All’ingresso della città di Dite (Canti VIII e IX dell’Inferno) [Alderino Bondi]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Alderino Bondi

Tratto da: Letture dantesche : Brunetto Latini, All'ingresso della città di Dite, I barattieri, Nella Caina e nell'Antenora

Editore: Premiata tipografia economica, Fabriano

Anno: 1910

Pagine: 47-84

1. Sezione 1

Dante e Virgilio, assai prima d’ incontrarsi con Brunetto Latini, prima, anzi, d’entrar nell’Inferno vero e proprio, o nella città ch’ha nome Dite, arrivano a una palude, nelle cui acque pantanose vedono le anime degl’iracondi che si percuotono non solo con le mani, ma con la testa, col petto, coi piedi, e si lacerano co’ morsi.
Al sopravvenire de’ due viandanti, sulla cima d’un’alta torre appaiono due fiammelle; e di lontano, d’oltre la palude, risponde un’altra: le prime indicano che son giunte fi due anime, la terza che il cenno è visto e che sarà provveduto:

Corda non pinse mai da sè saetta,
Che sì corresse via per l’aer snella,
Com'io vidi una nave piccioletta

Venir per acqua verso noi in quella,
Sotto il governo d’un sol galeoto,
Che gridava: “Or se’ giunta, anima fella?”

Per le due fiammelle quel galeoto sapeva di trovar presso la torre due anime: giuntovi, con tale velocità che la barca appare e tocca la riva, s’accorge che una delle due è col corpo: ne riman sorpreso, e rivolge il suo grido a questo solo, perché l’attenzione è sempre attratta da quella cosa che sia la più interessante o straordinaria: ‘‘Or se’ giunta, anima fella?” che vuol dire (almeno secondo me): - sei così fella d’esser dovuta arrivar qui, al luogo della tua eterna destinazione, in carne ed ossa? –

“Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a voto,”
Disse lo mio signore, “a questa volta:
Più non ci avrai, che sol passando il loto.”

Quale colui, che grande inganno ascolta.
Che gli sia fatto e poi se ne rammarca,
Tal st fe’ Flegias nell’ita accolta.

Flegias è personaggio mitologico: adirato contro Apollo che gli aveva recata grave offesa, ne incendiò il tempio di Delfo; perciò fu condannato nel Tartaro a star sotto un gran masso sospeso, che minacciava di piombargli addosso da un momento all’altro. Dante lo mette qui, a guardia degl’irosi. Concorda con l'ufficio di Flegias, così il suo grido come la risposta datagli da Virgilio: - questa volta tu gridi invano: noi non siam bocconi per te: non resteremo teco, se non il breve tempo che occorre per passare la palude. -
Si noti fa duplicazione del nome, Flegias, Flegias,... cui corrisponde un lieve sorriso ironico e un senso di compatimento per l’abbaglio che ha preso il barcaiolo, Il quale, intanto, dalle parole di quell’ignoto trae sospetto che i suoi colleghi demoni l’abbian voluto ingannare; onde s'adira così che la parola gli muore nella strozza, e forse intende vendicarsi. Quest’intenzione io l’arguisco dall’arrendevolezza di Flegias che lascia salite i due viandanti nella barca, senza protestare:

Lo duca mio discese nella barca,
E poi mi fece entrare appresso lui,
E sol quand’io fui dentro parve carca.

Mentre Virgilio ha dovuto affacciar l'autorità divina per vincere l'opposizione di Caronte, Miinos, Pluto, (a Caronte e a Minos ha detto: ‘‘Vuolsi così colà dove si puote Ciò che st vuole;” e a Pluto: “Vuolsi così nell'alto ove Michele Fe' la vendetta del supurbo strupo”), riesce ad ammansir Flegias col solo destar in lui rabbia e propositi di vendetta, perché iroso e vendicativo fu in vita. E per l'ira accolta, Flegias non proferirà verbo durante la traversata; e per l'ira accolta, all’ingresso della città di Dite griderà: “Uscite, qui è l’entrata;’’ come se si fosse proposto, col suo trasportar volentieri alla città que’ due, di metter nell’imbarazzo fe potenze infernali, dalle quali proveniva l'inganno fattogli.

Mentre noi cortevam la morta gora,
Dinanzi mi si fece un, pien di fango,
E disse: “Chi se’ tu, che vieni anzi ora?”

Ed io a lui: “S’i’ vegno, non rimango:
Ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?”
Rispose: “Vedi che son un, che piango.”

Quell’un, che si fa innanzi, ha capito dal romper l'acqua della barca, prima che dal guardar le persone, che uno de’ due viandanti è vivo. Siamo nel cerchio degl’irosi; e irosamente colui rivolge la sua domanda al nuovo venuto. Si sa che nell’ira la parola può prender aspetto e valore diverso da quello che ha in sè stessa e perfino contrario all’intenzione di chi la dice. L’intonazione da dare alle parole di questo peccatore, “Chi se’ tu, che vieni anzi ora?” deve far sentire ch'egli non rivolse a Dante un complimento per esser venuto vivo nell’ Inferno. Il peccatore non sapeva, se attribuire il fatto straordinario a privilegio o a condanna eccezionale; ma siccome è ombra furiosa e Bontà non è che sua memoria fregi, e siccome chi entra la porta della scritta morta non può sperar di tornare nel mondo de’ vivi (Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate), così la prima supposizione non ha fatto forse neanche capolino nella sua mente bassa e vi s'è fissata la seconda. Dalla sua domanda pare ch'egli non conosca Dante, mentre eran concittadini e, come vedremo, nemici personali; ma può darsi che non l'abbia ravvisato subito, perché L'aria era buia molto più che persa, perché il fummo del pantan nascondeva o velava la vista delle cose e persone, perché l’irato spesso non vede o travede. Dante, che l’ha riconosciuto sebbene il dannato sia tutto lordo di fango, pensa che a maggior ragione dovrebb'esser riconosciuto lui. Perciò. risponde col “S’io vegno non rimango [come fai tu]” e con la domanda: “Ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?” ov'è mortificazione e ricambio d’ingiuria.
II dannato n'è colpito in pieno petto: dinanzi a quel vivo così favorito dall’Onnipotente ora si sente umiliato, e risponde parole che destino pietà. Ma tace il proprio nome, perché non può desiderare d'esser riconosciuto da un suo concittadino e nemico, ch'è felice, lui ch'è ridotto alla condizione di porco nel brago: “Vedi che son un che piango!”
Dante non fo compatisce e non fo scusa, perché costui, che in vita fu un gran prepotente, ora è tanto vile da nascondere l’esser suo: anzi, rincara la dose dell'ingiuria lanciatagli:

“Con piangere e con lutto,
Spirito maledetto, ti rimani,
Ch’io ti conosco, ancor sie lordo tutto.”

