Dottrina e allegoria in Inferno VIII, 67 – IX, 105 [Amilcare A. Iannucci]

Dati bibliografici

Autore: Amilcare A. Iannucci

Tratto da: Dante e le forme dell'allegoresi

Editore: Longo, Ravenna

Anno: 1987

Pagine: 99-124

Proprio prima dell’arrivo del Messo celeste che disperderà le forze infernali che impediscono a Dante e a Virgilio di entrare nella Città di Dite, il poeta interrompe la narrazione e chiede ai suoi lettori di osservare la dottrina nascosta «sotto ’l velame de li versi strani» (Inf. IX, 63) . L’imperativo ermeneutico di Dante non è certamente andato inascoltato, anzi: i commentatori nella loro solerzia esegetica hanno allegorizzato completamente l’episodio. Non tenterò qui di dare un sunto delle numerose e varie interpretazioni, basterà dire che non c’è unanimità nel riconoscimento del significato dell’episodio e delle sue immagini . Ecco, per esempio, un breve elenco di proposte esegetiche relative al significato di alcuni degli attori della rappresentazione che si svolge dinanzi a Dite. Le Furie sono state intese, tra l’altro, come coscienza tormentata dalla colpa, rimorso, invidia, malizia, le tre zone principali del basso inferno, e inoltre come cattivi pensieri (Aletto), parole (Tesifone) e opere (Megera) che portano all’eresia, e quindi, insieme a Medusa, come vizi da combattere . E Medusa stessa ha avuto un’altrettanto tormentata storia esegetica. Essa può rappresentare, secondo il commentatore, la perdita della speranza di salvazione, la coscienza del peccato, l’oblio del proprio benessere spirituale, la ricerca dei beni terreni, la lussuria, l’astuzia, il demone dell’eresia, l’ostinazione, il dubbio religioso e l’idolatria . Il Messo, d’altra parte, è stato visto dalla maggior parte dei commentatori come un semplice angelo, ma anche come l’arcangelo Michele, l’angelo del Limbo, Mosè, Cristo, Ercole, Mercurio, Enea, Cesare ed Enrico VII .
Nonostante le ovvie differenze, ciò che praticamente tutte le interpretazioni hanno in comune è che esse applicano all’ episodio la procedura che Dante adotta nel Convivio per interpretare le sue canzoni, e cioè l’allegoria dei poeti . In altre parole, l’episodio è interpretato soprattutto in termini morali astratti, come lotta tra le forze del bene e quelle del male, nella quale anche le figure di Dante e Virgilio perdono molto della loro identità storica per assumere i loro ruoli esemplari nelle personificazioni di Ogni Uomo e di Ragione. In questo frangente critico del viaggio viene detto che la Ragione (Virgilio) si rivela inadeguata; la Divina Grazia, attraverso la mediazione del Messo, deve intervenire per permettere all’anima cristiana di continuare il suo pellegrinaggio verso la salvezza . Con questo schema interpretativo la dottrina, se non del tutto persa (l’episodio ha una dimensione tropologica) è certamente ridotta d’importanza.
Nella mia comunicazione tenterò di recuperare la dottrina e la dimensione tipologica dell’episodio con una lettura basata sul Descensus Christi ad Inferos . Mi pare, infatti, che il modello strutturale della piccola sacra rappresentazione che si svolge dinanzi alla Città di Dite sia da vedersi nella discesa di Cristo agli Inferi, che è anche la chiave del significato e della dottrina dell’episodio.
Dante stesso, naturalmente, ci invita a leggere l’episodio in questi termini. Alla fine di Inferno VIII Virgilio, che è appena stato respinto dagli angeli caduti, che sono ora demoni, rammenta una simile scena di sfida impossibile occorsa all’epoca della discesa di Cristo all’inferno:

Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men secreta porta,
la qual senza serrame ancor si trova.
Sopr’essa vedesti la scritta morta.
(Inf. VII, 124-127)

Subito dopo queste parole egli annuncia l’arrivo di un tal che aprirà la porta di Dite:

e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta
tal che per lui ne fia la terra aperta.
(Inf. VIII, 128-130)

