Il canto nono dell’Inferno [Vittorio Rossi]

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Dati bibliografici

Autore: Vittorio Rossi

Tratto da: Il poeta della volontà eroica : due letture dantesche (Inf. IX, Purg. I)

Editore: Zanichelli, Bologna

Anno: 1919

Pagine: 3-23

1. Sezione 1

Don Abbondio che ricusa di sposare i due promessi per timore d’ una schioppettata nella schiena, ci fa stizza, ci fa compassione; non direi che ci faccia ridere. Ma quando il Manzoni ce lo descrive trepidante e tremante nella cavalcata al castello dell’Innominato, la nostra ilarità è schietta, senza scrupoli. Gli è che con quella buona lana di Don Rodrigo di mezzo, la schioppettata poteva anche non essere una minaccia vana, mentre della sincerità della conversione, solo lui, il curato pusillo, poteva ormai dubitare.
Ora Dante non è, manco a dirlo, don Abbondio; pure conviene riconoscere che quando, dopo il minaccioso discorso dei diavoli custodi della Città di Dite, al pensiero di dover tentare da solo il ritorno, gli scappa detto

“O caro duca mio, che più di sette
Volte m’hai sicurtà renduta, e tratto
D’alto periglio che incontro mi stette,

Non mi lasciar… così disfatto!
E se il passar più oltre ci è negato,
Ritroviam l’orme nostre insieme ratto”

c'è nelle sue parole l’espressione d’una così fanciullesca paura, che un pochino egli fa la figura del curato manzoniano in via per il fosco castello. Perché, ricordiamocelo, Dante alla fin fine non ha nulla da temere. Che un infrangibile decreto celeste voglia il suo viaggio per il regno della morta gente, lo sappiamo noi e dovrebbe saperlo anche lui. O non gli ha raccontato Virgilio come e perché si sia mosso dal Limbo a venirgli in aiuto? Tre donne benedette curan di te nella corte del cielo è al tuo soccorso s' è levata Beatrice. E le risolute affermazioni lanciate contro i riottosi guardiani dei cerchi precedenti? Vuolsi così colà dove si puote Ciò che si vuole. Dunque è ben certo che l’opposizione infernale sarà vinta anche stavolta e che il mistico viandante potrà continuare il suo cammino. E allora perché temere?
Ma colla paura non si ragiona. Dinanzi a quel po’ po’ di demoniaco tumulto, colla memoria piena dei terribili intoppi scontrati nella discesa, che paiono drizzarsi nuovamente a sbarrare il ritorno, se non è ragionevole, è perfettamente umano che Dante si spauri; né d’altro canto può far meraviglia, chi conosca quel guazzabuglio d’ affetti che si chiama cuore umano, che una scena di viva e vera umanità qual è questa, cominci con un motivo comico. Sennonchè, ripetiamolo, Dante non è Don Abbondio, e basta che il savio duca gli rammenti la celeste preordinazione del viaggio (da Tal n'è dato) e gli rivolga alcune parole di conforto, perché egli si ricomponga e reprima l’assalto della paura, temperandola in un’ansietà pacata: ed io rimango in forse Che ‘l si e ’l no nel capo mi tenzona. D'ora in poi il comico serpeggerà per l’episodio, ma tenue, in sottil vena, a tratti, fino a dare l'estremo guizzo quando un pericolo reale starà per apparire. Sorrideremo talvolta; ma anche ci commoverà l’affettuosità paterna del maestro; mentre poi quella paura non doma, in un uomo che s' era pur dianzi meritato l’abstrazione. E s'affretta a troncare la frase, a ricordare di nuovo Beatrice, scesa dal suo beato scanno (tal ne s'offerse), a ripetere impaziente l'annuncio confortatore:

Quel color che viltà di fuor mi pinse,
Veggendo il duca mio tornare in volta,
Più tosto dentro il suo nuovo ristrinse.

Attento si fermò com’uom che ascolta;
Chè l’occhio nol potea menare a lunga
Per l’aer nero e per la nebbia folta.

“Pure a noi converrà vincer la punga,
Cominciò ei, “se non... Tal ne s’offerse!
Oh, quanto tarda a me ch’altri qui giunga!”

Dante però s’accorge dell’affettuoso ripiego e si spaventa di quella reticenza, forse perché le dà un significato più sinistro ch’essa non abbia.