Accompagnate, o Signori, queste parole col dito teso verso il paziente: proferitele con voce alta e piena; e ditemi, se più terribile maledizione un uomo possa scagliare ad altr’uomo!
Quell’anima, che per un istante aveva preso aspetto e favella meno bestiale o più umana; quell’anima, dannata in quel momento anche da Dante, all’invettiva di questo torna quel di prima: anzi, più irato che mai: anzi precipita nel parossismo dell’ira: e come cane che, pieno di rabbia, più non abbaia, ma all'impazzata morde, egli s'avventa con tutte due le mani alla barca per capovolgerla o per accoppar Dante:

Allora stese al legno ambo le mani:
Perché il maestro accorto lo sospinse,
Dicendo: “Via costà con gli altri cani.”

All'urto di Virgilio, ricade tra gli altri cani, annaspanti nell'acqua putrida, più irato che mai. Poi, quando le altre anime, per beffa e scherno e sfogo di rabbia comune a tutti quegli sciagurati, grideranno: A ‘‘Filippo Argenti!” egli, che s'è sentito impotente poco prima contro quel vivo che l'ha maledetto e contro quell’anima che l'ha trattato da cane, allora, tra tanti che gli daranno addosso, si sentirà più impotente che mai, e non potendo su altri sfogar la rabbia e menare i mossi canini, li rivolgerà su sé stesso:

E ’l fiorentino spirito bizzarro
In sè medesmo si volgea co’ denti.

“Tutta la scena” nota Francesco Torraca, “è rapidissima ed efficacissima per la viva e celere rappresentazione di sentimenti e movimenti e per la rapidità con cui la si svolge. Anche l'abbraccio di Virgilio è inatteso e subitaneo:”

Lo collo poi con le braccia mi cinse,
Baciommi il volto, e disse: “Alma sdegnosa,
Benedetta colei, che in te s’incinse.

Virgilio cinge Dante al collo, e fo bacia e lo elogia a guisa di padre orgoglioso del figlio suo; e nell’elogio include, rendendolo più gradito al figlio, la madre, che è la persona a noi più cara al mondo, la nostra più efficace educatrice, il fattore primo di tutto l’esser nostro.
Virgilio, come sapete, o Signori, nella Commedia dantesca personifica la ragione umana: e qui è appunto la ragione umana che approva il nobile sdegno di Dante contro la burbanza vile e l'ira bestiale dell’Argenti:

Quei fu al mondo persona orgogliosa:
Bontà non è che sua memoria fregi;
Così è l’ombra sua qui furiosa;

e che predestina a quel brago infernale tanti orgogliosi, contemporanei e spregevoli persecutori (la diatriba mira a colpire specialmente questi) di Dante:

Quanti st tengon or lassù gran regi,
Che qui staranno come porci in brago,
Di sé lasciando orribili dispregi.”

L’atto e le parole di Virgilio producono l’effetto di calmar Dante dallo spavento. Ma se svanisce presto la paura, non altrettanto lo sdegno, l'ira, la brama di vendicarsi:

Ed io: “Maestro, molto sarei vago
Di vederlo attuffare in questa broda,
Prima che noi uscissimo del lago.”

Lo sdegno di Dante fu lodevole, come attesta Virgilio, - L’ira, che ha terreno propizio nello sdegno, s'è partecipata a lui per... contagio? È mal detto: s'è partecipata per suggestione: suggestione, non fisiologica, non nevropatica, ma psicologica, ma sociale; la quale può avverarsi in questo o quel momento, per questo o quell’impulso, anche in persone normali. Per la suggestione, che tende a mettere all’unisono varie e contemporanee attività rendendo forti le deboli o attraendo queste verso quelle, un’energia umana che si manifesti ripetutamente produce effetti che si moltiplicano per via. Nell'episodio che stiamo esaminando, la vista degl’irosi nel pantano non turbò sensibilmente l’animo de’ due poeti; ma al trovarcisi in mezzo, all’udirne le parole dispettose, al vederne meglio gli atti furiosi e al subir di questi gli effetti, Dante prima e Virgilio poi si sentono come attratti, come soggiogati dalla potente attività dell’ira e irosamente agiscono anche loro, - La vendetta non è sentimento cristiano, ma umano, medioevale, dantesco. Più giù nell’Inferno, Dante si lascerà rimproverare e impietosire da un suo parente, Geri del Bello, per non averne vendicata l’uccisione a tradimento. E qui la vendetta, per l'assalto alla barca dato dall’Argenti, è giustificabile o scusabile, come uno schiaffo a chi avesse tentato di regalarci un pugno. Per cui Virgilio, non solo approva il desiderio di Dante, ma ne giudica conveniente il godimento:

“Avanti che la proda
Ti st fasci veder, tu sarai sazio;
Di tal disto converrà che tu goda.”

Quello che appare un eccessivo e tardivo gusto della vendetta è il ringraziamento a Dio della terzina seguente, che si suppone scritto dopo molto tempo dal fatto, quando il rancore doveva essere svanito:

Dopo ciò poco, vidi quello strazio
Far di costui alle fangose genti,
Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

Ci si sente il gusto d’una vendetta lungamente agognata, per rancore lungamente covato, Qui non c'è più il nobile sdegno contro gli orgogliosi e gl’iracondi: non c'è più fo spettatore de’ peccati e de’ peccatori: c’è il nemico, implacabile contro il nemico anche dopo la sanzione tremenda d’una pena eterna; il quale, nell’odio che gli offusca la mente, s’illude che questa seanzione impersonale e suprema aggiunga, per far un piacere personale a lui, tormento a tormento, produca uno strazio ch'è soltanto conseguenza naturale dell'incidente avvenuto.
Non solo: pare che sarebbe in Dante l'intenzione di tormentarlo ancora il fiorentino spirito bizzarro:

Quivi il fasciammo, chè più non ne narro:

Lo Scattazzini nota: “ché: onde, per la qual cosa. Dopo aver narrato come l'ira ha l'inferno in sé stessa, non ci rimaneva altro da dire.” E il Torraca “Che più non ne narro: quasi dica: ora basta di lui.” Io interpretro diversamente: - poiché lo lasciammo in quel luogo, nel momento che gli altri dannati lo straziavano con grida beffarde, io non posso narrar altro di quell'incontro con fui. - Sicché, se la barca non se ne fosse allontanata, Dante avrebbe continuato a straziar l’Argenti co’ suoi versi!...
Terribile Dante nella vendetta, non meno che la giustizia divina: terribile ed eccessivo. Curioso! egli fa il viaggio dell'Inferno per purgarsi de’ peccati, e intanto ne va commettendo degli altri. Ma la drammaticità e la potenza artistica del credente poeta, protagonista dell’epopea religiosa che canta, sta appunto in quest’insorgere frequente della sua natura d’uomo peccatore che spezza le catene della sommissione e penitenza cristiana.
Del resto pare che Dante avesse ben donde d’odiare l’Argenti: si narra che questo, burbanzoso, prepotente, iracondo, manesco, in un diverbio gli abbia dato uno schiaffo, e che un suo fratello siasi impossessato dei beni confiscati all’esule Dante.
Il poeta lascia di parlar dell’Argenti, e lasciamo di parlarne anche noi; chè abbastanza fu malmenato da’ suoi compagni e dal suo concittadino, Ma prima mi si permetta di rilevare una menda dantesca che, se arrivasse all'orecchio dell’Argenti laggiù nelle palude Stige, e’ ne trarrebbe rabbiosa gioia. La barchetta snella e veloce rifà la sua via, portando Dante e Virgilio, celeremente (not correvam la morta gora): di certo non rallentò fa sua corsa al presentarsi di Filippo Argenti: non la rallentò, anche perchè il conduttore, itoso di sua natura e irato per quella specie d’inganno subito, non vi si sarebbe prestato, Il colloquio di Dante e Virgilio con Argenti, breve e rapido quanto vuolsi, non esige meno di dieci minuti secondi; ma in dieci secondi una barca che corra non fa meno di venti metri. E allora, come poteva Argenti, anche supponendo che le sue prime parole l'abbia dette alla distanza di qualche metro dalla barca (si ricordi che il folto fummo impediva di veder lontano), come poteva trovarsi, al finir del colloquio, così vicino ancora alla barca da tendervi le braccia ed esserne respinto dalle mani di Virgilio? E come Dante poteva più tardi vedere il fiorentino spirito bizzarro che In sè medesmo st volgea co’ denti?
Dante lasciò lì l’Argenti, ma non lasciò di pensare a lui, finché un suono lontano di dolore non gli fece rivolgere altrove il suo pensiero:

Ma negli orecchi mi percosse un duolo,
Perch’io avanti intento l’occhio sbarro.

Appare qui un fenomeno psichico tanto comune quanto poco osservato. L’attenzione, mentre è rivolta intensamente sur un oggetto, non s’accorge degli eccitamenti che pervengano a lei da altri stimoli; ma via via che la sua intensità diminuisce (e presto o tardi non può non diminuire) se qualcuno di questi permanga o, meglio, se un d’essi si renda più forte di tutti, l’attenzione st distrae dal primo stimolo e viene attratta dal secondo. Il duolo, che percosse Dante negli orecchi dopo che la barca si fu allontanata dall’Argenti, era arrivato al suo udito anche prima, sebbene in forma di suono tenue; ma il poeta, tutt’assorto nell’appassionata scena, non l'aveva avvertito: l'avverte ora che la scena è finita e che quel suono si fa più vivo e destinto.
Dante sbarra avanti l'occhio intento, Bene il Torraca: “Sbarra, spalanca gli occhi a guardar avanti, intento, con grande attenzione, desideroso di trovar la spiegazione di quel duolo. II desiderio appare dalla stessa collocazione di avanti e di intento che precedono l'indicazione del moto degli occhi.” Ma, insieme col desiderio, non leggete in quel rimirar fiso, ad occhi spalancati, la pena e forse fo spavento che quel duolo arreca? Questo deve avervi intravisto Virgilio, che, senza essere interrogato, anche ora rivolge a Dante parole affettuose e confortanti:

“Omai, figliuolo,
S'appressa la città, che ha nome Dite,
Co’ gravi cittadin, col grande stuolo.”

Omai: vocabolo che viene a dire: dovresti esser preparato a questo passo che sapevi di dover fare: - figliuolo: è la seconda volta soltanto che Virgilio usa quest’appellativo affettuosissimo.
Sarebbe bello uno studio intorno alla relazione tra Dante e Virgilio nella Divina Commedia. Così dall'inizio del poema fino a questo punto ci sarebbe da rilevare come Dante si mantenga umile e riserbato; mentre Virgilio prendendo, passo passo, a vieppiù stimare e ad amare l'alunno, lo sorregga e lo conforti con parole ed atti che arrivano all’abbraccio paterno di poco fa, e all’appellativo di figliuolo che si legge qui e nel Canto VII (Or puoi, figliuol, veder la corta buffa De' ben, che son commessi alla fortuna).
Nei versi ch’esaminiamo, il vocativo figliuolo è per Dante anche di conforto a sostenere i guai, inevitabili nell’escursione della città di Dite.
Le tre terzine seguenti sono di facile comprendimento:

Ed io: “Maestro, già le sue meschite
Là entro certo nella valle cerno
Vermiglie, come se di fuoco uscite

Fossero.” Ed ei mi disse: “Il fuoco eterno
Ch’entro le affoca, le dimostra rosse,
Come tu vedi in questo basso Inferno.”

Noi pur giungemmo dentro l’alte fosse,
Che vallan quella terra sconsolata:
Le mura mi patean che ferro fosse.

Ma rappresentatevi con l'occhio della mente, o Signori, la scena tremenda: un buto fitto, rischiarato o rotto appena da un baglior fosco d’una città lontana, donde perviene all'orecchio un lamentar di gente che orribilmente soffre; e in questo tetro campo d’azione un uomo, solo o quasi solo, dal sistema nervoso già scosso, alterato, indebolito da tante commozioni pe’ mali propri ed altrui. E voi comprenderete la propensione dell'animo di quest'uomo ad accasciarsi e a paventare. Dante tace per lungo tratto di cammino, e tace Virgilio: la mente d’entrambi è rivolta, come lo sguardo, alla terra sconsolata; e tutt'e due consumano, pensando, l'impresa che è cotanto tosta. Li riscuote il grido del barcaiolo:

“Uscite..., qui è l’entrata.”

Qui comincia una scena, anzi una serie di scene, la cui drammaticità vorrei sapere far risaltare come la sento dentro:

Io vidi più di mille in su le porte,
Dal ciel piovuti,…

Le porte della città di Dite si presentano alla vista improvvisamente, per la forma circolare delle mura e per i torrioni o gli speroni che s’ergono ai fati d’ogni ingresso d’antico castello ben munito.
A quelle porte son più di mille demoni. Perché? È un perché non difficile a trovare. Il cenno delle due fiammelle dette di sopra deve aver messo in apprensione le scolte della città di Dite; ché le anime tengono altro modo di pervenire al luogo del loro eterno martirio, Ricordate? all'ingresso del secondo cerchio sta Minos che le giudica e loro assegna le pene; e le anime, udito il giudizio, son giù volte. Perciò que’ due, che son giunti all’altra riva della palude Stige, se fosser colpevoli d’iracondia dovrebber essere già immersi nel pantano e se fosser colpevoli d'altro dovrebbero trovarsi altrove, Intanto, la barca, spedita a prenderli, nel rifar la sua via non era venuta innanzi a fior d’acqua e leggiera com'era andata: que’ due, adunque, o uno de’ due, dovevano essere col corpo. Allora le scolte avran dato l'allarme, come per nemico che sopraggiunga, come avranno fatto per Teseo quando in compagnia di Piritoo osò penetrar nell’Inferno, o per Cristo che vi discese Con segni di vittoria incoronato, E da ogni parte della orrenda città sono accorsi, per difesa, inquieti e irati, in gran numero i demoni, Ma pericolo d'assalto questa volta non c'è: lo capiscono subito dal contegno modesto, prudente e timoroso che tengono i sopravvenuti. Lo sdegno de’ demoni non cessa però; e gridano stizzosamente, tutt’insieme:

“Chi è costui, che senza morte
Va per fo regno della morta gente?”