Alla fine dell’episodio poi, il Messo già trionfante castiga i diavoli per la loro «oltracotanza» e paragona la sua vittoria a quella di Ercole che sconfisse Cerbero quando liberò Teseo prigioniero nell’Ade (Inf. IX, 91- 99). Così il poeta stesso indica i parametri entro cui andrà collocata la sua ri-creazione della discesa agli Inferi. Tale discesa prenderà la forma di una sintesi radicale di immagini pagane e cristiane in cui la discesa di Ercole è vista, attraverso un’appropriazione tipica dell’allegoria teologica dantesca, come prefigurazione del più determinante gesto finale di Cristo . Il Messo celeste, come una figura salvatrice , la mattina presto del giorno di Sabato Santo dell’anno 1300 rievoca queste due precedenti discese iscritte nel Libro dell’Universo e nella coscienza culturale di Dante: una pagina è profana l’altra è sacra.
In verità le allusioni sono state notate dai commentatori, ma, e questo può sorprendere, essi non hanno mai approfondito l'argomento in modo sistematico . Neanche Mark Musa, che con Advents at the Gates analizza l’episodio alla luce del primo dei tre avventi di Cristo descritti da San Bernardo nei suoi sermoni degli avventi, trae gran cosa dal paradigma della discesa agli Inferi; e non c’è nessuno, che io sappia, che colleghi la discesa, che caratterizza l’episodio, all’allegoria ed alla dottrina di Dante .
Forse uno degli ostacoli per questo tipo di analisi è stato il forte sostrato virgiliano dell’episodio che ha sviato l’attenzione dei commentatori. La sua presenza è ben documentata e per questo non mi ci soffermerò se non brevemente e per ripetere ciò che è noto . Dante saccheggia il libro VI dell’Eneide (l’altro sotto-testo principale dell’episodio) per costruire il suo proprio Tartaro e, entro certi limiti, per popolare le sue infuocate fortificazioni. L'ambiente, quindi, è decisamente (se non esclusivamente) virgiliano. Inoltre Virgilio, e questo è un elemento che non è stato sufficientemente evidenziato dai commentatori, fornisce a Dante la possibilità di rimettere in scena la discesa agli Inferi. Lo scontro dinanzi alla Città di Dite è dettato da un imperativo più letterario che teologico, anche se poi l’episodio si articola principalmente in forma teologica. Nel libro VI dell’Encide la Sibilla aveva detto ad Enea che «è vietato a qualunque uomo che sia puro di cuore mettere piede oltre la soglia dell’inferno» (Aen. VI, 562-3) . L’avventurarsi oltre la soglia di Dite, dunque, significherà non rispettare l’interdizione della Sibilla e sminuire l’autorità poetica di Virgilio. Ma quella legge pagana deve essere infranta, altrimenti il viaggio di Dante avrà termine presso le acque stagnanti della palude Stige.
Ma come può avvenire questo? Non per mezzo di Virgilio, nonostante la sua precedente esperienza pagana nel Tartaro. All’inizio del canto IX (vv. 16-33) apprendiamo con sorpresa che Virgilio è stato già proprio nel profondo dell’inferno, grazie agli incantesimi della maga tessala Eritone, di cui in Lucano (Pharsalia VI, 508-827) . La sua attuale incapacità sta ora qui ad indicare l’inutilità di quella esperienza. Dopo Cristo l’interdizione della Sibilla non può essere rotta da meccanismi pagani o magici. Soltanto attraverso Cristo e imitando Cristo si potrà disserrare la porta del Tartaro. Il testo virgiliano fornisce all’episodio, oltre che la stessa possibilità di esistere, anche elementi descrittivi e stilistici, ma non la sua struttura ed il suo significato. Con Dante il significato del testo virgiliano è, se non del tutto respinto, rivalutato e assimilato ad un nuovo contesto cristiano entro cui la discesa di Enea prefigura quella di Dante, la discesa di Ercole quella di Cristo .
L’aspetto teatrale e drammatico dell’episodio deriva, perciò, non da Virgilio, ma dalla storia della discesa agli Inferi. La fonte principale della discesa di Cristo al Limbo non è tanto nelle notizie sparse dell’evento che si trovano nella Bibbia, quanto nel Vangelo di Nicodemo , apocrifo del quinto secolo, che presto raggiunse quasi uno stato canonico: la storia della discesa agli Inferi, infatti, fu rapidamente inserita nel Credo degli Apostoli e si affermò come uno dei temi favoriti del Medioevo. La sua immensa popolarità nacque dal fatto che la storia si collegava benissimo al simbolismo più concreto e potente della redenzione — ed anzi finì per identificarsi con essa — che in occidente era concepita come vittoria di Cristo su Satana, il quale aveva esteso sull’uomo la sua giurisdizione dall’epoca della caduta. In alcune versioni della storia la morte di Cristo e la sua discesa all’inferno erano viste come il riscatto da pagare affinché l’uomo riacquistasse la sua libertà. La discesa agli Inferi, allora, veniva a mettere in rilievo la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del peccato e, in particolare, la liberazione dei patriarchi ebrei dall’inferno.
