Il messo di Dio dei canti VIII e IX dell’Inferno [Luigi Gaiter]

Dati bibliografici

Autore: Luigi Gaiter

Tratto da: Studi Filologici, Storici e Bibliografici, il Propugnatore

Numero: 13

Anno: 19??

Pagine: 1-22

Chiunque sia profondamente persuaso, secondo la nazionale nostra scuola di oggimai cinque secoli, il poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra essere la sintesi prodigiosa della sapienza universale del mondo cristiano dei tempi di mezzo; sarà cordialmente grato a Raffaele Fornaciari di averci presentato sulla Nuova Antologia del 15 agosto 1879 un comento dell’ episodio delle Furie, ch’egli modestamente disse da lui illustrato anzi che creato, commendevole frutto del lungo studio e del grande amore che gli hanno fatto cercare il divino poema. Ed oltre questo gli dovrà essere cordialmente grato di averci messo innanzi nobilissimo esempio di critica letteraria, senza satira personale, senza stizza o bile, senza adulazione o piacenteria, per solo amore del buono e del vero: a dir breve, senza quel brigantaggio della penna che per licenza della stampa è divenuto piaga vergognosa o verminosa della libera Italia. Si può dissentire, o dirò meglio, bramare qualche schiarimento intorno a qualche particolare del suo erudito e morale comento: intorno al concetto generale dottamente dimostrato, non si può essere discordi. Chiunque ha l’intelletto sano, mercè sua guarda e vede dirittamente la dottrina che si asconde solto il velame di Aletto, di Megera, di Tesifone, e di Medusa; cioè delli versi strani, come Dante stesso avvertiva.
Se non che dov’ egli conchiude il grave suo ragionamento investigando chi sia il Messo di Dio, che a Dante ed a Virgilio con una verghetta apre la città di Dite chiusa loro in petto da più di mille dal ciel piovuti, ed accalcati in atto ostile su quelle soglie; non parmi ch’egli con eguale dirittura imberci nel segno. Fa parecchie argute e saggie considerazioni; ma la conclusione non mi soddisfa, comecchè egli la intitoli modestamente congettura.
Veggiamo innanzi tratto le circostanze, a così dire topografiche e storiche dell’episodio.
Virgilio e Dante sulla barca di Flegias attraversando lo Stige, dopo l’incontro di Filippo Argenti, sono ormai giunti innanzi a Dite (Inferno, VIII):

Ma negli orecchî mi percosse un duolo
Perch’ iv avanti intento l’occhio sbarro.

Lo buon Maestro disse: «Omai, figliolo,
S'appressa la città che ha nome Dite,
Co’ gravi cittadin, col grande stuolo.»

Ed io: «Maestro, già le sue meschite
Là entro certo nella valle cerno
Vermiglie, come se di fuoco uscite

Fossero.» Ed ei mi disse: «Il foco eterno,
Ch’entro le affoca, le dimostra rosse,
Come tu vedi in questo basso inferno.»

Noi pur giugnemmo dentro all’ alte fosse,
Che vallan quella terra sconsolata:
Le mura mi parea che ferro fosse.

Non senza prima far grande aggirata,
Venimmo in parte, dove il nocchier forte
«Uscite» ci gridò «quì è l'entrata,»

Si descrive l'opposizione violenta dei demoni all’entrata di Dante; si espongono le pratiche di Virgilio per ammansarli, come fece cogli altri che si opposero di sopra a lasciarlo passare: dipingesi la resistenza di essi sempre peggiore, fino a chiudergli in petto la porta della città; e lo sbigottimento di Dante, che rinunciando al suo fatale andare, propone di ritornare indietro: per tutto ciò si pare la necessità di un Messo di Dio, investito di maggiore autorità contro la prepotenza infernale, per vincere la pugna.

Io vidi più di mille sulle porte
Dal ciel piovuti, che stizzosamente
Dicean: «Chi è costui, che senza morte

Va per lo regno della morta gente?»
E il savio mio Maestro, fece segno
Di voler lor parlar segretamente.

Allor chiusero un poco il gran disdegno,
E disser: «Vien’ tu solo, e quei sen vada,
Che sì ardito entrò per questo regno.

Sol si ritorni per la folle strada:
Provi, se sa, chè tu qui rimarrai,
Che scorto l’hai per sì buia contrada».

Pensa, lettor, s’ io mi disconfortai
Nel suon delle parole maledette,
Ch’ io non credetti ritornarci mai.