“Chi è costui…” il costui, a’ tempi di Dante, non aveva il significato spregiativo che ha oggi; onde noi sentiam meglio de’ contemporanei del poeta fo sdegno de’ demoni, È uno de’ pochi casi, in cui, pel tempo lontano, la poesia dantesca guadagni in potenza. Pare che i demoni vogliano dire: — costui, che non ne ha il diritto, come si permette d’entrare ne’ nostri domini? - Perché è della natura umana (e i demoni danteschi hanno natura essenzialmente umana) pregiar l’opera propria, la propria potenza, anche se sciagurata. La domanda si riferisce a Dante; ma par rivolta a Virgilio, quasi i demoni non credan degno quell’altro, per il fatto che senza morte va per lo regno Della. morta gente, di rivolgergli la parola.
La lagnanza dei mille demoni corrisponde all’or se’ qui giunta, anima fella, di Flegias, al Tu chi se’ che vieni anzi ora dell’Argenti, A quegli sciagurati l'indole irascibile vieta d'immaginare o supporre che il viaggio di Dante si effettui per volere divino. Inoltre, son molti (l'unione, anche nei malvagi, anzi specialmente nei malvagi, fa la forza); son presidio del regno di Lucifero; sanno che il gran nemico, l’Onnipotente, è lontano; vedono dinanzi a loro un intruso in corpo e in anima, ed è naturale che si sdegnino e stizziscano.
Chi sia Virgilio l'hanno capito: egli doveva essere un'ombra del Limbo, un personaggio d’importanza che ha guidato fin lì quel messere. Virgilio, pronto e accorto, penetra nel loro pensiero; e spera che costoro, i quali non trovano che disprezzo presso i buoni, se siano da lui trattati con singolar riguardo si facciano accondiscendenti a’ desideri e bisogni suoi e del suo compagno. Onde quel suo far segno

Di voler lor parlar segretamente.

Se una persona d’importanza ci chiama, in presenza ‘d’altri, in disparte per parlarci segretamente, noi ce ne teniamo e quasi crediamo di guadagnarne in reputazione, Inoltre, quel cenno di Virgilio, che significava anche novità, destò ne’ demoni il desiderio di saperla, e quindi buona disposizione verso chi fa novità apportava; tant'è vero che

…chiusero un poco il gran disdegno
E disser: “Vien tu solo, e quei sen vada,
Che sì ardito entrò per questo regno.

Sol si ritorni per la folle strada:
Pruovi, se sa; chè tu qui rimarrai,
Che gli hai scorta sì buia contrada.”

Avrete notato che leggendo questi versi, io ho incominciato con voce quasi calma, ma via via son venuto riprendendo il tono sdegnoso che avevo dato al primo periodetto interrogativo dei demoni. Perché, sì, chiusero un poco, lì per lì, il gran disdegno; ma e’ son demoni, i quali, se per un attimo mostrano un fare un po’ umano, non possono non ripigliar prestissimo il loro abituale contegno, contribuendo forse a spaventar di più chi sia con loro alle prese; così come nel forte d’un temporale notturno (rubo fa similitudine al Manzoni) un lampo illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, accresce il terrore.
E le foro non son certo parole da attenuare il terrore infernale. Ve n’è una, la parola folle, già proferita da Dante all’inizio del soprannaturale viaggio (Temo che la mia venuta non sia folle); la quale, detta ora dai demoni con identico significato e riferimento, rinnovella nell'animo di Dante quel timore e lo rende più forte pel sequestro che quelli minacciano della sua guida sapiente. Come potrebbe egli, da solo, rintracciar la via fatta, così lunga, e svariata, e incagliata da tanti ostacoli?
L'impressione che ne provò fu così intenta da sentirsela poi, a distanza di tempo, nel poetarne il fatto, riprodurre vivamente.
L’apostrofe

Pensa, lettor, se fo mi sconfortai
Al suon delle parole maledette;
Ch’ to non credetti ritornarci mai!

è conseguenza naturale di questa riproduzione; perché, proponendoci nel parlare e nello scrivere di persuadere l'ascoltatore o il lettore, ci vien fatto di richiamarne l'attenzione ai punti o passi più salienti e appassionati del nostro dire.
Quest’apostrofe, che è come una parentesi del narrare, occupa, adunque, il posto dell’impressione provata da Dante alle parole maledette de’ demoni, L'impressione fu | di paura e d’angoscia; e Dante dovè sentirsene gelar dentro e mozzare il respiro, perché all’angoscia si connette o corrisponde un arresto istantaneo del sangue e del respirare, cui segue repentinamente la ripresa delle funzioni con moto più celere dell'ordinario. E il poeta rappresenta assai bene codesto immediato trapasso dalla depressione al sovraeccitamento col riportare, subito dopo l’apostrofe, le parole di preghiera che rivolse a Virgilio, senza farle precedere da congiungimenti, neanche dall’ intercalare diss’io che si legge più sotto, E la preghiera è tirata giù tutta d’un fiato, in un sol periodo di due terzine, con versi svelti e accenti appassionati che traggono il lettore alla fine del periodo, quasi senza sostare:

“O caro duca mio, che più di sette
Volte m'hai sicurtà renduta, e tratto
D'alto periglio che incontra mi stette,

Non mi lasciar,” diss' to, così disfatto
E se l’andar più oltre c'è negato,
Ritroviam l’orme nostre insieme ratto.”

O caro duca mio; vocativo appassionatissimo, con quell’o che è quasi un’esclamazione d’ambascia, e con È que’ due aggettivi caro e mio che fan doppiamente sentire l'attaccamento di Dante per Virgilio. L'appellativo duca e tutto il contenuto della preghiera si riferiscono all’ufficio di condottiero che in questa congiuntura ha suprema importanza.
Allo stesso ufficio si riferisce la risposta confortatrice di Virgilio:

E quel signor, che fi m’avea menato,
Mi disse: “Non temer, chè il nostro passo
Non ci può torre alcun: da tal n’è dato.

Ma qui m’attendi, e fo spirito lasso
Conforta e ciba di speranza buona,
Ch'io non ti lascerò nel mondo basso.”

