Il messo dal cielo alla porta di Dite [Lorenzo Filomusi Guelfi]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Lorenzo Filomusi Guelfi

Tratto da: Giornale Dantesco

Numero: XVIII

Anno: 1910

Pagine: 37-42

1. Sezione 1

Non ripeterò quanto altri han detto, per confutare le ipotesi che questo messo del cielo sia Enea od un angelo; quantunque alla seconda non si risolvano ancora a rinunciare i più recenti commentatori; né m'impaccerò d’ Ercole, o d’Arrigo VII, o della Sapienza della morte, o della Speranza; m’occuperò, invece, delle altre ipotesi, ch’ei sia Gesù Cristo, o San Pietro, o Mosè, o Mercurio; come quelle che, a mio credere, più alla vera s’avvicinano, e dalla cui confutazione dovrà agevolmente scaturire l'ipotesi vera. Ridete? vi stupisce che al vero messo possano avvicinarsi Gesù, san Pietro e Mosè; al tempo stesso che Mercurio® un Dio, un Santo e un Profeta della cristianità, al tempo stesso che un dio pagano? Se avrete la pazienza di leggermi, saprete «come ciò sia». Vediamo, dunque, innanzi tutto, perché nessuna di queste quattro ipotesi possa dirsi la vera.
I principali argomenti coi quali il Fornaciari prima, il Federzoni poi sostennero che il messo del cielo alla porta di Dite sia Gesù Cristo, sono i seguenti:

1° Chi vinse la prima resistenza dei demonii fu Gesù Cristo: «chi altri, se non Cristo medesimo potrebbe esser colui che Virgilio aspetta, affinché rinnovi una seconda volta la sua vittoria? Per quanto strana parer possa a primo aspetto una nuova discesa di Cristo, all’Inferno a posta di Dante, è chiaro che la seconda porta, più riposta e più importante, non può venire aperta se non da quel potentissimo che aperse la prima». – la confutazione della propria ipotesi la fece lui stesso, per il primo, il Fornaciari, con quell’inciso: «per quanto strana» ecc.; ed io aggiungerei che non a primo aspetto soltanto appare strana siffatta ipotesi; ma si manifesta tanto più strana, quanto più ci si ripensi. Tale obiezione, Infatti, fu ripetuta contro il Federzoni, allorché questi, ripresa la ipotesi del Fornaciari, s’ingegnò d’avvalorarla con nuovi argomenti: esaminerò questi argomenti più innanzi; per ora, vediamo come tentò di risolvere l’obiezione: i nostri vecchi, scrisse su per giù il Federzoni, trattavano Gesù, che pur ritenevano fermamente esser Dio, con molta più familiarità che non facciamo noi, mal grado il nostro scetticismo intorno alla sua divinità: essi vedevano in lui il fratello, il padre amoroso degli uomini; noi, soltanto il divin Salvatore. — Ma Dante sapeva bene in che senso noi siamo figli di Dio e fratelli di Gesù; onde, se il trattar Gesù con familiarità era perdonabile a monaci semplici o a laici poco addentro negli studii teologici; questo stesso non sarebbe stato perdonabile al teologo Dante.
2° I segni dell’arrivo del messo, il modo com’ei passa la palude, il rimover dal volto l’aer grasso «sono circostanze ben convenienti a un Dio umanato». Così il Fornaciari; e il Federzoni aggiunse: questo messo del cielo respira; dunque egli è là col corpo: ma col corpo nel mondo di là ci sono soltanto Gesù e Maria: «Maria ognuno capisce che non è: dunque? non ci rimane che Cristo». — In quanto ai segni della venuta del messo, non sono circostanze così speciali, che al solo Cristo si convengono: vedremo infatti più innanzi che essi non sono altro che o segni del miracolo. Quello del respirare sarebbe un più grave argomento; ma bisognerebbe metter bene in sodo che le anime de’ tre regni danteschi non respirino; il che, per quanto da taluni passi sembri evidente, da altri è messo in dubbio: se anche non si voglia tener conto de’ sospiri, che non mancano, in ispecie nell’ Inferno e nel Purgatorio; certo è che Virgilio ansa « com’ uom lasso » (Inf, XXXIV, 83); e ansare significa respirar con affanno.
3° «È chiamato il messo di Dio: e chi è per antonomasia il Messo di Dio, se non quello che da tutti si chiama il Messia?» (Fornaciari) — Anche prescindendo dal vero significato della parola Messia; appunto perché Gesù è il Messo di Dio per antonomasia; se Dante avesse voluto intender di lui, non avrebbe scritto, «ben m’accorsi ch’egli era del ciel messo», cioè un messo; ma; ch’ egli era i messo del cielo.
4° Il contegno di questo messo, che non fa motto ai due poeti, ma solo appare preoccupato della sua missione, conviene perfettamente a Cristo, factus obediens usque ad mortem (Fornaciari). — Ma di tipi d’obbedienza non c'è il solo Cristo nella sacra scrittura: qualcuno ne ricorda lo stesso Dante, «Moisè, legista obbediente»; e si potrebbero aggiungere Abramo, Noè ed altri. Anche quest’argomento, adunque, non esclude che, oltre a Cristo, anche altri possa aspirare all’onore d’essere il messo del cielo alla porta della città di Dite.
5° Questo messo del cielo è detto tre volte tal, ed una altri; insomma, non è nominato: ora, «ognuno sa che in tutto l’Inferno non suona mai espresso il nome di Cristo; e che Virgilio né qui, né in Purgatorio nol nomina giammai» (Fornaciari). — Innanzi tutto, non è punto certo che tutt’ e tre le volte quel tal si riferisca a Dio; ma se pur fosse, anche altri personaggi non si nominano nell’Inferno, e si designano con quegli stessi pronomi, tal, altri, quando a Dante piace, per sue speciali ragioni, di non determinarli a un puntino: per esempio, «con la forza di tal che testè piaggia», dice Ciacco (Inf., VI, 69), di Carlo di Valois o di papa Bonifazio, che si voglia; e

