Il messo [Angelo Verdese]

Dati bibliografici

Autore: Angelo Verdese

Tratto da: Il mistero della palude Stigia e delle porte di Dite

Editore: Libreria Mario Bozzi Succ. Lattes, Genova

Anno: 1935

Pagine: 71-81

Un'altra allegoria si collega a quella dell’Invidia. Le Porte di Dite si aprono come per incantamento al tocco della verghetta di un Messo del Cielo, che a gran passi tragitta lo Stige con le piante asciutte, ed in buon punto giunge al soccorso dei due Poeti. (1. 9. 64 e seg.).
Chi è quel messo?
È egli un angelo? Certo è un angelo, perché angelo e messaggero sono una cosa e due parole; ma i suoi atti, l'aspetto, la verghetta che tiene in mano, il luogo dove si trova sembrano distinguerlo in modo particolare.
E si volle vedere in lui a volta a volta un angelo, Mercurio, Ercole, Enea, Arrigo VII, Giulio Cesare, San Pietro, Mosè, Cristo stesso e forse altri ancora, ch’io dimentico.
Acuti ingegni con loiche dimostrazioni hanno sostenuto, con diversa fortuna, ciascuno il suo parvente.
Non ho polemizzato fin qui anche per un sentimento di reverente riguardo, né intendo ora tentar ritorcere gli argomenti indotti a sostenere tanto diverse candidature. Ognuna d’esse ne ha in pro e contro, sì che la lite pende tuttavia.
Molti commentatori e antichi pensarono fosse Mercurio; fra questi è Pietro di Dante, conviene notarlo.
Vero è che il fare di un Dio strettamente pagano, epperò falso e bugiardo, un incola del Paradiso Cristiano e apportatore di Grazia, giustamente ripugna.
Ricalchiamo le orme del Messo.
Giunti i Poeti alle rive dell’Acheronte, il dimonio dagli occhi di bragia si rifiuta a tragittarli e, rivolto a Dante, esclama:

Più lieve legno convien che ti porti.
(1.3. 93)

Più lieve legno? Quale? Quello che conduce alla piaggia del Purgatorio forse? E vi poteva essere differenza nel peso della barca dell’angelo e quella di Caronte? Sì l’una, sì l’altra avevano solo a tragittar anime. Dunque?
Eglino restano sulla riva malsecuri; e, mentre, aspettando aiuto di consiglio o di mano, osservano le anime, che si affollano spronate dalla Divina Giustizia, avviene un fatto meraviglioso, che il Poeta così cl racconta:

...la buia campagna
tremò sì forte, che dallo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.

La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia,
la qual mi vinse ciascun sentimento:

e caddi, come l’uom cui sonno piglia.
(1.3. 130 - 136)

Così termina il canto e nel seguente il Poeta, destandosi dall’alto sonno, è al di là dell’Acheronte.
Già il Buti affermava (33) e con lui molti consentono fosse un angelo a tragittarlo.
Dante non dice chi fosse, perché finge il suo passaggio mentre dormiva; ma vi allude con quel più lieve legno, che è un accenno a qualche mezzo di trasporto più leggero della barca.
Non sarebbe egli quell’

un che al passo
passava Stige con le piante asciutte.?
(1.9. 80-81)

Forse anche qui come per gli invidiosi il Poeta ne dà un primo avviso per metterci sulla buona via. Il baleno di luce vermiglia accompagnato da turbine e terremoto, non può essere determinato che dalla discesa di uno spirito celeste, che in questo momento interviene nuova dramatis persona, per togliere d’impaccio i due pellegrini.
Chi, se non il messo della verghetta?
Nel Canto IX della II Cantica Dante, come sulle rive dell’Acheronte, è colto dal sonno mentre si trova nella valle fiorita in attesa di chi lo aiuti a vincere l’erta insuperabile e gli additi la porta del Purgatorio. Egli dorme e sogna un’aquila nel Cielo sospesa, la quale, dopo aver roteato un poco, discende sopra lui, terribile come folgore e lo rapisce su fino alla sfera del foco, ove entrambi ardono

e sì l'incendio immaginato cosse,
che convenne che il sonno si rompesse.
(2.9. 32 - 33)

ed è ormai giunto alla porta agognata. Virgilio gli spiega come si trovi colà:

Dianzi, nell’alba che precede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia,
sopra li fiori onde laggiù è adorno

venne una donna, ce disse: «Io son Lucia:
lasciatemi pigliar costui che dorme,
sì l’agevolerò per la sua via».

Sordel rimase, e l'altre gentil forme:
ella ti tolse, e come il dì fu chiaro,
sen venne suso, ed io per le sue orme.

Qui ti posò: e pria mi dimostraro
gli occhi suoi belli quell’entrata aperta;
poi ella e il sonno ad una se n’andaro».
(2.9. 52 - 63)

Quanto accade qui nella II Cantica deve corrispondere a quanto accade nella I. La donna che venne aliando sopra li fiori (io penso «sopra li fiori» si riferisca a Lucia, ché anche mi parrebbe men bello riferire ad un tempo «dentro» e «sopra» ad anima) è il lieve legno che trasporta Dante alla Porta del Purgatorio, come quegli

che al passo
passava Stige con le piante asciutte.
(1.9. 80-81)

vuol essere il legno più lieve che non fosse la barca di Caronte e che al pari di Lucia non si lascia scorgere nel tragitto del Poeta.
L’uno e l’altra son segni della Grazia ed è evidente che la Grazia di salvazione Dante non poteva trovare in uffiziali infernali, sì solo celesti.
Al giunger dunque del Messo, come al giungere di Lucia, Dante è colto dal sonno e quando si risveglia, qui come nel Purgatorio, è alla meta. È lecito concludere che il Messo, come Lucia, abbia tolto il dormente per posarlo sulla riva opposta del fiume.
Che così sia avvenuto ne accerta ancora un altro richiamo assai evidente.
Virgilio, dopo aver tentato invano far persuasi i piovuti dal Cielo ad aprirgli il passo delle Porte di Dite, sembra rammentarsi di una promessa avuta, Egli

Attento si fermò com'uom che ascolta,
chè l'occhio nol potea menare a lunga
per l’aer nero e per la nebbia folta.

«Pure a noi converrà vincer la punga»
cominciò ei: «se non...tal ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!
(1.9.4 -9)

Egli non finisce il suo pensiero; ma è chiaro che ebbe una qualche promessa d’aiuto.
Si noti quel «ne» plurale, che sembra quasi affermare la promessa sia avvenuta mentre Dante era presente. Tuttavia questi non l’aveva udita, sì ch’egli trasse a peggior sentenza le parole del Duca ed ebbe paura, (1. 9. 10-15).
Possiamo noi penetrarne il senso?
Ora meglio di prima, se non ci fallì la dichiarazione dell’Invidia e degli invidiosi.
Lungo il tragitto dell’Acheronte il Messo, mentre Dante dormiva fra le braccia di lui, avverte Virgilio che ancora un ostacolo troveranno al loro cammino e ch’egli interverrà di nuovo. Il Messo fu anche reticente. Per quella legge, che noi conosciamo, egli non poteva dire d’alcuna delle gesta dell’Invidia da lui prevedute, onde Virgilio rimase incerto del dove, del quando e da chi sarebbe venuto l'ostacolo per cui gli era promesso il soccorso.
Questa sua incertezza si è fatta palese e dall’aver provato egli stesso a suadere i piovuti dal Cielo, e dalle sue frasi monche: «se non... tal ne s’offerse».
Il divieto dunque di parlare dell’Invidia e degli Invidiosi ci chiarisce la contraddizione apparente della condotta e delle reticenze di Virgilio.
Ovidio ancora fu la fonte della allegoria del Messo, che si collega a quella dell’Invidia.
Non è chi non veda la simiglianza dell’episodio delle Porte di Dite con quello della favola di Aglauro già citata; simiglianza fatta per noi più compiuta dal sapere chi si nasconda sotto le spoglie del Gorgone.
Aglauro, in preda ad invidioso furore, vieta a Mercurio la porta che rinchiude Herse da lui amata.