Quel signore, che ha menato Dante fin fi, è fa ragione umana, sicura di sè, signora di tutte le forze terrene, e fiduciosa di vincere anche le infernali, sapendo che fa grazia divina (da tal n'è dato) l’assisterà. E alla lotta con queste s’accinge:

Così sen va, e quivi m’abbandona
Lo dolce padre, ed io rimango in forse;
Chè sì e no nel capo mi tenzona.

Dante ha detto a Virgilio: Non mi lasciar, così disfatto! ora riferisce al lettore che Virgilio l’abbandona: il primo è un “grido di preghiera insieme e di terrore, che il troncamento dell'infinito fa sonare più alto” (Torraca); la seconda, parola piana e lunga, esprime la desolazione del poeta, ed essendo voce verbale nel tempo presente fa parere che quella desolazione duri ancora, nel momento che il poeta racconta, - Lo dolce padre: Dante non aveva usato ancor mai quest’appellativo: l'usa convenientemente ora che, per fa prima volta, s’allontana da lui Ila sua guida; perché l'affetto pe’ nostri cari si sente più forte nel momento del distacco.
Dante ha già pregato angosciosamente il suo duca di tornare indietro, insieme ratto; e se non fosse già da fui abbandonato, ripeterebbe certo la preghiera, come il figlioletto che, condotto per mano dal babbo, se sente cani che abbaino, non si convince alle parole rassicuranti del genitore, e grida: “Andiamo via, andiamo via!” E mentre lassù nella selva, Dante s'era rinfrancato alle parole di Virgilio e gli s'era dato in piena balìa, ora gli presta fede così e così: si e no nel capo gli tenzona.
Perché, se Virgilio aveva date tante prove di sapienza nella parte di viaggio percorsa? Le ragioni son queste: lassù Virgilio aveva proposta una vera via di scampo; qui, se i demoni si rifiutano di riceverli in città e se eseguono la minaccia di ritener Virgilio, per Dante via di scampo non c'è: lassi Virgilio consigliò di schivar la bestia che ostacolava la via; qui s’accinge all'impresa ben più ardua, e contraria a quella, di cozzar con mille e mille demoni, armati di perfidia e protetti da mura. E non c’è presente alcun tale, che li possa difendere e liberare.

Udir non pote’ quello, ch'a lor porse:
Ma ei non stette là con essi guari,
Che ciascun dentro a pruova si ricorse.

Di certo Virgilio ha ripetuto foro ciò che aveva detto ai guardiani antecedenti: - Io conduco questo vivo nell'Inferno, per volere della Divinità. - Ma i demoni, che son sempre i ribelli della potenza divina, di cui ostentano noncuranza mentre ne temono il più tenue rivelarsi; ora scappano per la dichiarazione di Virgilio e commettono la villania di chiudergli la porta in faccia:

Chiuser le porte que’ nostri avversati
Nel petto al mio signor,...

Chiuser le porte que’ nostri avversari… L’accento sulla settima che conferisce al verso un non so che di patetico, fa sentir meglio fa doglianza di Dante; e il troncamento della parola signor nel verso seguente (el petto al mio signor) con l’accento ritmico sulla sillaba troncata fa eco alla sorpresa, alla stretta provata da Dante per fatto villano e ostile de’ demoni, L’appellativo signore ha qui, con l'appoggio del positivo mio, più forza che sopra: qui esprime anche l'attaccamento di Dante per Virgilio, II mio signore vale: - fa mia mente direttiva, senza cui io, Dante, non avrei saputo far nulla; la persona a me carissima, i cui dolori son miei dolori: - ed ha in antitesi la frase que’ nostri avversari, con la quale par che il narratore miri a sdegnar contro i demoni anche il lettore, ogni lettore; essendo coloro gli avversari, non solo del suo signore e suoi, ma di tutta umanità.
A questo punto (come forse ad altri della mia illustrazione) mi si potrebbe domandare: - Ma Dante avrà pensato ciò che gli fate pensar voi? - Può darsi, se i pensieri che gli attribuisco to, e se fa parafrasi che faccio della sua concezione sintetica, sembri a voi, miei uditori, ragionevole e verosimile: può darsi, perché il pensiero umano nelle sue generiche manifestazioni è identico in tutti; onde gli scienziati annoverano l'universalità tra i criteri per riconoscere il vero. E se mi s’obietti che gli artisti e i poeti siano uomini d’intuizione, uomini che seguono i dettami del vero e del bello inconsapevolmente, io rispondo che quest'asserzione non ha la sua riprova nei fatti: può essere, invece, dimostrabile con ragionamenti, fatti ed esempi la tesi che l'artista è e dev'essere anche critico dell’opera sua: aver la capacità intellettuale così di sviscerarla come di concepita, così d’intuirne il legame de’ concetti come d’avvertirlo e dimostrarlo.
L’audacia de’ malvagi fa smarrir non di rado i buoni, anche se coraggiosi: l’oltracotanza de’ demoni sgomenta Virgilio:

Gli occhi alla terra, e le ciglia avea rase
D'ogni baldanza, e dicea ne’ sospiti:
“Chi m'ha negate le dolenti case!”

Forse tutti i codici hanno il punto interrogativo dopo fa parola case: a me par giusto l’esclamativo, perché Virgilio, conoscendo bene chi gli avesse vietato l'ingresso della città, non aveva bisogno di domandarselo; invece, doveva esser dolorosamente meravigliato di veder quegl'insensati opporsi così pervicacemente a lui, alla ragione umana sorretta dalla grazia divina.
Ma lo sgomento di Virgilio è momentaneo: è lo sconforto che sorprende talvolta anche le anime forti; cui però segue, per ragion di contrasto, più energia nell’azione, Inoltre, Virgilio pensa che, se si smarrisce d’animo lui, Dante st perderà affatto; e subito s’adopera a confortarlo e rassicurarlo:

“Tu perch'io m'aditi
Non sbigottir...

Come s'è visto, quello di Virgilio fu uno sbigottimento — vero e proprio: ne son contrassegni certi i passi rari, l'atteggiamento (gli occhi alla terra e le ciglia rase d’ogni baldanza) e i sospiri. Ma egli, affinché non si sbigottisca anche Dante, dà a divedere che il suo non era che adiramento (Tu perch’io m'adiri); e con voce sdegnosa, cioè veramente da adirato, esprime la certezza di vincere, perché fa ragione umana non può, non deve venir sopraffatta dall’insensatezza, e perché l'oltracotanza dei demoni, che fu mortificata altra volta, non può non essere mortificata ora:

“...io vincerò la prova,
Qual ch'alfa difension dentro s'aggiri.

Questa lor tracotanza non è nuova.
Chè già l’usaro a men segreta porta,
La qual senza serrame ancor si trova.

Sopr’essa vedestù la scritta morta:
E già di qua da lei discende l’erta,
Passando pet li cerchi senza scorta,

Tal, che per Iui ne fia la terra aperta.”

