Inferno IX [Francesco Ciabattoni]

Dati bibliografici

Autore: Francesco Ciabattoni

Tratto da: Studi Danteschi. Fondati da Michele Barbi

Numero: LXXXIV

Anno: 2019

Pagine: 153-166

Il canto IX dell’Inferno è un canto di transizione, esso infatti chiude la sezione dedicata ai peccati di incontinenza. Posto fra la palude stigia, in cui iracondi e — se così è da intendersi l’«accidioso fummo» di Inf VII 123 — accidiosi scontano i loro peccati, e le mura della città di Dite, esso termina con l’entrata nella città infernale, dove in sepolcri di pietra bruciano eternamente gli eretici. Il canto IX è anche strutturalmente — oltre all’ovvia considerazione numerologica del 9 come multiplo di 3 — significativo in quanto riflette analoghe transizioni nelle altre cantiche: nel IX del Purgatorio un imponente portone serra l’entrata al luogo di redenzione vero e proprio, dove si espiano i peccati, mentre il IX del Paradiso si svolge nel cielo di Venere, che è l’ultimo sul quale si proietta il cono d’ombra della terra: «da questo cielo, in cui l'ombra s’appunta / che ’l vostro mondo face» (Par IX 118-119). Infatti nei primi nove canti del Paradiso si incontrano anime, comunque beate, ma che non seppero orientare la loro vita perfettamente verso Dio (Chiavacci Leonardi), ne sono un esempio le anime relegate nel cielo della luna «per manco di voto» in Par. III o la prostituta biblica Raab in Par. IX. Dunque anche il Purgatorio e il Paradiso comprendono una sezione iniziale di nove canti separata in qualche modo dal resto della cantica.
Ma questo canto IX dell’Inferno, che segna l’entrata in un mondo di peccatori incalliti, induriti, come lo «smalto» meduseo (v. 52) con cui le Furie minacciano il pellegrino, segna anche l’inizio delle difficoltà di Virgilio nel suo ruolo di guida. Se nel canto VIII dell’Inferno il pellegrino aveva ricevuto le lodi della sua guida per il rimbrotto indirizzato a Filippo Argenti, nel canto IX un dubbio si insinua fra i due, dopo il fallito tentativo di convincere i diavoli ad aprire le porte di Dite: Dante pare chiedersi a questo punto se la sua guida conosca davvero il cammino che insieme debbono affrontare ed esprime con una certa prudenza il suo timore: «In questo fondo de la trista conca / discende mai alcun del primo grado, / che sol per pena ha la speranza cionca?» (Inf. IX 16-18). Malgrado l’esibita prudenza, la domanda potrebbe apparire impertinente, ma consente a Virgilio di spiegare che è in effetti raro che un’anima del Limbo (quelli che hanno «la speranza cionca») si avventuri da queste parti, e tuttavia egli si è già trovato qui e ha già affrontato la situazione, sebbene in un contesto totalmente diverso (Inf IX 22-27):

Ver è ch’altra fiata qua giù fui,
congiurato da quella Eriton cruda
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.

Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’ a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