«Desine, dixit,
«Hinc ego me non sum nisi te motura repulso!
«Stemus, ait, pacto, velor Cellenius isto!
Celatasque fores virga patefecit, at illi
Surgere conanti partes, quascumque sedendo
flectimur, ignava nequeunt gravitate moveri.
Illa quidem etc. (30).

Aglauro dice: «Io non muoverò di qua se non t’avrò respinto».
E il Dio: «Stiamo a tal patto! «E, aperte con la verga le porte, entrò.
A tal vista Aglauro sente divenir gravi le membra, ed ha principio la sua metamorfosi in sasso.
Nella favola di Ovidio una invidiosa difende una porta che chiude a Mercurio la via alla donna amata; il Dio tocca con la verga la porta; questa si apre ed egli entra. Nell’Inferno l’Invidia stessa (Medusa) vieta l'ingresso alla Città di Dite, che per Dante è la via che conduce alla sua Beatrice, alla eterna salute, al Primo Amore. Il Messo tocca con la verga la porta; questa si apre: i Poeti passano.
Il raffronto calza.
Devesi concludere che lo stesso Dio apra e l’una e l’altra porta?
Forse Dante pensò che la simiglianza delle due immaginazioni varrebbe a dichiarare la sua.
La verghetta che ha in mano il Messo è richiamo alla verghetta di Mercurio. Il Betti con Pietro di Dante, con Benvenuto da Imola e con l’autore delle antiche chiose, pubblicate dal Vernon, non dubita il Messo sia Mercurio (34).
Fra le ragioni da lui addotte a conforto della sua opinione piacemi notare le principali, Egli rammenta in prima che Claudiano dice di Mercurio

commune profundis
et superis numen, qui fas per limen utrumque
solus habes, geminoque facis commercia mundo.

Mercurio è il solo Dio che abbia libero ingresso nei tre Regni: nel Cielo, sulla Terra e nell’Inferno.
«Così spiegasi tutto (dice il Betti); spiegasi il Messo del Cielo, ché Mercurio era il Messaggero degli Dei; spiegasi com’egli veniva rimovendo dal volto quell’aere grasso, perciocchè Stazio sul principio del secondo libro della Tebaide (poema sì noto a Dante) fa che Mercurio nel condursi in Tracia per volere di Giove, sia qua e là travolto da nembi e da venti; ed aggiunge (v. 55 e segg.):

Hac et tune fusca volucer deus obsitus umbra
Exsilit ad superos, infernaque nubila vultu
discutit et vivis afflatibus ore serenat.

Spiegasi la verghetta, ciò è il taumaturgico caduceo, il cui ufficio in Inferno è ben ricordato da Virgilio.
Ma il Betti vede nel Messo un Mercurio schiettamente pagano, sì che Virgilio farebbe segno a Dante, non che le ginocchia cali e pieghi le mani come all'angelo del Canto II del Purgatorio; ma semplicemente lo inchini (son parole del Betti); e giustifica in bocca sua la frase:

che giova nella fata dar di cozzo

impropriissima, dice, nella bocca di un angelo.
Come appare, a buone ragioni vanno commiste delle men buone e delle cattive.
Teniamo le buone.
È certo che anche a Mercurio spetta il titolo di Messo del Cielo, che Mercurio ed il Messo hanno comune l'attributo della verga e che gli antichi poeti greci (che Dante forse non conosceva direttamente) e latini attribuivano al triplex Mercurio la facoltà di varcare il limitare dell’Inferno, donde con la virtù della verghetta traeva le anime.
E qui cade in acconcio osservare che la ver- ghetta aveva eziandio un’altra virtù, cui accenna a punto l’Ovidio nella favola di Aglauro; il suo tocco addormentava e ridesiava (somnos ducit el arcet).
Allo scoppiare del terremoto Dante cade

come l’uom cui sonno piglia.
(1. 3.136)

