tutti nello stesso cerchio fra l’acqua o il fango, mostra bene di averlo notato; onde potrebbero le Furie rappresentarli tutti in generale, personificando la brama sfrenata di nuocere e far del male altrui. Infatti, le Furie sono ritratte dal Poeta non con proprietà diverse a ciascuna, ma comuni a tutte e tre, e fino l’invocazione di Medusa e’ la fanno a una voce. E neppure dai nomi loro si potrebbe dedurre una distinzione sostanziale di significato, poiché, se questi nomi si spiegano secondo la maniera errata di Fulgenzio (Mithol.) e dei commentatori antichi, in tal caso esse non hanno altra distinzione che quella di pensiero, parola ed opera. distinzione di grado nel vizio, non di vizio; se poi sì spiegano, secondo il loro vero valore, Megera, per odio o invidia; Aletto, incessante; e Tesifone, vendetta della morte; allora si avrebbe il solo concetto dell'odio o dell’invidia, che non cessa fino che colla morte non si è vendicata dell'avversario.
Ed io credo, che questo concetto sia quello rappresentato veramente dalle Furie. Esse per me simboleggiano, o solamente o principalmente almeno, l’invidia, concepita come un odio mortale agli uomini, come l'opposto dell’amore verso il prossimo, che anche altrove il Poeta contrappone a questa brutta passione. Gli atti delle Furie, tostoché hanno scorto Dante, quel lacerarsi il petto, quel battersi colle palme, quel gridare alto e quel piangere, accennano indubbiamente alla disperazione impotente dell’invidioso, che vede altri privilegiati d’alcun bene ed onore: perché l’invidia, secondo il noto proverbio, macera e consuma chi ne è reo e, come dice Ovidio,

… Carpit et carpitur una;
Suppliciumque suum est…

e il colore de’ serpi che fanno loro da cintura, verdissimi, non cerulei come quelli di Virgilio o di Stazio, colore convenientissimo al rancore prodotto dalla turpe passione, corrisponde veramente al fiele, che Ovidio pone verdeggiante nel petto alla personificazione dell'invidia (pectora felle virent, loc. cit. 777), come l’irrequietezza delle Furie ha riscontro coll’invidia medesima che, secondo Ovidio, Nec fruitur somno vigilantibus excita curis, e i serpi che hanno per capelli ricordano i corpora serpentum di cui presso Ovidio medesimo si pasce la terribile dea. (Vedi loc. cit.).