«O caro Duca mio, che più di sette
Volte m’ hai sicurtà renduta, e tratto
D’alto periglio, che incontra mi stette,

Non mi lasciar» diss’ io «così disfatto;
E se l’andar più oltre ci è negato,
Ritroviam l’orme nostre insieme ratto».

E quel Signor che là m’avea menato
Mi disse: «Non temer, chè il nostro passo
Non ci può torre alcun: da tal n’è dato.

Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
Conforta e ciba di speranza buona,
Ch’i' non ti lascerò nel mondo basso.»

Così sen va, e quivi m’ abbandona
Lo dolce Padre, ed io rimango in forse,
Che ’l no e il sì nel capo mi tenzona.

Udir non potei quello che a lor porse,
Ma ei non stette là con essi guari,
Che ciascun dentro a prova si ricorse.

Chiuser le porte que’ nostri avversari
Nel petto al mio Signor, che fuor rimase,
E rivolsesi a me con passi rari.

Gli occhi alla terra, e le ciglia avea rase
D’ogni baldanza, e dicea ne’ sospiri:
«Chi m’ha negato le dolenti case?»

Ed a me disse: «Tu, perch'io m'adiri,
Non sbigottir, ch'io vincerò la pruova,
Qual ch’ alla difension dentro s aggiri.

Questa lor tracotanza non m'è nuova
Chè già I usaro a men segreta porta,
La qual senza serrame ancor si trova.

Sovr’essa vedestù la scritta morta.»

Enumeriamo un tratto i diversi momenti, a così dire, della intervenzione irresistibile di codesto misterioso Messo di Dio.
A confortare Dante sbigottito, che preso da viltà voleva ritornare indietro sopra le proprie orme, Virgilio in prevenzione aveva detto:

Non temer, chè il nostro passo
Non ci può torre alcun; da tal n'è dato.

Adesso vede in effetto le circostanze, delle quali prima aveva solamente timore perché possibili: dice perciò di vedere, come se veramente l’avesse innanzi degli occhi, il promessogli Messo di Dio:

«E già di qua da lei discende l’erta
Passando per li cerchi senza scorta
Tal, che per lui ne fia la terra aperta.»

Nuova paura di Dante, a tempo confortata da Virgilio, al quale ciò non pertanto il ritardo del Messo non può non recar noja e turbamento. Così comincia il canto IX.

Quel color, che viltà di fuor mi pinse,
Veggendo il Duca mio tornare in volta,
Più tosto dentro il suo nuovo restrinse.

Attento si fermò com’ uom che ascolta;
Chè l’occhio nol potea menare a lunga
Per l’aer nero, e per la nebbia folta.

«Pur a noi converrà vincer la punga»
Cominciò ei «se non... tal ne S' offerse...
Oh! quanto tarda a me, ch’ altri qui giunga!»

Io vidi ben sì com’ ei ricoperse
Lo cominciar con l’altro che poi venne,
Che fur parole alle prime diverse.

Ma non di men paura il suo dir dienne,
Perch’ io traeva la parola nane
Forse a peggior sentenzia ch’ ei non tenne.

Dante atterrito domanda a Virgilio, se egli, o alcuno de’ suoi compagni di pena, sia mai stato colaggiù. Quegli a rinfrancarlo risponde, che possono venirvi, e ch’egli altra volta ci è stato, e come pratico del luogo, gliele dà la descrizione. Conchiude per altro, che siccome aveva detto converrà vincere la pugna, ormai non si può entrare senz’ ira.

«In questo fondo della trista conca
Discende mai alcun del primo grado,
Che sol per pena ha la speranza cionca?»

Questa question fec' io. E quei: «Di rado
Incontra» mi rispose «che di nui
Faccia il cammino alcun pel quale io vado.

Vero è ch’ altra fiata quaggiù fui,
Congiurato da quella Erilton cruda
Che richiamava l’ombre a’ corpi sui.

Di poco era di me la carne nuda,
Ch' ella mi fece entrar dentro a quel muro
Per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

Quell’è il più basso loco, e il più oscuro,
E il più lontan dal ciel che tutto gira:
Ben so il cammin, però ti fa sicuro.

Questa palude, che il gran puzzo spira,
Giace d’ intorno la città dolente
‘U non potemo entrare omai senz’ ira.»