Io vidi ben sì com’ ei ricoperse
Lo cominciar con l’altro che poi venne,
Che fur parole alle prime diverse.

Ma nondimen paura il suo dir dienne,
Perch’io traeva la parola tronca
Forse a peggior sentenza che non tenne.

La paura nella sua illogicità è una pertinace, sofistica ricercatrice di logicità; combattuta dalla ragione ne’ suoi motivi, altri motivi di ragione va appostando, e crea e moltiplica e ingigantisce i pericoli, giustificandosi e alimentandosi. Al nostro pellegrino suggerisce il dubbio non si sia il buon duca messo allo sbaraglio di quel viaggio senza conoscere la strada. Lo avranno mosso pronto ossequio al comando della donna celeste e pietà verso lo smarrito, pericolante sulla fiumana ove il mar non ha vanto; ma non avrà misurato le sue forze e la sua scienza; buono, ma incauto. E di codesto dubbio Dante vorrebbe chiarirsi. Ma come fare? La domanda potrebbe riuscire offensiva, rivelando una diffidenza che, inutile negarlo, gli cova in fondo all’anima, ma che per rispetto, per gratitudine, per tenerezza filiale gli par brutto confessare. Perciò gira largo, con una domanda generica:

“In questo fondo della trista conca
Discende mai alcun del primo grado,
Che sol per pena ha la speranza cionca?”

Questa question fec’io.

Virgilio capisce il gergo c risponde:

“Di rado
Incontra…che di nui
Faccia il cammino alcun per quale io vado.

Ver è ch’ altra fiata quaggiù fui
Congiurato da quella Eritòn cruda,
Che richiamava l’ombre a’ corpi sui.

Di poco era di me la carne nuda,
Ch’ella mi fece entrar dentro a quel muro,
Per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

Quell’è il più basso loco e il più oscuro
E il più lontan dal ciel che tutto gira:
Ben so il cammin; però ti fa sicuro”

La storiella, d’invenzione dantesca, è virgulto cresciuto con rigoglio tutto nuovo da un innesto lucaneo su tronco virgiliano. Nell’ Eneide la Sibilla, giunta coll’eroe troiano dinanzi alla porta del Tartaro (e il Tartaro si pareggia, nella costruzione dantesca, colla città di Dite), Dux inclyte Teucrum, gli dice:

Nulli fas casto sceleratum insistere limen;
Sed me, quum locis Hecate praefecit Avernis,
Ipsa Deum poenas docuit, perque omnia duxit.

Nella Farsaglia la descrizione dei costumi e delle arti di Eritone, immonda e crudele maga tessala, riempie poco meno della metà del sesto libro, e di lei vi si narra fra altro, che interrogata da Sesto Pompeo quale avesse ad essere la fine della guerra civile tra suo padre e Giulio Cesare, rianimò il cadavere d’un giovane soldato di fresco caduto in battaglia per averne la predizione richiesta.
Ecco le fonti. Ebbene che v’è di tutto codesto in Dante? C’è l’idea che la guida dia notizia al compagno d’un’altra sua gita nell’abisso, e c’ è il nome d’ un’antica fattucchiera, famosa disturbatrice della pace dei defunti. “O barcaiolo del bollente rivo, o vecchio stanco dal traghettare le ombre che tornano a me”; così presso Lucano Eritone invoca Caronte. Ma la scialba notizia data dalla Sibilla ad Enea non per altro che per ispiegargli come ella possa poi sciorinare la sua sommaria descrizione del Tartaro, dove il giusto eroe non può metter piede, diviene un racconto colorito e preciso, inteso a rassicurare lo scorato pellegrino, e quindi parte viva di una scena di finissima psicologia, particolarità radicata nello spirito e nella forma di tutto il poema. La maga tessala poi, che giusta il racconto del savio duca, seguita a fare i suoi sortilegi ancora trent’anni dopo la battaglia di Farsalo, rivive nell’ immaginazione dantesca, fosca operatrice d'uno scongiuro, a tutti ignoto, col quale costringe l’anima di Virgilio a scendere giù nel fondo dell’abisso, in quella che fu poi la Giudecca, per trarne e condurre innanzi all’ evocatrice un’ombra ivi dannata. Sempre così; se anche, come qui accade, si riesca a precisare la fonte di alcun passo della Commedia, il rapporto fra quella e questo è puramente negli schemi, nell’ invenzione bruta, nella parola vuota; lo spirito (concetto, sentimento, arte) è tutt'altro, perché Dante è tal poeta che ogni più fortunata ricerca di fonti si risolve in un’esaltazione della sua originalità prodigiosa.