5. Sezione 5

Posto così in sodo che le Furie rappresentano acconciamente l'invidia, sia che questa parola vogliasi prendere in senso stretto o in senso largo (ché ciò non rileva poi grandemente), sarà più facile spiegare l’insidia tesa da loro al Poeta, e quindi il significato di Medusa. Tutti i commentatori che ho esaminati, sono concordi nel riconoscere in questa insidia figurata una tentazione che per alcuni, come abbiam visto, è di disperazione, per altri è di spavento, di ostinazione, di eresia, o di mondanità o che so io. E qui, poiché abbiamo già parlato dei mostri infernali, non è inutile, né, credo, senza interesse, vedere come con Dante si comportano gli altri, e se può dirsi che prima d’ora egli abbia sofferto nessuna tentazione propriamente detta. Ora apparisce chiaro che anche gli altri mostri mitologici, anteriori o posteriori alle Furie, in ciò si uniformano, ch’essi rivolgono a Dante parole od atti minacciosi perch’egli spaventato non osi d'andare avanti; ché se talvolta lo conducono, e fin anche lo portano addosso, ciò fanno costretti e di mala voglia. Il primo caso è di Caronte, di Minosse, di Cerbero, di Pluto (per non parlare qui delle Furie), del Minotauro; il secondo caso è di Gerione e di Anteo; ma di pericoli propriamente detti incorsi dal Poeta, tali che gli impediscano di compiere il mistico viaggio voluto da Dio per propria e altrui emendazione, io non trovo (dentro l'Inferno) se non che il sonno che lo piglia all’entrare dell’Acheronte, dal quale egli è risvegliato per un tuono; il rischio di diventar pietra per la testa di Medusa; e un altro rischio, corso nella bolgia dei barattieri, d'esser preso dai demoni che hanno ingannato Virgilio; da tutti e tre i quali egli scampa felicemente; dal primo per mezzo di una potenza celeste (forse Lucia) che lo trasporta all'altra riva, dove un greve tuono lo sveglia; dal secondo lo salva Virgilio col volgerlo indietro e coprirgli gli occhi; dal terzo lo preserva Virgilio stesso col prenderlo in braccio e trasportarlo nella bolgia seguente. Tutto ciò non mi è indifferente per istabilire che l’atto delle Furie non sia un semplice e ordinario ostacolo messo al suo viaggio, ma bensi qualche cosa di più: una vera insidia tesagli, pari a quella del sonno malefico suscitato dal lampo della terra lagrimosa, e alla gherminella con cui cercano di acchiapparlo i demoni. Un ostacolo ei lo trova anche qui, ma glielo pongono è piovuti dal cielo, che appariscono sulla porta della città di Dite e la sbarrano in faccia a Virgilio; ostacolo che non si deve confondere con l’atto delle Furie, il quale forma qui un vero e proprio episodio.
Se dunque l’atto delle Furie si ha da considerare come una insidia e un pericolo, di quale specie saran questi, in senso allegorico? All’idea di un semplice spavento, sia pur maggiore di quelli provati sin qui, non mi acqueterei, perché le Furie stesse con quegli atti minacciosi e frenetici bastavano a spaventarlo; ed anzi pare che esse ricorressero a Medusa soltanto quando videro ch'egli, invece di fuggire, si restringeva al suo Poeta: oltrediché, dello spavento egli ne aveva avuto già abbastanza, scorgendo il suo Maestro ritornare indietro dalla porta della città di Dite chiusagli in faccia. Quanto all’ostinazione e alla disperazione o impenitenza finale (che si vorrebbero simboleggiate nel diventar di pietra), son tutte congetture plausibili; ma cedono certamente all’ unica opinione, qui coerente col concetto già stabilito delle Furie. Son queste il simbolo dell’invidia? Ebbene: la tentazione, l’insidia ch’ e’ tendono a Dante, non può avere altro fine che di renderlo invidioso, ossia di spegnere in lui ogui scintilla d'amore (che, come vedemmo, è il contrario del- l'invidia), rendendolo smalto (sé l’ farem di smalto), che involge appunto l’idea di durezza e di gelo. Il primo effetto dei piaceri mondani è quello di addormentar la ragione, d’onde il mistico sonno che assale Dante sulle rive dell’Acheronte (corrispondente all’altro s0rnno del primo canto, v, 11, tant’era pien di sonno, ecc.) ed allora l’uomo cade nei peccati di sfrenato amore: dall'amore poi di ciò che non dovrebbe amare, egli sdrucciola necessariamente nell’odio di tutto ciò che non è mondano, in un maledetto egoismo, nemico ugualmente di Dio e del prossimo, e questo vien simholeggiato nel diventare di pietra. Allora, solamente allora, può il peccatore entrare nella città di Dite, cioè perdere la fede, e mettere le mani violente o insidiose nella vita e negli averi del prossimo. Chiaro è dunque che cosa può significare Medusa; non altro che i beni mondani, i quali fanno diventare invidioso, ossia privano d’ogni buono amore, chi li riguarda; spiegazione la quale, o in senso lato come io la tengo, o in senso ristretto a qualcuno di tali beni, si trova in molti commentatori antichi e moderni. E mi pregio che fra questi sia il Boccaccio, tanto più degno d'autorità nell’interpretazione del Poema, quanto più la sua mente ed i suoi studj lo avvicinavano all'altezza del sommo Poeta; il qual Boccaccio propone in sostanza la medesima allegoria che io m’ingegno di dimostrare. Ed ecco le sue parole: «Sono alcuni i quali sempre tengon gli occhi della mente fissi nella loro bella moglie, nelli loro figliuoli, ne' lor bei palagi, ne’ lor hei giardini, e questi paion loro da dover preporre ad ogni letizia di paradiso: altri tengono l’animo fisso ai lor cavalli, a'lor fondachi, alle lor botteghe, a’ lor tesori; altri agli stati e agli onori pubblichi e a simili cose, e non s'accorgono che questo cotal riguardare è riguardare il Gorgone, cioè gli ornamenti terreni, da’ quali e’ traggono quella durezza che gli converte in pietra, la quale è di complessione fredda e secca; per la quale possiamo intendere, questi cotali esser freddi del divino amore e della carità del prossimo; e intanto secchi, in quanto i terren secchi né ricevono alcun seme, né fanno alcun frutto». E più oltre: «La ragione il fece volgere (Dante) in altra parte, che in quella donde dovea mostrarsi il Gorgone, cioè il fece volgere ad altro studio che a riguardare le vanità temporali e a porvi l'animo; il che pregava il Salmista, quando diceva Averte oculos meos, ne videant vanitatem, cioè con affetto riguardino costoro le cose temporali, le quali son tutte vane ecc.» . E dunque l'invidia che tenta, mostrando agli uomini le temporali vanità, farli innamorare di queste, e così toglier loro dall’animo ogni buono amore: né altro rimedio vi ha contro tanto pericolo, che chiudere gli occhi ai beni terreni ed aprirli invece verso il cielo. Del resto, che Medusa non simboleggi cosa orribile come la morte e il gastigo, ma allettevole e lusinghiera come i beni e i piaceri mondani, si può rilevare anche dal fatto che, mentre Virgilio invita Dante a guardare le Furie, certo brutte e spaventevoli, gli proibisce poi di guardare Medusa, quasi a toglierci ogni dubbio che gli oggetti pericolosi per l’anima non sono i paurosi e deformi, ma gli avvenenti e allettevoli; senza di che, Medusa come simbolo di femminile bellezza, è quasi venuta in proverbio, ed anche il Petrarca, nella canzone alla Vergine, l’adoprò in questo senso, quando disse: Medusa e l’error mio m’han fatto un Sassa