Qui è intrecciato l’episodio delle tre Furie, che dall'alto della torre alla cima rovente, appariscono in atto formidabile al poeta; la minaccia di farlo di smalto s’egli mirerà il Gorgone; la cura paterna di Virgilio di chiudergli gli occhi colle sue mani, acciò egli non soccomba al pericolo. Questo episodio accresce a dismisura l’orrore della scena infernale: giova mirabilmente al fine morale, ch’è intendimento supremo del poeta: occupa il tempo consumato dal Messo a sopravvenire in quel luogo, che fa apparire assai lungo, talchè spaventati dalle Furie e da Medusa ce ne eravamo quasi dimenticati, mentre a Dante ed a Virgilio tardava assai più la sua venuta, ed il suo invocato soccorso. Ma ecco ch’ ei giunge.
Ecco innanzi tutto i segni spaventosi che lo preannunciano, e ne fanno per poco sentire e numerare i passi:

E già venia su per le torbide onde
Un fracasso d’ un suon pien di spavento
Per cui tremavano ambedue le sponde,

Non altrimenti fatto che d’ un venato
Impetuoso per gli avversi ardori,
Che fier la selva, e senza alcun rattento

Li rami schianta, abbatte, e porta fuori:
Dinanzi polveroso va superbo,
E fa fuggir le fiere, e li pastori.

Dante lo vede: ammirate dramatica ipotiposi:

Gli occhi mi sciolse, e disse: «Or drizza il nerbo
Del viso su per quella schiuma antica,
Per indi ove quel fummo è più acerbo.»

Come le rane innanzi alla nimica
Biscia per l’acqua si dileguan tutte
Fin che alla terra ciascuna s’ abbica;

Vid’ io più di mille anime distrutte
Fuggir così, dinanzi ad un che al passo
Passava Stige con le piante asciutte.

Dal volto rimovea quell’ aer crasso
Menando la sinistra innanzi Spesso,
E sol di quell’ angoscia paréa lasso.

Ben m’ accorsi, ch’ egli era del ciel Messo.

Ammirate il contegno di Dante: l’istruzione prudente che gli dà il suo duce e maestro: come si diporti il Messo di Dio contro i demoni:

E volsimi al Maestro; e quei fe’ segno
Ch’io stessi cheto, ed inchinassi ad esso

Ahi, quanto mi parea pien di disdegno!
Giunse alla porta; e con una verghetta
L'aperse, chè non v ebbe alcun ritegno.

Ammirate sublime orazione del Messo di Dio contro i demoni:

«O cacciati dal ciel, gente dispetta»
Cominciò egli in su l’orribil soglia
«Ond esta oltracotanza in voi s' alletta?

Perché ricalcitrate a quella voglia
A cui non puote il fin mai esser mozzo,
E che più volte v’ha cresciuto doglia?

Che giova nelle fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
Ne porta ancor pelato il mento e il gozzo.»

Ammirate finalmente il contegno del Messo trionfatore innanzi ai trionfati demoni; innanzi a Virgilio e Dante soccorsi e salvati; innanzi all’ inferno, che freme e trema.

Poi si rivolse per la strada lorda,
E non fe motto a noi; ma fe sembiante
D’uomo, cui altra cura stringa e morda

Che quella di colui, che gli è davante.

Contegno egualmente sublime dei due poeti liberati dal pericolo:

E noi movemmo i piedi inver la terra,
Sicuri appresso le parole sante.
Dentro v'entrammo senza alcuna guerra.