Ben so il cammin, conclude il suo racconto Virgilio, con un’asseveranza che forse lascia trapelare un lieve risentimento. E soggiunge notizie di topografia infernale, che mostrano col fatto la sua pratica dei luoghi. Dante si ricorda d’una sola, perché, mentre il maestro parla, un nuovo spettacolo distrae la sua attenzione:

“Questa palude che il gran puzzo spira,
Cinge d’ intorno la città dolente,
U’ non potemo entrare omai senz’ira”

Ed altro disse, ma non l’ho a mente;
Però che l'occhio m’avea tutto tratto
Ver l'alta torre alla cima rovente,

Dove in un punto furon dritte ratto
Tre furie infernal di sangue tinte,
Che membra femminili aveano ed atto,

E con idre verdissime eran cinte;
Serpentelli e ceraste avean per crine,
Onde le fiere tempie erano avvinte.

E quei, che ben conobbe le meschine
Della regina dell’ eterno pianto,
“Guarda” mi disse, “le feroci Erine.

Questa è Megera dal sinistro canto;
Quella che piange dal destro, è Aletto;
Tesifone è nel mezzo”; e tacque a tanto.

Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
Batteansi a palme; e gridavan sì alto,
Ch’ io mi strinsi al poeta per sospetto.

Limpidissimi versi, non bisognosi di spiegazioni, ma degni che ci si mediti su, come bell’ esempio che sono, della potenza stilistica dantesca. Dopo i primi tre, che scorrono, tutti col medesimo ritmo, giù dalla saldezza quadrata del verso Ben so il cammin, però ti fa sicuro, quale onda chiara e cheta da una rupe, la musica s'ingagliardisce di accenti scalpitanti e di allitterazioni martellanti, nel descrivere l'improvvisa terribile apparizione, cui si affisa il poeta con tutto il suo essere:

Però che l'occhio m’avea tutto tratto
Ver l’ alta torre alla cima rovente,

Dove in un punto furon dritte ratto
Tre furie infernal di sangue tinte.

Sono le Furie di Virgilio, di Ovidio, di Stazio, riviste con intensità nuova dalla fantasia che le trasferisce in questo Inferno cristiano, fissate dalla parola in una figurazione raccolta e plastica. Verdissime sono dette le idre, quasi ad accrescere con questo superlativo il ribrezzo della strana cintura. È un tocco di sapor medievale; ma le linee del disegno hanno una sobrietà, una dignità, una compostezza, tanto più mirabili quanto più il soggetto si prestava alle grottesche bizzarrie dell’arte romanica.
Alla vista delle feroci Erine e alle loro alte grida, Dante s' accosta stretto stretto a Virgilio, simile anche qui al fantolino che corre alla mamma quando ha paura (Purg., XXX, 44-5). È quell’ ultimo guizzo di comicità, cui ho fatto allusione, quando nel cominciare mi sono studiato di caratterizzare lo spirito onde s’ informa questo dramma umano nel salire sino al culmine del suo sviluppo:

Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
Batteansi a palme; e gridavan sì alto,
Ch’ io mi strinsi al poeta per sospetto.

Subito dopo, il pericolo reale, imminente. Venga Medusa, gridano le Furie, inviperite per l’audacia di quel vivo che va per il regno dei morti, e risolute a non ripetere l’errore commesso quando non fecero vendetta dell’assalto di Teseo, sceso all'Inferno per rapirne Proserpina. Povero Dante, s’ egli vedesse la terribile Gòrgone, che conserva il potere, attribuitole dalla mitologia pagana, di mutare in sasso chi la guardi! Ora anche Virgilio s’ allarma, e non pago di aver ingiunto al discepolo di voltarsi indietro e di chiudere gli occhi, con sollecitudine affettuosa, glieli suggella egli stesso colle sue mani.

“Venga Medusa! Sì ’l farem di smalto!”
Dicevan tutte riguardando in giuso:
“Mal non vengiammo in Tesèo l’assalto”

“Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso;
Chè, se il Gorgòn si mostra e tu il vedessi,
Nulla sarebbe di tornar mai suso”

Così disse il maestro; ed egli stessi
Mi volse, e non si tenne alle mie mani,
Che con le sue ancor non mi chiudessi.