La natura della storia era in sé stessa teatrale, e già nel Vangelo di Nicodemo il materiale appariva quasi distribuito in una serie di «scene». In seguito, naturalmente, la discesa agli Inferi venne veramente concepita come opera teatrale e messa in scena. Una delle prime rappresentazioni italiane della discesa agli Inferi è una lauda francescana che, per quanto ne sappiamo, si può collocare intorno agli anni in cui viveva Dante . Si tratta della «devozione» del Sabato Santo dei Disciplinati perugini. (Va ricordato che «lo spettacolo» che ha luogo dinanzi alla Città di Dite avviene proprio la mattina del Sabato Santo). La lauda francescana, modellata secondo lo schema del Vangelo di Nicodemo, contiene tutte le immagini tipiche del tema: una buia prigione infernale, un Satana fanfarone, un Inferno personificato timoroso e inquieto, una squadra di diavoli, uno scontro di fronte alla porta dell’inferno e, finalmente, un Cristo vittorioso, incoronato, in gloria e rappresentato con la croce sulle spalle. Così Egli disperde le forze delle tenebre, spalanca il cancello dell’inferno e libera i giusti del Vecchio Testamento, a cominciare da Adamo.
Dante deve aver conosciuto bene questa storia: se non gli era giunta direttamente dal Vangelo di Nicodemo e dalle successive sacre rappresentazioni come quella sopra citata, l'aveva certamente appresa dalla parafrasi di essa di Vincent de Beauvais, contenuta nello Speculum Maius, oppure dalle numerose rappresentazioni figurative della discesa agli Inferi che poteva vedere dappertutto, nelle miniature, nei mosaici, negli oggetti intagliati in avorio o sbalzati a smalto, nei vetri colorati, nei dipinti, e così via .
Dante, naturalmente, evoca la discesa di Cristo al Limbo nel quarto canto dell’Inferno . Intendo ora discutere, se pur brevemente, il suo trattamento del tema in quel luogo del poema. La discussione può aiutarci a capire meglio il suo altrettanto deciso e vigoroso modo di affrontare il tema più in là nell’opera, dinanzi alla Città di Dite. Con l’introdurre i virtuosi pagani nel suo Limbo, Dante prende bruscamente le distanze dalla tradizione teologica che si era sviluppata in occidente dal Nuovo Testamento, attraverso Sant'Agostino e Gregorio Magno, fino a San Tommaso. Spostando il centro dell’attenzione dal limbus patrum e dalla discesa agli Inferi alla condizione dei virtuosi pagani, Dante rivoluziona completamente il ritratto tipico del Limbo. Tutte le rappresentazioni precedenti avevano puntato esclusivamente sul Descensus Christi ad Inferos che era venuto a simbolizzare, come ho già detto sopra, la redenzione stessa. Dante cambia tutto questo; egli spinge la discesa agli Inferi nello sfondo, come è magnificamente illustrato in una notevole miniatura della metà del XV secolo (fig. 1) . In primo piano, invece, mette Virgilio e gli altri illustri e virtuosi rappresentanti della civiltà pagana (fig. 2) . Le implicazioni tematiche e strutturali di questo riorientamento sono immense.
In Inferno IV la discesa agli Inferi non presenta immediate dislocazioni metaforiche (Virgilio narra i fatti cui ebbe modo di assistere nel passato), ma l’avvenimento è comunque ridefinito rispetto a ciò che offriva la tradizione precedente. Innanzitutto il racconto è ridotto all’essenziale (dodici versi in tutto, Inferno IV, 52-63) ed inserito nella descrizione di un Limbo che è stato completamente ripensato sia teologicamente che poeticamente. Sia la struttura che il significato stesso dell’episodio sono trasformati: nel Limbo di Dante la discesa agli Inferi annuncia non tanto la vittoria quanto la sconfitta, poiché l’episodio si concentra non su coloro che sono da Cristo liberati dall’inferno (i padri del Vecchio Testamento), ma su coloro che sono lasciati lì, e cioè sui virtuosi pagani. Nella visione dantesca del Limbo è lo stile elevato dell’epica che domina, le immagini sono scarne ed essenziali, il tono è solenne e malinconico, la struttura è «tragica» e non «comica».
Dante, comunque, era troppo conscio delle possibilità «spettacolari» delle immagini tradizionali della discesa agli Inferi per abbandonarle del tutto. L’interdetto della Sibilla, relativo all’ingresso nel Tartaro, gli offrì l’occasione di riprendere e di sviluppare il tema. La battaglia dinanzi a Dite è stata riportata spesso come una sacra rappresentazione ed alcuni commentatori hanno anche diviso l’episodio in diversi atti . Ma per motivi cronologici è forse più appropriato, seguendo il suggerimento di Umberto Bosco, riferirsi a questi «atti» come a «momenti dell’azione» . Nessuno, tuttavia, neanche Bosco che ha trattato quest’argomento meglio di chiunque altro, ha mai messo in relazione lo sviluppo drammatico della scena dinanzi alla Città di Dite con quello della discesa agli Inferi. Le somiglianze sono impressionanti, non solo per quel che riguarda il contenuto, ma anche per quel che concerne il tono, il ritmo e lo stile.
Il primo momento è caratterizzato da una resistenza provocatoria e da una tensione in rapido crescendo. Nella lauda perugina, che segue fedelmente il Vangelo di Nicodemo, Satana ordina alle sue milizie infernali di prepararsi alla battaglia:

O dilette miei legione,
contrastate a quisto passo;
ciascun piglie el suo cantone
chi più alto e chi più basso.
(vv. 115-118)

I padri del Vecchio Testamento chiedono ripetutamente che Inferno apra le porte:

Aprite tosto e non chiudete,
ché mo venire lo vedrete!
(vv. 119-120)

La voce di un angelo rafforza il loro comando:

O voie, principe de male,
aprite quiste vostre porte!
(vv. 157-158)

Satana, tuttavia, testardamente rifiuta.
Il secondo momento è invece dominato da un profondo senso di attesa che si fa più vivo man mano che si avvicina il tempo dell’arrivo di Cristo. Poi, improvvisamente (e questo è il momento finale), appare Cristo che spalanca le porte e schiaccia il nemico sotto il suo piede; poi lo lega e lo condanna nel più profondo dell’inferno:

Satan, tu haie data nulla pena
a l’uom molto temporale
legar te voie con la mia catena
che tu non faccia a lor più male.
(vv. 229-232)

Alla fine Cristo apre le sue braccia ad Adamo ed agli altri padri ebrei e li tira fuori dall’inferno.
Nel testo di Dante il primo momento comprende la seconda parte del canto VIII (vv. 67-130). I diavoli, impegnati nell’impedire l’ingresso di Dante nella Città di Dite (vv. 89-90), si agitano rapidi e minacciosi su per le mura:

Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?»
(Inf. VIII, 82-85)