Volete vedere ove Dante imparò il disegno di questo ammirabilissimo quadro? Orribile pericolo, che per le circostanze gravissime, e se altro non fosse, per lo suo prolungamento si fa sempre più spaventoso: sgomento crescente, fino quasi a disperare dell’ajuto di Dio del quale d’altra parte, perché da lui promesso, non si potea dubitare. La procella cresce coi flutti rigonfi e spumanti fino all’usque huc et non amplius, secondo Giobbe segnato dal dito di Dio. Allora Dio interviene, operando massimi portenti con minimi mezzi: infirma mundi eligit Deus, ut fortia quaeque confundat, insegna Paolo. La tempesta cessa in un tratto, e si fa grande bonaccia.
Volete vedere, diceva, ove Dante imparò il disegno di questo ammirabilissimo quadro? Leggete in Matteo VIII, 23-27: «Ed essendo Gesù entrato nella navicella, i suoi discepoli lo seguitarono. Ed ecco, avvenne in mare un grande movimento, talché la navicella era coperta dai flutti. (Anzi, secondo Marco, IV, 57, il turbine cacciava i flutti dentro la navicella, talché quella già si empiva). Or egli dormiva. Ed i suoi discepoli pieni di paura a lui si accostarono, e lo svegliarono, dicendo: «Signore, salvaci: noi siamo perduti!» Ed egli disse loro: «Perché avete paura, o uomini di poca fede?» E fece egli cenno ai venti ed al mare, e fu tosto grande calma».
Ma chi è questo Messo di Dio? Notiamo a buon conto i tratti particolari della sua intervenzione. Da Beatrice era stato promesso il suo ajuto, ove ne fosse stato bisogno. Fu molto tardo a venire, sé misuriamo il tempo della sua venuta secondo il timore che ebbe Dante, e poi anche Virgilio. Fu preceduto ed accompagnato da straordinari maestà e terrore. Fuggono spaventate innanzi da esso le anime ree. Valica Stige a piante asciutte. È nobilmente sdegnato, non incollerito né furioso, e rimove colla sinistra dal suo volto il crasso vapore, che esala da quello stagno in cui sono puniti e bestemmiano gli iracondi. Apre la porta sbarrata dai demoni con una verghetta, e non vi ha ritegno. Rimprovera fieramente i demoni, e ritorna per la via prima percorsa senza far motto a’ due poeti liberati, che franchi entrano in Dite, né ad altri, com’uomo seriamente preoccupato d’altre cure.
I comentatori con molta incertezza rispondono alla nostra domanda.
Alcuni antichi opinarono codesto Messo di Dio fosse Mercurio. La interpretazione è assurda, e rifiutata da tutti i moderni. Mercurio era messaggiero alato di Giove, egli è vero: ma i personaggi mitologici dall’Alighieri posti nell’Inferno, oltre gli animali mostruosi come Cerbero ed i Centauri, sono tormentati e tormentatori, i quali se veramente furono al mondo, erano demoni secondo la credenza degli antichi cristiani, quali Plutone, Flegias, Minosse, Gerione. Che uno degli déi qualificati falsi e bugiardi da Virgilio nel canto I; nel canto VIII e IX sia da esso invocato quale salvatore, ed intervenga quale ministro della giustizia di Dio, non contro gli spiriti tormentati, sibbene contro i demoni tormentatori, e sciorini ad essi una predica in nome di Dio, è assurdo.
Altrettanto può dirsi di rimando, a chi in quel Messo di Dio volle ravvisare Ercole. Ne’ due versi

Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
Ne porta ancor pelato il mento el gozzo,

il poeta che si professa discepolo di Virgilio, allude a’ due versi del libro VI dell’Eneide:

Tartareum ille manu custodem in vinela petivit,
Ipsius a solio regis, traxitque trementem,

i quali parlano dell’entrata di Ercole all'inferno, e della sua violenza contro di Cerbero. Se quel Messo era Ercole, parlando di questa sua impresa, non avrebbe taciuto il suo nome senza farvi una allusione, quasi si trattasse di altri. Virgilio avrebbelo conosciuto. Dove sono i suoi e di contrassegni? Come la clava mutò in verghetta? Dante nel canto XXV del medesimo Inferno, rammenta Ercole e la sua mazza, che a Caco ne diede cento e non sentì le dieci, e tacer non dovrebbe quest’ultima sua impresa. Senza che, rimane sempre l’assurdo di farlo esecutore dei decreti del vero Dio contro i demoni, e predicatore di subbordinazione ai demoni.
Speciosa è la recente interpretazione del duca Caetani. Questo Messo di Dio, che apre Dite a Dante ed a Virgilio, egli dice, è Enea. Concetto supremo di Dante era la restaurazione dell’impero di Roma. Enea, secondo la tradizione poetica seguita da Virgilio, ne fu il fondatore. Egli pertanto all’ antico ed al nuovo cantore delle glorie di questo impero apre le porte della città, che nemica violenza chiudeva. Egli ha in mano quella verga, venerabile donum fatalis virga, colla quale nell’ Eneide percorre liberamente l’Averno. Egli è Enea.
Il principal fine propostosi dal divino poeta nella creazione della sua Comedia, era morale. A questo innanzi tutto fa mestieri tener sempre fisso lo sguardo. Concediamo, che altri fini insieme col principale poterono essere adombrati sotto le medesime allegorie. L’entrata de due poeti, mercè l’ajuto del Messo di Dio, nella città di Dite, abbarrata dai demoni, poteva altresì figurare l’ingresso dell’imperatore in Roma abbarrata dai papi; come nel canto I, dove chiede a Virgilio di vedere la porta di s. Pietro, e coloro ch’egli faceva cotanto mesti, potè significare altresì il sospirato suo ritorno a Firenze, dove appunto le sue case erano presso la porta a s. Pietro, e assai mesti dovevano esservi i cittadini della sua fazione. Ma perché qui Enea non è fornito di alcuno de’ contrassegni sì luminosi, che ha nell’ Eneide, mercè i quali Dante, e prima di esso Virgilio potevalo raffigurare, come fanno con Stazio e Catone ed altri? Perché un’anima condannata alla pena stessa di Virgilio. non avendo adorato debitamente Dio, per essere stata al mondo prima del cristianesimo, avrà sui demoni quella podestà, che fu negata a Virgilio, già prescelto da Beatrice ad essere duce e maestro del suo fedele nel gran viaggio? Perché un’anima dannata, comecchè a pena più mite, colla sua apparizione incuterà straordinario terrore all’altre anime con essa dannate? Perché alla sua parola cederanno i demonî, che ad essa per divino ordinamento sovrastanno? Enea, al quale, come a Virgilio, era chiusa la celeste reggia da quello Imperador che lassù regna, poteva dicevolmente gittare in faccia a que’ demoni: «O cacciati dal ciel, gente dispetta?» Abbaglia al primo udirla annunciare la nuova interpretazione: considerata con occhio riposato, non possiamo farla nostra.
È comune sentenza, che il Messo di Dio sia un angelo. Altresì contro questa, la critica severa appunta, che nell’ Inferno giammai non veggonsi gli angeli della luce, ma sì que’ delle tenebre.
Quando infatti nel canto II del Purgatorio, i due poeti incontrano il primo angelo; Virgilio avverte Dante de’ nuovi ministri di Dio coi quali avrà or quivi a trattare:

«...Fa, fa, che le ginocchia cali.
Ecco l’angel di Dio: piega le mani:
Oma’ vedrai di sì fatti ufficiali.»

Virgilio parla degli angeli che incontra nel Purgatorio, indicandoli a Dante. Di questo dell’Inferno fa solamente un cenno tacendo.
Questo non ha nessuna delle qualità che adornano gli angeli del Purgatorio, le ali, la bellezza celeste, il sorriso paradisiaco , la spirtal voce.
Virgilio innanzi innanzi a questo, che compie atto sì tremendo, ingiunge a Dante di inchinarsi senz’altro. Agli an geli del Purgatorio, come abbiamo veduto, comandagli di prestare atti di omaggio più solenni.
Non sarebbe stato guari conveniente far discendere dal cielo un angelo contro gli angeli ribelli già suoi compagni. Il poeta, che tanto teologizza e fantastica intorno ad essi; non fa motto di nessun’altra simile discesa passata o futura, loro commessa da Dio.
Soggiunge il Fornaciari: Io congetturo, che questo Messo di Dio sia Gesù Cristo. Contro il fatto di per sè, e contro gli argomenti addotti da esso a convalidare la nuova sua congettura, si noti:
Dante confessa di essersi accorto, che questo suo misterioso liberatore era del ciel Messo. Fra questo vocabolo, e Messia, è accidentale somiglianza di suono, ma non è comunanza di radice etimologica, per la quale possa conchiudersi, che Dante intendesse per esso il Messia, il Cristo, come accenna il Fornaciari.
È vero che il poeta nell’ Inferno e nel Purgatorio non fa mai da Virgilio nominar Cristo col nome suo proprio; ma sì con ingegnose perifrasi. È vero che il numero tre è mistico nel sacro Suo poema, come nelle religioni antiche, e nei riti cristiani. Ma ogni parola ripetuta tre volte nel sacro poema, non è sempre mistica. Ma se tre volte ripetesi Tal in questo episodio; non devesi necessariamente conchiudere, che riferiscasi a Cristo. Il primo Tal (da Tal n’è dato) confessa pure il Fornaciari, che tutti i commentatori riportanlo a Beatrice. Il secondo (Tal che per lui ne fia la porta aperta), ed il terzo (Tal ne s’offerse), se ammettiamo a prima giunta che riferiscansi a Cristo, precipitiamo in un circolo vizioso, ritenendo come dimostrato quello che ne studiamo dimostrare.
Se Virgilio, come dicemmo, nomina sempre Cristo con perifrasi, anche che col nome suo proprio: se ne due versi,

Venite a noi parlar, s' altri nol nega

del canto V:

E la prora vi in giù come altrui piacque

del canto XXVI dell’Inferno, ove si descrive il naufragio di Ulisse, altri e altrui significa Dio; ed altresì nel verso di questo episodio, per lo meno indirettamente,

Oh quanto tarda a me ch’ altri qui giunga;

altri necessariamente in ogni altro verso non significa Dio. Non ha tale significato nei versi del canto Il e del XXXII del medesimo Inferno,

Me degno a ciò, né io né altri crede.
E in che conviene ancor ch'altri si chiuda.