6. Sezione 6

Dimostrata, per così dire, a priori, più che a posteriori, la convenienza di questa spiegazione non nuova né mia, ma da me determinata un po’ meglio, resta a vedersi se la medesima potesse illustrarsi con altri luoghi del Poema, e se qui fosse il caso di applicare il metodo dello spiegare Dante con Dante. In altre parole, la dottrina qui enunciata, cioè che i beni mondani guardati dall’uomo lo facciano diventare invidioso e spengano in lui ogni buono amore, è ella dottrina dantesca? Si trova o no nel Poema? Si certo, che vi si trova; e così chiara e determinata, da far meraviglia che niuno de’ commentatori, almeno dei molti da me veduti, non l’abbia messa a riscontro di questo passo controverso. Aprite la cantica del Purgatorio al c. XIII e XIV. Quivi Dante racconta come, dopo aver lasciato i superbi, salisse nel ripiano degli invidiosi, e così descrive quello che vide:

Ombra non v'è, né segno che si paia:
Par si la ripa, e par si la via schietta,
Col livido color della petraia.

Se non che, poco appresso, avendo Virgilio guardato più sottilmente, si rivolge al Poeta e gli dice:

Ma ficca gli occhi per l’aer ben fiso,
E vedrai gente innanzi a noi sedersi,
E ciaschedun lungo la grotta assiso.

Allora più che prima gli occhi apersi:
Guardaimi innanzi, e vidi ombre con manti
Al color della pietra non diversi.

Séguita a raccontare qual supplicio pativano queste ombre:

Non credo che per terra vada ancoi
Uomo si duro, che non fosse punto,
Per compassion di quel ch’i vidi poi:

Ché quando fui si presso di lor giunto,
Che gli atti loro a me venivan certi,
Per gli occhi fui di grave dolor munto.

Di vil cilicio mi parean coverti;
E l’un sofferia l’altro con la spalla,
E tutti dalla ripa eran sofferti.

[…]

E come agli orbi non approda il sole,
Cosi all’ombre, di ch'io parlava ora,
Luce del ciel di sé largir non vuole;

Ch’a tutte un fil di ferro il ciglio fora
E cuce si, come a sparvier selvaggio
Si fa, però che queto non dimora.

Parlano i due poeti con alcune di quelle anime, e, mentre si muovono per partire, ascoltano per l’aria delle voci che ricordano esempj d’invidia punita. Primo è quello di Caino, poi quello di Aglauro, in questi termini:

Come da lei (dalla prima voce) l'udir nostro ebbe tregua,
Ed ecco l’altra con si gran fracasso,
Che somigliò tonar che tosto segua

Io sono Aglauro che divenni sasso:
Ed allor, per istringermi al poeta,
Indietro feci, e non innanzi, il passo.

Già era l'aura d’ogni parte queta;
Ed ei mi disse: quel fu il duro camo,
Che dovria l’uom tener dentro a sua meta.

Ma voi prendete l’esca, si che l’amo
Dell’antico avversario a sé vi tira;
E però poco val freno o richiamo.

Chiamavi ’l cielo, e intorno vi si gira,
Mostrandovi le sue bellezze eterne,
E l'occhio vostro pure a terra mira;

Onde vi batte chi tutto discerne.