2. Sezione 2

Come sa Virgilio che di qua dall'ingresso della scritta morta discende uno che farà aprire quest'altra porta? Lo sa, perché egli, mar di tutto il senno, sa tutto, e perché le ombre dell’Inferno dantesco son fornite di chiaroveggenza.
Ma le parole non son fatti. E le parole di Virgilio in quel frangente non hanno potere sull’animo spaventato di Dante. Egli, più che credere alle parole del maestro, ne guarda attento il viso per leggervi la tempesta interna: nota come Virgilio dall’abbattimento sia passato all'ira e come, non appena veda pallida la faccia di Dante, si sforzi di tornar calmo per non atterrirlo maggiormente:

Quel color, che viltà di fuor mi pinse,
Veggendo il duca mio tornate in volta,
Più tosto dentro il suo nuovo ristrinse.

La ragione umana, adunque, vuol tornare serena, e apparecchiarsi novamente a sostener la guerra del cammino; ma non ci riesce subito, come non torna subito calmo il mare al cessar del vento che ha causato la tempesta, Virgilio si ferma attento, com’uom che ascolta; e poi dice:

“Pure a noi converrà vincer fa pugna;
…se non... tal ne s'offerse...
Oh quanto tarda a me, ch’altri qui giunga.”

...converrà vincer la pugna: in questa proposizione è forza morale - ... se non...: reticenza, che fa intendere il dubitare e l’accasciarsi dell’animo. - ... tal ne s'offerse: torna la sicurezza di sé. - Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga! la lunga esclamazione attesta il riaffermarsi prepotente dell’incertezza, del timore, della pena.
Il se non si completi così: - se non vogliamo tornare indietro. - Ma a Dante sonò forse: - se non vogliamo restar qui, e finir male, - Virgilio capisce che le sue parole aggiungono sconforto a sconforto; e si corregge: - tal ne s'offerse...: tal ne s’offerse (Beatrice) ch'è ben degna di fiducia, -
Segue una pausa muta: Virgilio guarda attento verso la palude, per veder s'altri giunga; Dante pensa, dubita e teme, Pensa: fa mia guida è anima del Limbo: se è stata richiesta da Beatrice per questo viaggio, può darsi che l'abbia fatto altra volta: se no, come fa a sperare di vincer la pugna? - E una domanda rivolge a Virgilio, relativa a questo dubbio; ma garbatamente, quasi riferendola a terza persona, per non arrecargli dispiacere e mortificazione:

“In questo fondo della trista conca
Discende mai alcun del primo grado,
Che sol per pena ha la speranza cionca?”

Virgilio, che ha bene interpetrato il pensiero di Dante, risponde:

“Di rado
s’incontra,... che di nui
Faccia il cammino alcun; pel quale io vado.

Ver è ch'altra fiata quaggiù fui,
Congiurato da quella Eriton cruda,
Che richiamava l’ombre ai corpi sui.

Di poco era di me la carne nuda,
Ch'ella mi fece entrar dentr’a quel muro,
Per trarne un spirto nel cerchio di Giuda.

Quell'è il più basso luogo ed il più oscuro
E ‘l più lontan dal ciel, che tutto gira

e conclude:

Ben so il cammin; però ti fa sicuro.

Inoltre, per distrarlo da quel pauroso e penoso pensiero aggiunge notizie sulla condizione de’ luoghi:

Questa palude che ’I gran puzzo spira,
Cinge d’intorno fa città dolente,
U’ non potemo entrate omai senz’ira.”

Ma non era quello un momento propizio alla mente di Dante per istruirsi, perché non si ricordano le cognizioni, cui non s’annetta interesse all'atto dell’apprenderle: se Dante udì, ora non ricorda:

Ed altro disse; ma non l'ho a mente;

II suo animo e il suo sguardo eran rivolti in quel momento verso il principal motivo delle sue pene, verso la città, anzi verso l'alta torre, sulla rovente cima della quale

…in un punto furon dritte ratto
Tre furie infernal di sangue tinte,
Che membra femminili aveano ed atto.

E con idre verdissime eran cinte;
Serpentelli e ceraste avean pet crine,
Onde fe fiere tempie erano avvinte.

E quei che ben conobbe le meschine
Della regina dell’eterno pianto,
“Guarda,” mi disse, “le feroci Erine.

Quest'è Megera dal sinistro canto;
Quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifone è nel mezzo;” e tacque a tanto.

Con l'unghie si fendea ciascuna il petto;
Batteansti a palme; e gridavan sì alto,
Ch’io mi strinsi al poeta per sospetto.

Proserpina, regina dell'eterno pianto, che par abbia fa sua residenza in quella torre, ha ancelle che piangono eternamente come lei. E quanto dovrebb’essere spaventosa lei, se son tanto le sue ancelle! delle quali le membra femminili, così gentili di lor natura, son bruttate dal sangue che le tinge; e son rese orribili dalle ributtanti idre verdissime, e dalle serpi che fan le veci di chiome e che ne avvincono le tempie a guisa di bende infernali: agli atti aggraziati, alla mitezza, alla voce dolce di donna è sostituito il lacerarsi del petto a furia di unghiate, il battersi a palme, il gridar alto e minaccioso.
Con l'apparizione, gli atti, le grida delle furie tocca il suo culmine il canto dantesco dell’ira, che ha avuto per preludio lo spettacolo degl’irosi, s'è iniziato col grido di Flegias, e s'è svolto col terzetto tra l’Argenti, Dante e Virgilio e con la sinfonia de’ mille mille demoni: tra poco, un fracasso d'un suon pien di spavento ne formerà il grandioso finale.
Le tre furie, poiché vedono che quel vivo non torna indietro né per l’intimidimento e opposizione de’ demoni né per l'apparizione e le grida foro, invocano su lui una pena suprema che lo colpisca per tutta l'eternità nel luogo stesso dov’egli ha ardito d’arrivare e persiste a restare:

«Venga Medusa, sì ’l farem di smalto!”
Gridavan tutte, riguardando in giuso:
«Mal non vengiammo in Teseo l’assalto.”

Ora Dante ha tanto bisogno d'aiuto che Virgilio, fa ragione umana, non solo consiglia, ma coopera alla pronta e perfetta esecuzione dell'atto, nel momento stesso che lo suggerisce:

«“Volgiti in dietro e tien lo viso chiuso:
Chè se il Gorgon si mostra e tu il vedessi,
Nulla sarebbe del tornar mai suso.”

Così disse il maestro; ed egli stessi
Mi volse, e non si tenne alle mie mani
Che con le sue ancor non mi chiudessi.

L'atto è soltanto di difesa: evitare che s'effettui il feroce proposito delle furie. Di più fa ragione umana, potente ma non onnipotente, in tanto pericolo non può fare.

O voi, che avete gl’intelletti sani,
Mirate la dottrina che s’asconde
Sotto il velame degli versi strani.