Virgilio nomina esplicitamente Dio nei canti III e IV dell’Inferno:

Quelli che muoion nell’ ira di Dio
Tutti convengon quì d'ogni paese.
Non adorar debitamente Dio,
E di questi cotai son io medesmo.

Checchè al Fornaciari poss sembrare, il contegno di questo Messo, che non fa motto a’ due poeti ma fa sembiante d’uomo cui altra cura stringa e morda, non è il contegno di Cristo, che pertransibat benefaciendo e dava sulla voce agli apostoli perché fastidiosi non veni che i pargoletti si accostassero a lui, o perché, come straniera ed importuna, allontanavano da lui la donna di Cananea: che benignamente accoglieva e consolava, al pozzo aspettava la donna di Samaria, e non sentiva più il solletico della sete e della fame per favellare con lei; che adocchiato Zaccheo, il quale per essere piccolo della persona, e non restarsi pigiato dalla calca, era salito sopra un sicomoro, cortesemente chiamavalo a sè; e dai farisei agramente era ripreso, perché troppo dimesticamente usasse altresì co’ pubblicani, e peccatori.
Gesù Cristo discese altra volta all’ inferno, egli è vero; ma fu quando vincitore della morte e del peccato, come canta la Chiesa in quell’inno trionfale Vexilla regis prodeunt, citato altresì dal nostro poeta,

Con segno di vittoria incoronato

liberò dal Limbo le anime dei santi dell’antica legge, e ne aperse la porta

La qual senza serrame ancor si trova.

L’antica liturgia cattolica ripete questo fatto nelle feste della Pasqua e dell’Ascensione . Questa volta sarebbe disceso all’inferno affatto incognito e privato, senza che nessuno se ne accorgesse, salvo il nuovo comentatore dopo sei secoli, o in quel torno.
Perché mai Virgilio, che in quel Messo doveva ravvisare Cristo a lui già promesso, come dice egli a Dante, in quel frangente; fa solo star cheto il suo discepolo ed inchinarsi, e non piegare le ginocchia e giungere le mani, come innanzi al primo angelo del Purgatorio? Dante mostra ben altra riverenza dinanzi al Grifone ed agli altri simboli di Cristo negli ultimi canti del Purgatorio. Dante lo adora Uomo e Dio nel Paradiso.
Non una verghetta: la croce doveva avere in mano quel Messo, se egli era Cristo. Di lui è cantato appunto nel Vexilla, regnavit a ligno Deus.
Chi dunque possiamo credere che sia questo Messo di Dio?
A rappresentare le sue allegorie, dove il nostro poeta ebbe pronto un personaggio storico, lo usò, come fece con Virgilio e Catone. Lo prese altresì dalla mitologia, quando gli fu acconcio, come fece con Pluto, colle Furie, con Medusa. Aggiunsevi personaggi poetici di sua creazione, quali sono Beatrice, Lucia, Matelda. Personificò talvolta con prosopopea l’astratto concetto, come fecero tanti poeti colla Morte, |’ Invidia, la Fame, il Sonno. Tali sono la meretrice ed il gigante che con lei delinque, nel canto XXXIII del Purgatorio. In questo luogo, se male non mi appongo, Dante personificò la podestà che Cristo diede alla sua Chiesa contro l’errore e l’eresia. Il Messo di Dio non è Cristo, ma un suo legato, o vicario.
Dite è la città dolente, entro la quale sono puniti col fuoco gli atei, e gli eretici. Virgilio, il maestro gentil che tutto seppe, rappresenta in generale l’antica sapienza, congiunta alla squisita perfezione della forma, col bello stile che al nostro poeta aveva fatto onore. Questa sapienza valse ben sette volte a far vincere a Dante gli impedimenti, che al suo fatale andare opponevano i demoni, incominciando da Caronte che non lo voleva tragittare sopra la lieve sua barca. Giunti a Dite, Virgilio da sé, vale a dire l’umana sapienza, non basta a farvi entrar Dante. se Ercole, Enea, Virgilio scongiurato da Erittone, s. Paolo secondo la leggenda cui Dante allude nel Canto II dell’Inferno, non trovarono chiusa la porta di Dite; allora non vi erano gli eresiarchi, avvegnachè quelle discese sieno state fatte prima del cristianesimo, o ne’ suoi primordi, e la sola umana sapienza con Socrate è con cento altri già fosse bastata ad atterrare l’ateismo ed il materialismo. Provasi infatti Virgilio pacatamente ragionando a persuadere i demonî guardiani di quelle soglie infuocate a lasciargliene libera l’entrata. Anzi che arrendersi, più feroci chiudongli dispettosamente in petto le porte; ond’egli ritorna allo sgomentato alunno cogli occhi a terra, e le ciglia rase d’ ogni baldanza. Dante, l’uomo assistito dall’umana sapienza, è disperato di vincere la pugna. Se non che Virgilio stesso lo assicura, che verrà l’ajuto divino già in prevenzione promesso. Egli è quel Virgilio, che aveva predetto Cristo coi versi della Sibilla, onde Stazio rendendogli onore gli dirà nel canto XXI del Purgatorio:

Per te poeta fui, per te cristiano.

Dante rammentava la sentenza di Platone: essere necessario, che Dio mandasse agli uomini un maestro ad insegnare la vera sapienza.
Questo Messo viene lentamente, avuto riguardo al desiderio ed al bisogno che ne aveva Dante. Lentamente infatti contro gli eretici sembrò si procedesse, i quali ebbero principio fin dal secolo degli apostoli, sino a che, mercè l’opera degli apologisti e dei santi Padri, si potè compilare un corpo completo di dottrina teologica, e celebrare il concilio a Nicea.
Innanzi alla podestà ecclesiastica trionfatrice dell’eresia, fuggono atterriti i dannati, e cedono i demoni, che hanno pur fede, comecchè imperfetta perché senza carità, onde essi credunt ei contremiscunt.
Di questa podestà furono rivestiti da Cristo gli uomini. Basta perciò rispettoso silenzio ed inchino innanzi ad essi; non piegamento delle ginocchia e giungimento delle mani, come si fa dinanzi agli angeli.
L’uomo fornito di questa podestà porta nella destra la verga. La verga significa civile e militare comando, come lo scettro, o bastone, dei re dell’Iliade, del quale canta Omero come in origine fosse un ramo tagliato dall’ albero. È della verga da Dio consegnata al suo Cristo, e da esso alla Chiesa, che David preconizzava nel Salmo CIX: Virgam virtutis suae mittet Dominus ex Sion, dominare in medio inimicorum tuorum. La verga indica autorità, dottrina, magistero. Mosè, dotto nella scienza degli Egiziani e degli Ebrei (come abbiamo negli Atti degli apostoli), impugnava la verga: così Aronne: così i magi egiziani. Usavano di essa a segnare in terra figure e cifre astronomiche o astrologiche, le quali erano arcane al volgo superstizioso. Da Orazio è chiamato plagosus il suo maestro Orbilio, perché colla verga battendo il suo dorso gli inculcava le regole grammaticali. Giovenale esalta nella prima Satira la sua emancipazione dalla verga del pedagogo: Manum ferulae subduximus. La verga pastorale in mano del vescovo, denota non solamente il suo ufficio di guidare, ma altresì di punire. S. Ambrogio da’ suoi Milanesi fu dipinto cavallerescamente sopra un destriero, in atto di flagellare col bastone pastorale gli eretici.
Per essere convinti, come Dante giudicasse doversi dalla Chiesa punire gli eretici altresì con pene temporali, rammentiamo l’elogio, che nel canto XII del Paradiso egli fa a s. Domenico, salutandolo

l’amoroso drudo
Della fede cristiana, il santo atleta
Benigno a’ suoi, ad a’ nemici crudo.

Addimandò... contra il mondo errante
Licenzia di combatter per lo seme
Del qual ti fascian ventiquattro piante.

Poi con dottrina e con volere insieme
Con l’ufficio apostolico si mosse,
Quasi torrente ch’ alta vena preme;

E negli sterpi eretici percosse
L’ impeto suo, più vivamente quivi
Dove le resistenze eran più grosse.