Premettiamo una regola, che si può ritenere come sicura, per l’interpretazione delle pene dantesche, ed è questa; che, come le pene infernali simboleggiano la turpe natura e i funesti effetti del peccato in questo mondo, cosi le pene del Purgatorio rappresentano le opere volontarie di emendazione, che fa il penitente per correggere in sé medesimo le inclinazioni malvagie al peccato. Il qual principio, rispetto ad alcuni gironi, è di chiarissima applicazione; per esempio, in quello degli accidiosi, che corrono sempre con grande celerità! e in quello dei golosi, che si affamano e sì assetano guardando dei frutti e dell’acqua. Ciò posto, e applicando tal criterio anche al girone degli invidiosi, chi non vede chiara chiara, non solo la dottrina sopra accennata, ma anche in parte gli stessi simboli di cui il Poeta la riveste nell’ episodio di Medusa? Gl'invidiosi hanno gli occhi chiusi, perché nel mondo gli tennero aperti verso la terra, invece di guardare le bellezze eterne: e questo li rese inquieti come sparvier selvaggio, cioè li fece uscire dalla loro meta, per odiare coloro i cui beni non potevano avere. Essi insomma ci insegnano a tener gli occhi chiusi, come Virgilio li chiuse a Dante, perché non vedano i beni mondani; onde il Poeta parlando al verso 133 di sé stesso, dice:

Gli occhi... mi fieno ancor qui tolti,
Ma picciol tempo, ché poca è l'offesa
Fatta per esser con invidia volti.

E neppur ci manca l’allegoria della pietra. Il lettore avrà notato che in questo girone tanto la ripa circolare, quanto la via hanno il livido color della petraia, e le ombre sono vestite di manti al color della pietra non diversi, tantoché, al primo entrare, si Virgilio come Dante, le credono una sola cosa colla pietra. Che si vuol ancora per vederci chiara l’allusione agli effetti dell’invidia? Ma vi è di più. Fra le voci che suonano nell’aria, noi abbiamo sentita quella di Aglauro che divenne sasso; e Dante che per la prima voce ricordante Caino non aveva fatto alcun movimento di paura, quando sente rammentare il divenir sasso, fa un passo indietro per istringersi al poeta, nello stesso modo che, quando ebbe veduto le Furie, sè strinse al poeta per sospetto. Perché questa singolar paura del secondo grido, se esso, a differenza del primo, non gli ricordava appunto il pericolo corso di diventar pietra esso stesso? e, naturalmente, per lo stesso motivo che aveva posto Aglauro a simil destino? E certo dal mito d’Aglauro dovett’egli togliere la prima idea della rappresentazione simbolica degli effetti prodotti dall’ invidia.
Se non che la metafora dell’impietrare non si trova, solo in questi luoghi citati, ma anche altrove, e, apparentemente, in un senso alquanto diverso. Quando Dante è giunto in cima alla montagna del Purgatorio, quando ha veduto Beatrice, quando ha ascoltato da lei acerbi rimproveri per averla dimenticata seguendo le vanità 0 cose vane, essa lo fa assistere ad una visione sulle vicende della Chiesa e dell'Impero, che si svolge intorno all’albero della scienza piantato in mezzo al Paradiso terrestre; e tornando a rimproverarlo del non intendere il significato di quanto avea visto, così gli dice:

E se stati non fossero acqua d’ Elsa
Li pensier vani intorno alla tua mente,
E ’l piacer loro un Piramo alla gelsa;

Per tante circostanze solamente
La giustizia di Dio nell’interdetto
Conosceresti all’alber moralmente.

Ma perch’io veggio te nell’intelletto
Fatto di pietra ed in petrato tinto,
Si che t’abbaglia il lume del mio detto;

Voglio anche, e se non scritto, almen dipinto
Che ’l te ne porti dentro a te per quello
Che si porta il bordon di palma cinto.

Ecco qui daccapo l’effetto dell’impietrire, cagionato pure dai pensier vani, da quella vanità, ricordata nel trigesimo del Purgatorio (v. 60) e che corrisponde certo, alle false immagini di bene seguite dal Poeta! e alle cose fallaci. Ma qui l’impietrimento, anziché dell’animo, è dell'intelletto: qui, invece dell’odio e dell'invidia, esso simboleggia piuttosto un offuscamento della ragione che, stordita dall’abito di considerare le cose terrestri, non sa più comprendere le dottrine soprannaturali. Né l’uno effetto sta in opposizione coll’altro, poiché insieme coll’amore del prossimo, nell’animo volto ai beni mondani si spegne anche l’amore a Dio, e ogni aspirazione che sollevi l’uomo sopra le cose di questa terra; o, se piace meglio, la ragione, indurita e oscurata per la prima, produce poi nel cuore un pieno raffreddamento di tutti gli affetti d'amore al prossimo e a Dio. E forse col fatto che Dante è impietrito nell’intelletto, mentre poi le Furie non riescono a farlo diventar sasso, vorrà egli darci ad intendere di essersi traviato piuttosto colla mente che col cuore; cioè di essersi allontanato dalla vita contemplativa e studiosa per applicarsi alla vita attiva, e seguitare le brighe politiche, e le terrene soddisfazioni, senza che però questo traviamento della mente fosse ancora giunto a spegnergli nel cuore ogni scintilla di buon amore verso gli altri, come sarebbe senza fallo accaduto, se avesse continuato a guardare Medusa, cioè i beni mondani. Che Dante, fedele ai principj dominanti nel medio evo, condannasse, almeno in teoria, la scienza mondana quando non fosse e purificata e guidata dal lume della fede, o ch’egli la tenesse come mezzo non come fine, si ritrae da tutto il contesto del Poema, specialmente da quel passo rilevantissimo del Paradiso dov’egli si compiace di essersi sciolto dalle occupazioni mondane per seguire in cielo Beatrice, e mette in un mazzo le professioni oneste colle disoneste, gli impieghi col vizio:

O insensata cura de’ mortali,
Quanto son difettivi sillogismi
Quei che ti fanno in basso batter l’ali!