L'episodio è ricalcato su un passo lucaneo (Phars. VI 507-827), in cui Pompeo incarica la maga tessala Eritone di rianimare con le sue arti un soldato caduto sul campo perché gli faccia conoscere l’esito finale della battaglia. Avere una precedente esperienza di discesa agli inferi sembra essere un requisito del mestiere di guida: anche la sibilla, che conduce Enea attraverso l’Ade nel VI canto dell’Eneide, può vantare una precedente esperienza ctonia, si tratta dunque di un topos collaudato, e tuttavia, l’invenzione che Virgilio sia disceso negli inferi su commissione di Eritone è interamente attribuibile a Dante, che qui stabilisce le credenziali della sua guida, pur mentre ne mina sottilmente l’autorità. Infatti malgrado questa esperienza, il duca appare confuso, sconfitto, quasi, di fronte al diniego dei demoni di aprire le porte al suo passaggio. Il turbamento di Virgilio, adirato (Inf VIII 121) e frustrato, causa timore sul volto di Dante («Quel color che viltà di fuor mi pinse» If. IX 1). Qui, l’ira di Virgilio, che aveva funzionato con Caronte, Minosse e Pluto, non sarà sufficiente a garantire l’entrata. Certo, come osserva il poeta latino, l’ira è adesso un sentimento adeguato («non potemo intrare omai sanz’ ira» Inf IX 33), ma sarà la forza del Cielo a permettere l’entrata «sanza guerra» dei viaggiatori.
Alcuni commentatori (Chiavacci Leonardi, Bosco-Reggio) hanno osservato che la presenza di varie comparse, quali le Furie, Medusa e il Messo celeste, sulla ribalta conferiscono a questo canto il tenore di una sacra rappresentazione. E in effetti il richiamo ermeneutico al lettore («O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani» 61-63) ricorda il richiamo morale al pubblico, una consuetudine nel teatro medievale, un elemento metateatrale, che “sfonda la quarta parete”. Per esempio all’inizio del Ritmo di Sant'Alessio, si legge «et ore odite certanza / de qual mo mostre semblanza / per memoria retenanza». Queste apostrofi al lettore sono, secondo Auerbach, il modo con cui Dante prepara il lettore e lo attira «nella sfera magica della sua visione» e l’espressione della sua urgenza didattica. Il filologo tedesco vi vedeva, sulla scorta di Hermann Gmelin, una forza autoriale la cui enfasi narrativa è senza precedenti nell’epica classica. Leo Spitzer, per contro, notava che nell’Inferno gli appelli al lettore chiosano i momenti di grande pericolo per il pellegrino, come infatti è il nostro passo di Inf. IX 61-63 in cui c'è pure, al contempo, l’occasione per i lettori di apprendere una dottrina celata da un’allegoria. Secondo William Franke poi, gli appelli di Dante con- sentono di scorgere il poema nel suo essere, di percepirne il punto d’origine del mondo narrativo. Quello di Inf IX è infatti un appello che, nel mettere in guardia il lettore di fronte ad una difficoltà ermeneutica, sottolinea la drammaticità del momento narrativo, mettendo così in relazione la difficoltà del pellegrino con quella del lettore. E, questo, un appello che riecheggerà in quello della Valletta dei Principi, altro episodio segnato da una vis drammatica che lo fa assomigliare a una sacra rappresentazione, culminante nella scena in cui due angeli scendono a cacciare la «mala striscia» (Purg. VIII 100), si legga (Purg. VIII 19-21):

Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al vero,
ché il velo e ora ben tanto sottile,
certo, che ’l trapassar dentro è leggiero.

E d’altronde già nel canto VIII dell’Inferno, il poeta aveva sollecitato la solidarietà del lettore di fronte allo sconforto indotto dal rifiuto dei diavoli alle porte di Dite (Inf VIII 94-96):

Pensa, lettor, s'io mi sconfortai
nel suon delle parole maladette;
ch'i’ non credetti ritornarci mai.