Il penitenziere, che esercita l’autorità alla Chiesa data da Cristo, non solamente di sciogliere ma è di legare le anime, ha in mano la verga. Oggi è strumento di mistica cerimonia: altre volte era flagello fino al sangue.
Questo Messo di Dio predica, redarguisce, minaccia, rimprovera. Egli è colla spada della parola, che Gesù Cristo armò la sua Chiesa: Ire, praedicate omni creaturae.
Se terribile è la venuta di esso a compire questa missione; giovi ricordare con quali parole Dio mandasse Geremia a compire la sua: Et misit Dominus manum suam, et tetigit os meum, et dixit ad me: Ecce dedi verba mea in ore tuo: ecce constitui te hodie super gentes, et super regna, ut evellas, et destruas, et disperclas, dissipes, et aedifices et plonie: (Ierem. 1, 9-10). Nei versi poco sopra recitati, nei quali il poeta parla del!' ufficio apostolico di s. Domenico, colla similitudine del torrente eh' altra vena preme, e negli sterpi eretici percosse l'impelo suo; tutti veggono un riscontro col vento impetuoso per gli avversi ardori, che precede la venuta del Messo di Dio, il quale contro Dite adempie l'ufficio, che adempì s. Domenico contro gli Albigesi.
Se condotta a termine la missione, e conseguito il trionfo, il Messo di Dio parte senza guardare in volto persona, senza aspettare rendimenti di grazie, senza cogliere bottino o trofeo, o più inveire contro i vinti nemici; ammiriamo eloquenti lezioni date agli uomini di Chiesa investiti di tal podestà.
Giunto finalmente l'invocato Messo di Dio, si dà a conoscere più per gli effetti della sua misericordiosa intervenzione, che per la prosopografia che faccia il poeta della sua persona. E tante egli ne fa nel regno del disperato dolore, della certa speranza, e della beatitudine eterna! Insegna come l'uomo debba scomparire, e per poco dileguarsi, nell'atto del suo ministero celeste. Fu lodatissimo Demostene, avvegnachè tutto dimenticasse sè medesimo, tutto investendosi della causa che trattava, e per così dire immedesimandosi in essa. Quanto più dovrà far questo, chi ad ogni momento deve soggiungere a sè coli' Apostolo: Pro Christo leqatione fungimur! Chi deve ricordare l'ingiunzione di Pietro: Non siate quali dominatori sulla Chiesa!
Nella mancanza totale di ogni pomposo abbigliamento, di ogni esteriore corredo, rimproverava quegli ambiziosi prelati smodatamente amatori della fastosa parvenza, de' quali avrebbe potuto notare, come nel canto XV del Paradiso, che cingessero corona o sfoggiassero vestimento

Che fosse a veder più che la persona.

Nel canto XXV del Paradiso, tessendo l’elogio di s. Pietro Damiani, prorompe in questa famosa invettiva contro i cardinali, il cui fasto pareva a’ suoi giorni veramente eccessivo:

Poca vita mortal m' era rimasa
Quand' io fui chiesto, e tratto a quel cappello
Che pur di male m peggio si travasa.
Venne Cephas, e venne il gran vasello
Dello Spirito Santo, magri e scalzi,
Prendendo il cibo di qualunque ostello.
Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
Li moderni pastori, e chi li meni,
Tanto son gravi, e chi dirietro gli alzi.

Copron de' manti lor li palafreni
Sì che duo bestie van sotto una pelle:
Oh pazienza, che tanto sostieni!

Mentre Dante scriveva il motto Messo di Dio, non pensava a Mercurio. ad Ercole, ad Enea, ad un angelo, a Gesù Cristo: aveva innanzi alla mente le parole del Capo I dell'Evangelio di Giovanni: Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Ioannes. Non era Cristo: era un uomo, che aveva avuto una missione da Cristo, a compimento dell'opera di redenzione.
Nel canto XXXIII del Purgatorio il nostro poeta cantava, ripetendo la frase di questo luogo dell'Inferno:

Messo di Dio anciderà la fuia.

Neppure colà ci rivela qual uomo sarà incaricato da Dio di cotal missione di tarda ma giusta vendetta. Non si occupa dell'uomo incaricato della missione; ma solamente della missione divina. L'uomo svanisce nello splendore del suo grande ufficio. Così può credersi che avvenga altresì di questo Messo di Dio, che aprendo colla verghetta dell'autorità ricevuta da Cristo le porte di Dite, trionfa del!' eresia, ed all’uomo guidato dall'umana sapienza per la contemplazione dell'eterno dolore dei peccatori impenitenti, e del dolore confortato dalla speranza, dei peccatori pentiti, agevola il cammino al conseguimento dell’eterna salvezza, ossia

del dilettoso monte
Ch' è principio e cagion di tutta gioja.

Verona, agosto 1879.

Date: 2022-01-10