I diavoli si riuniscono in consiglio e Virgilio prova a negoziare per ottenere che Dante attraversi senza pericolo la soglia di Dite (vv. 103-117), ma le trattative presto vengono interrotte e le porte della città infernale sono chiuse in faccia a Virgilio: «Chiuser le porte que’ nostri avversari / nel petto al mio segnor...» (VII, 115-116). Dante è preso dalla paura ed è pronto ad abbandonare l’impresa: «...se ’l passar più oltre ci è negato, / ritroviam l’orme nostre insieme ratto» (vv. 101-102). Questo primo momento, caratterizzato da un’azione rapida e da un dialogo nervoso, termina con l’annuncio di Virgilio relativo all’arrivo di un tal che, con un’azione simile a quella di Cristo, alla sua discesa agli Inferi, aprirà la porta di Dite.
La fine del canto serve ad aumentare il senso di attesa che dura fino alla metà del canto IX (vv. 1-60). Questo è il secondo momento che culmina con la minaccia delle Furie di chiamare Medusa (vv. 34-60). In questo frangente importantissimo dell’episodio, Dante interrompe la narrazione e si rivolge al lettore . Poi arriva il Messo per completare la rappresentazione (vv. 64-105). Questi sbaraglia i diavoli, doma le Furie e Medusa e, con un tocco del suo scettro, apre la porta della città (vv. 88- 90). Alla fine, come Cristo a quella «men secreta porta» (Inf. VIII, 124- 127), egli castiga i diavoli per la loro inutile provocazione:

«O cacciati dal ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».
(Inf. IX, 91-99)

Qui l’episodio ha termine (v. 105). Dante e Virgilio possono ora entrare nella Città di Dite (v. 106).
Sebbene la discesa di Cristo agli Inferi sia indicata in modo traslato in Inferno VIII-IX, l’essenza del tema (che Dante aveva in gran parte soppresso in Inferno IV) è qui recuperata, e recuperati sono anche il tono ed il ritmo drammatico legato alle versioni tradizionali dell’avvenimento. L’intero episodio corrisponde, insomma, ad un rifacimento stilistico vigoroso ed originale della discesa agli Inferi, regolato dalle leggi del sincretismo culturale dantesco.
Ad ulteriore conferma della pertinenza di questa interpretazione, valgano le considerazioni seguenti. Ho affermato sopra che l’ambiente in cui si svolge il dramma è essenzialmente virgiliano:

«...Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero...»
(Inf. VII, 70-73)