Seguitando il racconto l’arte dantesca tocca altezze che sono soltanto sue, in una delle figurazioni più meravigliose di tutto il poema. Accostiamoci per ora a questa in atto di pura contemplazione, procurando di renderci conto (che è l'ufficio della critica) della singolare impressione che ne riceviamo.
Dinanzi ai poeti, quasi invisibile nel buio, sta la distesa fumigante della belletta negra, dove i dannati si azzuffano, si percuotono, si dilaniano, gorgogliano voci di dolore; dietro alle loro spalle, nel buio fumoso, rosse di fuoco, sono le mura e le torri di Dite; tutt’ intorno la minaccia della più fiera volontà di male. Nella vastità raccapricciante di questo paesaggio di tenebre e d’orrore, tostochè i demoni hanno violentemente ributtato Virgilio, suona l’annuncio di un personaggio misterioso:

E già di qua da lei (dalla porta d’Inferno) discende l’erta,
Passando per li cerchi senza scorta,
Tal, che per lui ne fia la terra aperta.

Una grande immagine di potenza si disegna vagamente alla nostra fantasia. E nel mistero l’immagine s’ accresce quando Virgilio esclama:

“Oh quanto tarda a me ch’ altri qui giunga!”

Continua il colloquio tra maestro e discepolo; appaiono le Furie; l’aspettazione stimola la nostra curiosità.

E gia venia su per le torbide onde...

Ecco finalmente, pensiamo, l’annunciato debellatore della forza malvagia. Ma non appare ancora. Pur la sua possa, già grande nella nostra immaginazione, balza d'improvviso a un’immensità gigantesca. Dante non può veder nulla, perché Virgilio seguita a tenergli le mani sugli occhi, e forse anche senza di questo il fumo della palude gli impedirebbe di vedere. Ma un fragor d’uragano s’ avvicina per l’aria opaca, sul torbido specchio della morta gora, e ne trema l’una, e lontana lontana nello sfondo, l’altra riva di Stige. Rintrona di quel fragore tutta la fantasia del poeta, rintronano i versi nell’annunciarlo e nel descrivere la furia del turbine estivo, che s’abbatte sulla selva e va, preceduto da un gran nembo di polvere. Non è una similitudine nel senso rettorico della parola, è l’efficacissimo spediente caro al poeta, di richiamare esperienze, già nella nostra mente associate, di fatti naturali per la rappresentazione del suo mondo soprannaturale. Le tre terzine formano un'unità perfetta; la loro struttura è di una naturalezza che pare fatalità, nel ritmo alternato di lentezze e di impeti, nel succedersi di suoni aspri, laceranti, nella collocazione delle parole. Un rilevato epiteto umano, superbo, dà a quel turbine, a quel fragore, un’anima impassibile nella coscienza della sua gagliardia rovinosa.

E già vena su per le torbid’onde
Un fracasso d’ un suon pien di spavento,
Per cui tremavano ambedue le sponde,

Non altrimenti fatto che d’un vento
Impetuoso per gli avversi ardori,
Che fier la selva, e senza alcun rattento

Li rami schianta, abbatte e porta fuori;
Dinanzi polveroso va superbo,
E fa fuggir le fiere e li pastori.

Una pausa. Virgilio scioglie gli occhi a Dante e lo esorta a drizzare lo sguardo via sul pantano, dalla parte ove il fumo è più denso e pungente. Poi il racconto riprende.
Abbiamo sentito avvicinarsi una potenza sterminata, tremenda, nel buio. Nella luce caliginosa, prima immagine visiva, un’immagine di cedevolezza e d’innocuità: Come le rane. La rendono quelle ombre, che pur dianzi si straziavano rabbiosamente, e ora distrutte dalla paura s' assomigliano, d’aspetto e di cuore, a ranocchi fuggenti a riva la ninmica biscia:

Come le rane innanzi alla nimica
Biscia per l’acqua si dileguan tutte,
Fin che alla terra ciascuna s’abbica;

Vid’io più di mille anime distrutte
Fuggir così...

Proprio quando abbiamo negli occhi tale prodigioso suo effetto, quella potenza appare persona:

Fuggir così dinanzi ad un, che al passo
Passava Stige con le piante asciutte.

