Il messo del cielo nel canto IX dell’Inferno [Mariano Rampolla del Tindaro]

Dati bibliografici

Autore: Mariano Rampolla del Tindaro

Tratto da: Giornale Dantesco

Numero: XXIII

Anno: 1915

Pagine: 1-14

Il personaggio adombrato nel possente che apre ai due poeti le porte di Dite ha travagliato, come tutti i luoghi incerti e ambigui della Commedia, dal Trecento in qua studiosi e commentatori.
Una gran parte dei quali, notati nell’ Enciclopedia dello Scartazzini, non si sono affatto indugiati a determinare il personaggio che secondo loro il Messo rappresenterebbe: è un angelo, e basta; anzi il Bianchi aggiunge che poco importa decifrare chi sia, purché s’intenda come esecutore del divino volere. Poco importa veramente no, perché se, a cominciar dai più antichi, chiosatori di indiscutibile valore e appassionati studiosi di questioni dantesche ci si son tanto affaticati attorno, ciò vuol dire senza alcun dubbio che qualche importanza la questione dovesse averla.
Altri però, giustamente pensosi delle gravi difficoltà e delle varie incoerenze che quella ipotesi presenta, la rigettarono e misero avanti e difesero altri personaggi rappresentati a lor parere dal Messo.
E fra questi, molto notevole il fatto, si trovano i primi commentatori del Poema come ad esempio il figlio dello stesso Poeta, Pietro, Benvenuto da Imola, l’Autore delle Chiose del falso Boccaccio e altri; e non si può dire quindi che si tratti di una delle solite ingegnose ma strane interpretazioni, quali alle volte qualche moderno chiosatore propone, andando contro l’insormontabile barriera creata dall’ uniforme spiegazione degli antichi.
Ma ci troviamo invece davanti a due specie d’interpretazioni, delle quali la prima, la più antica e quella che nello stesso tempo ha minor numero di seguaci, vede nel Messo un personaggio del mondo pagano (e chi pensò così qualcosa più di noi poteva benissimo saperla, giacché viveva in tempi assai vicini al Poeta); e l'altra, seguita dalla maggior parte dei commentatori, un personaggio del mondo cristiano.
E abbiamo avuto così; Mercurio, l’Angelo, Enea, l’arcangelo san Michele, Cristo, san Pietro e altre proposte delle quali non val proprio la pena occuparsi.
Che angelo il Messo non sia dimostrò l’Imolese, il quale, ricordando opportunamente le parole dette da Virgilio a Dante nel Purgatorio quando apparisce l’angelo nocchiero:

Omai vedrai di si fatti ufficiali

ne deduce con logica inoppugnabile che prima di quel tempo il Poeta angeli non aveva visto mai; né si può comprendere come una prova così sicura non abbia soddisfatto certi scrupolosi chiosatori. E l’Imolese, sostenitore di Mercurio, come Pietro di Dante, continua : «volo quod notes necessario lector, quod multi decepti sunt hic dicentes quod iste fuit unus angelus, quod tamen alienum est a mente auctoris, unde non intellegunt motivum eius, nam Mercurius poetice loquendo est nuncius et interpres deorum, qui mittitur a superis ad inferos ad esecutionem omnis divinae voluntatis sicut patet apud Homerum, Vergilium, Statium, Martianum et alios multos».
Ma poiché questa idea è stata combattuta vittoriosamente dalla grandissima parte dei commentatori, né c'è più alcuno che voglia sostenerla come buona , è inutile indugiarsi su questo punto.
Enea invece è stato messo avanti all’audacia dal Caetani, il quale se può dirsi formidabile nella distruzione delle ipotesi contrarie, tal non riesce poi nel sostenere la sue. Egli infatti, per dimostrare che Angelo non è, oltre il noto ragionamento dell’Imolese porta argomenti saldissimi e convincenti.
Dei quali il primo è che la descrizione del Messo nel IX Canto dell’Inferno non è per nulla simile o paragonabile a quella dell’Angelo fatta dal Poeta nel II del Purgatorio; anzi in alcune parti è quasi l’opposto di questa come ad esempio quando dice che l’Angelo del Purgatorio, benché operante come celestiale nocchiero sdegnava gli argomenti umani, né altro remo o vela voleva al suo uffizio tranne che le sue ali; mentre il Messo per aprire ai due Poeti le porte di Dite si serve d’una verghetta.
E inoltre le parole usate contro ai demonii provano ugualmente la mondana natura, perché si fece a rimproverar loro il vano cozzar coi fati, rammentando i danni di Cerbero: cose, queste, che mai il Poeta volle fosser dette per bocca d’Angelo.
Aggiunge il Sermoneta che il Messo, come Dante dice, se ne parti con

sembiante
d’uomo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che gli è davante,

e non già come Angelo, il quale, se laggiù fosse venuto, sarebbe stato appunto per la cura di chi gli era davanti...
Dimostrato non esser Angelo ma uomo colui che comparve sulla palude Stige, non occorre dichiarare quanto erronea sia l’opinione di chi vide nel Messo o Cristo o san Pietro.
Passa dopo ciò il Caetani a voler dimostrare, in vero con argomenti non molto forti, come il Messo sia Enea.
Rammenta in primo luogo che a Virgilio, il quale lo invita e lo esorta a intraprendere il viaggio attraverso il regno della morta gente, Dante risponde non credersi degno di tanto e temere che la sua audacia non sia folle. E se Enea padre di Silvio poté, essendo ancor vivo, andare a secolo immortale, ciò non deve parere indegno a uomo di sano intelletto, pensando l’alto effetto, che uscir dovea di lui, giacché egli fu eletto nel Cielo come padre dell’alma Roma e del romano Impero, che furono stabiliti per lo luogo santo u’ siede il successor del maggior Piero. Ma, continua Dante,

io perché venirvi? o chi ’l concede?
io non Enea, io nen Paolo sono:
me degno a ciò né io né altri crede.