Chi dietro ad jura e chi ad aforismi
Sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
E chi regnar per forza o per sofismi,

E chi rubare, e chi civil negozio,
Chi, nel diletto della carne involto,
S'affaticava, e chi si dava all’ozio.

7. Sezione 7

La nostra spiegazione per altro non sarebbe compiuta, se non dessimo ragione anche di quell’avvertimento che segue subito all’azione di Virgilio, e col quale il Poeta ci riconduce al senso allegorico:

O voi che avete gl’intelletti sani,
Mirate la dottrina che s’asconde
Sotto il velame degli versi strani;

dove si possono affacciare due quistioncelle; se tale ammonimento riferiscasi al tentativo delle Furie, o alla venuta del personaggio misterioso; se a ciò che precede o a ciò che segue: e in secondo luogo, per qual ragione il Poeta, proprio a questo punto, si prende cura di ricordarci l’allegoria, mentre sappiamo che tutto quanto il Poema è allegorico, e mentre non l’ha fatto mai altrove, eccetto che in un luogo solo del Purgatorio (c. vi, v. 19 e seg.).
Molto facile a sciogliersi è la prima difficoltà. Basta cioè guardare al contesto, e ognun vedrà subito che il senso della terzina non ha nulla che fare coi versi che seguono:

E già venia su per le torbide onde
Un fracasso ecc.,

dove quell’e congiunzione prescinde dall’avvertimento anzidetto, quasi esso fosse in parentesi, e ripiglia il filo della narrazione indipendente da quello. Oltrediché non è verisimile che il Poeta parli delli versi strani, prima di aver recato tali versi. Certo chiunque legge trova assai più naturale riferir que’ versi alla narrazione precedente, che non alla seguente.
Ma perché tale ammonizione? Alcuni commentatori ne trovano la ragione o nell'oscurità o nella importanza dell’allegoria: credono vi sia nascosto qualche senso recondito, qualche allusione misteriosa; qualche insegnamento capitalissimo. Senza negare l’importanza del precetto dato dal Poeta di chiuder gli occhi alle cose mondane, se non vogliamo diventare insensibili alle cose spirituali; precetto sul quale si fonda, nella sua essenza, tutta la morale del poema; io ne trovo la ragione nel fatto stesso raccontato, che facilmente potea condurre il lettore a maravigliarsi e quasi a scandalizzarsi dell’invenzione presentatagli. Infatti, chi legge, arrivando a questo punto, potea dimandare: ma come. concorda ciò con tutto il rimanente? è egli possibile che nell’Inferno cristiano un uomo diventi di sasso? è possibile che nel regno delle anime, un uomo si trasmuti, anima e corpo, in una pietra insensibile? e per opera delle Furie della Mitologia? Ciò ripugnerebbe al dogma stesso della dannazione e della eternità de’ tormenti infernali. Qui dunque il senso letterale è assurdo; va bene: e perciò appunto il Poeta, prevenendo l’obiezione, ci mette in guardia, rammentandoci che il suo poema è allegorico, e che perciò non dobbiamo arrestarci ai versi strani, ma, dispregiandoli e passando oltre, mirare la dottrina, il precetto morale che vi è nascosto. Oltrediché un’altra ragione di far l’avvertimento si può anche trovare in ciò, che questo racconto è un episodio separato dal rimanente, e introdotto dal Poeta solo per dare un avvertimento morale, e che avvertimento!; un episodio, ove il senso morale sovrasta e signoreggia su gli altri distinti dall'autore nel Convito.
Ma la convenienza di porre qui un tale avvertimento ci si farà più chiara, se volgeremo uno sguardo all’altro passo che unico, dopo il presente, contiene un cenno aperto sull’allegoria, dato dal Poeta medesimo.
Quando i due poeti, condotti dal mantovano Sordello, sono entrati nella valletta abitata dalle anime illustri che per interessi mondani, ancorché nobili e gloriosi, trascurarono di pensare ai loro doveri spirituali e temporali, fattasi notte, odono le anime stesse cantare a coro l'inno della Chiesa: Te lucis ante terminum. Ivi Dante, interrompendo il racconto incominciato, esce in quella terzina, a cui dianzi alludevamo:

Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al vero,
Che ’l velo è ora hen tanto sottile
Certo, che ‘l trapassar dentro è leggiero.