Il contorno delle mura di Dite, rosseggianti per le fiamme, fornisce quasi un fondale per la sequenza narrativa che, iniziando alla fine del canto VIII, culmina e si risolve nel canto IX, un canto che del teatrale ha addirittura il ritmo e la struttura dialogica, divisa in “atti” secondo Bosco-Reggio. I misteri nel teatro medievale venivano tipicamente rappresentati nelle chiese, ma quando l’elemento comico-realistico prevaleva essi venivano spostati sul sagrato, davanti alla porta. Una situazione analoga a quella del Canto IX dell’Inferno. La presenza dei diavoli in scena è in linea con gli allestimenti drammatici dei ludi pasquali. Essa corrisponde alla funzione del coro, e infatti qui i diavoli non parlano individualmente come faranno invece nel canto XXI, ma esprimono un rifiuto corale. Se ai mostri precedenti (Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, tutti derivati dalla mitologia classica e ben noti a Virgilio), il poeta latino aveva potuto ordinare apertamente di far luogo in virtù del decreto divino perché «vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole», alla fine del canto VIII, dove il presente episodio ha inizio, il duca è costretto a parlare segretamente con i demoni (Inf. VIII 87). Quale sia la ragione di tale differente sviluppo narrativo lo spiegano Umberto Bosco e Giovanni Reggio: si tratta di un cambio di registro narrativo, di «un’invenzione che oggi diremmo di tecnica teatrale». Qui abbiamo infatti degli attori (Dante e Virgilio), dei ruoli di comparsa in costume (i diavoli) e una scenografia (le mura di Dite).
C'è, inoltre, un elemento strutturale che rimanda alla meccanica scenica del teatro: Amilcare Iannucci proponeva di leggere, nella sacra rappresentazione del canto IX dell’Inferno, un legame diretto fra la venuta del messo celeste e il descensus Christi ad inferos: due eventi simbolici e paralleli, entrambi aventi luogo il sabato mattina, a seguito della caduta del venerdì. Iannucci avverte che in questa allegoria dei poeti non bisogna credere che «le figure di Dante e Virgilio perdano la loro identità storica per assumere ruoli esemplari come personificazioni dell’Uomo Comune e della Ragione» , essi sono infatti «prima di tutto se stessi, attori nel dramma della storia provvidenziale».
Di fatto, già nel Vangelo di Nicodemo l’episodio del descensus Christi ad inferos è trattato in modo essenzialmente teatrale, con dialoghi serrati e battute dal tempismo scenico, e infatti l'episodio della discesa di Cristo agli inferi fu oggetto di numerose messe in scena durante il medioevo, ancorché, va detto, soprattutto in Francia, dove parecchie città inscenavano l’Ordo prophetarum, cioè appunto il salvataggio dal Limbo, da parte di Cristo, dei profeti e patriarchi ebraici. Fra queste spicca una lauda francescana risalente più o meno al periodo dantesco. La devozione del Sabato Santo dei disciplinati di Perugia, che coincide appunto con il momento liturgico di questo canto. Questa Devozione contiene già tutti gli elementi che erano divenuti caratteristici dell'episodio: la buia prigione infernale, l'arroganza di Satana che non vuol aprire le porte dell’inferno, la personificazione corale dell'inferno stesso che sconsiglia a Satana di sfidare Cristo, un esercito di demoni e una battaglia davanti ai cancelli infernali, dalla quale Cristo esce trionfante. Ma come nota Iannucci, Dante dovette avere familiarità con questa storia anche dallo Speculum maius di Vincent de Beauvais, come pure dalle frequenti rappresentazioni del descersus Christi in mosaici, affreschi e miniature nei codici manoscritti.
Ciò che questo episodio ha in più rispetto al dramma sacro, come osserva Auerbach, è tuttavia il tono sublime con cui il Messo celeste giunge, compie il suo mandato e poi sdegnosamente ritorna ad «altra cura» (Inf. IX 102), un registro ignoto al genere fantasioso e contaminato del teatro medievale. Ma è proprio il registro marcatamente dialogico dell’incipit che ci porta il senso teatrale dell’episodio: l’esitazione di Virgilio di fronte al fallimento della consueta strategia per acquetare i mostri getta la guida in una momentanea ma profonda disperazione (Inf. IX 7-9):

«Pur a noi converrà vincer la punga»,
cominciò el, «se non... Tal ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!»

Al pellegrino non sfugge che la più grande paura di Virgilio è adombrata in quel «se non...», che significa «altrimenti...», una reticenza che apre come un baratro la prospettiva delle orribili conseguenze di una sconfitta in questa prova di forza («punga»). Subito corretto e coperto da «Tal ne s’offerse», cioè dall’evocazione di Beatrice, che ha offerto il proprio aiuto a garanzia del successo del viaggio ctonio, il dubbio lavora però nell’animo del pellegrino. A Dante, come dicevo, non sfugge la grave esitazione di Virgilio, la sua «parola tronca», che appunto fa presumere il peggio. Tuttavia il Dante narratore qui si intromette a mediare le emozioni del pellegrino, razionalizzandone le paure (Inf. IX 13-15):

ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.

Il confronto fra l’autorità di Virgilio e il realismo di Dante, che non si fida affatto dei diavoli e dubita, in questo frangente, della capacità della guida di farsi ubbidire, inizia già in Inf. VIII. Lì, infatti, il pellegrino aveva scongiurato la guida di cambiare strada e non lasciarlo da solo per andare a conferire coi diavoli (Inf. VIII 109-111):

Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.