Persuaso da Virgilio essergli concessa l'andata per dono della grazia figurata dalle Donne benedette della Corte del Cielo, preso lui per duce e maestro, entrò per l’alto e silvestro cammino della sua peregrinazione.
Gli venne quindi mostrato il Limbo, ove vide i grandi poeti e con loro gli spiriti magni d’ Enea, di Cesare, di Camilla, di Pentesilea. Da questa dimora, scendendo persi cerchi infernali, fu Dante guidato alle mura della città di Dite, fatta a guisa di fortezza e difesa dai demoni.
A Virgilio venne quivi vietata l’entrata perché aveva seco Dante ancor vivo a cui mostrar voleva le colpe per ritrarlo dalla dannazione colla penitenza, alla qual cosa Opporsi dovevano i demoni, se non si faceva loro alcun manifesto segno del volere divino. Questo segno che doveva aprir quelle porte, era dato a Virgilio da tale, siccome a Dante avea detto, che non potea dubitare che quel passo potesse venir loro tolto da alcuno. E disse che tale gli si fu offerto, il quale non poteva esser che nel Limbo luogo di sua dimora (di Virgilio).
Qui navighiamo in pieno mare di fantasticherie. Quando e come si è offerto Enea per aiutar Virgilio e, di grazia, da che cosa lo argomenta il Caetani? O che Virgilio aveva parlato solamente con Enea? Anzitutto, con questo guazzabuglio di codici non si è sicuri se il Tal ne s’ offerse del verso 8° debba leggersi, come alcuni (fra i quali M. A. Zani ) sostennero, tal ne s’offerse; e poi, quand’anche la lezione giusta fosse la prima, evidentemente quando Virgilio dice: tal ne s’offerse, e immediatamente dopo: Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!, intende parlare di due persone, una che gli s'era offerta e un’altra che dovea giunger davanti la Città di Dite, non già di una sola come dovrebbe intendersi, se si seguisse l’ipotesi del Caetani.
Come ben si vede, le prove addotte dal Duca di Sermoneta per sostenere la sua teoria sono non poco deboli, né maggior validità hanno i passi riferentisi ad Enea nelle altre opere di Dante da lui citati: il Convivio, VI, 5 e 26; il De Monarchia, II.
E un’altra grave difficoltà sorge dopo la prima, ed è questa: immaginando Enea sceso dal Limbo. e mandato, per volere divino, a soccorrere i due poeti, se ne sviserebbe completamente il carattere quale ci appare in Virgilio, senza dire poi che si farebbe aprir la porta di Dite a un dannato – giacché il Limbo altro non è che il primo cerchio dell'Inferno - dandogli tanta superiorità su Virgilio che le Donne del cielo avevano prescelto come guida e maestro di Dante, su Virgilio ch’ era pure del Limbo.
E osservando attentamente come il Poeta latino ha creato questo suo personaggio; quel senso di mitezza e di religiosa pietà che lo accompagnano per tutto il Poema; ricordando la sottomessa preghiera che rivolge alla Sibilla perché gli conceda di veder i suoi Trojani; leggendo ora Dante, osservando la finezza, il disdegno, la forza onnipotente, la violenza di questo Messo pauroso e terribile, a tutti gli altri personaggi dell’antichità possiamo pensare, ad Ercole sopratutto, ma giammai ad Enea del quale splendidamente dice il Poeta: «spem vultu simulat, premit altum corde dolorem».
E la concezione dell’ Eneide, quale opera allegorico-morale sorta già nella tarda antichità, come il Gaspary osserva, aveva dominato attraverso il Medio Evo e avea visto nel grande Eroe virgiliano l’uomo che dopo molti errori giunge al sommo bene, alla contemplazione del divino. «E per Dante — sono parole del Cesareo — il senso letterale, storia o mito che fosse, non perdea nulla del suo valore reale, della sua significazione interiore, del suo particolare carattere. Non egli subordinava la lettera all’allegoria; ma voleva che sotto la lettera fosse indagata l’allegoria. Egli insomma credeva, come i mistici del Medio Evo, che il simbolo fosse già nelle cose, e che quindi non ci fosse bisogno di far loro violenza per ricavarne il significato allegorico».
E qualunque interpretazione dell’ Eneide non l'avrebbe mai persuaso a mandar contro i demoni, che s’opponevano al cammino suo e di Virgilio, il pius Aereas quasi come un gradasso.
E per non dilungarmi troppo su questa parte, finisco con le parole del Bianchi, il quale dice che «mal si conviene a un'anima del Limbo, che è pur nel numero dei reprobi, la superiorità e la potenza che qui assume, e lo spavento delle altre anime davanti a lui, come non convenivano né si dànno a Virgilio che è pur dello stesso grado e condizione d’ Enea».
Il Cipolla, in un suo studio su questo Canto dell’Inferno, ripiglia la questione dell'Angelo, che secondo lui sarebbe non un angelo qualsiasi, ma lo stesso san Michele, e porta come prova della sua ipotesi il confronto della descrizione del Messo con la dell'Angelo nel II del Purgatorio, che serve, secondo lui, a confermare come quel Messo sia precisamente un angelo, se pure fa mestieri conferma!
Difatti, dice il Cipolla, un fracasso spaventoso, quale da terribile vento annuncia l’arrivo del Messo, e un lume che muove dall'Angelo, ma che non lo lascia discernere, annuncia la venuta di questo; velocissimo il Messo, velocissimo l'Angelo ; superiore alla triste natura del luogo il Messo che di nulla teme, tutto vince, passa Stige con le piante asciutte e solo sembra lasso dell’aer pingue della palude che si rimuove dal volto con la descrizione sinistra, ma non è che quell’aer grosso possa recargli offesa, è l'atto anzi (di superiorità!) ond'egli, con tutta facilità e nobiltà, domina quelle nature cosi opposte alla sua; e anche per superiorità distinguesi l'Angelo del Purgatorio, ecc. ecc.
Strano come il Cipolla voglia dimostrare che il Messo sia l’arcangelo Michele, servendosi proprio delle prove addotte giustamente dal Caetani per provare il contrario, cioè che Angelo non era; eppure con tutto ciò Flaminio Pellegrini segue l'ipotesi del Cipolla, rammentando, per corroborarla, questi versi del Poeta:

e santa Chiesa con aspetto umano
Gabriele e Michel vi rappresenta
e l’altro che Tobia rifece sano.

Con ciò però Dante vuol dire non che si avesse la possibilità o la facoltà di rappresentare con forme umane gli Angeli — e quindi gli sarebbe stato lecito, secondo il Pellegrini, farlo nel IX dell’Inferno; — ma che volendo rappresentare un angelo non si poteva fare a meno di attribuirgli aspetto umano, perché l’intelletto dell’uomo apprende solamente dagli oggetti sensibili ciò che poi diviene dottrina intelligibile. E, dice il Poeta,

Per questo la Scrittura condiscende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio e altro intende.

E del resto è ben differente il rappresentare un essere divino, un angelo, con forme umane, come Dante stesso fa nel Purgatorio, pur parlando di faccia, di piante, di test bionda, di braccia, di ali, dal rappresentare testa un uomo qual’è quello del Canto IX dell’Inferno.
E oltre le prove sudette, altre ancor più evidenti, messe avanti da acuti commentatori, ci costringono a rigettare quest’ipotesi dell’Angelo comunemente sostenuta. Molto convincente quel che il Borgognoni dice nel suo studio sulla questione, ove fra le altre argute e geniali osservazioni è anche questa: «Di più vi ricorda quel che risponde Beatrice a Virgilio che le aveva domandato come mai ella non si guardasse di recarsi laggiù da lui nell’ Inferno?». Ella risponde:

Io son fatta da Dio sua mercé tale
che la vostra miseria non mi tange
né fiamma d’esto incendio non m’assale.

Dunque le anime beate, e, a più forte ragione, gli angeli, che fossero discesi per qualsiasi cosa laggiù, non avrebbero risentito, secondo Dante, e non potevano però dimostrare, nessun dispiacere, nessun affanno, nessun’angoscia.
E per tornare ad Enea, non molto in verità aggiunge il Pascoli a quanto scrisse, e, il Caetani bisogna confessarlo, forse reca più confusione e oscurità anziché luce con le sue citazioni dell’Eneide di Virgilio e di altri passi della Commedia, qualche volta anche fuori di luogo.
Il Fornaciari, senza pretender di fornire, dice, una vera e propria dimostrazione, ma contentandosi di stare entro i limiti di congetture più o meno ragionevoli; premetto, continua, che io non credo niente affatto che tale personaggio possa essere un angelo, opinione sostenuta da quasi tutti i commentatori, e le ragioni di questa mia incredulità sono quelle stesse accennate dal Duca di Sermoneta nella dissertazione da lui scritta su questo argomento.
Ma non ricorda l’egregio uomo quello che il Caetani scrisse per dimostrare che se angelo non è a maggior'ragione non può essere Cristo, e a quello rimando il lettore. E seguitando: «Ma se ripudio l’opinione che vede nel nostro Messo un angelo, non posso neppure accordarmi con chi vuol trovarci un dio o un eroe della mitologia...; non tanto perché s’appoggiano su troppo deboli e incerte ragioni, quanto perché un Dio o un eroe mitologico non può esercitar si piena signoria sopra i piovuti dal cielo», senza pensare che proprio il centauro Nesso, eroe della mitologia, ha da Chirone l’incarico di proteggere i Poeti contro altri demoni nei quali si fossero potuti imbattere, e proprio Nesso, la scorta fida, guida i due Poeti lungo la riviera di Flegetonte; e Virgilio, prosegue il Fornaciari, non avrebbe mancato di riconoscere e mostrare a Dante questo eroe mitologico, come ordinariamente fa di tutti gli altri personaggi o mostri o ladroni del mondo pagano. Ma questi tali il più delle volte Dante li conosce da solo! Ancora: «Queste due circostanze, cioè l'assoluta potenza del Messo celeste sui demoni e il fare misterioso che tiene nel parlarne Virgilio, sono appunto le due norme che debbono guidare chi voglia una spiegazione di quest’ oscuro passo».
Ma in quanto alla prima, vale a dire l’ assoluta potenza del Messo celeste sui demoni, non si può dare altro che una spiegazione, molto ovvia e naturale, oltre la quale si cade in istravaganti e fantastiche congetture, e questa è che, dacché Virgilio, il quale aveva pur più di sette volte renduta securtà a Dante e l’avea tratto d’ alto periglio che incontro gli stette, ! superando ostacoli per nulla lievi ; dacché Virgilio, suo duce e maestro fin sul Paradiso Terrestre, non ha potuto con le sue sole facoltà aprir le porte di Dite, bisognava pur che venisse uno molto più forte e più potente di lui; salvo che non si voglia pensare un Messo celeste che lotti corpo a corpo coi demoni, il che non poco riuscirebbe comico.
E in quanto alla seconda circostanza, è chiaro che nei versi ricordati dal Fornaciari:

Questa lor tracotanza non è nuova,
ché già l’usaro a men segreta porta
la qual senza serrame ancor si trova,

Sovr’essa vedestù la scritta morta;
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi senza scorta,

tal che ne fia per lui la terra aperta,

è chiaro, dico, che Virgilio non voglia identificare e il i messo con Cristo, perché, avendo pensato a lui nei primi tre versi, poteva dire benissimo che sarebbe venuto un’altra volta; ma che rammenti la discesa del Redentore, per rassicurare e incoraggiar Dante, com’ è naturale, col ricordargli che non era insolita la tracotanza dei demoni, perché essi, oppostisi all'entrare dei Poeti, pur voluto dal Cielo, s'erano opposti prima alla discesa dello stesso Cristo, e per di più a porta meno segreta.
Né meglio e in modo più convincente del Fornaciari scrive il Federzoni, il quale vede nientemeno un’allusione a Cristo nel tale detto tre volte e nell’uno del verso 80 del IX Canto!
«Gli avversari all'arrivo del Messo, — scrive il Federzoni, — si ritraggono e precipitano nell’ abisso. Chi non ricorda come al presentarsi di Cristo nell’orto di Getsemani e al dir ch’Egli fece: Ego sum, i pontefici, i maestri, i farisei e la coorte condotta da Giuda, tutti si ritrassero e caddero in terra? Abierunt retrorsum et ceciderunt in terram; è sempre la presenza di Cristo che atterrisce i nemici e da sé li ributta. Anche le anime della palude han tanta paura che fuggono».
Ma anche quando Patroclo si mostra con le armi d’Achille ai Troiani questi fuggono atterriti; e per questo diremo che il Messo sia Patroclo o qualche altro eroe in condizioni simili di qualche poema latino da Dante conosciuto?
E per non annoiare il lettore, lo rimando alle obbiezioni fatte dal Michelangeli contro questa ipotesi del Fornaciari e del Federzoni con molto senno e acume.
Su per giù le stesse obbiezioni valgono pure per il Piersantelli, il quale vede nel Messo... san Pietro!

Abbiamo così passato in rassegna le varie sentenze di molti commentatori intorno a questo indecifrabile Messo, e posto in luce le non lievi difficoltà del Catani presenta, nonché quelle, quasi insormontabili, scaturenti dall’ipotesi generalmente seguita, la quale vede nel Messo un angelo.
Contro il quale — e a maggior ragione contro l’Arcangelo san Michele, san Pietro, Cristo — oltre tutte le altre più o meno forti, si può portare quest’ultima e inoppugnabile obbiezione: Non è grande e insostenibile assurdità che da un angelo, se per tale si vuole intendere il Messo del Cielo, si faccia fare ai demoni una ramanzina come si farebbe presso a poco con scolaretti indisciplinati, non solo, ma si rinfacci loro, come ammettendolo per istoria, il mito di Cerbero trascinato tremante da Ercole a vedere la luce del mondo? E che dire se s’intende nel Messo san Pietro o Cristo?
Tutto l'episodio, nel complesso e nei suoi particolari, mostra che il Messo non può esser personaggio cristiano, come ben s’ apposero i primi commentatori, ma visto che son pure insostenibili le ipotesi di Pietro di Dante e del Caetani su Mercurio ed Enea, non resta che ricorrere ad Ercole, di cui qualche scrittore ha fatto cenno, e mostrare con l’attento esame del passo tanto discusso, che se un personaggio il Messo rappresenta, nessuno più di lui ha diritto a questo onore.
Giacché questa d’ Ercole è l'ipotesi più probabile, e direi anche sicura, e quella nello stesso tempo che ci dà dell’episodio una rappresentazione più coerente e più conforme di quanto sian le altre al pensiero dantesco.
E per cominciare questa mia dimostrazione, dico che non persuade affatto il metodo consigliato dal Fornaciari e anche dal Federzoni, come il più sicuro per trovare una spiegazione plausibile, e ne ho già addotte le ragioni, — né quello seguito dai più, i quali, dopo aver pensato un personaggio, han cercato in tutti i modi di adattarlo all’ episodio sforzandone la significazione, come se si volesse, — mi si permetta il paragone, — adattare il corpo all’ abito non già questo a quello; ma che bisogna fare un processo inverso a quello seguito da Lisia nel comporre le sue orazioni, una ήϑοποιία al rovescio, e mostrare come possono più d’ ogni altro convenire ad Ercole tutte quelle attribuzioni e quelle caratteristiche che al Messo dà il Poeta.
E qui ci si fa questa obbiezione: Ammettiamo pure che convengano ad Ercole tutte le determinazioni del Messo: è però possibile che la mente cristiana di Dante, il quale chiamava Dei falsi e bugiardi quelli dei gentili, si sia servito poi d’Ercole nel passo tanto contrastato del suo Poema, dando tanta superiorità sui demoni a un personaggio della mitologia pagana?
Ma, anche non volendo ripetere quel che al riguardo si disse rammentando il centauro Nesso, si può rispondere a costoro che gli Dei del paganesimo nel Medio evo non finiron tutti in una buffa e ridicola caricatura che di loro il Cristianesimo fece; giacché, se la maggior parte d’essi divenne oggetto di riso e di scherno — come ad esempio Diana, Pluto, Mercurio rappresentato con la testa di cane, e tanti altri; — pure qualcuno si salvò da tale sfacelo, e mutato, trasformato, adattato ai nuovi tempi e alle nuove coscienze, rimase onorato e rispettato almeno nell’ arte e nella poesia. Si potrebbe dir quasi che alcuni pochi furono cristianizzati.
Donde si spiega come Dante non si faccia alcuno scrupolo di chiamar Gesù «Sommo Giove», e d’invocare nel suo Poema sacro alcuni dèi pagani — le Muse, Minerva, Apollo; — come del resto non si faceva neppure scrupolo di collocare a guardia delle anime del Purgatorio un pagano, o di far inginocchiar dinanzi a Virgilio, che è dell’Inferno, uno di quegli spiriti dello stesso Purgatorio chiamati ben finiti ed eletti o, quel che parrebbe incredibile, di porre un pagano fra le anime sante del Paradiso!
E cercherò ora di dimostrare come Ercole sia uno di quei pochi Dei pagani che nel Medio Evo, perduti i caratteri primitivi, hanno avuto un piccolo posto nell’arte cristiana.
Che presto nella mente del popolo sia passato dalla figurazione d’ eroe a quella di un Dio forte e potente, è cosa che può facilmente dimostrarsi leggendo, per non citarne altri, alcuni passi di quegli scrittori latini, che, più di tutti fra i classici, Dante lesse e studiò attentamente.
Si legga Ovidio nel IX delle Metamorfosi:

268. Sic, ubi mortales Tirynthius exuit artus,
Parte sui meliore viget; majorque videri
Coepit, et augusta fieri gravitate verendus,
Quem pater omnipotens, inter cava nubila raptum,
Quadrijugo curru radiantibus intulit astris.

e nell’Ars Amandi:

217. Ille fatigatae perimendo monstra novercae
Qui meruit coelum...,

e Stazio in Sylv., III, 1:

Sive tui solium Iovis et virtute parata astra tenes.

e IV. 6:

Hic igitur tibi laeta quies fortissime divi.
Alcide.

e Virgilio in molti passi su per giù come i precedenti. Da questo esame risulta dunque che Ercole passò ben presto nella mitologia romana a occupare il posto di un Dio; non solo, ma di un Dio che protegge e soccorre gli uomini nelle loro avversità, li libera da tutti i mostri, da tutti i mali:

Se tibi pax terrae, tibi se tuta aequora debent

e viene invocato come quello che solo li avrebbe potuto sempre liberare:

Sed tu domitor magne ferarum
Orbisque simul pacator, ades,
Nunc quoque nostras respice terras
Et, si qua novo bellua vultu
Quatiet populos terrore gravi,
Tu fulminibus frange Trisulcis,
Fortius ipso genitore tuo
Fulmina mittes.

E da tutti questi passi citati, come da qualsiasi manuale di mitologia romana, si vede chiaramente come questa figurazione, che s'era venuta a poco a poco evolvendo, e s'era lentamente sviluppata, s'arresta quando s'è fatto d’Ercole il temuto nemico dei mostri infernali, il vendicatore supremo delle offese che da essi venivano fatte ai Celesti, il vincitore dei Centauri, di Gerione, dell’Idra, di Caco, l’ eletto dal sommo padre, il quale a lui solo aveva dato la missione e il permesso di fare quanto gli altri non avrebbero potuto o non sarebbe stato loro concesso.
Donde si spiega facilmente il culto molto esteso, le cerimonie e i templi ch’ egli ebbe sotto i nomi di Silvanus, Rusticus, ecc., e specialmente ai tempi della decadenza dell’ Impero romano veniva considerato come un dio potente quanto Giove.
Né poco ci dice il fatto che nei poeti cari a Dante, Ercole era sempre chiamato con gli appellativi di victor, invictus, pius, vindex terrae, maximus ullor, dei quali i primi due con quelli di magnarimus si trovan spessissimo in questi autori; e che nel basso Medio Evo era citato da qualche autore come esempio di forza accanto a Salomone e ad Ovidio (esempî d’ intelligenza e d’arte).
E che più, quando dirò che nel Medio Evo Gesù Cristo veniva rappresentato, oltre che sotto tant’ altre, anche sotto le forme d’ Ercole? Di quell’ Ercole che Dante stesso in più luoghi del suo poema fa ombra pagana della sola ed eterna protesta?
Vengan pure a dirci i commentatori che un dio o un eroe mitologico non può esercitar tanta signoria sopra i piovuti dal cielo!
Disse argutamente il Manzoni che, giacché il Poeta non s'è voluto spiegar chiaro, bisogna rispettar il suo silenzio; ma è poi proprio vero che il Poeta non s'è voluto spiegar chiaro? A me quel «fata» e quel «Cerbero vostro» fan pensare diversamente. Vostro! di chi? dei Demoni? Ben si vede come chi parla non pensava affatto che Cerbero ha poco da vedere con i demoni del Cristianesimo; tolti i quali, è questo un episodio che ben potrebbe stare in un poema pagano.
Ma la prova intera e più convincente che il Messo sia Ercole scaturirà dall'esame della descrizione fatta dal Poeta nel IX dell’Inferno. Egli dice:

E già venia su per le torbide onde
un fracasso d’ un suon pien di spavento,
per cui tremavano ambedue le sponde;

non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per gli avversi ardori,
che fier la selva e senza alcun rattento

li rami schianta, abbatte e porta fuori:
dinanzi polveroso va superbo
e fa fuggir le fiere ed i pastori.

Gli occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo».

Come le rane innanzi alla nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’ alla terra ciascuna s’abbica:

vid’ io più di mille anime distrutte
fuggir cosi dinanzi ad un che al passo
passava Stige con le piante asciutte.