Il velame, sotto cui s’asconde la dottrina, s'è venuto forse diradando per la illustrazione che abbiam fatta di questo poetare così concettoso: anzi ci pare che la nostra parafrasi abbia e svelata e spiegata codesta dottrina, La si può riassumere così:
A liberarci dai triboli inerenti all’umana natura per effetto del peccato originale e da quegli altri derivanti dagli errori e dalle colpe del libero arbitrio, deve esserci d’aiuto e guida la ragione. Ma questa non può tutto ciò che vuole; perché la perfidia e le male arti delle potenze infernali le presentano talvolta ostacoli, a lei insormontabili. Allora non le rimane che la prudente difesa e fa fiducia nell'intervento della grazia divina:

E già venta...

Questo E, che congiunge i fatti che precedono l’apostrofe con quelli che fa seguono e che al confidar nella grazia divina unisce l'immancabile soccorso; questo già, che fa intendere come il soccorso sia intervenuto in tempo a impedir l'esecuzione del crudelissimo proposito delle furie, son degni della somma arte dantesca:

E già venia su pet le torbid’onde
Un fracasso d'un suon pien di spavento,
Per cui tremavan ambedue le sponde;

Non altrimenti fatto che d’un vento
Impetuoso per gli avversi ardori,
Che fier fa selva e senza alcun rattento,

Li rami schianta, abbatte, e porta fuori;
Dinanzi polveroso va superbo,
E fa fuggir le fiere e Ii pastori

In questa potente rappresentazione d’un fortunale si noti il verso Li rami schianta, abbatte e porta fuori, che par faccia sentir lo schiantare e il frastuono del cadere e del volar via de’ rami, con codeste sue parole bisillabe e co’ suoi accenti sulla seconda, sulla quarta, sulla sesta, sull’ottava, sulla decima, i quali spezzano il verso in parti come il vento spezza i rami. Inoltre, si veda quanta celerità conferisca al vento l'accento sulla sesta silfaba de’ due ultimi versi:

Dinanzi polveroso va superbo,
E fa fuggir le fiere e li pastori

Il fracasso è segno foriero della venuta del messo: il fuggir delle anime ne sarà primo effetto, così come effetto del vento è il fuggir delle fiere e dei pastori. La seconda similitudine

Come le rane innanzi alla nimica
Biscia per l’acqua st dileguan tutte,

Fin che alla terra ciascuna s'abbica;
Vid’io più di mille anime distrutte
Fuggir così dinanzi ad un...

rafforza la prima, e la specializza al fatto di anime che son ridotte alla bassa condizione di rane, e che come rane si muovono e spariscono sott'acqua all’apparir del nemico sino a rifugiarsi ne’ punti più lontani e riposti.
Lo scappar via di queste anime dinanzi ad uno, che non sanno se venga contro di loro, fa contrasto perfetto con la loro antica condizione di gente che nel mondo fu orgogliosa, oltracotante, spavalda: è il final colpo di pena e tormento che dà a que’ disgraziati il tremendo poeta, spettatore, attore, giudice. Dopo di che egli non parlerà più di loro affatto.
E quel tale,

che al passo
Passava Stige con le piante asciutte,

viene innanzi, rimovendo con la mano sinistra (parte infausta) la grassezza dell’aria caliginosa:

È Dal volto rimovea quell’aer grasso,
Movendo la sinistra innanzi spesso;
E sol di quell’angoscia parea lasso.

Dante, accorgendosi che quello è messo del cielo, st volge, meravigliato e confortato, a Virgilio, come per averne la conferma; e Virgilio, sodisfatto, ma modesto, gli fa cenno d’inchinarsi e di star cheto; ché il silenzio, insieme col conveniente saluto, è il miglior contrassegno di rispetto e d’ossequio a chi sia da più di noi.

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!

È il riflesso del disdegno divino per l’oltracotanza dei demoni; ed è anche il disdegno della persona; che alle sue molte e importanti occupazioni vien distolto dalla cattiveria altrui.

Giunse fa porta, e con una verghetta
L’aperse; ché non v'ebbe alcun ritegno.

Il poeta, che non aveva accennato nessuno degli attributi del messo premendogli di questo l’azione più che le note personali, ne indica ora uno: la verghetta, che non può essere il solo e che non basta a determinarlo. L'insufficienza delle caratteristiche ha reso possibile tra i commentatori designazioni diverse: il messo è un angelo: il messo è Mercurio: il messo è Enea, Arrigo VII (nientemeno), il simbolo della speranza, la sapienza della morte, lo spirito di Dio, lo stesso Dio.
Egli era del ciel messo: cioè veniva dal cielo, e perciò non era Enea od altra persona; ed era messo, cioè non Dio o simbolo di Dio. È, adunque, un angelo? Non pare; perché il primo angelo, che Dante vede, gli si presenta in tutto il suo celeste splendore (v. Canto II del Purgatorio):

...m'apparve, s’io ancor lo veggia,
Un lume, per lo mar venir sì ratto,
Che il mover suo nessun volar pareggia;

Dal qual, com’io un poco ebbi ritratto
L'occhio per domandar lo duca mio,
Rividil più lucente e maggior fatto.

Poi, d'ogni fato ad esso, m’appario
Un non sapea che bianco; e di sotto,
A poco a poco, un altro a lui uscio.

Lo mio maestro ancor non fece motto,
Mentre che i primi bianchi apparser ali:
Allor che ben conobbe il galeotto,

Gridò: “Fa, fa, che le ginocchia cali!
Ecco l’angel di Dio! piega le mani,
Omai vedrai di sì fatti officiali…”