La città che il pellegrino Dante vede apparire in lontananza ha strette affinità con il Tartaro virgiliano (Aen. VI, 548-50). Ed inoltre: il Tartaro ha una sua torre di ferro (Aen. VI, 555-556), così come le mura infuocate della città infernale dantesca sono fatte di ferro, «le mure mi parean che ferro fosse» (Inf. VIII, 78). Ed anch’esse sono protette da Tesifone lorda di sangue. Questa volta, comunque, la Erinni è assistita dalle sorelle, Megera e Aletto (Inf. IX, 34-51) e da una squadra di demoni (Inf. VII, 82-84). In verità, la presenza del testo virgiliano è così evidente che un’altra fonte ovvia è stata per buona parte tralasciata: le rappresentazioni tradizionali medievali dell’inferno come civitas diaboli . Ma c’è ancora di più. Nel XIII secolo si diffuse un particolare tipo di iconografia della discesa agli Inferi con il quale lo scontro fra Cristo e Satana veniva rappresentato esattamente di fronte alla civitas diaboli, una città fortificata e protetta da diavoli . In una miniatura inglese degli inizi del XIV secolo (fig. 3), per esempio, Cristo è raffigurato mentre, con la croce sulle spalle, apre la porta della città infernale e libera i patriarchi del Vecchio Testamento; i diavoli con le corna si annidano sui bastioni; dalla bocca dell’inferno un fuoco interno alimenta un altoforno in cui sono puniti i dannati . La forma dell’altoforno richiama le torri di ferro di Dite e, allo stesso tempo, le tombe infuocate degli eretici. Il bassorilievo in bronzo del XII o XIH secolo che, sulla porta principale della chiesa di San Zeno di Verona, rappresenta la discesa di Cristo (fig. 4) , mostra anch’esso un ambiente infernale in cui è chiara l’idea delle fortificazioni della città di Dite; si tratta, in effetti, di un'immagine caratteristica di questo tipo di iconografia della discesa agli Inferi che può aver influenzato il poeta nel suo uso ardito del tema in Inferno VIII e IX.
Le miniature di Inferno IX (che più fedelmente riproducono il testo dantesco) mettono in luce le corrispondenze tra la tradizione iconografica della discesa appena delineata e lo spettacolo che si svolge di fronte a Dite. La miniatura di un manoscritto bolognese degli inizi del XV secolo presenta un’azione bloccata esattamente all’attimo in cui l’angelo si lancia in avanti e disserra la porta di Dite toccandola con la sua «verghetta» che, come la croce di Cristo, è un simbolo di autorità e di potere (fig. 5) . I demoni (che occupano uno spazio prominente nell’illustrazione del canto precedente) non si vedono più; le tre Furie, tuttavia, nude e incoronate da grovigli di serpenti, appaiono minacciose su una torre. La stessa scena è rappresentata da un’immagine simile, anche se in un certo senso più statica, in un manoscritto fiorentino della fine del XIV secolo . Il maestro della Vitae Imperatorum, invece, esclude le Furie ma mostra i diavoli che si ritirano nella città all’arrivo del Messo (fig. 6) . Tutte e tre queste illustrazioni sembrano richiamare quel particolare tipo «urbano» di discesa agli Inferi che fiorì nel corso del XIII secolo e più tardi; anzi, con poche minime modifiche esse potrebbero essere scambiate per rappresentazioni della vera e propria discesa di Cristo . È difficile dire se i miniatori fossero consci di star seguendo un particolare modello iconografico; ma questo è certamente irrilevante: il testo dantesco descrive l’azione in modo così chiaro che gli illustratori non devono aver avuto bisogno di ispirazioni esterne.
Nell'arte toscana, specialmente dopo Dante, un altro tipo iconografico sembra aver prevalso sugli altri: quello in cui il Limbo è presentato come una caverna da cui Cristo trae i patriarchi ebrei, drappeggiati in magnifiche vesti. In queste figurazioni, come ad esempio quella della Cappella degli Spagnoli di Santa Maria Novella, di Andrea di Bonaiuto (fig. 7), l’azione è bloccata in un momento leggermente posteriore del dramma. Qui la battaglia è presentata come già vinta, ma l’idea della lotta e della vittoria è ancora molto chiara: Cristo ha intrappolato Satana sotto la porta caduta e si dirige verso i patriarchi; i diavoli, sconfitti ma ancora minacciosi, si travedono nello sfondo .
Indipendentemente dai dettagli iconografici, la sostanza della storia della discesa agli Inferi rimane la stessa per tutte le versioni; tutte, infatti, danno rilievo alla distruzione del potere di Satana sull’uomo. Da questo punto, di vista non ci dovrebbero essere dubbi sul fatto che il paradigma della discesa di Cristo all’inferno informa i canti VIII e IX. L’adattamento audace del tema in questo episodio riesce a conservare il significato intimo della storia originaria. Come avviene in essa, infatti, la ri-creazione di Dante (che abilmente ricalca il mito pagano sulla verità cristiana) celebra la vittoria delle forze del bene su quelle del male e la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del peccato. E questo lo fa in un modo tutt'altro che astratto: qui è Dante stesso ad essere liberato dall’inferno . In verità il Messo celeste interviene affinché sia possibile al pellegrino Dante discendere dall’alto nel basso inferno, nell’eretica Città di Dite; egli dovrà fare questo se vorrà ascendere il monte del Purgatorio e raggiungere il Paradiso.