Indi segue a narrare che poco dopo scesero dal cielo due angeli con due spade affocate, troncate in punta; e si misero alla posta finché, entrata nella valletta una mala biscia, essi in un attimo la cacciarono, e se ne tornarono verso il cielo. Senza internarmi nell’allegoria qui contenuta, che sarebbe fuori del mio proposito, mi basta osservare la convenienza anche qui dell’avvertimento, per una ragione analoga a quella notata nell'altro passo; cioè perché, qui ancora, il senso letterale ripugna col contesto del Poema e col dogma stesso cristiano. E per verità, com’ è egli possibile che le anime del Purgatorio, poste già in luogo di salute, indirizzino a Dio una preghiera con cui chiedono il suo aiuto contro le tentazioni della carne? come è egli possibile che esse, le quali non possono più peccare, siano infestate da una biscia, ed abbiano bisogno che gli angeli mandati da Maria vengano a liberarneli? Ciò, senza dubbio, tornerebbe assurdo; ed ecco che il Poeta crede suo dovere ricordarci che il poema è allegorico, e che se qualche circostanza del suo racconto, presa in senso letterale, ci urta, noi dobbiamo trascurare la lettera, e guardare al senso nascosto. Il quale nel luogo presente tende a mostrarci, come le anime pigre a convertirsi, e non ancora confessatesi, vanno soggette con gran facilità alle tentazioni, dalle quali debbono guarentirsi con la preghiera, certe che Maria, rifugio de’ peccatori, non tarderà a soccorrerle. Ecco, secondo la generalità dei commentatori, il significato. Se non che esso in questo luogo, a differenza del passo di Medusa, è tanto simile al senso letterale, che un lettore poco accorto potrebbe non vederlo: infatti di qua e di là, anime pigre per tardata e forzata conversione; di qua e di là una tentazione; di qua e di là una preghiera; di qua e di là il soccorso di Maria. Onde fa bisogno che il Poeta, secondo l’unica spiegazione ragionevole e coerente col testo, ci dica: a questo punto o lettore (e l’avvertimento sembra qui riferirsi tanto a ciò che precede, come a ciò che segue), a questo punto, o lettore, aguzza bene gli occhi per iscorgere il vero significato del mio racconto, perché il velo allegorico è tanto sottile, vale a dire è tanto simile al significato, è tanto poco visibile, che facilmente tu potresti passar oltre senza vederlo; cioè scambiarlo col significato stesso, prendere per significato quello che non è altro se non un velo; non ricordarti che questo ch’io dico è vero soltanto in senso allegorico. Par dunque certo che si nell’un passo come nell’altro il Poeta fu mosso a fare l’avvertimento da una ragione consimile, ma nel primo, quello che offendeva il lettore era soltanto la stranezza del mito; mentre nel secondo, esso, più che offendersi, poteva esser tratto in errore.

8. Sezione 8

Quei pochi lettori che mi hanno seguito in questa lunga dimostrazione, non sarebbe da maravigliarsi se, quasi in premio della gentilezza usatami, dimandassero ancora un’appendice o corollario alle cose trattate. Benché l'episodio delle Furie, come parmi aver provato, stia da sé e resti separato da ciò che segue: pur nondimeno il cimento di cui esse fanno parte non si può dire terminato, finché non sia comparso quel personaggio mandato dal cielo ad aprire le porte della città di Dite. Quindi è naturale che alla mente di que’ lettori benevoli si affacci il desiderio di avere una spiegazione anche su tale personaggio, tanto importante, quanto oscuro e misterioso.
Senza pretendere di fornire anche qui una vera e propria dimostrazione, ma contentandomi di stare entro i limiti di congetture più o meno ragionevoli, premetto che io non credo niente affatto possa tale personaggio essere un angelo, opinione sostenuta da quasi tutti i commentatori antichi e moderni; e le ragioni di questa mia incredulità sono quelle stesse accennate dal Duca di Sermoneta nella dissertazione da lui scritta su questo argomento; alle quali rimando il lettore, non credendo necessario tediarlo col ripeterle. Noto ancora che, se quell’incognito fosse veramente un angelo, non si intenderebbe il perché di quel misterioso silenzio che tiene Virgilio; egli che pure quando vedrà nel Purgatorio il primo angelo griderà a Dante:

Fa’ fa’ che le ginocchia cali,
Ecco l’angel di Dio, piega le mani,
Oma' vedrai di siffatti officiali;
(Purg. II, 28)

mentre nel luogo presente, quando il poeta fiorentino si rivolse al suo condottiero, forse appunto per aver contezza di quell’apparizione o per sapere come dovesse governarsi, Virgilio, senza altrimenti parlare, gli fe cenno che stesse cheto ed inchinasse ad esso. Ma se ripudio l'opinione che vede nel nostro messo un angelo, non posso neppure accordarmi con chi vuol trovarci un dio o un eroe della mitologia; non col Betti, adunque. che risuscitando la congettura di Piero di Dante, raffigura in questo personaggio Mercurio, né col Duca di Sermoneta che ci riconosce Enea, né con altri che pensano ad Ercole; non tanto perché si appoggiano su troppo deboli e incerte ragioni, quanto perché un dio o un eroe mitologico non può esercitare si piena signoria sopra i piovuti dal cielo; e più ancora perché in tal caso Virgilio non avrebbe certo mancato di riconoscerlo e di nominarlo a Dante, come fa ordinariamente di tutti gli altri personaggi, o mostri, o ladroni del mondo pagano.
Queste due circostanze, cioè l'assoluta potenza del messo celeste sui demoni, e il fare misterioso che tiene nel parlarne Virgilio, sono appunto le due norme che debbono guidare chi voglia una plausibile spiegazione di quest’oscuro passo. Gli spiriti infernali hanno tentato un’altra volta una simile resistenza, non a questa, ma alla prima porta; e Virgilio, proprio nel punto ch'egli pensa al personaggio il quale dovrà venire in suo soccorso, lo ricorda al Poeta fiorentino colle parole VIII, 124);

Questa lor tracotanza non è nuova
Ché già l’usaro a men segreta porta,
La qual sanza serrame ancor si trova.

Sovr’essa vedestù la scritta morta;
E già di qua da lei discende l’erta,
Passando per li cerchi senza scorta,

Tal che per lui ne fia la terra aperta.

Ora colui che viense la prima resistenza opposta dai demoni, e con tanta speditezza la vinse, che levò dalla porta i serrami ed ogni mezzo di richiuderla fu, a confessione di quasi tutti i commentatori, il vincitore dell’Inferno, G. Cristo. E chi altri se non Cristo medesimo potrebbe esser colui che ora Virgilio aspetta, affinché rinnovi una seconda volta la sua vittoria? Per quanto strana parer possa a primo aspetto una nuova discesa di Cristo all’Inferno a posta di Dante, è chiaro che la seconda porta, più riposta e più importante, non può venire aperta se non da quel potentissimo che aperse la prima. Niun altri che lui sarebbe capace di tanto e sì compiuto e sì facile successo, com’è quello del Messo di Dio, davanti al quale tremano e si dileguano i demoni. E Virgilio, che aveva vista, o saputa, la prima sua vittoria, è ben naturale che ora pensi a lui solo, trattandosi di riportarne una seconda:

… Io era nuovo in questo stato
Quando ci vidi venire un Possente

[...]

e altrove:

… colui che la gran preda
Levò a Dite del cerchio superno:

altrimenti non si spiegherebbe com’egli aspetti un personaggio capace di procurargli il suo intento, se niuno prima ne ha conosciuto, che abbia questo valore. Ché se guardiamo anche alle scarse traccie con cui il Poeta ci presenta e qualifica questa apparizione tanto poco determinata, troveremo qualche conferma alla nostra opinione. Il tremare dell’Inferno, il pauroso fuggire dei dannati convengono meglio a Cristo che a qualunque altra persona, a quel Cristo che colla sua morte fece tremare tutto l’Inferno e produsse in esso delle rovine. (Vedi c. XII e in questo volume il Disc. II). Il passare non con ali o con barca ma coi propri piedi camminando sull’acqua, il rimuovere colla sinistra dal volto l’aere crasso della palude che gli turba il respiro (angoscia), sono circostanze ben convenienti a un Dio umanato; e ricordano quel passo de’ Vangeli, ove si legge degli apostoli che videro Cristo camminare appunto sul mare di Tiberiade (Evang. Ioan; VI, 19). È chiamato Messo di Dio; concetto che si trova più volte, nelle sacre carte, riferito a G. Cristo. E lo sdegno da cui è acceso, la maledizione che scaglia sopra i dannati, ben si addicono a colui che alla consumazione de’ secoli, nella pienezza dell’ira sua, verrà a condannare i dannati insieme coi demoni; come la verga o scettro, senza bisogno di troppe sottigliezze, rappresenta benissimo il potere concessogli sull’ Inferno da Dio Padre. Né men bene gli si affa il contegno grave di quel personaggio:

Poi si rivolse per la strada lorda
E non fe'motto a noi, ma fe’ sembiante
D'uomo cui altra cura stringa e morda