d’intorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco,

è detto (Inf., X, 55-56) di Cavalcante, che sperava di veder suo. figlio con Dante.
6° Anche il silenzio di Virgilio («fè segno ch’ io stessi cheto ed inchinassi ad esso») proverebbe, per il Fornaciari, che il messo di Dio sia Gesù Cristo. A ragione il Federzoni dubitò che questo non fosse un argomento un po’ debole, se non, addirittura, in contrario: «mi pareva», egli scrisse, «che per Gesù Cristo Dante avrebbe dovuto far di più ancora», che non facesse quando gli apparve il primo angelo nel Purgatorio, facendosi dire a Virgilio: «fa, fa che le ginocchia cali» ecc. Però il Federzoni escì presto dal suo dubbio, trovando in certa spiegazione mistico teologica de’ riti e delle cerimonie che si riferiscono alla Messa, che solo nella Messa privata «è fatto obbligo al fedele d’inginocchiarsi prima della consacrazione, sino alla consumazione»; e che durante la Messa solenne i fedeli s'inginocchiano soltanto all’ elevazione: Dante non era là, alla porta della città di Dite, il privato fedele e devoto, ma l’umanità. — Ammiro le risorse e la disinvoltura del Federzoni; ma non credo d’aver bisogno di confutare questa soluzione del suo dubbio: esso rimane, ed è grave. Un altro, anzi, possiamo accoppiarvene: per la luminosità, che la faccia di Cristo avrebbe perduta, quale spiegazione mistico teologica ci soccorrerebbe?
7° «Dante non poteva pensar punto che questo far discendere Cristo in Inferno fosse uno scomodarlo troppo dal suo trono del cielo; quando egli credeva (e lo credono i cattolici anche oggi) allo scender di lui in persona tutti i giorni nell’ ostia consacrata. E qui non c'è quistione: è dogma» (Federzoni) — Ma che si «scherza? Dunque la discesa di Cristo all’ Inferno, visibilmente, sarebbe tutt'uno che il suo esser nell’ostia, « corpore Christi sub panis accidentibus occultato»? il corpo di Cristo, che Dante vedrebbe all’ Inferno, sarebbe tutt'uno con quello, che, nell’ eucarestia, «quodam spirituali modo sumitur»? il suo esser nell’ ostia in substantia sarebbe tutt'uno che il suo apparire a Dante in praesentia, potentia et substantia?
8° L'importanza che Dante attribuisce alla sua andata nel regno de’ morti, tanto da paragonarla con quelle di Enea e di san Paolo»; l'essere «l'Inferno e i demoni una figura del mondo corrotto e dei vizii che lo travagliavano» sono per il Fornaciari (e più per il Federzoni, che su questo concetto fa di molti ricami), un altro argomento in pro’ dello straordinarissimo aiuto che sarebbe stato concesso a Dante, con questa seconda discesa di Cristo all’ Inferno. — In primo luogo, non è esatto il dire che Dante Si paragoni a san Paolo e ad Enea: li nomina, ma per dir subito che d’andare, ancor vivo, a visitare i regni immortali, né lui stesso né altri lo credono degno. In secondo luogo, Dante, personaggio del Poema, non è, né si crede un rigeneratore dell’uman genere: se così fosse, avrebbero ragione quelli che in lui, Dante, vedono il Veltro: per lo meno dovrebbe essere il DXYV; e vedere il suo seggio apparecchiato in Paradiso. Ma poiché ormai riconoscono tutti che Dante non è né il Veltro né il DXV; ei non è nemmeno un rigeneratore; è dunque strano il supporre che, ad agevolarlo nel fine assegnato al suo viaggio, Cristo scendesse, per la seconda volta, all’ Inferno, visibilmente, in sostanza, potenza e presenza, come vera sceso la prima, per la salute dell’intero uman genere.
9° Scrive il Federzoni: «ecco che s’ode un gran fracasso, e sotto i piedi si sente la terra tremare. Arriva il Potente»... «è sempre la presenza di Cristo che atterrisce i nemici e da sè li ributta». — Ma non occorre che sia proprio Cristo quei ch’è preceduto dal vento impetuoso: la discesa del messo celeste fu, qual ch’ ei si sia, una special grazia concessa a Dante: or l’opere di grazia s’attribuiscono particolarmente allo Spirito Santo, che discese tra gli Apostoli appunto in forma di vento. Che altro, se non questo, significa il vento, che accompagnò il passaggio di Dante di là da Acheronte?
Infine, insegna sant'Agostino, citato da san Tommaso, che allora il Figliuolo è mandato invisibilmente ad alcuno, quando da alcuno è conosciuto e percepito; e percezione significa notizia sperimentale, nel che propriamente consiste la sapienza: or Dante, al Nono cerchio dell’ Inferno, non che aver acquistata la sapienza, neppure aveva ancor risanato il suo arbitrio; non era dunque possibile che a lui fosse mandato il Figliuolo, neppure invisibilmente: figurarsi visibilmente!