Questo ci riporta alla dottrina nascosta «sotto ’l velame de li versi strani». Dov'è la dottrina? In ciò che precede (la minaccia delle Furie e di Medusa) oppure in quello che segue (l’arrivo del Messo), oppure ancora essa è da ricercarsi nell’episodio visto nella sua interezza? Mi esprimo in questo modo perché la questione è molto dibattuta nella tradizione esegetica dell’episodio . Personalmente ritengo che l’appello dantesco al lettore sia rivolto a ciò che sta per venire: il Messo. Ma in quanto l’azione del Messo realizza il pattern ed il telos dell’episodio, la dottrina è da ricercarsi in tutto l’elaborato dramma sacro. Tale dramma, come ho osservato in precedenza, è una postfigurazione traslata della discesa agli Inferi . Con il suo intervento narrativo, Dante vuole indicare questo fatto ed invitare il suo pubblico a leggere l’episodio entro i termini del Descensus Christi ad Inferos. In effetti, quello che Dante il poeta dice è che la discesa nel basso inferno può solo avvenire entro il contesto, e nell’imitazione, del gesto salvatore di Cristo. Detto altrimenti: è solo per mezzo di Cristo che l’interdetto della Sibilla può essere annullato.
Se questo è dunque il caso (ed io credo che lo sia) il sistema di significazione nell’episodio è quello dei teologi e non quello dei poeti, la tipologia e non la personificazione; il che naturalmente non esclude un significato tropologico, ma tale significato viene assorbito ed espresso nel più ampio quadro allegorico.
Alla luce di questo, il pellegrino Dante non è semplicemente un rappresentante di Ogni Uomo; Virgilio non è soltanto la Ragione sconfitta; le Furie non sono semplicemente vizi da combattere; la Medusa non è solo l’immagine della disperazione, dell’oblio, dell’ eresia, dell’idolatria o di qualcos’altro di simile; il Messo celeste non è un mero simbolo della Divina Grazia. Essi sono prima di tutto se stessi, attori nel dramma della storia provvidenziale, colti in un momento in cui l’evento più significativo della rappresentazione sta avendo luogo: la redenzione, significata dal Descensus Christi ad Inferos. I ruoli specifici che i vari attori assumono nel dramma sono in massima parte dettati da ciò che essi sono stati nella vita, nella loro precedente, storica incarnazione. (Ciò vale anche per i personaggi mitologici che sono inesorabilmente inseriti nella logica dello schema tipologico dantesco). Nonostante la sua saggezza, Virgilio fallisce soprattutto perché è vincolato entro un sistema di pensiero che è pagano; il personaggio Dante, cristiano, è ancora una volta preso da «viltate» perché a questo punto del suo viaggio nell’altro mondo egli è ancora gravato dal peso del peccato di Adamo e dalle sue proprie trasgressioni. L’unico mezzo per superare la resistenza di Satana(-Dite) e dei suoi compagni è l’intervento divino, e questo giunge nella forma della discesa agli Inferi. In questo contesto, allora, il Messo celestiale chiaramente postfigura Cristo, e le sue azioni devono essere interpretate secondo lo schema tipologico del Descensus.
La dottrina acquista maggiore nitidezza se collochiamo l’episodio entro la struttura generale del poema, e in quella particolare dell’Inferno. Il dramma che si svolge di fronte alla Città di Dite è spesso paragonato alla piccola sacra rappresentazione della Valletta dei Principi, in cui un simile avviso al lettore precede una discesa miracolosa che permette ai due pellegrini di entrare attraverso un’altra porta, stavolta quella del Purgatorio . Un episodio, comunque, cui il dramma infernale è raramente collegato, è quello contenuto nel canto II dell'Inferno; e l’affinità, nei rari casi, si stabilisce solo sulla base del fatto che di fronte a Dite Dante, di nuovo, è preso dalla paura e dalla «viltate» e che, di nuovo, egli è pronto ad abbandonare l’impresa . Ma i collegamenti strutturali tra i due episodi non sono stati, secondo me, sufficientemente chiariti. Per far intendere a Dante che la sua missione è voluta da Dio, Virgilio gli racconta la storia della discesa di Beatrice nel Limbo. La volontà di Dante di riprendere di nuovo il cammino ed il suo successivo passaggio, all’inizio del canto seguente, attraverso la «men segreta porta» costituiscono gli effetti immediati dell’intervento di Beatrice. Come ho avuto modo di mostrare altrove , c’è una completa corrispondenza temporale (entro la cornice della cronologia liturgica del