Tal sonno è quasi richiamo al taumaturgico Caducco che ne attesta la presenza del Dio.
In tutta la Commedia la mitologia pagana è disposata alla cristiana e questa fusione del mito gentile con il cristiano è uno dei fattori dell’altissima poesia.
Gli Dei, i Semidei del paganesimo vi figurano quasi tutti; ma trasfigurati o acconciati a nuove funzioni; dei principali caratteri alcuni serbano, alcuni perdono, come se i Poeti, Maestri del Nostro, quali Virgilio, Stazio, Ovidio, in parte fossero stati nel vero.
Con ciò forse volle dare maggior parvenza di verità alla sua visione. Così la Luna (Diana), Mercurio, Venere, Apollo (Sole), Marte, Saturno, le Stelle sono astri ne’ cieli danteschi che accolgono secondo quest'ordine gli Angeli, gli Arcangeli, i Principati, le Potestà, le Virtù, le Dominazioni, i Troni.
Ma avviene anche la paganizzazione (mi si conceda la parola) delle essenze cristiane; così le virtù cardinali sono stelle in cielo e ninfe nel Paradiso terrestre. (2. 31. 106).
È dunque veramente Mercurio colui che apre le porte di Dite?
Sì e no, come appare dalle cose dette.
No, se per Mercurio s’intende (come intende il Betti) tal quale il Dio pagano; sì, se per esso si intende il Primo Motore o uno dei Motori (Arcangeli) del II Cielo, il Cielo di Mercurio, ove si indiano gli spiriti operanti.
La III Cantica anch'essa è per portarci nuova luce.
Ove sottilmente si guardi, avremo colà un richiamo, il quale concorrerà a confermare questa essenza del Messo del Cielo. Dante da buon scolastico è sempre sottile.
Il passaggio dal Cielo della Luna al Cielo di Venere (che è il primo del vero Paradiso, per essere quelli della Luna e di Mercurio come una specie di Antiparadiso in rispondenza, all’Antidite ed all’Antipurgatorio) si fa a traverso, o per mezzo che dir si voglia, del Cielo di Mercurio.
È poco ed è molto questo richiamo; moltissimo poi per chi creda al sistema dei richiami esegetici tra Cantica e Cantica.
Ancora: il II Cielo, posto in Mercurio, ha a punto la virtù di questo Dio, in quanto corrisponde alla Dialettica ed alla Operosità; e dialettici ed operosi sono gli spiriti che esso contiene in opposizione ai negligenti del II balzo del Purgatorio.
Possiamo dunque affermare che il Messo dantesco, se non propriamente l’Ermes-Mercurio greco latino è un Arcangelo o il primo Arcangelo del II Cielo, nel quale il Poeta cristiano incluse tutte le virtù e gli attributi del Dio pagano; spirito operante e dialettico, Messaggero di Dio come ancora insegnano le sacre carte del Vecchio Testamento.
Egli fuse in uno l'Arcangelo Gabriele e Mercurio, seguendo in questo mito il sistema adottato per gli altri. Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Flegias, Le Furie, il Gorgone, il Messo, il Minotauro, i Centauri, le Arpie, Gerione, i Giganti, Dite, Catone nel Poema si mostrano sotto aspetti in parte diversi da quelli che ci tramandò la leggenda, pur conservando i caratteri principali della loro significazione.
Secondo il Poeta il Paganesimo vide la verità come attraverso nebbia o fummo. I suoi Iddii e Semidei sono vere essenze cristiane celesti o infernali intuite dal sentimento non illuminato dalla Grazia.

Date: 2022-01-10