Ma se questo messo del cielo non è Cristo, potrebb’essere il suo vicario, san Pietro. San Pietro «camminò sul lago di Tiberiade, e Beatrice su nel Paradiso gliene dà vanto... Dunque per Dante è un notevole carattere di san Pietro e del divino favore che lo privilegiava questo suo passeggiare sulle acque». — Sicuro; però, se Dante avesse visto san Pietro all’ Inferno, non ne farebbe un cenno, al suo rivederlo in Paradiso? non sarebbe, anzi, il caso ch’ ei lo ringraziasse lassù, prima o dopo il suo esame sulla fede; giacché non avea potuto ringraziarlo all’ Inferno, perché il messo celeste non gli fè motto?
Aggiungono: «un’altra nota assai rilevante del carattere di san Pietro è il suo sdegno... Bene dunque può convenire a san Pietro quel che del messo celeste è detto: Ahi! quanto mi parea pien di disdegno». — Ma se si parla dell’orecchio tagliato a Malco, quella non fu santa ira, ma una «festina et impraemeditata praesumptio», come di questa e d’altre inconsideratezze di san Pietro giudicò lo stesso Dante: Gesù stesso, del resto, avea rimproverata a Pietro quella violenza; ed aveva a Malco riappiccato l’orecchio. Se poi si parla dell’invettiva contro i cattivi pontefici, che Dante gli mette in bocca nel cielo delle stelle fisse; quello zelo non è del solo san Pietro, ma di tutti i santi: basti ricordare quel che poco prima, nel cielo di Saturno, avea detto, de’ «moderni pastori», san Pier Damiano.
Infine, Gesù disse a san Pietro: Tu es Petrus, et super hane petram aedificabo Ecclesiam meam, et portae Inferi non praevalebunt: ed ecco che la profezia s’avvererebbe: «accorre il Principe degli Apostoli, che apre la via dell’apostolo novello». — Come si vede, si torna all’esagerazione, per quanto concerne il carattere di Dante, personaggio del suo Poema: se Dante si considerasse e volesse, nel suo Poema, spacciarsi per un nuovo apostolo, concederei forse anch’io che un gran patricio dell’ impero celeste, come san Pietro, dal suo altissimo seggio dell’Empireo, a destra di Maria, scendesse, per Dante, all’ Inferno: ma poiché dall’aver fiducia che le sue parole potessero in certo modo giovare al « mondo che mal vive», e il credersi un novello apostolo, ci corre; io ripeto per san Pietro quel che s'è obiettato per Cristo; cioè, che sarebbe strana una sua discesa all’ Inferno, in servigio di Dante.
Sarà dunque, il messo celeste, un profeta, Mosè, che passò a piedi asciutti il Mar Rosso, e fè con la verga, resa miracolosa da Dio, tanti prodigi? — Certo, queste due caratteristiche di Mosè ben corrispondono ad alcune di quelle del messo celeste alla porta della città di Dite; ma anche Mosè, il più grande dei profeti, e che, nella candida rosa, ha il suo altissimo seggio a fianco di Maria; anche Mosè sarebbe strano che si disturbasse a scendere, per Dante, nel l'Inferno: oltre di che, mancherebbe a Mosè una qualità importantissima, che bisogna invece riconoscere in Gesù e in san Pietro, autorità sacerdotale: è alla Chiesa, di cui Cristo è capo in cielo, e in terra è capo il suo vicario, il romano pontefice; è alla Chiesa che spetta difendere i proprii figli, i fedeli, nelle lotte col demonio e con gli avversarii di Cristo; e spetta al romano pontefice giudicar le controversie in materia di fede. Or Dante doveva entrare nel sesto cerchio, e i demonii gl’ impedivano l’entrata: erano pur là quei ribelli, che la Chiesa persegue con gli anatemi, e che un tempo perseguì pure consegnandoli al braccio secolare. Che sarebbe andato a far tra costoro un profeta? e per di più, «tardo di bocca e di lingua»? Quella calda invettiva, «O cacciati del ciel, gente dispetta» ecc., per fermo starebbe poco bene sulle labbra d’uno, che, per la sua stessa confessione, non era mai stato «uomo ben parlante».
Escluso anche Mosè, non resta che Mercurio; né occorre ripetere quanti caratteri anche Mercurio abbia comuni col messo celeste del canto IX dell’Inferno; tra i quali, notevolissimi questi, d’essere stato il messaggero degli Dei e il dio dell’eloquenza. Ma bene occorre dimandarsi subito: che avrebbe che fare con Dante, che s'avviava alla vita contemplativa, un dio pagano; e proprio quello, il dio de’ ladri, a cui, meno che a tutti gli altri Dei del paganesimo, doveva essere stata in odio l’avarizia, tanto in odio a Dante, come quello dei vizii capitali che più è contrario alla vita contemplativa ? e come si sarebbe detto messo del cielo uno, che, anche Dante non, lo mise a guardia di qualche suo cerchio o bolgia infernale, ben avrebbe meritato d’esserci messo? e che avrebbe che fare co’ demonii e con gli eretici il caduceo? esso è simbolo di pace; e a siffatta gente non si dà quartiere: nella «città dolente», Virgilio e Dante non potevano entrare «senz’ira».