Questa “tencione nel capo” è il preludio alla crisi, che mostrerà i limiti di una guida ben intenzionata e dotata di una capacità intellettuale altissima alla quale mancano però l’ispirazione teologica e la fede cristiana. La guida illuminante di Virgilio non è priva di fallimenti e zone d'ombra, il poeta latino si presenta pertanto come una luce che fallisce, come ha argomentato Robert Hollander, un prigioniero del paganesimo che deve ritornare, come sappiamo, nel Limbo. I canti VIII e IX dell’Inferno dunque segnano anche l’inizio delle difficoltà di Virgilio e della crisi fra la guida e il pellegrino. Quest'ultimo avanza, all’inizio del canto X, una velata critica all’eccessiva disinvoltura con cui esercita il suo ruolo: «“O virtù somma, che per li empi giri mi volvi”, cominciai, “com’ a te piace”» (Inf. X 4-5). Quel «com’a te piace» si riferisce, mi sembra, alla richiesta di Dante di non esser lasciato da solo durante il colloquio di Virgilio coi diavoli: «“non mi lasciar,” diss’ io, “così disfatto; / e se ’l passar più oltre ci è negato, ritroviam l’orme nostre insieme ratto”» (Inf. VIII 100-102). Un episodio che si ripeterà, e con conseguenze più gravi, nella bolgia dei barattieri (Inf. XXI 58-60) quando Virgilio farà nascondere Dante per negoziare coi diavoli. E alla sconfitta di Virgilio nel canto IX il pellegrino accennerà in seguito non senza una punta di polemica: «“Maestro, tu che vinci / tutte le cose, fuor che ‘demon duri / ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci”» (Inf. XIV 43-45).
Il canto IX dell’Inferno invita esplicitamente ad una lettura allegorica, seguita infatti da commentatori antichi e moderni. Ma ad invitarci a tale approccio è il poeta stesso nel già ricordato appello al lettore (Inf. IX 61-63):

O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.