Dal volto rimovea quell’aer grasso,
Menando la sinistra innanzi spesso;
E sol di quell’angoscia parea lasso.

La gran possa è nella sola presenza di quell’ uno, ed egli avanza lento, sicuro, senza fatica, sfiorando la superficie della lorda pozza e allontanando con gesto misurato dal volto la molestia delle fumose esalazioni; personaggio d'una possanza, d' una gravità, d'una dignità sovrumane, creatura di sogno, circonfusa, i suoi contorni plastici, d'un' aureola di sovrumana luce morale. Dalla solennità liturgica dei versi, che si succedono con ritmo uniforme, in suoni larghi e chiari,

Dal volto rimovea quell'aer grasso,
Menando la sinistra innanzi spesso;
E sol di quell'angoscia parea lasso,

emana lo spirito insito in quell'apparizione; nuovo miracolo di stile nato dalle cose.
Non occorre ormai eh' altri lo dica: è apparso nel cuore dell'Inferno un essere di Paradiso, un angelo. Dopo il tremendo fracasso, si fa tutt'intorno un silenzio mistico; Dante si rivolge al maestro, interrogando muto; Virgilio gli fa cenno cl' inchinarsi, rispondendo muto. Quell'uno è alla porta, cui guardano più di mille demoni e le Furie e Medusa, e che già si chiuse sul petto a Virgilio. Quell'uno la tocca con una verghetta e la porta si spalanca. Esile il mezzo, grandissimo l'effetto; e la semplice rappresentazione di questa vittoria dell'onnipotenza divina sulla prepotenza diabolica, ci lascia come storditi.

Ben m'accorsi ch'egli era del ciel messo,
E volsimi al maestro; e quei fe' segno
Ch'io stessi cheto, ed inchinassi ad esso.

Ahi, quanto mi parea pien di disdegno!
Venne alla porta, e con una verghetta
L'aperse, che non ebbe alcun ritegno.

In quel silenzio, non meno spaventoso ai malvagi dell'assordante fracasso, tuona piena cli disdegno la voce dell'Angelo:

"O cacciati del ciel, gente dispetta,
Cominciò egli in su l'orribil soglia,"
Ond'esta oltracotanza in voi s'alletta?

Perchè ricalcitrate a quella voglia
A cui non puote il fin mai esser mozzo,
E che più volte v'ha cresciuta doglia?

Che giova nelle fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
Ne porta ancor pelato il mento e il gozzo.”

Parole cli collera alta, dignitosa, santa, cli trafiggente rampogna nel ricordo d'altre sconfitte infernali, cli contenuta ironia (se ben vi ricorda) e di “amara irrisione” nel modo cli quel ricordo.
Indi l'angelo s'avvia a ripassare la palude, senza far motto ai poeti, al cui soccorso ha lasciato la sua sede beata. Formidabile esecutore della volontà divina, ha adempiuto la sua missione, né d'altro gli importa; risale al cielo. Così non pure la sua figura si compie mirabilmente, restando ferma alla grandiosità che ha raggiunto, ma il viaggio di. Dante assume un carattere di fatalità inesorabile.

Poi si rivolse per la strada lorda,
E non fe' motto a noi; ma fe' sembiante
D'uomo cui altra cura stringa e morda,

Che quella di colui che gli è davante;
E noi movemmo i piedi inver la terra,
Sicuri appresso le parole sante.

2. Sezione 2

Abbiamo letto fin qui il nostro canto, abbandonandoci al piacere di gustarne e ammirarne la bellezza d'arte, senza pensare che vi si celassero intenzioni recondite. Ma ad un certo punto vi suona un avvertimento solenne, un comando cui dobbiamo pure obbedire:

O voi che avete gl' intelletti sani,
Mirate la dottrina che s'asconde
Sotto il velame degli versi strani!

Assorbito, disciolto nella stupenda unità artistica del mito delle Furie e del messo celeste (giacché non può esservi dubbio che l'avvertimento si riferisca sì a ciò che precede e sì a ciò che segue) c'è dunque un contenuto astratto, una dottrina. Già avremmo dovuto pensarlo anche senza che il poeta ce ne avvertisse. La cosiddetta arte pura egli non la fa

[...]

Date: 2022-01-10