Dove Virgilio obbliga Dante a un atto d’ossequio ben più profondo di quest'altro di star cheto e d’inchinarsi ad esso; e dove l'Omai vedrai sì fatti ufficiali ‘significa indubbiamente che, prima di questo momento, angeli non si sono incontrati. Né vale supporre un travestimento adatto al luogo, perché agli altri due personaggi celesti che misero il piede nell’Inferno dantesco, il poeta conserva i divini attributi: Beatrice, beata e bella, i cui occhi lucean più che la stella: Cristo, possente Con segni di vittoria incoronato.
Per Pietro di Dante, pel falso Boccaccio, per Benvenuto da Imola, pel Codice Cassinese il messo è Mercurio. Il vedere tra questi interpetri il figlio del Poeta deve impressionare favorevolmente, Nel suo commento, Pietro di Dante ci riporta al secondo libro della Tebaide dove il figlio di Giove e di Maia vien mandato ad accompagnare l'ombra di Laio: ci va colla verga fatale, il caduceo; è aligero, vale a dire con ali al petaso e ai talari; e scuote dal volto la nebbia infernale: infernague nubila vulta Discutit.
Ma è logico e conveniente far compiere una missione divina in un mondo cristiano a un messaggiero degli dei falsi e bugiardi? Si ricordi la costumanza medioevale di riprodurre, in fogge più o meno nuove, le concezioni classiche; e si consideri che Dante, assumendo nel suo viaggio oltramondano per duce Virgilio, autore d’un Inferno, non poteva por questo nella imbarazzante condizione d'un maestro che, dinanzi al discepolo, fosse costretto dall’evidenza dei fatti a rinnegare l’opera propria. Come ha dimostrato da par suo Francesco D'Ovidio nei suoi Studi sulla Divina Commedia, molte linee dell'Inferno dell’Eneide si ritrovano nella topografia dell’Inferno dantesco, specialmente nella parte che va fino alla città di Dite. Questa parte, che si potrebbe denominare il sobborgo della città infernale, ha per guardiani esseri mitologici greci, latini, e virgiliani: Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Flegias: su questa parte î demoni cristiani non possono neanche por piede; tant'è vero che gridano a Dante e a Virgilio d’in su le porte senza fare un passo fuori di queste. Non è quindi sconveniente, anzi è convenientissimo che il messo del cielo, che deve passar per que’ luoghi e che non va oltre quelle porte, sia anche lui pagano e mitologico. S'egli non figura nell'Eneide, si trova come s'è detto, nella Tebaide, di cui l'Eneide fa mamma e nutrice (Purgatorio, Canto XXI, v. 97-98) e il cui autore è tanto caro a Dante che fo assumerà a sua seconda guida per la montagna del Purgatorio, E a chi sembri che le parole sante (E noi movemmo i piedi invér la terra Sicuri appresso alle parole sante) non sian da messaggiero pagano, si può rispondere che e le fata e il mito di Cerbero (Che giova nelle fata dar di cozzo? Cerbero vostro... ne porta i ne ancor pelato il mento e il gozzo) sulle labbra d’un angel di Dio sarebbero addirittura sacrilègi: le parole del messo furon sante per Dante e Virgilio, cui ridonarono la lena smarrita e resero possibile la continuazione del viaggio santo.
Nella Tebaide Mercurio è conduttore delle anime all'Inferno (e nella mitologia greca era stato anche psicopompos): nella Divina Commedia rimuove gli ostacoli, apre la via, è foggiato un po’ alla cristiana, e vi riesce personaggio più drammatico.
Preceduto da frastuono veramente infernale, vincitore dell’oste nemica prima di trovarcisi a fronte perché i demoni e le furie sono spariti come i dannati, il messo dantesco s’avanza fino alla porta che s’apre e spalanca al tocco magico della bacchetta; e grida nella dolorosa città le sue parole alte e sdegnose che rimbombano in quel buio cavernoso, come grida di morte, tra cupe gole di monti, nel cuor d’una notte tenebrosa.
Immaginate ciò; e sentirete tutto il valore del complemento di luogo in su l’orribil soglia, che si legge nel secondo de’ seguenti versi:

“O cacciati del ciel, gente dispetta,”
Cominciò egli in su l’orribil soglia,
“Ond’esta oltracotanza in voi s'alletta?

Perché ricalcitrate a quella voglia,
A cui non puote il fin mai esser mozzo,
E che più volte v'ha cresciuta doglia?

Che giova nelle fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e il gozzo.” E notate anche, o Signori, il crescendo e il contrapposto delle parole del messo. Incomincia questo col mortificare i demoni per la loro felicità perduta (O cacciati dal ciel), cui contrasta la spregiata loro condizione presente (gente dispetta); rinfaccia il loro principal vizio, l'oltracotanza, causa prima di ribellione, e l’inanità del coltivarlo (Ond’est’oltracotanza in voi s’alletta?); vi oppone l’onnipotenza divina (quella Voglia, A cui non puote fin mai esser mozzo) e gli effetti suoi a danno sempre della foro oltracotanza (E che più volte v'ha cresciuta doglia?). Il monito è rafforzato dal verso Che giova nelle fata dar di cozzo? dov'è una sintesi delle parole già dette dal messo; e un’antitesi, i cui due termini, le fata e il cozzo, paion l’uno un gran monte d’acciaio e l'altro un misero capro che stoltamente vi cozzi contro. Così, come stoltamente Cerbero tentò d’impedire ad Ercole l'ingresso all'Inferno, e ne riportò pelato #l mento e il gozzo.
Tremendo questo contrasto del fato, potenza massima dell'Universo, inflessibile e incomprensibile, cui sottostavano, secondo i Greci, e uomini e dei, con la condizione dei demoni, trattati da bestie cornute e gozzute! Tremendo: e più tremendo si rende per via della forma interrogativa che, contenendo implicita la risposta che l’interrogante si propone d’ottenere, rende confusi e impacciati i competitori, i quali non sanno e non possono confutare le giuste e terribili invettive.
La chiusa del sermone, Cerbero vostro... Ne porta ancor pelato il mento e il gozzo, è una ricordanza che sottintende l’avvertimento: - badate che non tocchi qualcosa di simile anche a voi, - Lo sottintende, ché l’esprimerlo sarebbe stato prosaico e non rispondente allo stile conciso di questo inviato, così sollecito e pieno di cure; il quale in soli otto endecasillabi e rievoca la catastrofe della prima e più epica tragedia dell’ Universo (la cacciata dal cielo degli angeli ribelli); e accenna all’eterna lotta tra il divino e il bestiale, non che alle immancabili sconfitte e pene perenni di questo; e tuona; e mortifica; e minaccia!
È la vera, la grande poesia: è la poesia dantesca dai potenti tocchi di penna; che delineano, scolpiscono, creano; che rendono esterrefatto o indiano il lettore; che ispirano all’artista nuove ed alte concezioni estetiche; che offrono campo agli studiosi di ricercare, per raccoglierli intorno all'opera d’arte, i tanti coefficienti sottintesi di pensiero e sentimento.

Per le parole del messo, i due poeti riacquistano la smarrita sicurezza dell'animo, e muovono i piedi invér la terra; dove noi li lasceremo entrare senza seguirli, anzi con la speranza che non vedrem mai que’ luoghi nefasti. Perché, non so se lo sappiate, o Signori; ma in una seduta spiritica fu evocato Dante, che intervenne e dichiarò che i tre mondi della sua Commedia son conformi all'Inferno, al Purgatorio, al Paradiso esistenti. E se è così, o Signore e Signori, auguro a ciascun di voi e a me, che vegga non l'ingresso della città di Dite, ma altra porta: quella, che Dante descrive nel Canto IX del Purgatorio e che ha per guardiano un angel di Dio, Il quale, purché il peccatore a’ piedi gli s'atterri chiedendo misericordia, trae dalla sua grigia veste due chiavi, Io esorta ad entrare senza mai voltarsi indietro, e apre e spinge la sacra porta. E questa, girando sui cardini, stride, anzi emette un suono, anzi un dolce suono misto a canto che par che melodiosamente dica:

Te, deum, laudamus!

Date: 2022-01-09