Il richiamo del poeta ai lettori che hanno «li ’ntelletti sani» — forse la terzina più discussa dell’intero canto — perché recepiscano corretta- mente la dottrina che si cela nella versificazione poetica richiede senza dubbio una lettura allegorica di questo passo, tuttavia le interpretazioni dell’allegoria non sono tutte concordi. Innanzitutto c’è da chiedersi se l’appello si riferisca ai versi che precedono, a quelli che seguono, o al canto tutto intero. Quale sia tale dottrina e perché i versi sarebbero «strani» sono domande cui si offrono molteplici risposte. Per esempio si potrà leggere nel fallimento di Virgilio, l’insufficienza della ragione di fronte a materie di fede: non è un caso che sia l’eresia il primo peccato punito all’interno delle mura di Dite, né è casuale il gesto premuroso con cui Virgilio copre gli occhi di Dante al comparire della Medusa: per Jacopo della Lana l’eresia è allegorizzata nella Medusa, la quale: «per allegorìa hae a significare che la eresìa fa diventare l’uomo pietra». Jacopo poi elenca gli articoli di fede e relative eresie così come li presenta Tommaso d'Aquino nella Summa theologiae.
Boccaccio, in modo simile, sosteneva «sotto il nome di questa Medusa» come di sopra è stato detto «essere chiamata l’ostinazione, in quanto essa faceva chi la riguardava divenir di sasso, cioè gelido e inflessibile» (Esposizioni sopra la Comedia di Dante, IX II 51), mentre le Furie sarebbero coloro che creano nell’individuo le condizioni per ostinarsi, per aggrapparsi cioè ad una certezza falsa e apparentemente rassicurante. Dice Boccaccio che le Furie tentano «col romore loro mettere con paura perturbazione, acciò che, per gli stimoli di quella recati nell’animo, esso divegna atto a dover ricevere quella impressione che pare il debbia fare perpetuo cittadino d’inferno, cioè l’ostinazione» (Esposizioni sopra la Comedia di Dante, IX ii 36). Guido da Pisa segue per le Furie la stessa visione: esse sono il terrore e la gorgone significa l'oblio, ai quali Dante rischierebbe di abbandonarsi se le guardasse. Per Guido da Pisa le tre Furie rappresentano invece avidità, cupidigia e ira. L’autore dell’Ottimo commento invece spiega che le Furie sono la figura dell’eretica malizia, mentre Medusa è la “dimenticanza” cioè un oblio che impedisce al pellegrino di imparare dall’esperienza infernale. Benvenuto da Imola identifica Medusa, Gorgone e Furie indistintamente come allegorie del terrore.
Tra i moderni, Manfredi Porena ritiene che, poiché l’avvertimento ai lettori sulla dottrina celata nei versi strani è seguita da una congiunzione (proprio in apertura del verso seguente «E già venìa su per le torbide onde»), dobbiamo intendere che qui si apra una nuova sezione del canto e una nuova materia trattata, quindi che l'appello dei vv. 61-63 («O voi ch’avete gl’intelletti sani») sia da riferirsi ai versi precedenti. Porena ritiene che la Medusa sia la custode del sesto cerchio — come Caronte, Minosse, Cerbero e Pluto lo erano dei cerchi precedenti — e che essa sia il simbolo dell’eresia epicurea. Porena osserva che i versi sarebbero “strani” perché lasciano aperta la terribile possibilità che Medusa possa impietrire Dante, impedendo così un viaggio voluto da Dio: «Che Medusa possa vincere Dio, questo sì che è strano». Robert Hollander concorda che i versi strani siano quelli che precedono l’avviso e propone che il gesto di coprire gli occhi indichi l'insufficienza, in questa situazione, della virtù stoica dell’autocontrollo: anche per lo studioso americano, dunque, il pericolo di una pietrificazione sarebbe reale.
Umberto Bosco, sostiene invece che l’appello al lettore si riferisce ai versi che seguono, cioè all'intervento del Messo celeste perché, come già osservavo sopra, sussiste «una forte analogia fra l’appello di questo canto e quello di Purg. VIII 19-21. Non solo, in effetti, l’avvertimento al lettore è simile a quello della Valletta dei Principi — persino nell’impiego della metafora (vero-dottrina e velame-velo) — ma pure nel citato passo purgatoriale si allude ad un intervento celeste che sconfigge il male, e precisamente alla discesa dei due angeli che con spade infuocate scacciano la biscia. Entrambe le scene sentono della sacra rappresentazione, per il loro carattere drammatico ed esemplare, e in più «nelle laudi drammatiche non manca mai l’annunzio della rappresentazione, connesso, secondo il D'Ancona, a “consuetudini rituali”, col relativo invito agli uditori a fare attenzione; spesso esso si apre con l’invocazione “O voi”, che ritorna anche in Dante». Bosco e Reggio poi escludono che le Furie e la Medusa possano esprimere un simbolo relativo solo al sesto cerchio, quello degli eretici, perché esse sono poste a guardia di tutta la città di Dite. Il vero significato dell’allegoria sarebbe, secondo Bosco, volutamente misterioso, in linea con il sentimento medievale per le allegorie teologiche.
John Freccero con un atteggiamento olistico, applicherebbe l’appello al lettore a tutto l'episodio. Egli vede nella Medusa un riferimento alla dialettica paolina tra cecità e vista (II Cor 3, 12-16), dove si parla di un velamzen posto sopra gli occhi di Mosè, e del fatto che la lettera, ovvero la lettura letterale, uccide («non littera, sed Spiritu: littera enim occidit, Spiritus autem vivificat» II Cor 3, 6). Freccero quindi mette in relazione l'appello al lettore di Inf. IX con le parole di Beatrice al pellegrino sulla sommità del Purgatorio, subito dopo averne rimprovera- to i «pensier vani» (Purg. XXXIII 73-75):

io veggio te ne lo ’ntelletto
fatto di pietra, e impietrato, tinto,
sì che t’abbaglia il lume del mio detto.