poema) e spaziale tra la discesa di Cristo all’inferno e quella di Beatrice. In Inferno Il Dante completa l’analogia, già stabilita nella Vita Nuova, tra Beatrice e Cristo nel suo primo avvento . La prima apparizione di lei nel poema è così delicatamente modellata nello schema della discesa agli Inferi. Pur non essendo accompagnata dalle drammatiche immagini agonistiche che caratterizzano quella di Cristo, la discesa di Beatrice conserva intatto il significato teologico dell’ultima delle gesta Salvatoris di Cristo. Sia il passaggio attraverso la porta principale dell’inferno (Inferno III) che il passaggio attraverso la porta della Città di Dite (Inferno IX) sono dunque preceduti da un divino intervento che prende la forma di un impegnativo rifacimento poetico del Descensus Christi ad Inferos. Queste intrusioni divine risolvono il pauroso dilemma del pellegrino e fanno sì che il viaggio prima possa iniziare e poi possa continuare. In entrambi i casi la dottrina è la stessa: un viaggio tanto miracoloso è reso possibile soltanto dall’atto redentore di Cristo e deve svolgersi necessariamente entro il modello che tipologicamente ricrea questo evento.
All’innovazione dantesca nel trattamento del tema della discesa agli Inferi, mostrata in questi due episodi come nel Limbo, sono da aggiungere diverse altre allusioni, sparse un po’ ovunque nell’Inferno. La frana, per esempio, cioè la «ruina» causata dal terremoto avvenuto quando Cristo morì sulla croce e discese al Limbo (Inferno XII, 31-45), è menzionata in ognuna delle tre grandi zone strutturali dell’Inferno . L’ultimo riferimento è particolarmente interessante dal momento che è fatto entro un episodio — quello dei barattieri (Inf. XXI-XXII) - che per molti aspetti richiama Inferno VIII-IX . Nella bolgia della pece bollente ci troviamo di nuovo di fronte ad una squadra di demoni dispettosi ed intenzionati a sviare il cammino dei pellegrini, ad un Dante assalito dalla paura e ad un Virgilio incapace di trattare con i diavoli. Ed anzi Malacoda, il diavolo capo, beffa Virgilio facendogli credere che uno dei ponti della sesta bolgia è ancora in piedi (Inf. XXI, 106-114), mentre in effetti essi sono stati tutti distrutti dal terremoto (Inf. XXI, 127-148). Qui non abbiamo alcun intervento divino ad assicurare che i pellegrini passino senza pericolo al livello successivo, tuttavia il modello si ripropone con forza, se pur discretamente, attraverso la sottigliezza di un’allusione che ora si rivela in tutta la sua ricchezza significativa. Dopo una serie di disavventure Dante e Virgilio riescono ad eludere la sorveglianza dei malevoli demoni e, più tardi, ad arrampicarsi su per l’erto pendio della «ruina» (Inf. XXIII, 131-138) e quindi a continuare il loro cammino. Le precedenti parole di Malacoda in relazione alla data ed all’ora precisa della «ruina» (Inf. XXI, 112-114) inoltre, servono a ricordarci che la discesa dei pellegrini all’inferno avviene nella ricorrenza del periodo che sta tra la morte e la resurrezione di Cristo.
In conclusione, questi riferimenti al tema della discesa di Cristo agli Inferi, distribuiti strategicamente nell’opera, sembrano indicare che Dante abbia considerato la seconda parte del Vangelo di Nicodemo (insieme al canto VI dell’Eneide e alla storia dell’Esodo) uno dei tre grandi modelli narrativi per il suo proprio poema, specialmente per la prima parte di esso. Molto è stato scritto sull’uso dantesco del libro VI dell’Eneide e, anche sul suo uso della storia dell’Esodo che egli cita in riferimento all’allegoria dei teologi nella lettera a Cangrande . Il paradigma della discesa agli Inferi, invece, è stato quasi completamente ignorato dai critici. Forse questo è attribuibile al fatto che, dei tre modelli, il Descensus è quello cui si assegna meno autorità (nonostante la sua immensa popolarità nel Medioevo e la rapida inclusione nel Credo) e, da un punto di vista narrativo, è certamente quello meno soddisfacente. Era, comunque, quanto di più prossimo ad un’epica cristiana Dante potesse trovare. I Vangeli canonici non offrivano alcun chiaro modello narrativo su cui egli potesse costruire il suo «poema sacro». È per questo che Dante si appropriò della storia della discesa agli Inferi con le sue potenti immagini, la estese oltre il Limbo, la intrecciò agli elementi degli altri modelli narrativi e diede così al tema nuova forza e nuova vita. In questo modo egli sperava di creare la grande epica narrativa cristiana che, nel suo pensiero, ancora mancava . In questo grandioso disegno il dramma che si svolge dinanzi alla Città di Dite rappresenta un momento significativo: offre al poeta la possibilità di rivelare — attraverso un vistoso, ma calcolato, impiego delle sue fonti — sia la natura della sua allegoria che la dottrina su cui tale allegoria è imperniata.

Date: 2022-01-11