2. Sezione 2

Il messo del cielo, che apre a Dante la porta delle città di Dite, deve, innanzi tutto aver la potestà sacerdotale, a cui spetta debellare i ribelli, come la hanno Gesù e san Pietro; deve, come Mosè, aver la verga; ma essa deve simboleggiare la detta potestà sacerdotale, il che la verga di Mosè non simboleggia; deve, infine, come Mercurio fu il messaggero di Giove, essere stato alcuna volta il messaggero del Dio d’Israele; e, come Mercurio, dev’essere stato eloquente e sagace. C’è nella sacra scrittura un personaggio, in cui tutte queste qualità si riscontrino? Sì, egli è Aronne, il maggior fratello di Mosè, da Dio prescelto come sacerdote e da Mosè consacrato; e la cui unzione e consacrazione figura l’unzione e consacrazione del gran pontefice Gesù Cristo: insomma, il primo vicario di Cristo. Ecco dunque in Aronne la precipua caratteristica del messo del cielo. Né gli manca la seconda, la verga, cioè, simbolo della potestà sacerdotale; poiché, non la verga di Mosè, ma quella d’Aronne, che germogliò producendo fiori e mandorle, e che il Signore volle custodita «in tabernaculum testimonii, ut reservetur in signum rebellium filiorum Israel», simboleggia la potestà sacerdotale. Infine, Aronne fu già messaggero di Dio al popolo d’Israele, per annunziargli le promesse del Signore, e a Faraone, perché s’inducesse a lasciare uscir dall’ Egitto il popolo eletto; poiché, non meno di Mercurio, Aronne fu eloquente e sagace: «Non so io», disse il Signore a Mosè, «che Aronne, tuo fratello, Levita, è uomo ben parlante?» e, quanto alla sagacia, il vitello d’oro fu opera delle sue mani.
Ancora qualch’altra considerazione. Aronne fu bensì il profeta di Mosè a Faraone; ma Mosè fu a Faraone è in luogo di Dio; Aronne parlò per Mosè al popolo, onde fu a Mosè in luogo di bocca; ma Mosè fu ad Aronne in luogo di Dio; Mosè fu il più gran profeta degli uomini, perché conobbe il Signore a faccia a faccia; Aronne peccò d’ idolatria, per quanto a ciò l’inducesse l’ira del popolo ebreo, «congregatus adversus Aaron»; sicché quasi si direbbe ch'ei fosse un po’ a casa sua, alla porta del cerchio degli eresiarche: insomma, quel che sarebbe sconveniente per Mosè, una discesa all'Inferno in servizio di Dante, non è per Aronne, a cui neppur sappiamo qual posto assegnasse Dante in Paradiso.
Non però possiam dubitare che Dante non ritenesse Aronne beato; ché dell’idolatria Aronne si pentì certamente, se fu dopo il peccato che Dio lo scelse a sacerdote, e se Davide potè dirlo il Santo del Signore. Benissimo, dunque, potè Dante pensare che il nome d’Aronne non convenisse pronunciarlo all’ Inferno, quando perfino dubiterà che non convenga pronunciare nel Limbo il nome di Catone.