E qui i commentatori ad affannarsi a dimostrar ciascuno la sua tesi con argomenti, come ora vedremo, del tutto insostenibili, giacché i sostenitori dell'Angelo sono tutti in contraddizione l’uno con l’altro:

nell’interpretazione delle terzine o dei versi, e, quel che più pare incredibile, in contraddizione con sé stessi! Ed è proprio l’assurdità manifesta della loro ipotesi che li conduce a ragionamenti fantastici e a strane incoerenze. Le quali verranno eliminate quando s’ intenderà nel Messo Ercole, al cui appressarsi fuggono atterriti i mostri infernali;

Te Stygii tremuere lacus, te janitor Orci
Ossa super recubans antro semesa cruento».

dice Virgilio, il poeta di Dante, e Seneca:

Tunc victa trepidant monstra, Centauri truces
Lapithaeque multo in bella succensi mero
Stygiae paludis ultimos quaerens sinus
Fecunda mergit capita Lernaeus labos.

quando parlano della discesa d’ Ercole all’ Inferno, direi meglio a Dite.
E i mostri infernali nessun motivo avrebbero di fuggire all’ appressarsi di Enea o di Cesare o di Saladino, perché questi non hanno alcun potere sulle anime dannate, mentre Ercole, rappresentando l’esecutore del divino volere, il vincitore delle potenze infernali, il punitore delle offese fatte ai celesti le atterrisce e le fa fuggire al suo appressarsi.
E significato molto più chiaro acquistano per noi le parole, «gli occhi mi sciolse» del verso 73; non solo, ma ci si mostrerà più salda la compagine che unisce i due episodi, quello di Medusa e quello del Messo, e non bruscamente interrotta; meglio congegnato l’intero Canto, quando rifletteremo un po’ a quello che scrive Pietro nel suo commento del padre. Egli dice: «Iuno vero ipsum Herculem ejus privignum ibi voluit detineri (nell’Inferno) et fecit Medusam sibi (sic) apparere, ut lapis efficeretur. Sed ab ea evasit…».
Che relazione ha invece con Medusa Enea Cesare o Saladino e tanto meno l’Angelo?
Ma dove l’incoerenza raggiunge il colmo è nell’interpretazione data dei versi 80-81. Gran parte dei commentatori, come per esempio il Casini, annotano al passo: «al valico, al punto in cui si passa» non rammentando che nulla ci sarebbe di strano nel passar con le piante asciutte «al valico» (potrebbe farlo anche un bambino), e sarebbe veramente curioso che un angelo, se tale il Messo fosse, si preoccupasse di cercare il valico; o che non poteva passare ovunque gli fosse piaciuto?
E come se non bastasse questo, il Casini, commentando poco dopo il verso 85, ci dice, che l’Angelo volava (donde l’ha argomentato?); dunque riassumendo: l’Angelo arrivò «al valico»; avrebbe potuto benissimo passar all’altro lato, ma invece... volò!
Quel che a Dante importava far notare come una singolarità era il passaggio con le piante asciutte, il fatto cioè che il Messo, pur camminando sulla palude, non si bagnava. È assurdo dunque spiegare al passo «al valico», giacché la spiegazione che ci si presenta come la più giusta è d’intendere: di passo, con passo naturale, onde il senso sarebbe: vidi uno che passava Stige (non volava) camminandovi sopra coi propri piedi senza bagnarseli, come se fosse passato su terra dura.
Che poi Ercole passi con le piante asciutte Stige, non deve sembrar strano a chi rammenti come Dante stesso passò il fiumicello che circondava il nobile castello del primo cerchio «come terra dura». Né alcuna difficoltà ci presenta, intendendo nel Messo Ercole la spiegazione dei versi 128-130 del Canti precedente, perché il:

passando per li cerchi senza scorta

conviensi benissimo ad Ercole, che già una prima volta era stato all’ Inferno, ed era arrivato fin davanti al trono di Pluto, solium regis, e, a quanto si sa, senza alcuna scorta anche allora.
Né so donde il Cipolla abbia ricavato che il Messo sia «velocissimo»; perché né dai versi 79-81, né da quanto appresso il Poeta dice ci è lecito argomentarlo, anzi possiamo con maggiore fondamento e sicurezza, e meglio dobbiamo, pensare il contrario.
Le parole infatti con le quali Dante indica il muoversi del Messo sono: «passava Stige», «giunse alla porta», «poi si rivolse per la strada lorda»; parole che si addicono molto meglio ad uomo che cammini, e non ad Angelo «velocissimo». Senza rammentare poi che la giusta interpretazione delle parole: «al passo» è, come s’è detto, di passo, con passo naturale.
Ma ritorniamo al Poeta.

Dal volto rimovea quell’ aer grasso
menando la sinistra innanzi spesso
e sol di quest’ angoscia parea lasso.

E qui inciampano di nuovo i sostenitori dell’angelo. Perché quell’angoscia non può affatto convenire a quest’ultimo, tanto meno a san Pietro o a Cristo, e le ragioni furon dette in principio; non potrebbe nemmeno convenire ad Enea, perché Virgilio non ne aveva sofferto, ed era pur del Limbo. Ma non così per Ercole; di che cosa altro infatti poteva egli parer lasso? Quale altra angoscia lo avrebbe potuto turbare avviandosi, esecutore del divino ed eterno volere, ad aprire le porte di Dite?

Ben m’accorsi ch'egli era del ciel messo
e volsimi al maestro, e quei fe’ segno
ch’ io stessi cheto e inchinassi ad esso.