L'allegoria del peccato intellettuale come pietrificazione sembra dunque reggere, tanto più che Dante nel Convivio (IV xv 11), descrive una mente non oscurata dall’ignoranza come non pietrificata. Tuttavia, Freccero propone anche che «l’assalto di Teseo» (v. 54), che le Furie avrebbero mal vendicato, sia di tipo erotico, perché l’eroe greco tentava di portar via Persefone dagli inferi per sposarla. Medusa sarebbe quindi un simbolo del pericolo dei sensi che possono impietrire l’individuo (con richiamo anche alle rime petrose), un avvertimento con un sottotesto erotico e un pericolo sia per il viaggiatore sia per il lettore.
Per quanto riguarda la funzione delle Erinni, o Furie, e la loro rappresentazione nella letteratura, si ricordi che Virgilio (Aen. VI 570- 572; VII 324-329; XII 845-848), Ovidio (Met. IV 451-454 e 481-496) e Stazio (Theb. I 103-115) le pongono come guardiane dell’Averno, per cui non sarebbe peregrino affermare che Dante possa aver affidato a queste figure il ruolo di guardiane della città infernale. Dante non poté conoscere direttamente il mito greco, come si legge per esempio nell’Orestea di Eschilo, secondo il quale le Erinni significavano il rimorso, la vendetta autoinflitta per i crimini commessi, ma Bosco e Reggio osservano che, poiché nei miti latini le Furie avevano la funzione di gettare i peccatori nell’ Averno — gettarli, cioè, nella disperazione — questo è più o meno quanto accade anche a Virgilio e Dante finché non giunge il messo celeste. Pietro di Dante, ricollegandosi a Fulgenzio (Myth. I XXI), interpreta Medusa come la paura, la disperazione della salvezza, poi seguito da molti altri commentatori fino ai tempi nostri.
E l’arrivo del messo è annunciato da un uragano di fronte al quale i demoni si ritirano come rane terrorizzate di fronte alla «nimica biscia», il che apre un collegamento intertestuale con la biscia di Purg. VIII 98 che viene cacciata dagli angeli con la spada mozza e infuocata. Diversi commentatori hanno richiamato, a proposito della «nimica biscia» di Inf. IX 76-77, un passo di Ovidio (Mez. VI 370-381) in cui si narra del popolo dei Lici, mutati in rane da Latona per averle negato di bere dal fiume. Tuttavia l’accostamento appare privo di basi testuali, e la similitudine rimane enigmatica perché qui in Inf. IX è l’angelo che viene paragonato a una biscia, che è solitamente un simbolo diabolico. Fra l’altro il paragone con le rane tornerà in Inf. XXI calzato sui barattieri che si nascondono nel lago di pece. Se il paragone con le rane si spiega quindi con l’obiettivo di rappresentare creature spa- ventate e guardinghe, rimane invece difficile spiegare perché il messo sia paragonato a una serpe. Il messo, la cui autorità regale spazza via senza esitazione la futile «oltracotanza» degli avversari, risponde perle rime alle parole delle Erinni: queste avevano vantato la vittoria delle forze infernali contro Teseo e Piritoo, quest’ultimo sbranato da Cerbero. Il messo contrappone a quell’episodio, la vittoria di Ercole che, disceso per volere del Fato, nell’Ade, incatena Cerbero e lo trascina tremebondo, «trementem», come Dante poté leggere in Virgilio, Aen.VI 395-396; (Inf IX 97-99):

Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo.