Che quella di colui che gli è davante,

dove si vede proprio scolpito il concetto del Cristo factus obediens usque ad mortem, e di colui che, come si spesso ricordano i Vangeli, mirava in tutto a compiere e glorificare i voleri del Padre celeste, e non mai ad alcuna gloria mondana.
Ma quello che conferma questa spiegazione, mentre contrasta a qualunque altra che si sia trovata o trovar si possa, è il contegno di Virgilio verso tal personaggio. Ognuno sa che in tutto l’Inferzo non suona mai espresso il nome di Cristo; e che Virgilio né qui né in Purgatorio nol nomina giammai neppure una volta; ma quando vuole accennare a lui, che solo imperfettamente conosceva, si serve sempre di perifrasi e di allusioni. Nel 1 v dell’Inferno lo chiama Un possente; nel XII Colui che la gran preda Levò a Dite, ecc., nel XXXIV Colui che nacque e visse senza pecca: nel n del Purgatorio accenna a Cristo col verso: Mestier non era partorir Maria. Coerentemente a questo suo costume, anche nel luogo che esaminiamo Virgilio usa tre volte (e il numero tre è solenne per Dante) il misteriori pronome Tal:

… Il nostro passo
Non ci può torre alcun: da tal n’è dato.

[...]

Tal che per lui ne fia la terra parte
[…]

Tal ne s’offerse

i quali tal vuol ragione che si riferiscano ad uno e medesimo personaggio, essendo uno solo e quello che ha dato ai due poeti il passo, e quello che ha il potere di aprire la terra, e quello che alle anime del limbo si offerse (notisi il ne per a noi), quando lo videro entrare la prima volta nell’ Inferno a trarne i Padri del popolo ebreo: mentre dai commentatori due volte si riferisce a Dio, una volta a Beatrice, non so con quanta coerenza e ragionevolezza. Né il divin personaggio è soltanto indicato con quel tal, ma ancora col pronome altri che segue:

Oh quanto tarda a me ch’ altri qui giunga!

il quale altri in più luoghi della Divina Commedia vedesi adoperato per alludere a Dio, che dal poeta che parla a Francesca:

Venite a noi parlar s’altri nol niega (c. V.),

e da Ulisse (e. XXVI) quando descrive il proprio naufragio:

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
Alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giù come altrui piacque,

In fin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.

Ecco in questa maniera spiegata la reticenza virgiliana, e quel silenzio medesimo ch'egli impone a Dante:

… e quei fè segno
Ch'io stessi cheto ed inchinassi ad esso;

reticenza e silenzio che in questo caso parlano chiaramente e che, per mezzo di riscontri e corrispondenze, come suole spesso il Poeta, ci mostrano doversi intendere sotto questo Messo del Cielo non altri che Cristo.
Il che, bene esaminato, non parrà nemmeno sconveniente al concetto generale del viaggio dantesco, si nel senso letterale, come nell’allegorico. L’ importanza che Dante attribuisce alla sua andata ne regni oltramondani, tanto da paragonarla con quelle di Enea e di S. Paolo dei quali egli veniva in certa guisa a compiere gli effetti in vantaggio del genere umano, dovea suscitargli da parte dei demoni la più ostinata resistenza; e da parte di Dio il più largo ed efficace soccorso. In senso allegorico poi, essendo l'Inferno e i demoni una figura del mondo corrotto e dei vizj che lo travagliavano, vuol forse significare il Poeta che l’opera sua diretta a correggerlo e a raffrenare la ribellione generale contro Iddio, sarebbe stata come una seconda rivelazione, una seconda e mistica venuta di Cristo, indispensabile per illuminare le menti accecate dall’errore, che più non permetteva loro di intendere e di seguire la voce della ragione naturale: onde vediamo farsi forti i demoni alla porta che chiude gli eretici, c Virgilio non bastare co’ suoi argomenti ad aprirla.
Ma, checché si voglia pensare di ciò, parmi chiaramente dimostrato che la straordinaria potenza di quel personaggio, e più ancora il modo misterioso e quasi pauroso con cui ne parla Virgilio non possono trovare in alcun’altra interpretazione una ragione sufficiente, nemmeno in quella che pur s'avvicina alla nostra e che fu sostenuta dal Di Giovanni, il quale nel Messo di Dio vede lo Spirito di Dio stesso, poiché, oltre l'essere questo concetto troppo indeterminato e nulla avere di corporale come pure ha la figura dantesca, esso manca eziandio di quelle esatte rispondenze coll’apertura della prima porta infernale, alla quale allude cosi opportunamente Virgilio, quasi per darci la chiave di questo oscurissimo passo.

Date: 2022-01-10