Alle parole «ben m’accorsi» il Casini annota: «per il fenomeno che l’avea preceduto e più per il miracolo di passare sulla palude con le piante asciutte, volando, e per tutta la maestà che si diffondeva dall'aspetto dell'angelo». Come è chiaro, qui il commentatore spiega non tanto il pensiero del Poeta quanto il suo, perché il fenomeno che precede l’arrivo del Messo si può addire tanto a un demonio quanto a un angelo, e non parliamo più della malaugurata idea del volare; e del resto, quanto a maestà, dall’ aspetto dell’angelo doveva diffondersene ben poca, poiché doveva essere più lo spavento e il terrore che egli comunicava al luogo, anziché questa angelica maestà. Tanto che il Bianchi sentì il bisogno di commentare (e anch’ egli è sostenitore dell’angelo!): «E ragionevolmente Dante, introducendolo (il Messo) a spaventare i demoni, lo fa precedere dal terrore, e lo presenta in forma più di espugnatore di città, che di angelo beato.
Che il Poeta lo presentò in forma di espugnatore di città è verissimo, e si comprende, giacché nel Medio Evo dovevan essere noti i miti delle spedizioni intraprese da Ercole contro Eraclia, contro Troia, contro Pilo, ecc.; né deve quindi sembrar strano o misterioso che il Messo sia presentato in forma di espugnatore di città. Ma non si può esser d’ accordo col Bianchi quando dice che Dante fa ciò ragionevolmente, perché egli non pensa quanto meglio sarebbe stato, e quanto maggior terrore avrebbe diffuso quest’angelo, presentandosi nelle sue vere forme d’ angelo beato.
E lo Scartazzini alle parole «del ciel messo» afferma categoricamente: «dunque viene dal cielo» ; però si risponde a lui col Borgognoni, messo del cielo suona in tutto equivalente a messo dal cielo, e chi è messo dal cielo, ossia dai Celesti, non importa per necessità che venga proprio dal Paradiso, ciò è chiaro e ovvio.
All’ appressarsi del Messo, Virgilio nulla dice a Dante, ma gli fa segno che stia cheto e ad esso s’inchini, segno di riverenza questo ben poco conveniente ad un angelo, ma non invece per Ercole il quale più di questo segno d’omaggio non avrebbe potuto pretendere.
Ma seguitiamo a leggere.

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Giunse alla porta e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.

Manfredi Porena, in una sua lettura su questo Canto dell’Inferno, dopo aver messo avanti i motivi, simili pressa poco a quelli addotti dai sostenitori dell’ angelo, per i quali egli dice che il Messo non può essere un personaggio storico o mitologico — fra questi, è un motivo abbastanza forte!, che se tale il Messo fosse stato, Dante avrebbe detto chi egli era; proprio per far piacere al Porena!, — prosegue: «Ragioni suppergiù di questo genere valgono contro l’ altro pretendente mitologico, Ercole, i cui diritti mi paion tanto deboli, per lo meno quant’ egli era forte. E alle sue mani poi, in luogo della tradizionale e rituale clava, non converrebbe menomamente quella verghetta. che, trattandosi di Mercurio, poteva almeno rappresentare il caduceo».
Prima di tutto si dovrebbe far notare al Porena che le facezie e i bei motti stan bene in tutt’ altra opera che non sia un commento a Dante, e s’ egli ha sentenziato che i diritti d’Ercole gli sembran «tanto deboli per lo meno quant’egli era forte» si sarebbe dovuta prender la pena di dimostrarne il perché.
In quanto alla verga rispondiamo, come già fu osservato da altri, che troppa gente è stata dipinta e descritta con in mano una verga, ed ha in realtà avuto in mano una verga, venendo giù sino agli uscieri e ai policemens.
Ma del resto il Poeta poteva benissimo attribuire ad Ercole quella verga come insegna del potere avuto, rammentando anche, per averlo letto in Virgilio, che chi scendeva all’ Inferno doveva premunirsene per darla in dono a Proserpina:

Sed zox ante datur telluris operta subire,
Auricomos quani quis decerpserit arbore fetus.
Hoc sibi pulchra suum ferri Proserpina munus.
Instituit,

E poi, chi può affermare che Ercole non sia sceso all'Inferno con una verga? Che anzi si può, dopo l’esame di un passo dell’inferno virgiliano, dire recisamente il contrario.
Alla Sibilla e ad Enea che s’'avanzano per entrare all'Inferno Caronte grida che essi non possono poiché:

Corpora viva nefas Stygia vectare carina,

e rammenta che quand’ egli dovette far passare Ercole e Teseo e Piritoo non se n’ebbe a rallegrar affatto, come si sa. A lui la profetessa risponde che ben diverso è il fine per il quale Enea scende all'Inferno, venendo egli per vedere il padre suo, e conclude:

Si te nulla movet tantae pietatis imago,
At ramum hunc, aperit ramum qui veste latebat,
Adgnoscas. Tumida ex ira tum corda residunt.
Nec plura his. Ille admirans venerabile donum
Fatalis virgae, longo post tempore visum,
Coeruleam advertit puppim, ripaeque propinquat.

Longo post tempore visum; dunque Caronte l'aveva visto un’altra volta, ed era già tempo, e da chi poteva essergli stata mostrata la fatalis virga se non da Ercole e da Teseo o Piritoo? Giacché altrimenti non avrebbero potuto telluris operta subire.
E Dante continua:

O cacciati dal ciel, gente dispetta,
cominciò egli in su l’orribil soglia,
ond’esta tracotanza in voi s’alletta?

Perché recalcitrate a quella voglia,
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuto doglia?

Che giova nella fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e il gozzo.