Anche Aronne, come Mosè, passò il Mar Rosso piedi asciutti, quando «il Signore fece con un potente vento orientale», come quel «vento impetuoso» che precedette il messo del cielo alla porta della città di Dite, «ritrarre il mare». Inoltre, la verga di Mosè, gettata dalle mani d’Aronne a’ piedi di Faraone, si cangiò in serpente; e, benché nell’ Esodo non sia detto esplicitamente, dalle sue mani quella medesima verga dovett’essere stesa, quando le rane, che avean coperto tutto l’Egitto, «morirono, e le case, e i cortili e i campi ne furono liberati»: anche di questi due prodigi è traccia, nella doppia similitudine del messo celeste con la biscia, e dei dannati con le rane; debole traccia, è vero; tuttavia, anch’ essa conferma, che, nel creare il suo messo del cielo, Dante fissava il suo sguardo in Aronne.
Ho già obiettato al Fornaciari, che tipo d’'obbedienza, nella sacra scrittura, non fu il solo Cristo: oltre Mosè, Abramo e Noè, già ricordati, si potrebbe ricordare anche Aronne, che mai disobbedì al suo minor fratello, Mosè, che gli era in luogo di Dio, e che di Dio gli trasmetteva i comandi. Del resto, io non credo, come crede il Fornaciari, che quel non far motto del messo celeste a Virgilio e a Dante indichi la sua obbedienza: crederei piuttosto che Dante volesse con ciò alludere al carattere del sacerdote, naturalmente grave e pensoso, data l'altezza del suo ministero, in generale; e al carattere di quel sacerdote, in particolare, per la missione altissima che gli era stata affidata. Anche il portiere «del Purgatorio, che simboleggia anch’ esso il sacerdote, benché non il pontefice; quando Dante lo scorse, «ancor non facea motto»; e la frase, pensoso Aronne, ricordo d’aver letto, a proposito d’un papa, non so in qual poeta moderno.
Qualcuno, seguendo il Lombardi, potrebbe obiettare che la favola di Cerbero, incatenato da Ercole, sconvenga, come in bocca a un angelo, così in bocca ad Aronne, che beato è certamente, se anche non nel grado altissimo di Mosè. Per tacer d’altro, ricorderò che nel Purgatorio, sul pavimento del primo ripiano, Dante vede, scolpiti dalla mano di Dio, Briareo, i Giganti, Niobe, Aracne, Alcmeone, Ciro e Troia, quali esempii di superbia punita: se non «disconviene a Dio servirsi della mitologia pagana, per insegnamento alle anime del Purgatorio; tanto meno disconverrà ad Aronne servirsene, per rimproverare ai demonii la loro oltracotanza.
Mi sia permesso di concludere, che non credo si possa facilmente trovare, nella sacra scrittura o altrove, un altro personaggio, che riunisca in sè tutte le qualità che Aronne riunisce, e che (non si può non riconoscerlo) il messo del cielo alla porta della città di Dite deve riunire.

Date: 2022-01-09