Sprezzante, l’angelo se ne va senza rivolgere la parola ai viandanti, che ora possono entrare in Dite «sanza alcuna guerra». Le parole con cui Dante descrive questa città sono «terra», che equivale a territorio entro le mura, «fortezza», che pone l’accento sulle fortificazioni, e «campagna», che indica un grande spazio aperto, nella fattispecie un enorme cimitero. La doppia similitudine geografica accosta il luogo infernale ai cimiteri di Arles — di cui Dante doveva aver letto nel Ro- man de Saint Trophime scritta in versi provenzali — e di Pola. Ad Arles, infatti, si trovava una distesa di tombe chiamata Aliscamps (Elysii Campi), che ebbe grande fama come luogo sacro di sepoltura, forse dei guerrieri cristiani che combatterono a Roncisvalle. A Pola si trovava secondo Alfred Basserman una grande necropoli della quale sopravvivono tuttora alcune arche di pietra, simili agli avelli qui descritti da Dante. Il Quarnaro, o golfo di Kvarnar, appunto situato tra l’Istria e la Dalmazia, segnava l’estremo confine nordorientale geografico dell’Italia, quindi i due punti di riferimento geografici menzionati in questo canto chiudono il nord Italia da ovest a est.
All’interno delle mura di Dite, nelle arche, o sepolcri, scoperchiate, fiamme eterne puniscono gli eresiarchi, cioè i fondatori di eresie, e i loro seguaci. La parola «eresiarche» (Inf. IX 127) pare costruita ad arte come crasi di “eresia” + “arche”, e pertanto, poiché i dannati sono qui collocati dentro a delle “arche” infuocate, essa risulta grottescamente composta proprio dall’elemento punitivo della loro pena. Gli eretici, tanto i fondatori di eresie quanto i seguaci, sono collocati all'interno di tombe di pietra piene di fiamme, un contrappasso che si attaglia particolarmente a «Epicuro tutti i suoi seguaci / che l’anima col corpo morta fanno» (Inf. X 14-15): i sepolcri di pietra rappresentano un monito ironicamente macabro che la vita spirituale non finisce — secondo l’opinione attribuita a Epicuro — con la morte, ma continua nell’aldilà, nel caso degli eretici fra tormenti brucianti che acuiscono la coscienza dell’eternità dell’anima.
Rimane da chiarire cosa sia esattamente l’eresia e perché alcuni commentatori vedano un legame tra essa e la pietrificazione. Il motivo è che l’eresia è sclerotizzazione, indurimento su una posizione dimostrata errata dall’autorità ecclesiastica, quindi una radicalizzazione impermeabile alla correzione teologica. Annamaria Chiavacci Leonardi ci ricorda che l’eresia non è un semplice errore di opinione, ma «il cosciente e volontario porsi fuori dalla fede e dalla Chiesa». Cioè perché si configurasse il peccato di eresia bisognava che un preciso protocollo fosse in atto: la dottrina condannata doveva essere inquisita, quindi contestata e corretta ufficialmente dal tribunale dell’inquisizione. Il pensatore eretico avrebbe allora avuto l’opzione di ricusare (come fece per esempio Galileo nel 1633) o affrontare una morte per combustione (come fece invece Giordano Bruno nel 1600). Per essere tale, l’eretico deve “scegliere” una dottrina che è apertamente in contraddizione coi dettami della Chiesa, infatti “eresia” viene dal termine greco aeresis, che significa “libera scelta”.
Ora, l’epicureismo rimase fino al 1417 una filosofia sostanzialmente sconosciuta: il termine veniva usato per designare il pensiero di coloro che negavano l'immortalità dell’anima. Si può quindi pensare che nei canti IX-X a Dante premesse discutere soprattutto dell'eresia Catara, alla quale, secondo alcuni, sarebbe stato vicino Farinata degli Uberti, e del cosiddetto Aristotelismo radicale, o Averroismo, cui si accostarono il primo amico Guido Cavalcanti e suo padre, Cavalcante, consuocero di Farinata e suo compagno di dannazione eterna. E Dante dovette pensare che non tutte le eresie fossero di identica gravità, pure se accomunate dallo stesso principio. Se tutti gli eretici — non solo gli epicurei — sono qui puniti, essi subiscono a quanto pare un diverso livello di punizione: «Simile qui con simile è sepolto, / e i monimenti son più e men caldi» (Inf. IX 130-131). Finalmente, dopo lo stallo che occupa quasi tutto l'episodio, il canto si chiude con la ripresa del movimento: «E poi ch’a la man destra si fu vòlto, / passammo tra i martìri e li alti spaldi» (Inf IX 132-133) cui fanno eco quasi specularmente, i primi versi del canto successivo «Ora sen va per un secreto calle / tra ’l muro de la terra e li martiri» (Inf. X 1-2), una tecnica narrativa quasi cinematografica. Con questa conclusione che si salda in un continuum narrativo, anzi quasi un continuurm sintattico con l’inizio del canto X, il IX dell’Inferno termina la sua funzione di collegamento fra la sezione extra moenia, dedicata ai peccati di incontinenza, e quella intra moenia, dedicata ai peccati della volontà e della consapevolezza. Nove, che nella cabala è il numero del cambiamento, dell’invenzione e della crescita, segna il trapasso dei viaggiatori ad una nuova dimensione del regno degl’inferi, dove i peccati sono consapevoli, dettati dalla volontà e non dall’incapacità di contenere gli impulsi naturali.

Date: 2022-01-10