A chi osservi attentamente questi versi con intelletto sereno non potrà certamente sfuggire come l’intonazione di tutto il discorso sia proprio pagana persino nelle parole in quel fata che riporta subito la mente fatum dei latini, e più ancora nella rievocazione dell’episodio di Cerbero che un [??] sicuramente non avrebbe ricordato come argomento a suo favore, giacché sarebbe più logico, più conveniente, più consenta[??] alla sua natura cristiana, e specialmente lando a demonii, rammentar per esempio vendetta che Michele fe’ del superbo strupo anziché i danni del pagano Cerbero riluttante a seguir Ercole che lo trasse a vedere il [??] lume.
Ma quello che resta sicuro e indubitabile è che il Poeta ad Ercole certamente per come lo provano i versi 98-99, eccetto se non si vogliano spiegare, e qualcuno l’ha fatto, in un modo abbastanza comico. Il Lombardi, ad es., commenta: «Ha di già Virgilio in questo medesimo incontro fatta rico[??] la discesa all’Inferno del nostro Salvator Gesù Cristo; e perché dunque non intenderemo piuttosto, che fosse Cerbero in tale occasione stretto con catena al collo e con musoliera (proprio come quelle che portano i cani ai nostri tempi!), tal che non potesse avventarsi e neppur abbaiare? e che fremendo esso e dibattendosi in cotali stretture si dipelasse il mento e il gozzo? e che finalmente, come in perpetua memoria di quel fatto, la porta dell’ Inferno senza serrame ancor si trova, così anche Cerbero Me porti ancor pelato il mento e il gozzo? A questo modo sarà un abbellimento poetico accresciuto a un fatto storico; ove a quell’altro modo, dagl’ interpreti inteso, sarebbe una favola supposta istoria».
A siffatto commento del Lombardi è superfluo qualsiasi... commento. È questa una delle tante fantastiche e assurde spiegazioni alle quali conduce l’ipotesi dell’angelo. E il Lombardi volendo seguirla poiché gli pareva la più inverosimile, e accorgendosi nello stesso tempo che ne nasceva un’insormontabile difficoltà, cercò di definire la questione dando dei versi 98-99 una spiegazione che è difficile intendere come un commentatore di Dante abbia potuto pensare.
E per tornare al nostro ragionamento ripetiamo che il Poeta ebbe presente nello scrivere questo episodio Ercole; non solo, ma che lo ebbe presente in tale visione, da dover affermare che sia proprio lui quest’indecifrabile Messo.
Il linguaggio del Messo non è quello d'un Angelo, o d’ Enea, o di san Pietro, e tanto meno di Cristo ; il linguaggio del Messo è il linguaggio della forza, della potenza, della violenza: ond’esta tracotanza in voi s'alletta?; la sua figura è quella d'un espugnatore di città, e ben lo senti il Bianchi, né sembri strana, giova ripeterlo, la coincidenza anche in questo del Messo con Ercole, al quale più di tutti era naturale rammentar Cerbero, essendo stato proprio lui che «ipsius a solio regis traxit tramentem»; e il «se ben vi ricorda», fa supporre uno che sia stato parte del fatto rammentato, e lascia, direi, trapelare un «come ben me ne ricordo io». E poi Dante dice:

Che giova nella fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e il gozzo.

Quali e quante sieno le versioni intorno alla discesa d’ Ercole all’ Inferno, è cosa che qui poco importa; l’ interessante è osservare come Dante dia del fatto una spiegazione propria, giacché il ne del v. 99 ci dice che Cerbero porta ancor pelato il mento e il gozzo per aver tentato recalcitrare alla voglia divina e dar di cozzo nella fata; e Cerbero, a quanto si sa, mai recalcitrò alla divina voglia, tranne quando resistette ad Ercole che volea trascinarlo dietro di sé; e dunque il suo dar di cozzo nella fata altro non è che la resistenza opposta ad Ercole, il quale viene così a rappresentare l’esecutore della divina voglia, quello per cui s'adempivano i fati, e per cui si punivano le offese fatte dagli inferi ai Celesti.
Se Dante dunque, come ben s’ è provato, ebbe in mente, nello scrivere questo suo episodio, Ercole, e proprio come esecutore della volontà divina, e punitore dei mostri infernali che a questa volontà divina volevano recalcitrare; e se in più luoghi del Poema sacro, ripeto col Pascoli, lo: stesso Ercole è fatto dal Poeta ombra pagana della sola ed eterna potestà, non sembrerà più strano ad alcuno che sia lui il Messo.
E giacché questi altro non è, e nessuno ne dubita, che l’esecutore del volere di Dio, e il vendicatore dell’oltraggio fatto alla divina maestà; ed Ercole, nella figurazione che in questo Canto ebbe di lui il Poeta, ha del Messo gli stessi uffici e le stesse attribuzioni, dobbiamo dire che queste da noi qui considerate come due figurazioni distinte soltanto per il nome, siano state in realtà nella mente di Dante un urico e perfetto fantasma, compiuto, coerente, vitale, ricco di quelle sfumature e di quei chiaroscuri di cui il Poeta l’ha avvolto con la sua fantasia, e concluderne la perfetta identità del Messo con Ercole, la loro fusione in un solo personaggio: dobbiamo affermare che si celi sotto il Messo l’eroe greco, il «maximus ultor» del grande poeta latino.
E l’episodio tutto allora riuscirà più completo, più uno nella sua intima coerenza, meno ripugnante alla nostra mente, di quanto lo sia presentato in diverso modo, e più consono, più logicamente stretto alla concezione dantesca di tutto il Poema, e specialmente di questo ricco e drammaticissimo Canto.

Palermo, Marzo 1915.

Date: 2022-01-11